la creazione ad immagine
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Studia Moralia Biannual Review published by the Alphonsian Academy Revista semestral publicada por la Academia Alfonsiana Rivista semestrale pubblicata dall’Accademia Alfonsiana 48/1 • 2010 EDITIONES ACADEMIAE ALFONSIANAE Studia Moralia 48/1 Gennaio-Giugno 2010 CONTENTS / ÍNDICE / INDICE Articles / Artículos / Articoli La creazione ad immagine Ermeneutica del dono divino e dell’impegno umano nella prospettiva profetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gabriel Witaszek 5 The Way of Discernment Living the Gospel in the Present Moment . . . . . . . . . . . . . . . Dennis J. Billy 31 La voie christique d’accès à la loi naturelle à la lumière de l’Écriture . . . . . . . . . . . . . . . Réal Tremblay 55 Dal valore di finalità alla fondazione cristologica della morale L’itinerario di Domenico Capone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Faustino Parisi 71 Hacia la “receptión” del “ethos” de la misericordia . . . . . . . . . . J. Silvio Botero G. 101 What does it mean to be a person? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Brian Johnstone 125 Il peccato segreto: la masturbazione fra storia e morale . . . . . . . Maurizio P. Faggioni 143 Medieval voluntarism and the culture of death . . . . . . . . . . . . . . Kevin E. O’Reilly 195 Die menschliche Leiblichkeit als Gegenstand bioethischer Kontroverse . . . . . . . . . . . . . . . Marian Machinek 213 4 CONTENTS / ÍNDICE / INDICE Reviews / Recensiones / Recensioni BORRIELLO LUIGI, Esperienza mistica e Teologia mistica (Sabatino Majorano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233 DE VIRGILIO GIUSEPPE, La teologia della solidarietà in Paolo Contesti e forme della prassi caritativa nelle lettere ai Corinzi (Gabriel Witaszek) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 FASTIGGI ROBERT L., What the Church Teaches about Sex God’s Plan for Human Happiness (Dennis J. Billy) . . . . . . . . . . 240 GAZIAUX ÉRIC (ed.), Responsabilité et tâches du théologien Conférences de l’École doctorale en théologie (2004-2006) (Martin McKeever) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 242 GERARDI RENZO, La gioia dell’Amore. Riflessioni sull’ordo amoris per una teologia della vita cristiana (Michele Perchinunno) . . . 246 LÁZARO PULIDO MANUEL (ed.), Cristianismo e Islam Génesis y actualidad (J. Silvio Botero G.) . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 Book Presentation / Presentación del libro / Presentazione del libro JOSÉ RAFAEL PRADA RAMÍREZ, Psicologia e formazione Un nuevo libro al servicio de la formación sacerdotal y religiosa, J. Silvio Botero G. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Effective Religious Formation – A Psychological Guide, Stephen T. Rehrauer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Psicologia e formazione, José Rafael Prada Ramírez . . . . . . CARLO LORENZO ROSSETTI, La civiltà dell’amore e il senso della storia Presentazione del libro, Réal Tremblay . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 259 265 268 LA CREAZIONE AD IMMAGINE Ermeneutica del dono divino e dell’impegno umano nella prospettiva profetica Gabriel Witaszek, C.Ss.R.* Il Documento della Pontificia Commissione Biblica Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano mette in evidenza, tra i pilastri della “morale rivelata”, il dono della creazione con le sue implicazioni morali1. La Bibbia presenta Dio come Creatore di tutto ciò che esiste, * The author is an extraordinary professor of biblical theology at the Alphonsian * Academy. * El autor es profesor extraordinario de teología bíblica en la Academia Alfonsiana. 1 DOCUMENTO DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008 è stato pubblicato l’11 maggio 2008 nella solennità di Pentecoste (d’ora e poi DPCB). Questo Documento comprende principalmente due parti: la prima parte verte su “Una morale rivelata: dono divino e risposta umana” (7-91), la seconda su “Alcuni criteri biblici per la riflessione morale” (92-154). Vi è poi una Conclusione generale (155-260) che riprende in prospettiva un po’ diversa, alcuni temi enunciati all’inizio, in particolare quello della morale rivelata, vero leitmotiv del documento, sottolineando che si tratta di una morale considerata non dal punto di vista dell’uomo, ma dal punto di vista di Dio. Esso si iscrive nell’orizzonte tracciato dal Concilio Vaticano Secondo nella Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione. Il Dio della Bibbia non svela un codice, ma se stesso nel suo mistero e il mistero della sua volontà. “Questa economia della rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto” (DV, I, 2). Tutti gli atti con i quali Dio si rivela, hanno una dimensione morale poiché richiamano gli esseri umani a conformare il loro pensiero e il loro agire al modello divino: “Siate santi, perStMor 48/1 (2010) 5-29 6 GABRIEL WITASZEK specialmente nei primi capitoli del libro della Genesi. “La creazione è il fondamento di tutti i progetti salvifici di Dio e l’inizio della storia della salvezza che culmina in Cristo”2. Alla stessa maniera, il mistero di Cristo è punto fondamentale nell’interpretazione della creazione, perché rivela il fine per il quale Dio creò il cielo e la terra in prospettiva della gloria della nuova creazione in Cristo (Rm 8, 19-23). La creazione dell’uomo ad immagine di Dio (Gen 1, 27) viene riletta come profezia di ciò che il mondo e gli uomini sono chiamati ad essere3. Essa è un dono di Dio che rivela la verità essenziale ed esprime il significato profondo della sua origine4. Essa rimanda al dono trascendentale di Dio stesso e la consegna all’uomo e alla sua autonomia immanente. E come si legge nell’ultimo studio della Commis- ché io il Signore Dio vostro, sono santo” (Lv 19, 2); “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Cfr. I. SCHINELLA, “Morale rivelata” o “Morale incarnata”? A proposito di un recente documento della Pontificia Commissione Biblica”, in Asprenas 56 (2009) 113-130. I pilastri della morale rivelata, oltre al dono della creazione, sono: il dono dell’alleanza nell’Antico Testamento e il dono della nuova alleanza in Gesù Cristo (DPCB). 2 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, 280 (d’ora e poi CCC). 3 La teologia della creazione si è sviluppata durante il periodo dell’esilio babilonese nel VI sec. a. C., precisamente negli ambienti in cui Israele prendeva chiara coscienza della sua vocazione. Tale contesto ha spinto anche i profeti a confrontarsi, sul carattere teologico della creazione (Il Secondo Isaia). 4 G. QUARANTA, “Creazione benedetta e redenta. Teologia ed etica del creato nel pensiero di B. Häring e nella riflessione teologica recente”, in Inaugurazione Anno Accademico 2008-2009 (Pontificia Università Lateranense. Accademia Alfonsiana), Ingegno Grafico, Roma 2008, 26-28; J. MCCARTHY, “Théologie et écologie”, in NRT 130 (2008) 550-559. 556. Il tema della creazione non ha mai incontrato un grande interesse all’interno della teologia contemporanea, sino a tempi relativamente recenti, cfr. J. RATZINGER, Creazione e peccato, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1987, 7-8; K. LÖNING, E. ZENGER, In principio Dio creò. Teologie bibliche della creazione, Queriniana, Brescia 2006; F. BRANCATO, “Creazione ed evoluzione. Il pensiero di Joseph Ratzinger”, in Synaxis XXVI/3 (2008) 5-19; É. DE MOULINS-BEAUFORT, “Le mystère de la Création”, in NRT 131 (2009) 23-40; A. WÉNIN, “L’humain et la nature. Réflexions à partir du premier Testament”, in Lumen Vitae LXIV, 2 (2009) 127-139. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 7 sione Teologica Internazionale “Legge naturale ed etica universale. Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”: “Dio è il Creatore, la fonte libera e trascendente di tutti gli altri esseri. (...) Il Creatore non è soltanto il principio delle creature, ma anche il fine trascendente verso il quale esse tendono per natura. Così le creature sono animate da un dinamismo che le porta a realizzarsi, ciascuna a modo proprio, nell’unione con Dio. Tale dinamismo è trascendente, nella misura in cui procede dalla legge eterna, cioè dal piano di provvidenza divina che esiste nello spirito del Creatore. Ma è anche immanente, perché non è imposto dall’esterno alle creature, ma è inscritto nella loro stessa natura”5. Alla base della concezione biblica del dono divino c’è la visione della persona umana così come è stata creata da Dio. Essa non è mai un essere isolato, autonomo, svincolato da tutto e da tutti, ma si trova in un rapporto radicale ed essenziale con Dio e con la comunità dei fratelli. Con la creazione, cioè con la presenza dell’uomo e della donna, la convivenza è già implicitamente richiesta e determinata dall’esistenza. La stessa esistenza è il primo e fondamentale dono che l’uomo ha ricevuto da Dio (DPCB, 95-99). L’uomo, scoprendo la propria autonomia e unicità di fronte a Dio, dovrebbe vivere nella piena corrispondenza di senso con la vita inscritta nel suo dono. La risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio si esprime mediante il comportamento morale, in una logica di fede come bene scrive A. Cozzi: “La rivelazione si realizza nella fede, il donarsi di Dio si compie nella risposta dell’uomo che dà senso alla sua vita (...): la rivelazione non potrebbe esistere senza l’atto che la riceve”6. La rivelazione della creazione è inseparabile dall’alleanza dell’unico Dio con il suo popolo. La creazione va intesa come il primo passo verso tale alleanza, come la prima e 5 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, “Legge naturale ed etica universale. Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”, in Il Regno – Documenti 17/2009, 541. Cfr. F. RAURELL, “Lineamenti biblici sulla pace e la creazione”, in Lateranum 50 (2009) 177; AA.VV., “Teologia biblica della pace e della creazione”, in RCatT XXXIV/1 (2009) 83-102. 6 A. COZZI, “Il fondamento cristologico del cristianesimo come stile. Ovvero la mediazione senza dono del ‘traghettatore’ Gesù”, in Teologia 32 (2007) 312. 8 GABRIEL WITASZEK universale testimonianza dell’amore onnipotente di Dio (Ger 33, 1926). La rivelazione non è stata interrotta dal peccato dei nostri progenitori. Dio, come citato nella Dei Verbum 3: “(...) Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò nella speranza della salvezza (Gen 3, 15) ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (Rm 2, 6-7)”. 1. Il dono della creazione ad immagine7 L’atto divino della creazione è la rivelazione originaria della verità dell’uomo che Dio stesso realizza (Gen 1, 1). Nel racconto della creazione si constata che l’uomo riceve da Dio la sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27), che lo abilita a continuare l’opera creatrice in qualità di custode e promotore della vita nelle realtà esistenti. Papa Benedetto XVI nell’omelia del suo insediamento ha detto che “(...) noi non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario”8. Con ciò si afferma che tutto è dovuto alla determinazione di Dio ed è il suo libero do- 7 Per elaborare questo testo mi sono servito dei documenti: DOCUMENTO PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, 16-23; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio (23 luglio 2004), in EV 22, 2870-2964; come pure dei libri e degli articoli di B. MARCONCINI e Collaboratori, Profeti e Apocalittici (LOGOS, Corso di Studi Biblici 3), Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2007; L. MAZZINGHI, “In principio Dio creò il cielo e la terra”: il racconto della creazione come profezia”, in La Profezia (Parola Spirito e Vita 41), Bologna 1999, 11-23; R. FABRIS, “Biós e zoê: la visione biblica della vita”, in CredOg 28 (4/2008) n. 166, 54-56; M. RACZKIEWICZ, “El ombre creado a imagen de Dios en san Efrén”, in Moralia 31 (2008) 131-158; LUIS F. LADARIA, “Dignitas personae. Alcuni elementi di antropologia”, in StMor 47/2 (2009) 339-352. 8 BENEDETTO XVI, Omelia tenuta durante la Celebrazione Eucaristica per l’inizio del pontificato il 24 aprile 2005, in L’Osservatore Romano, 25 aprile 2005, 5. DELLA LA CREAZIONE AD IMMAGINE 9 no. Per Israele il riconoscimento di Dio come Creatore di tutto, è frutto della sua esperienza con Dio e della storia della sua fede. a) Il carattere rivelativo del donare La conoscenza di Dio attraverso la creazione è la rivelazione del suo dono e comporta da parte dell’uomo un’adeguata risposta9. L’iniziativa di tale dono viene da Lui, come osserva Paolo Apostolo: “poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato” (Rm 1, 19). Il modo in cui Dio si rivela all’uomo si basa sulla verità fondamentale dell’uomo che è immagine di Dio10. Dio creando l’immagine di se stesso, ha rivelato nel fatto stesso della creazione la sua volontà sull’uomo. L’uomo può discernere l’espressione della volontà di Dio attraverso la rivelazione naturale esistente per lo stesso fatto della creazione. L’oggettività della rivelazione non è dunque la stessa di una cosa o quella di un insieme di dati, ma si compie nel soggetto credente in relazione ad altre esistenze, quando questi si lascia trasformare dalla vista e dall’ascolto di altri11. L’auto-rivelazione si esprime nel silenzio di colui che si è totalmente consegnato alla nostra storia. Dio non si è rivelato solo come Dio creatore del cielo e della terra, ma come il Dio salvatore che libera il suo popolo dalla schiavitù per fare alleanza con Lui. Perciò l’idea di creazione è sempre associata a quella della salvezza. Il popolo eletto, attraverso la storia delle sue relazioni con Dio, scopre le dimensioni di questa potenza esercitata nella storia, che diventa poi il primo atto della storia della salvezza. La liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto e il suo stabilir- 19 Nella Bibbia il termine “conoscere” significa entrare in profondità. Conoscere non è informarsi, bensì aprirsi all’altro, alla comprensione, non rimanere in superficie. Perché ciò avvenga è necessario l’ascolto dell’altro. Cfr. J. MCCARTHY, “Théologie et écologie”, 566-568. 10 Siamo fatti ad immagine divina per entrare in rapporto di comunione con l’altro. L’altro si manifesta a noi se, come Dio, ci ritiriamo permettendogli di farsi conoscere per ciò che è, senza timore di giudizi, sicuro di essere ascoltato. 11 C. THEOBALD, La Rivelazione, EDB, Bologna 2006, 51-52. 10 GABRIEL WITASZEK si in Canaan testimoniano che Dio è padrone della natura e dei popoli della terra. I prodigi da lui operati durante l’Esodo, fanno vedere quanto interviene nella creazione a suo piacere, per operare la salvezza del suo popolo. Egli è padrone di tutto e dispone di tutto, poiché ha suscitato dal nulla tutte le cose ed è sovrano assoluto sulle forze della natura come sulle nazioni. Essere creatura di Dio, aver ricevuto tutto da Lui, essere essenzialmente e intimamente un suo dono è il dato fondamentale dell’esistenza e perciò anche dell’agire umano12. Nella creazione, ciò che conta è il donare di Dio e la partecipazione a tale atto13. Le caratteristiche essenziali del dono sono ben descritte in maniera chiara da C. Theobald: “(...) lo specifico del dono è che nasconde il donatore, altrimenti obbligherebbe colui che riceve a rispondere a sua volta con un dono e vanificando così ciò che caratterizza l’atto del donare: la sua assoluta gratuità (...). Il dono nasconde il suo donatore proprio per lasciare il recettore libero di ciò che è consegnato nelle sue mani; con ciò che è così autenticamente donato da nascondere in sé una sorgente di vita insospettabile”14. Il donatore si mette in disparte a vantaggio del suo dono, senza smettere di sostenerlo e di reggerlo con pazienza. Il credente, destinatario del dono, è colui che partecipa al donare gratuito di Dio e ne coglie la verità. Il dono appare come un evento, un processo in sé inafferrabile che struttura spazi e legami di vita in cui la creatura accede alla sua unicità (creazione). La creazione svolge così il ruolo della rivelazione, cioè: porta l’uomo in questa esperienza del donare gratuito, in modo che gli siano aperte le possibilità più proprie, insite nella creazione stessa. Questo rapporto con Dio non è un elemento secondario o transitorio dell’esistenza umana, ma ne costituisce il fondamento permanente e insostituibile. Secondo questa concezione biblica, niente di ciò che esiste proviene 12 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, “Legge naturale ed etica universale. Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”, 531-532. 13 A. COZZI, “Il fondamento cristologico del cristianesimo come stile. Ovvero la mediazione senza dono del ‘traghettatore’ Gesù”, 310. 14 C. THEOBALD, La Rivelazione, 189-190. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 11 da se, ma è fondamentalmente determinato dalla volontà e potenza creatrice di Dio. L’uomo non può acquistare una vera e reale comprensione del mondo e di se stesso, senza Dio, senza riconoscere questa totale dipendenza da Lui. b) L’uomo, immagine trascendente di Dio La dignità dell’uomo, che corrisponde all’essere personale è un dono di Dio dal quale abbiamo ricevuto il nostro essere, è dunque libera da qualsiasi autorità. Essa appartiene a tutti gli uomini, poiché tutti sono stati creati da Dio a sua immagine e somiglianza e tutti sono stati redenti da Cristo. Come scrive L. F. Ladaria: “L’importanza che Dio attribuisce all’essere umano è evidente per i cristiani per il fatto dell’incarnazione e di tutta la vita di Cristo”15. Gesù il nostro Salvatore è il Figlio unigenito di Dio, fattosi uomo nell’adempimento dei disegni del Padre. Egli è veramente Dio con noi, che condivide la nostra umanità, provato in tutto come noi, eccetto che nel peccato. Dio è infinitamente più grande di tutte le sue opere: “(...) sopra i cieli si innalza la tua magnificenza” (Sal 8, 2); “(...) la sua grandezza non si può misurare” (Sal 145, 3). Ma poiché egli è il Creatore sovrano e libero, causa prima di tutto ciò che esiste, egli è presente nell’intimo più profondo delle sue creature: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (...)” (At 17, 28). Egli, dopo aver creato l’uomo non lo abbandona a se stesso e non gli consente soltanto di essere e di esistere, ma lo conserva in ogni istante della sua vita, gli dà facoltà di agire e lo conduce al suo fine. Riconoscere questa completa dipendenza in rapporto al Creatore è fonte di sapienza e di libertà. “Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita” (Sap 11, 24-26). Dio conserva e governa con la sua provvidenza 15 LUIS F. LADARIA, “Dignitas personae. Alcuni elementi di antropologia”, 340. 12 GABRIEL WITASZEK tutto ciò che ha creato (Sap 8). Se bene “(...) tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (...)” (Eb 4, 13), anche quello che sarà fatto dalla libera azione delle creature. La sollecitudine della sua divina provvidenza è concreta e immediata; essa si prende cura di tutto: dalle cose più piccole fino ai grandi eventi della storia16. I libri della Sacra Scrittura affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti: “Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole” (Sal 115, 3); e di Cristo si dice: “(...) quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre” (Ap 3, 7). Spesso la Bibbia attribuisce alcune azioni a Dio, senza far cenno a cause seconde. Non si tratta di un genere letterario, ma di una maniera profonda che richiama il primato di Dio e la signoria della storia e sul mondo (Dt 32, 39; Is 10, 5-15: 45, 5-7; Sir 11, 14). Gesù chiede un abbandono filiale alla provvidenza del Padre celeste, il quale si prende cura dei più elementari bisogni dei suoi figli: “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?” (...); il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 31-33). L’uomo è stato creato a immagine di Dio, e questa verità, conosciuta fin dall’inizio, ha acquistato in Cristo, l’imago Dei per eccellenza, un contenuto concreto. Cristo è persona nella sua relazione con il Padre, egli è il Figlio unigenito. Gli uomini sono chiamati a diventare, in lui, figli di Dio. Nello Spirito di Gesù possiamo gridare Abbà Padre (Rm 8, 15; Gal 4, 6), come egli ci ha insegnato nella preghiera cristiana per eccellenza (Mt 6, 9-13). La dignità dell’uomo scaturisce dalla creazione, ma anche dalla vocazione di ogni uomo in Cristo. Dio, dopo aver creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, definendolo: “cosa buona” ne eleva, con il mistero dell’Incarnazione la dignità del suo essere. L’insegnamento neotestamentale della creazione in Cristo (Col 1, 16) rivela questo rapporto intimo fra creazione e salvezza, senza confondere i due momenti, anzi li vede inseriti nell’unico disegno amoroso di Dio. Tutta la creazione, specialmente la creazione dell’uomo è il frutto dell’amore di Dio. Il Concilio Vati- 16 CONCILIO VATICANO I, Cost. dogm. Dei Filius, c. 1 (DS 3003). LA CREAZIONE AD IMMAGINE 13 cano II ricorda che l’uomo è l’unica creatura sulla terra che Dio abbia voluto per sé stesso, perciò non può esprimersi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé (GS, 24). c) L’uomo, immagine immanente di Dio Dio creatore per realizzare il suo disegno salvifico si serve della cooperazione delle creature. Egli dona loro non soltanto l’esistenza, ma anche la dignità di agire, di essere causa e principio le une delle altre, di collaborare in tal modo al compimento del suo disegno (CCC, 306). Dio dà agli uomini il potere di partecipare liberamente alla sua provvidenza, affidando loro la responsabilità di dominare la terra (Gen 1, 26-28). In tal modo fa dono agli uomini di essere cause intelligenti e libere per completare l’opera della creazione, perfezionandone l’armonia, per il loro bene e per il bene del loro prossimo. Cooperatori spesso inconsapevoli della volontà divina, gli uomini possono entrare deliberatamente nel piano divino con le loro azioni, diventando collaboratori di Dio (1Cor 3, 9) (CCC, 307). Dio agisce in tutto l’agire delle sue creature come loro Creatore. Egli è la causa prima che opera nelle cause seconde (1Cor 12, 6). Questa verità accresce la dignità stessa dell’uomo che, tratto dal nulla, dalla potenza, dalla sapienza e dalla bontà di Dio, niente può se separato dalla propria origine, perché “la creatura senza il Creatore svanisce” (GS, 36). Egli non può raggiungere il suo fine ultimo senza l’aiuto della grazia (Mt 19, 26; Gv 15, 5). L’immagine di Dio nell’uomo può essere oscurata dal cuore contaminato dal peccato17. L’anima, principio delle nostre azioni, può essere incapace di portare a compimento la chiamata intima ad un’autentica comunione. È la verità che ricordano i profeti quando annunciano un’epoca in cui Dio stesso cambierà il cuore dell’uomo: “toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti” (Ez 11, 19: 18, 31: 36, 26). 17 Dopo la narrazione della creazione dell’essere umano, uomo e donna, a immagine e somiglianza di Dio, della sua costituzione a padrone delle piante e degli animali (Gen 1, 26-31), si parla della caduta dell’uomo (Gen 2, 7-3, 24). 14 GABRIEL WITASZEK Dio nella sua sapienza e nella sua bontà infinite ha liberamente voluto creare un mondo in stato di avanzamento verso la perfezione ultima. Con la presenza di figure più o meno incisive nella storia della salvezza, al di là dei limiti stessi della natura, Dio conduce l’uomo verso il suo disegno salvifico. Creatura intelligente e libera, deve camminare verso il suo destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Egli può deviare, ed è per questo che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio, nella sua provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: “Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio (...)” (Gen 45, 8); “Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene (...) far vivere un popolo numeroso” (Gen 50, 20). Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l’uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia, ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra redenzione. Già dal momento della creazione si avverte una presenza divina nelle nostre azioni. Il valore di un’azione umana non consiste solamente nella semplice intenzione formale senza contenuto, ma nella relazione con la Creazione18. La creazione rivela il principio delle nostre azioni che fanno parte del piano di Dio. Questo progetto si rivela nella misura in cui l’uomo stesso è immagine di Dio. Tale verità deve trovare spazio nel cuore come principio delle nostre azioni, come capacità di portarle a compimento. La vera interpretazione teologica dell’agire umano deve essere intesa in collaborazione, in sinergia, con il progetto creativo che Dio ha messo nei nostri cuori. Il senso dell’agire morale si trova nell’essere dell’uomo che diventa migliore e che non può essere ridotto a una serie di elementi di benessere o al possesso di beni materiali. Il bene che percepiamo nel nostro agire morale trascende il mondo materiale e non può essere misurato dallo stesso. La figura morale del soggetto agente trova la sua pienezza completa nella vivere nel- 18 F. EUVÉ, “La création et sona venir”, in Lumen Vitae LXIV, 2 (2009) 150-152. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 15 la fede. Tale realtà è stata sperimentata e fortemente vissuta dal popolo d’Israele. d) L’autonomia responsabile della libertà creata La risposta della libertà umana è altrettanto radicale e definitiva quanto il dono di Dio19. Il donarsi di Dio si compie nella risposta dell’uomo che dà senso alla sua vita. L’uomo creatura di Dio ha la capacità di agire in conformità con colui di cui egli stesso porta l’immagine. La dignità che le persone umane possiedono come esseri relazionali, invita e obbliga le stesse a cercare un giusto rapporto con Dio al quale devono tutto. Fondamentale per il rapporto con Dio è la gratitudine. Ciò comporta fra le persone una dinamica dei rapporti di responsabilità comune, di rispetto dell’altro e della continua ricerca di un equilibrio non solo fra i sessi, ma anche fra la persona e la comunità, fra valori individuali e quelli sociali. Questa responsabilità deve essere esercitata in maniera saggia imitando il dominio di Dio stesso sulla creazione. Gli uomini possono conquistare la natura ed esplorare le ampiezze dello spazio, progredire nello sviluppo scientifico e tecnologico del nostro tempo, nondimeno devono rispettare i limiti di sfruttamento, che può distruggere il delicato equilibrio e l’armonia della natura. Dio, l’umanità, e il mondo creato sono connessi fra di loro, come pure la spiritualità, l’antropologia e l’ecologia. Senza il riconoscimento del diritto di Dio su tutto il mondo degenera facilmente. L’uomo, creato a immagine di Dio, ha in sé delle caratteristiche che gli pongono importanti implicazioni morali. Come creatura capace, deve vivere il progetto di Dio e cercare di discernere la sua volontà per poter agire giustamente. La conoscenza e il discernimento fanno parte del dono di Dio. A motivo della libertà che gli è data è chiamato al discernimento morale, alla scelta e alla decisione. La li- 19 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, “Legge naturale ed etica universale. Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”, 542; cfr. K. GOLSER, “Emergenza rifiuti e responsabilità per il creato. Riflessioni etico-teologiche”, in Bioetica e Cultura XVII (2008)1, 84-87. 16 GABRIEL WITASZEK bertà morale data all’uomo non si riduce a un semplice auto-regolamento o autodeterminazione, ma trova il suo punto di riferimento in Dio stesso. Essa implica la capacità e il dovere di decidere e la responsabilità delle azioni (Gen 2). L’uomo creato a somiglianza di Dio ha una posizione di guida, non assoluta, bensì soggetto al dominio. Ciò implica responsabilità, impegno di gestione e amministrazione. Anche all’uomo compete il compito di formare in modo creativo il mondo fatto da Dio. Egli deve accettare questa responsabilità, favorirne lo sviluppo e la crescita. La libertà dell’uomo si realizza mediante l’unione con un’altra libertà donata. Non si può concepire la libertà rinchiusa nel dominio del mondo. Essa sgorga dall’altra persona. La presenza dell’altra persona è vissuta come una chiamata alla libertà, non come un limite della stessa. L’incontro con l’altra persona, fonte della propria libertà, è riferito nel testo della Genesi, con il riferimento al binomio uomo-donna (Gen 2, 18-24). In essa il fine stesso della libertà viene caratterizzato come consegna necessaria per essere una sola carne. È il requisito necessario per formare una comunione di persone. La verità che guida la libertà umana è una chiamata alla comunione. L’immagine di Dio nell’uomo è finalizzata in modo esistenziale alla formazione di una comunione di persone attraverso l’amore. L’essenza dell’immagine è qualcosa di inscritto nel cuore dell’uomo, non come una verità percepibile, ma come una chiamata interna, profonda, intima del cuore che definiamo amore. Questa immagine acquista il suo vero senso grazie al fine della libertà nella comunione con le persone. La libertà dà senso alla vita anticipando un epilogo che non è a disposizione di nessuno, ma trae origine in se stesso. La logica della creazione sta nella capacità di tenere insieme la fondazione teonoma e la reale autonomia della libertà creata20. Dio 20 A. COZZI, “Il fondamento cristologico del cristianesimo come stile. Ovvero la mediazione senza dono del ‘traghettatore’ Gesù”, 314; cfr. J. L. MARION, Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1998; S. MAZZA, “La legge di Dio non elimina la libertà dell’uomo”, in L’Avvenire 28 aprile 2006, 19; F. OGNIBENE, “Il diritto naturale dà fiducia alla ragione” (L’intervista con Don Mauro Cozzoli, docente di teologia morale), in L’Avvenire 28 aprile 2006, 19. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 17 dona totalmente e gratuitamente sottraendosi come complice nel suo dono radicale, per dare all’uomo la possibilità della libera risposta. Egli è l’origine della sua libertà, in quanto si sottrae alla sua presa. Il senso del dono trova la sua risposta solo all’interno di un riconoscimento da parte dell’altro e non nella relazione soggetto-oggetto. Il significato sta nell’aprirsi nella libertà attraverso i gesti spontanei e incondizionati da parte dell’altro. Il senso è dato dalla dinamica del riconoscimento dialogico-interpersonale. In questa prospettiva Dio stesso è una promessa rivolta alla libertà dell’uomo, il possibile fondamento dell’incondizionato riconoscimento della creatura nei confronti del Creatore. L’uomo come creatura è libertà convocata, chiamata ad essere se stessa nel rivolgersi a Dio, mediante il dialogo della relazione creaturale. La libertà ha un vero senso solo se può anticipare, nei suoi gesti, un riconoscimento incondizionato di una libertà assoluta. Tutto ciò è affidato alla libertà umana perché lo realizzi nella storia reale e così lo comunichi21. 2. La dimensione profetica del dono della creazione I racconti della creazione sono da leggersi come profezia dell’intera storia d’Israele: dalle sue origini, fino all’avvento del Messia che porterà la salvezza al popolo. Nella celebre profezia sul “germoglio di Iesse” (Is 11, 1-9), il profeta Isaia, descrivendo la creazione pacificata, annunzia allo stesso tempo la salvezza, prospettando la creazione stessa come profezia della salvezza che il Signore offrirà agli uomini22. Ciò avviene anche quando il tono del profeta è soltanto di rimprovero, come in Ger 4, 23, dove il peccato del popolo sembra ri21 A. COZZI, “Il fondamento cristologico del cristianesimo come stile. Ovvero la mediazione senza dono del ‘traghettatore’ Gesù”, 319. 22 In diversi testi dell’Antico Testamento, come nel grande inno pasquale che è il Sal 136, 5-15 creazione e salvezza vanno di pari passo. I racconti sulla creazione sono dunque riletti in chiave escatologica. Colui che ha fatto il cielo e la terra e che ha salvato Israele dai suoi nemici, lo farà ancora e sempre (Sal 18; 102; 104; 2Mac 7, 22-29; Dn 12, 2). 18 GABRIEL WITASZEK portare sulla terra il caos primordiale, descritto con le stesse parole di Gen 1, 2. Verso la fine dell’esilio babilonese l’onnipotenza creatrice di Dio diventa il tema centrale del messaggio profetico. Di grande interesse sono, in modo particolare, i testi del Secondo Isaia (Is 40-55), l’anonimo profeta che richiama il racconto sacerdotale della Genesi23. Lo stesso profeta parla della creazione primitiva per accreditare le grandi promesse della salvezza e appare come l’introduzione all’opera della redenzione24. Il libro di Isaia si riferisce al racconto delle origini e delle verità in esso contenute per aiutare il popolo d’Israele in esilio a prendere decisioni urgenti per la vita della comunità. Si concentra su una verità che era condivisa da tutto il mondo religioso di quel tempo, Israele compreso. Verità comune e universale, più facil- 23 Gli studiosi sono convinti che questa parte del libro abbia come autore un anonimo profeta che ha svolto la sua opera durante la deportazione degli Israeliti in Babilonia. La prima deportazione è avvenuta nel 597 a. C., la seconda nel 587 a. C e nel 582 a. C la terza deportazione durata più di 50 anni, che ha dato origine a una situazione permanente che si chiama diaspora. La piccola comunità deportata da Giuda vive come una minoranza dispersa nella grande realtà dell’impero babilonese con una struttura imperiale e un’economia sviluppata, con un esercito potente, una religione con le sue grandi e monumentali espressioni. Questo piccolo gruppo vive nella paura di non poter costruire e conservare la propria identità e di non poter continuare a credere al Dio liberatore. 24 Il problema della precedenza cronologica di Is 40-55 su Gen 1 (viceversa) non è ancora stato risolto in maniera soddisfacente. Non esiste, ad esempio, nei testi del Secondo Isaia, un’affermazione esplicita della creazione del mondo mediante la parola, come invece si esprime con chiarezza il racconto sacerdotale. È molto difficile affermare se Is 40-55 conosca e completi Gen 1. La parola di Dio ha carattere creante. Nei racconti della creazione nel Libro della Genesi troviamo la figura di Dio che crea con la parola: “Dio disse... e questo fu”. La parola di Dio è una parola efficace che produce ciò che pronuncia. Si cristallizza in qualcosa di preciso e chiaro che acquista il suo senso, collocandolo al suo posto nel creato, conferendogli lo statuto proprio, definitivo di creatura. Il profeta Secondo Isaia afferma che la parola di Dio non è vana, bensì capace di fecondare la terra (Is 55, 10-11; cfr. Sal 33, 6. 9; Sal 147, 18). La funzione creatrice della parola di Dio è inerente alla parola profetica. Attraverso di essa Dio continua a creare. Cfr. A. NEHER, L’essenza del Profetismo, Marietti, Casale Monferrato 1984, 94. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 19 mente accettabile perché parte del patrimonio dell’umanità, in modo da ridare fiducia nel Dio dell’esodo alla comunità dispersa e fragile. Questo riferimento del profeta alla creazione sarà la premessa per incominciare il cammino del ritorno che avrà il suo maggiore significato nel cammino geografico e spirituale. Egli parte da Dio creatore per arrivare di nuovo a scoprire e poi a viver il coraggio di agire nella storia. La piccola comunità di Giuda, dispersa in Babilonia è chiamata a vincere la propria impotenza, e a riscoprire le ragioni per un’azione dentro la storia, in un contesto che sembrava non averne. Il discorso del profeta sulla creazione ha lo scopo di elevare il creatore perché la comunità dispersa in Babilonia ne sia consolata, sappia che non è abbandonata a se stessa, ma può contare su Dio che è vincitore. Dio è il grande creatore del mondo che non scende direttamente a ricostruire il popolo, ma gli darà la forza necessaria per ricostruire e per rinnovare la fede in lui stesso. Il Secondo Isaia affermando che Dio è creatore unico e per sempre, vuol sottolineare che può ancora rinnovare l’opera della liberazione della comunità Giudaica dispersa in Babilonia. La creazione è, per il profeta, non solo un fatto di natura cosmologica del quale prendere atto, bensì il primo prodigio storico compiuto dal Dio d’Israele. Egli come tale è il creatore del mondo, come lo è del suo popolo (Is 43, 1. 15). Il verbo forse più espressivo di Gen 1, bārā’ (creare), è usato indifferentemente per la creazione del mondo come per quella del popolo, cioè per la salvezza del mondo e per quella del popolo (Is 43, 15: 44, 24: 45, 7-8). Il termine bārā’ (creare) ricorre sedici volte nel Secondo Isaia, tutte nella prima parte del Secondo Isaia (Is 40-48), ad eccezione di due ricorrenze (Is 54, 16) che sottolineano il controllo di Dio sulle forze nemiche. Sette volte lo si legge come participio bôrā’, per cui diventa un vero titolo, “il creatore”, con particolare forza espressiva. Le altre forme sono in perfetto bārā’ (creare) (Is 40, 26: 41, 20: 43, 7: 45, 8. 12: 48, 7). Dio crea le varie parti del mondo materiale: gli astri (Is 40, 26), i cieli (Is 42, 5), la terra (Is 45, 18), l’ ’ādām cioè l’umanità (Is 45, 12), le tenebre e la sciagura (Is 45, 7), e come creatore interviene anche nella storia e libera il popolo dall’esilio babilonese, attuando una situazione di salvezza (Is 41, 20: 43, 1. 7. 15: 48, 7). L’essere creatore, comporta il controllo di 20 GABRIEL WITASZEK tutte le cose: dal caos alla luce, dall’uomo agli elementi materiali. Dio appare come unico, il primo e l’ultimo, nell’origine del cosmo. Sempre Secondo Isaia si sintetizza in modo efficace l’attività divina espressa da vari termini sinonimi, quali formare, fare, operare, estendere, consolidare, stabilire, fondare. La terra è stata plasmata per essere abitata (Is 45, 18), in vista, cioè di un preciso progetto divino per l’uomo; Dio è insieme creatore e redentore (Is 54, 5). Ogni evento della storia annunzia una salvezza descritta come una ricreazione dell’intero universo. Il Secondo Isaia descrive il ritorno a Gerusalemme in termini di nuova creazione. L’esodo da Babilonia a Gerusalemme sarà un trionfo, perché la stessa potenza di Dio, che ha creato la terra e i cieli si dispiegherà per salvare il suo popolo (Is 41, 4: 45, 11-12: 48, 14-15: 50, 2). Essa opererà una nuova creazione storica, perché Dio come creatore di tutte le cose, agisce continuamente nella natura e dirige la storia. La prospettiva storica è dunque la prima; quella cosmica è semplicemente invocata per garantire l’efficacia della manifestazione temporale. Il profeta cerca di dare una risposta adeguata al problema che ha certamente tormentato le coscienze durante l’esilio babilonese. Molto significativa è la descrizione della de-creazione di Geremia (esilio babilonese) che corrisponde alla descrizione del ritorno, come a una nuova creazione. Israele (e con Israele intendo solo la comunità post-esilica che si autodefinisce nei testi a nostra disposizione) scopre la teologia della creazione in modo del tutto nuovo dato dall’esperienza dell’esilio e del ritorno. Gerusalemme e Giuda hanno capito che potevano essere cancellati dalla faccia della terra. Sono però sopravvissuti, riuscendo a vedere in questa sopravvivenza un atto di nuova creazione. In tale contesto, Dio compirà un nuovo esodo ancora più importante e suggestivo di quello dall’Egitto (Is 43, 16-21). Il deserto per il quale passeranno gli esuli, fiorirà come un giardino. La terra di Giuda sarà rigenerata e Gerusalemme diverrà madre di una immensa schiera di figli. Anche i profeti Ezechiele e Geremia propongono un nuovo futuro, fondato sulla potenza di Dio creatore. Ezechiele immagina una grande pianura piena di ossa tutte inaridite e il Signore che gli ordina di proclamare una parola profetica per far entrare in esse lo spiri- LA CREAZIONE AD IMMAGINE 21 to e farle rivivere (Ez 37, 5). Il profeta applica la visione delle ossa vivificate dallo Spirito di Dio a quanti in Israele vanno dicendo: “(...) Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti (Ez 37, 11). La “risurrezione” come passaggio dalla morte alla vita, è come la creazione del primo uomo tratto dalla terra e reso vivo dallo spirito di Dio25. Come scrive L. Lucci: “La novità “creatrice” si manifesterà quando avrà compimento la promessa di Dio, che supplisce alla fragilità umana: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro (...)” (Ez 11, 19: 36, 26). Il profeta Geremia lo interpreta come la legge scritta da Dio stesso nel cuore umano, reso finalmente capace di osservare i comandi scritti su tavole di pietra (Ger 31, 31-34). La realizzazione della profezia avverrà attraverso lo Spirito della Pentecoste, dopo la glorificazione del Cristo (Rm 2, 29: 7, 6: 8, 2; 2Cor 3, 6)”26. Creare ha un valore fondamentalmente soteriologico, presente anche nella creazione del mondo materiale e del cosmo. La creazione veniva concepita come opera salvifica di Dio27. Creatore può considerarsi un sinonimo di salvatore. Il Secondo Isaia adopera anche il termine gō’ēl (redentore)28. Esso comprende il motivo dell’interevento salvifico, la vicinanza di parente prossimo: una volta che Dio ha liberamente assunto questa categoria di parente prossimo, egli si sente obbligato a salvare. Ciò si applica ad un congiunto stretto che interviene per ristabilire equilibrio in una situazione compromessa, liberando da un potere estraneo chi appartiene alla famiglia (Lv 25, 40-50). I due titoli creatore e redentore costituiscono la novità e il centro della riflessione su Dio del Secondo Isaia. Sono un’efficace risposta agli interrogativi emersi dalla crisi dell’esilio. Tutto questo è vissuto dal popolo come perdita di tutte le sicurezze. Da questa situazione 25 R. FABRIS, “Biós e zoê: la visione biblica della vita”, 57. L. LUCCI, “Spirito di Dio e vita nella Bibbia. Tra simbolo e realtà”, in RVS 62 (2008) 22. 27 G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, vol. I: Teologia delle tradizioni storiche d’Israele, Paideia Editrice, Brescia 1972, 167. 28 Il termine gō’ēl, su 46 ricorrenze nell’Antico Testamento è presente dieci volte nel Secondo Isaia. 26 22 GABRIEL WITASZEK prolungata il dolore sfocia in protesta (Is 40, 27: 49, 14: 44, 17)29. Israele contempla la creazione attraverso la fede nel Dio salvatore, riconosce dovunque la sua presenza e la sua azione. Attraverso la voce dei profeti ne rivive il racconto. Tutte le cose, come il popolo eletto, devono la loro esistenza a una iniziativa di Dio che tutto ha suscitato dal nulla. Nel Dio della creazione viene contemplato il Dio della salvezza. L’annuncio del Secondo Isaia viene motivato con argomentazioni tali e convincenti che danno la vera speranza al popolo. Tale fondamento egli lo esprime nei titoli di creatore e redentore, cioè di colui che vuol portare una salvezza del tutto nuova, rendendo così l’annuncio credibile e carico di speranza. Accanto all’esperienza della decreazione e della ricreazione, Israele ha fatto un’altra esperienza fondamentale: quella dell’universalismo. Israele vive ormai in mezzo alle nazioni e non può più definirsi se non in rapporto ad esse, in particolare perché fa parte di grandi imperi: l’impero babilonese prima, quello persiano, più esteso, poi. La creazione sarà quindi intesa dell’universo e il Dio creatore: il Signore di tutte le nazioni. Occorre allora definire su nuove basi il rapporto d’Israele con il suo Dio, creatore del mondo e il rapporto d’Israele con le altre nazioni (Is 45, 18-24: 51, 5). Nella tradizione cristiana vi è una continuità perfetta tra la parola creatrice e la parola del Verbo incarnato che costituisce le tappe della salvezza. La storia della salvezza non incomincia con la elezione di Abramo ma con la creazione e con la nascita di Gesù. Nel Nuovo Testamento la creazione è interpretata in vista di Cristo. Così si esprime un celebre testo della tradizione paolina: “(...) Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1, 16-17). Non soltanto, dunque, Cristo precede e preesiste alla creazione, ma egli è il fine stesso per cui tutte le cose sono state create. Nel prologo del Vangelo di Giovanni (Gv 1, 1-3) Cristo è accostato allo stesso vocabolo che dà ini- 29 Siamo attorno al 550 a. C., una quarantina d’anni dalla distruzione della città di Gerusalemme. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 23 zio all’origine della creazione. Il tema della creazione in Cristo e in vista di Cristo si fonda perciò anche su una lettura dei testi genesiaci fatta in chiave escatologica. Già dall’alba della creazione, ciò che è stato creato, in Cristo tende all’unione con lui. La fede della Chiesa afferma pure l’azione creatrice dello Spirito Santo: egli è colui che dà la vita, lo Spirito Creatore, la sorgente di ogni bene. Queste suggestioni provenienti, seppur in maniera diversa dal giudaismo e dalla tradizione cristiana, fanno nascere il desiderio di provare a rileggere il racconto della creazione in chiave profetica, e, quindi teologica. La descrizione delle origini del mondo è, in questo modo, l’inizio e l’anticipazione di ciò che avverrà alla fine. Il tempo delle origini e il tempo della fine vengono così a toccarsi. Il testo di Gen 1-11 non può essere letto soltanto come l’inizio d’una storia che sarebbe poi abortita sul nascere, e che solo la venuta di Cristo potrà risollevare, bensì come un’apertura alla speranza nella redenzione30. 3. L’accoglienza e l’amministrazione del dono di Dio Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà: “(...) tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono” (Ap 4, 11); “Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza, la terra è piena delle tue creature” (Sal 104, 24); “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 145, 9). La verità della creazione è così importante per l’intera vita umana tanto che Dio, l’ha voluta rivelare al suo popolo, in particolare a Israele. Egli, si rivela come colui al quale appartengono tutti i popoli della terra e l’intera terra, lui che ha fatto cielo e terra (Sal 115, 15: 124, 8: 134, 3). Secondo il racconto del libro della Genesi 1, 1-31 l’uomo appare come la méta della creazione di Dio. Il dono specifico del Creatore 30 G. COLOMBO, “Creazione”, in G. BARBAGLIO, S. DIANICH (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1991, 184-210. 24 GABRIEL WITASZEK per l’uomo consiste nell’averlo creato a sua immagine (Gen 1, 26). Si legge nel Dei Verbum, 3: “Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (Gv 1, 3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (Rm 1, 19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori”. Li ha invitati ad una intima comunione con sé rivestendoli di uno splendore di grazia e di giustizia. Si presenta qui un programma di antropologia teologica nel senso stretto del termine, in quanto può parlare di Dio solo colui che parla dell’uomo e viceversa. Nella creazione rivelata siamo stati raggiunti da un dono totale perché, possiamo accedere al donare di Dio che rimanda al mistero della creazione, intesa come un dono totale e gratuito. Dio dona tutto, lasciando che la sua creazione si ricostituisca a partire dalle forze di vita nascoste in essa31. Egli resta in silenzio, perché spetta a noi dare un senso alla vita. La rivelazione autorizza a dare un senso, ci apre alla percezione delle possibilità inaudite, inscritte da Dio nella realtà, ossia nel suo dono. Questa libertà totale senza limiti è la soglia per la quale l’uomo accede alla sua singolarità – unicità irripetibile di fronte al Dio unico che raccoglie la sfida di dare un senso buono a tutti i suoi legami. Da questo incontro prende forza l’agire dell’uomo. Il senso della vita non è mai progettato in anticipo. Ognuno deve operare per rendere significativa la propria vita. Questo, appunto, è il fine ultimo della rivelazione di Dio. La diversità di risposte e di esperienze sono l’espressione più perfetta del rapporto intimo tra Dio donatore e ogni essere32. La creazione ha un ordine che scaturisce dal fatto che Dio crea con sapienza: “(...) Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso” (Sap 11, 20). Creata nel Verbo eterno e per mezzo del Verbo eterno, “immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15), la creazione è destinata, indirizzata all’uomo, immagine di Dio (Gen 1, 26), chiamato ad 31 C. THEOBALD, “Résister au mal”, in Recherches de Science Réligieuse 90 (2002) 113. 32 Ibidem, 58. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 25 una relazione personale con lo stesso. La nostra intelligenza, poiché partecipa della luce dell’intelletto divino, può comprendere ciò che Dio ci dice attraverso la creazione (Sal 19, 2-5), non senza grande sforzo, in spirito di umiltà e di rispetto davanti al Creatore e alla sua opera (Gb 42, 3). Scaturita dalla bontà divina, la creazione partecipa della stessa bontà: “Dio vide che (...) era cosa buona” (Gen 1, 4. 10. 12. 18. 21. 31). La creazione è voluta da Dio come un dono fatto all’uomo, un’eredità a lui destinata ed affidata. È come il dono di un amore infinito che si riversa nel finito. E poiché il nostro mondo nasce dall’amore infinito di Dio, è lo stesso amore che lo sostiene continuamente. L’essenza sta nel dare all’altro lo spazio per crescere e svilupparsi. Dio vuole un mondo che viva in relazione d’amore con lui, che possa trarne gioia. Per questo egli, fin dalle origini, lo ha legato a questa energia creatrice che permette di realizzare sempre più le potenzialità nascoste, di crescere, riconoscere ed accettare il dono d’amore di Dio. Egli chiama tutto all’esistenza con la sua potente Parola d’amore e di vita. Lui che ha creato il mondo, l’ha benedetto, l’ha fatto, fin dall’inizio, ha promesso che tutta la creazione non cadrà nella distruzione, ma ritornerà a lui, come da lui è nata. Il ritorno della creazione verso il suo autore è iniziato con la venuta di Cristo, che ha annunciato l’avvento del regno di Dio. Dio dona al mondo e agli uomini molto spazio per crescere e svilupparsi. Agli uomini ha offerto la ragione e la libertà che permettono di analizzare l’opera della creazione, e insieme la responsabilità di curarla e preservarla33. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda opportunamente che la libera iniziativa di Dio esige la libera risposta dell’uomo. Risposta positiva che presuppone sempre l’accettazione, la condivisione del progetto di Dio su ciascuno, che accoglie 1’iniziativa d’amore del Signore e diventa per chi è chiamato: esigenza morale vincolante, insieme, riconoscente omaggio a Dio (CCC, 2062). 33 “Lettera pastorale dei vescovi della Svizzera per la festa di Ringraziamento”, in Il Regno – Documenti 17 (2008) 553-556. 26 GABRIEL WITASZEK Conclusione La lettura dei primi capitoli del Libro della Genesi introduce nel mistero della creazione, dell’inizio del mondo per volere di Dio, il quale è onnipotenza e amore. Parlare di carattere profetico nei racconti della creazione significa scoprire una dimensione del testo inattesa. In essi è presente lo sguardo del profeta, che permette di leggere gli eventi delle origini come segno della destinazione finale verso la quale convergono la storia e il mondo34. Ogni creatura porta in sé il segno del dono originario e fondamentale. Il concetto di donare pone in risalto colui che dona e colui che riceve il dono come pure la relazione che si stabilisce tra loro. Tale relazione emerge nel momento stesso della creazione dell’uomo. Essa è manifestata soprattutto dall’espressione: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gen 1, 27). Nel racconto della creazione del mondo visibile, il donare ha senso soltanto rispetto all’uomo. In tutta l’opera della creazione, solo di lui si può dire che è stato gratificato da un dono: il mondo visibile è stato creato per lui. Il racconto biblico della creazione offre motivi sufficienti per una tale comprensione e interpretazione: la creazione è un dono, perché in essa appare l’uomo che, come immagine di Dio, è capace di comprendere il senso stesso del dono ossia la chiamata dal nulla all’esistenza. L’uomo è capace di rispondere al Creatore con l’agire morale radicato nel dono previo della vita, dell’intelligenza, della volontà libera (creazione) e, soprattutto, con l’offerta totalmente gratuita di una relazione privilegiata, intima, con Dio (alleanza). Essa non è solo risposta dell’uomo, bensì rivelazione del progetto di Dio. L’intelligenza umana può trovare una risposta al problema delle origini. Infatti, è possibile conoscere con certezza l’esistenza di Dio Creatore attraverso le sue opere, grazie alla luce della ragione umana, anche se talvolta è offuscata e deviata dall’errore. La fede viene a confermare e a far 34 M. CIMOSA, “Creazione e liberazione nei profeti”, in AA.VV., Creazione e liberazione nei libri dell’Antico Testamento, LDC, Leumann (TO) 1989, 33-54. LA CREAZIONE AD IMMAGINE 27 chiarezza alla ragione di queste verità: “Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che si vede” (Eb 11, 3). Il rapporto fra dono divino e compito umano è determinante per la Bibbia e per la morale in essa rivelata. L’agire terreno si attua nell’orizzonte ispiratore della relazione con Dio, ciò si vede più fortemente nel Nuovo Testamento. Cristo si richiama a quella fondamentale rivelazione racchiusa nel libro della Genesi. In esso, il concetto di creazione trova la sua profondità non soltanto metafisica, ma anche teologica. Creatore è colui che chiama all’esistenza dal nulla, che stabilisce nell’esistenza il mondo e l’uomo nel mondo, perché Egli è amore (1Gv 4, 8). Attraverso queste parole noi siamo avviati ad intravedere nell’amore il motivo divino della creazione. Soltanto l’amore dà inizio al bene e si compiace del bene (1Cor 13). La creazione perciò, come azione di Dio, significa non soltanto il chiamare dal nulla all’esistenza, ma stabilire l’esistenza del mondo, e in esso, quella dell’uomo. Secondo la prima narrazione, significa una donazione fondamentale e radicale nella quale il dono sorge proprio dal nulla e si satura della pienezza del suo Signore. 28 GABRIEL WITASZEK SUMMARIES At the centre of the confession of faith of Israel, the Chosen People, lies an historical event – the experience of liberation from slavery in Egypt. This experience was subsequently deepened by the setting up of the Covenant at God’s initiative. In the course of time Israel’s profession of faith in God the Creator was expressed ever more clearly to include the notion of man, created in the image of God, as a participant in Creation; this belief constituted the basis of all the other affirmations of faith. Creation is the spontaneous act of God acting in favour of man created in His own image, and enabling him to continue the work of Creation in the capacity of guardian and instigator of life. What is primary and definitive is the initiative of God expressed as gift. Man, the recipient of the gift of Creation, participates in this free gift of God and thereby enters into the truth of the gift. Through love God leaves His Creation to be renewed by the life-forces hidden within it, so that Creation might contain within itself laws apt for its acceptance of its God. This is a process which organises opportunities for life, and provides pathways through which creatures enter into their own creation. God’s gift of Himself is complimented by Man’s free response – a response which must be as spontaneous and definitive as God’s self-gift. Creation is a truth which provides deeper insights in relation to choices that are necessary for the life of the individual and of the community. The initial Creation, willed by God the Creator, will be realised through a definitive act of intervention – the salvation and liberation of his Creation from the power of evil. The Creation accounts are read as a prophesy on the whole history of Israel, from the nation’s beginnings up to the coming of the Messiah who would bring salvation to the people. The New Testament message regarding the saving action of God in the crucified and risen Jesus is an extraordinary instance of this saving power. *** En el núcleo de la confesión de fe de Israel, pueblo elegido, se halla su experiencia de liberación de la esclavitud de Egipto, realizada en el transcurso de su historia. Tal experiencia se ha enriquecido luego con el pacto de alianza hecho por Dios. Con el tiempo, la profesión de fe en Dios creador se formula de modo más palpable; la participa al hombre, creado a su imagen, y constituye el fundamento de todas las demás ratificaciones de fe. La creación es la acción espontánea de Dios que actúa a favor del hombre creado a su imagen, y lo capacita para continuar la obra creadora en calidad de guardián y promotor de la vida. Lo principal y más decisivo es la iniciativa de Dios, que se comunica como don. El hombre, destinatario del don de la creación, participa de es- LA CREAZIONE AD IMMAGINE 29 te don gratuito de Dios y así tiene acceso a la verdad del don. Por medio del amor, deja que su creación se renueve a partir de las energías vitales escondidas en ella, ya que contiene en sí las justas leyes para acogerlo. Se trata de un proceso que estructura espacios de vida y vínculos con los que la criatura se acerca a su creación. La entrega de Dios se cumple en la respuesta libre del hombre que debería ser igualmente espontánea y definitiva cuanto el don de Dios. La creación es una verdad activa que adquiere valor en orden a las opciones necesarias para la vida del individuo y de la comunidad. El origen querido por Dios creador se cumplirá mediante la acción definitiva, es decir, la salvación y la liberación de su criatura, del poder del mal. Los relatos de la creación son interpretados como profecía de toda la historia de Israel, desde sus comienzos hasta la llegada del Mesías que traerá la salvación al pueblo. El mensaje neotestamentario concerniente a la acción salvadora de Dios, ante Cristo crucificado y resucitado, es una explicación maravillosa de su poder. *** Al centro della confessione di fede del popolo eletto d’Israele, c’è l’esperienza della sua liberazione dalla schiavitù egiziana avvenuta nel corso della sua storia. In seguito questa esperienza si è arricchita della stipulazione dell’alleanza da parte di Dio. Col tempo viene formulata in maniera sempre più chiara la professione di fede nel Dio creatore ne, fa partecipe l’uomo, creato a sua immagine, e costituisce il fondamento di tutte le altre affermazioni di fede. La creazione è l’azione spontanea di Dio che agisce in favore dell’uomo creato a sua immagine, e lo abilita a continuare l’opera creatrice in qualità di custode e promotore della vita. Ciò che è primo e determinante è l’iniziativa di Dio, che si esprime in dono. L’uomo, destinatario del dono della creazione, partecipa al questo dono gratuito di Dio e così accede alla verità del dono. Mediante l’amore, lascia che la sua creazione si rinnovi a partire dalle forze di vita nascoste in essa, poiché comprende in se anche le giuste leggi per accoglierlo. È un processo che struttura spazi di vita e legami in cui la creatura accede alla sua creazione. Il donarsi di Dio si compie nella libera risposta dell’uomo che dovrebbe essere altrettanto spontaneo e definitiva quanto il dono di Dio. La creazione è una verità attiva di valorizzazione, in vista di scelte necessarie per la vita del singolo e della comunità. L’origine voluto dal Dio creatore si realizzerà mediante l’intervento definitivo, cioè la salvezza e la liberazione della sua creatura dalla potenza del male. I racconti della creazione sono letti come profezia dell’intera storia d’Israele, dalle sue origini sino all’avvento del Messia che porterà al popolo la salvezza. Il messaggio neotestamentario relativo all’azione salvatrice di Dio nei confronti del Gesù crocifisso e risorto, ne è una spiegazione straordinaria della sua potenza. THE WAY OF DISCERNMENT Living the Gospel in the Present Moment1 Dennis J. Billy, C.Ss.R.* Did you ever think it strange that, after Jesus ascended to heaven, his disciples made their first major decision about their future ministry by what amounted to be the simple luck of the draw? Having decided that it was necessary to fill the place left empty by Judas Iscariot and restore the ranks of the apostles to the original number, the community of disciples gathered in the upper room, listened to a brief discourse by Peter, nominated two candidates – Barsabbas and Matthias, by name – prayed for guidance, and then drew lots. That’s right, “lots!” What a strange way of making such a weighty decision. Try and place yourself there. The drama of the moment must have been intense; the silence, still and mounting; the suspense, palpable. I wish I could have been there to witness this early act of Christian discernment. Maybe I would have learned something. Maybe discernment is not as difficult as it is sometimes made out to be. Maybe. Maybe not. In any case, the choice, we are told, fell to Matthias, and from that time forward he was counted as one of the twelve.2 * The author is an ordinary professor at the Alphonsian Academy. He is presently serving as professor, scholar-in-residence, and holder of The John Cardinal Krol Chair of Moral Theology at St. Charles Borromeo Seminary in Philadelphia, Pennsylvania. El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana. Al presente se desempeña como titular de la Cátedra de Teología Moral en el Seminario de S. Carlos Borromeo en Filadelfia, Pensilvania. 1 This paper was Professor Billy’s inaugural lecture as holder of the John Cardinal Krol Chair of Moral Theology at St. Charles Borromeo Seminary, Overbrook, in Wynnewood, Pennsylvania. It was presented at the seminary on Thursday evening, December 4, 2008. 2 See Acts 1: 12-26. All Scripture references come from The New American Bible (New York: Catholic Book Publishing, Co., 1970). StMor 48/1 (2010) 31-53 32 DENNIS J. BILLY Do you not find it rather striking (perhaps shocking) that the first major act of discernment by the early Christian community was done in such a seemingly random manner? Can you imagine if someone suggested such a practice today? Choose a husband or wife? Decide upon a vocation to the priesthood or religious life? Close a school or suppress a parish? Select a pope or president? “Let’s draw lots!” That’s right, “lots!” What outrage it would cause! How many people would raise their voices in protest! How many would put their foot down, step forth in anger, raise their fists in the air, and shout out something like (pardon the pun), “Now that was the last straw!” On second thought, perhaps some of us might feel a bit relieved and perhaps even find it a little refreshing. Whenever a big decision comes our way, we would simply draw out the lots, “roll’em, read’em,” do what they say, and go on our merry way. We are not living in the early days of the primitive Christian community, however, but in the opening years of the twenty-first century, at the dawn of the new millennium. Times have changed and so have our methods of decision-making. I am not in any way suggesting that we return to the crude, unpolished methods of ancient days when the will of God was often determined by divination and lot.3 Heaven forbid! Let’s leave the coin toss where it belongs: in the hands of an experienced football referee. For us today, discernment could and should mean something very different. I would, however, like to make one very important point observation. The apostles were not leaving this decision about filling their ranks to mere chance, or the luck of the draw, or the fickle forces of fate. In their minds, they were placing the decision in the caring hands of a loving and merciful God. Their prayer for guidance from the Lord reveals their sincere desire to know God’s will and give him an active role in the decision before them. Their methods may have been a bit unusual, but their intentions without a doubt were worthy 3 See JAMES TURNSTEAD BURTCHAELL, Philemon’s Problem: The Daily Dilemma of the Christian (Chicago, IL: Life in Christ, 1973) 57. THE WAY OF DISCERNMENT 33 and pure.4 With all of our sophisticated methods of decision-making, I wonder if we can say the same. What space do we give to God in the decisions we make? How do we allow him to inform them? Where do we see the quiet movement of his caring, loving, and merciful hands? To answer these questions honestly, we need to look at the origins and early development of Christian discernment and how we understand the term today. We also need to take a very hard look at ourselves and how we navigate the unpredictable currents of life’s turbulent and ever-changing seas. 1. Some Important Background “Discernment” comes from the Latin discernere, which literally means “to sever,” “to separate,” “to set apart,” and which has been transferred metaphorically into “to distinguish.” The Scriptural basis for discernment is found in the religious discrimination of the Old Testaments prophets (Dt 18: 21; 1Sam 16: 14; Jer 17: 9-10), the New Testament emphasis on distinguishing true from false prophesy (Mt 7: 15-20; 12: 22-35), and Paul’s distinction between the way of “spirit” and the way of “flesh” (Gal 5: 19-23), with his emphasis on the charismatic gift of discernment of spirits (1Cor 12: 10), and his exhortation to life according to the life of the Spirit (Gal 5: 16, 18).5 The early Church understood discernment as a watchful and vigilant discrimination between good and evil. The theme was taken up by the second century documents The Didache and The Shepherd of Hermas, and later by Origen (184-254) in his On First Principles, Athanasius (295-373) in his Life of Antony, John Cassian (c. 360-435) in his Conferences, and John Climacus (c. 579-c. 649) in his Ladder of 4 According to RAYMOND E. BROWN, the use of lots to decide Judas’ replacement indicates that the choice was left to God’s will. See An Introduction to the New Testament (New York: Doubleday, 1997) 282-83. 5 See MICHAEL DOWNEY, ed., The New Dictionary of Catholic Spirituality (Collegeville, MN: The Liturgical Press, 1993), s.v. “Discernment of Spirits,” by MICHAEL J. BUCKLEY. 34 DENNIS J. BILLY Divine Ascent. In the Western Church, the insights of Cassian on discernment (or “wise discretion,” as he called it) were fostered and promulgated through the strong emphasis given to his Conferences in Benedictine monasticism. Centuries later, Ignatius of Loyola (14911556), founder of the Jesuits, championed the topic in his Spiritual Exercises.6 The Dictionnaire de Spiritualité defines discernment as “the process by which we examine in the light of faith and in the connaturality of love, the nature of the spiritual states we experience in ourselves and in others. The purpose of such examination is to decide, as far as possible, which of the movements we experience lead to the Lord, and to a more perfect service of him and our brothers, and which deflect us from our goal.”7 A much simpler definition comes from Evan B. Howard, who says it is “the evaluation of inner and outer stuff in light of a relationship with God with a view to response.”8 It comes in many shapes and sizes. According to Jules Toner, “There are manifold kinds of spiritual discernment: discernment of true or false doctrine, of true and false prophecy, of true and false mystical experience and of different degrees or stages of mystical experience, discernment of what is truly God’s will for one’s free choice among alternative courses of action, to name but a few.”9 In Catholic thought, discernment generally has three levels of meaning: a doctrinal dimension having to do with separating true from false teaching, a moral one having to do with telling good from 6 For a historical presentation, appropriate references, a general overview, and helpful bibliography on Christian discernment, see EVAN B. HOWARD, The Brazos Introduction to Christian Spirituality (Grand Rapids, MI: Brazos Press, 2008) 371-401. 7 The translation is from EDWARD MALATESTA, ed., Discernment of Spirits (Collegeville, MN: Liturgical Press, 1970) 9. See also HOWARD, The Brazos Introduction to Christian Spirituality, 374, 462. 8 HOWARD, The Brazos Introduction to Christian Spirituality, 375. 9 JULES J. TONER, Spirit of Light or Darkness? A Casebook for Studying Discernment of Spirits (St. Louis: Institute of Jesuit Sources, 1995) 11. See also HOWARD, The Brazos Introduction to Christian Spirituality, 375. THE WAY OF DISCERNMENT 35 evil, and an advanced spiritual sensitivity having to do with distinguishing between two goods in order to understand God’s will and for one’s life and thus follow the more appropriate course of action. This heightened spiritual sense overlaps with the moral in its concern for identifying different kinds of spirits that act within us (e.g., the self, the world, angelic and demonic spirits, or God).10 These doctrinal, moral, and spiritual spheres are intricately related and never exist in opposition to each other. They operate on both communal and personal levels and are exercised for the good of the whole Church through the teaching and pastoral roles of the magisterium and for the moral and spiritual welfare of individuals through the exercise of conscience, the reception of the sacrament of reconciliation (confession), seeking guidance through the ministry of spiritual direction, the discernment and testing of spirits, and a life dedicated to the practice of prayer and penance. In the long run, discernment has to do with practicing the love of Jesus Christ in one’s life and living according to the continual guidance of the Holy Spirit. Because the roots of discernment grow deep in our souls as we grow in faith and mature in our spiritual journey, it usually takes a lifetime (if not more) for most of us to learn how to discern the way we should. Christian discernment is the art of making decisions that lead us further along the way to holiness. It is both a skill that is learned and a grace that must be received. It has to do with the simple decisions of daily life and also the more serious ones that affect the future directions of our lives. Every decision has importance when understood within its proper context. Every choice we make either contributes to or detracts from our quest for holiness. Even small, seemingly insignificant steps bring us either further along or further away from our journey’s end. I wonder if the exaggerated interpretations of the term we often encounter today – an overly spiritualized sense, on the one hand, which mystifies the process to such an extent that 10 For the different kinds of spirits acting within us, see ADOLFE TANThe Spiritual Life: A Treatise on Ascetical and Mystical Theology, 2d ed., trans. Herman Branderis (Tournai: Desclée and Co., 1930) 450. QUEREY, 36 DENNIS J. BILLY it lies beyond the reach of simple believers, and a too commonplace understanding of the term, on the other, which subjects even the simplest everyday decisions to an impractically long, overly protracted (and seemingly absurd) process of extended reflection – have something to offer our present understanding of Christian discernment. Perhaps these extremes need only to be tempered by a mediating hand that will plot out a middle way for uncovering the relevance of the way of discernment for today. “Virtue,” we are told, “is the mean between two extremes.”11 If this is so, then perhaps we need to find an acceptable via media that will understand discernment as a virtue or quality of mind that helps us to find our way through the material warf and woof of daily life, while at the same time assuring us that even the most ordinary and mundane of decisions have something to say about the direction our lives are going and the spiritual end to which they point. We need, in other words, to look at “The Way of Discernment” not in the rarefied air of abstract thought, but on the solid ground of the concrete and particular. We need to view it as intimately tied to “Living the Gospel in the Present Moment.” 2. The Way of Discernment It is very common (almost commonplace) nowadays to speak of life in terms of a journey. This metaphor is very apt for speaking about human experience from the beginning of life to its end (and even beyond), for it captures a sense of the risk and uncertainty, the potential danger lurking at every turn. It recognizes the hardships of the road, the different people (both friend and foe) met along the way, the doubts about the purpose of it all, the lending hand offered to others, the help received, the shared table fellowship, the chal- 11 ARISTOTLE, The Nicomachean Ethics, 2. 9. 1, trans. H. Rackham, The Loeb Classical Library (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1962) 110-11. See also KEES WAAIJMAN, Spirituality: Forms, Foundations, Methods (Leuven/Paris/Dudley, MA: Peeters, 2002) 503-6. THE WAY OF DISCERNMENT 37 lenges faced both together and alone, the laughter and joy, the tears and sadness, the disappointments and failures, the wrong turns and listless wandering, the gritty decision to carry on, the determination to persevere until the end, the hope of reaching one’s destination, and the feeling of accomplishment when doing so. The metaphor of a journey captures a keen sense of the underlying drama of our ongoing movement through time. This drama covers a vast array of feelings and touches at different times and places in our lives such divergent tones as comedy, tragedy, epic, romance, farce, quest, melodrama, hymn, ditty, limerick, doggerel – and, yes, let us not forget graffiti! What is more, the drama of life’s journey involves countless decisions, many of which seem small and unimportant, others, momentous and quite significant about the direction our lives have taken, and still others what can be termed existential or ground-shaking, in that they are concerned with the very approach we take to life, the beliefs and attitudes about its meaning that we carry with us as we make our way through life. In one way or another all of life is about discernment, for every decision we make either contributes to or detracts from our ultimate purpose for being here. If this is true, however, if every decision in our lives must in some way be oriented toward our final end, then we must look upon discernment as something more than an extended process involving long hours of prayerful reflection on the proper course of action to take. While this understanding of the term is most certainly true for our major life decisions and many other significant ones, the metaphor of the journey invites us to adopt a wider, more flexible understanding of the term, one that takes into account every step of our journey and not only those that stand out because they appear at a significant bend or fork in the road. Since it would be nearly impossible to subject our every decision to a rigorous process of prayerful reflection, we need to broaden our understanding of discernment so that it embraces the whole of life and not just its peak moments and important crossroads. 38 DENNIS J. BILLY 3. The Three Paths When it comes to personal discernment along life’s journey, we would do well to make practical use of the Church’s rich spiritual tradition and carry with us a deep sense of a person’s capacity for growth. One way of doing so would be to look at discernment in the light of the classical spiritual stages of the purgative, the illuminative, and the unitive ways, all of which have deep roots in the Christian tradition.12 When properly employed, these categories will help us see how the process of discernment differs from person to person and how it depends, to a great extent, on the particular stage an individual is passing through in his or her spiritual journey. Although traditionally referred to as the “three ways,” these terms actually represent different stages in a single spiritual journey lived under the influence of God’s grace. Adolphe Tanquerey’s The Spiritual Life, a classic twentieth-century handbook of ascetical and mystical theology, describes the purgative way as being for those who at the outset of their journey must turn away from evil through fasting, prayer, and ascetical practices. These beginners in the spiritual life seek to cleanse their hearts of their faults by fighting against their sinful tendencies and seeking to strengthen their will against temptation. Their goal is to purify their souls and to ready themselves for the living a life of virtue.13 The illuminative way, Tanquerey continues, is for those who have made steady progress in the spiritual life and have become proficient in the life of virtue. They seek to follow their Lord at each step of their daily lives by gradually taking on Christ’s interior dispositions 12 For the Scriptural and historical foundations of the Threefold Way, see The New Catholic Dictionary of Spirituality (Collegeville, MN: The Liturgical Press, 1993), s.v. “The Three Ways” by THOMAS D. MCGONIGLE; TANQUEREY, The Spiritual Life, 297-304; BENEDICT J. GROESCHEL, Spiritual Passages: The Psychology of Spiritual Development (New York: Crossroad, 1984) 194-96; WAAIJMAN, Spirituality, 130-33. 13 See TANQUEREY, The Spiritual Life, 305-453. For a psychological presentation of the purgative way, see GROESCHEL, Spiritual Passages, 103-35. THE WAY OF DISCERNMENT 39 through the practice of the moral virtues, which strengthen their souls, and the theological virtues, which bring about their souls’ union with God.14 The unitive way, he goes on, is for those who have entered into intimate union with God and are deeply in tune with the inspirations of the Spirit. Such people have become docile to the promptings of the Holy Spirit and long for the complete consummation of their souls union with God. They seek God everywhere, even in the midst of the most absorbing occupations. They cling to God, enjoy his presence in all things, and manifest the gifts of the Spirit in their every day lives.15 Although this brief description clearly distinguishes each of the stages, it would be a mistake to think that one ends abruptly when another begins or that one is somehow left behind when another arrives. On the contrary, the purgative way is subsumed into the illuminative; the illuminative, into the unitive. When seen in this light, determining where a person is in his or her spiritual journey is usually a question of which of these “stages” is predominant in a person’s life as his or her relationship with God deepens. Those who reach the state of union with God continue to make good use of the various prayer forms and ascetical practices used in the earlier stages. To convey this nuance, the cyclical image of an upward moving “spiral” has been offered as a more accurate way of describing how these various “stages” or “ways” relate.16 When viewed against the backdrop of the three ways, discernment takes on much broader dimensions. An external framework of rules and guidelines gives way to the practice of the virtues and culminates 14 See TANQUEREY, The Spiritual Life, 454-600. For a psychological presentation of the illuminative way, see GROESCHEL, Spiritual Passages, 136-59. 15 See TANQUEREY, The Spiritual Life, 601-750. For a psychological presentation of the unitive way, see GROESCHEL, Spiritual Passages, 160-88. 16 See SERVAIS PINCKAERS, The Sources of Christian Ethics, trans. Mary Thomas Noble (Washington, D.C.: The Catholic University of America Press, 1995) 359-74, esp. 372; WILLIAM JOHNSTON, Mystical Theology: The Science of Love (London: HarperCollins, 1995) 192; WAAIJMAN, Spirituality, 372. 40 DENNIS J. BILLY in a spontaneous response to the promptings of the Spirit. Discernment, in other words, begins with a person’s conscience and its capacity to distinguish between good and evil and is assisted by a dedicated regimen of prayer and penance. It deepens and matures through virtuous living and the spiritual insights gained from the sound guidance of an experienced spiritual director. It is perfected by living a life in the Spirit and conforming oneself to God’s will in all things. Each of these elements contributes to a process of discernment involving patient waiting and intent listening for the manifestation of God’s will in one’s life. As we walk through life and grow in our relationship with God, our capacity to discern changes as we change and undergo development. In the beginning stages there is a heavy reliance on conscience and following the commandments of God. As we benefit from spiritual direction and progress in the life of prayer and penance, these early markers of the moral and spiritual life are gradually internalized and we receive further interior lights that illumine our path and point out the way we should walk. In time, such light penetrates our souls to such an extent that we find ourselves in tune with the promptings of the Holy Spirit and are able to see God’s hands in all events and circumstances. In the end, the goal of discernment is complete uniformity with the will of God. There is no simple recipe for arriving at this state, and we must be deeply sensitive to each person’s unique relationship with God and lifelong spiritual search. 4. Living the Gospel Everything we have been discussing up until this point has been about making decisions so that we might live the Gospel on a deep level of awareness. The more the Gospel penetrates our minds and hearts, the freer and more spontaneous will we become and the easier will it get for us to view everything around us with the eyes of Christ. To live the Gospel in such a way means to embrace the fourfold Christological movement of: (1) the Word of God entering our world, (2) giving himself to us completely, (3) becoming our nour- THE WAY OF DISCERNMENT 41 ishment, and (4) being our source of hope.17 Taken as a whole, these movements represent a single event of both historical and transhistorical significance, occurring, as it were, both in time and out of time, in one age and in every age, down through the centuries, from now unto eternity. Taken individually, these Christological movements correspond to different facets of the singular mystery of Christ himself: the first, to his Incarnation; the second, to his Life and Death; the third, to his institution of the Eucharist; the fourth, to his Resurrection and Ascension. A more complete version of these movements would thus read thus: Christ came to us in his Incarnation, gave of himself completely in his Life and Death, provides us in the Eucharist with the nourishment of his own body and blood, and promises us in his Resurrection and Ascension the life of a transformed humanity. As we begin our spiritual journey, these movements act like external scaffolding upon which we throw our interior weight. As we progress in the spiritual life, however, they are gradually internalized and slowly become a part of who we are. When we reach the state of union, they have become so much a part of us that Christ’s Gospel narrative has become our own, and we are deeply sensitive to the promptings of his Spirit. The goal in all of this is to be conformed unto Christ. Just as Christ entered our world and gave of himself completely to the point of becoming nourishment and a source of hope for us, so too are we called, both individually and in community, to enter the various worlds of the people around us and to give ourselves to them in a manner commensurate to that of Christ’s sacrificial offering of self, to the point that we too become nourishment for them and a source of life-giving hope. This calling reveals to us the fundamental meaning of our Christian identity and the call to discipleship. It is accomplished, not by ourselves alone, but by our cooperating with Christ working in us and influencing us by the 17 For a developed presentation of this process, see DENNIS J. BILLY, Evangelical Kernels: A Theological Spirituality of the Religious Life (Staten Island, NY: Alba House, 1993) 17-31 42 DENNIS J. BILLY grace of his Spirit. It is a call, moreover, to enact this fourfold Christological movement in the present. 5. In the Present Moment The Jesuit theologian and spiritual writer William Johnston describes Christian mysticism as “living the Gospel on a deep level of consciousness.”18 Living on this profound level of awareness changes our experience of time and the way we approach it. “Eternity,” Thomas Aquinas (1224/25-1279) tells us, “is simultaneously whole,” while time “is nothing but the numbering of movement by before and after.”19 As we go through life, we all experience movement and change and know what it is like to live in time. Deep down inside of us, however, we have this unquiet, restless sense that we were made for something more. As Augustine of Hippo (354-430) affirms in the opening lines of his Confessions, “O Lord (...) you have made us for yourself, and our hearts are restless until they find peace in you.”20 The desire to be a mystic, to participate in the Eternal, to share in what is “simultaneously whole,” lies deep within each and every one of us. When we live merely on the surface of life, we approach all that happens in terms of before and after. We think of time in linear, onedimensional terms and measure it in seconds, minutes, hours, days, months, and years. Time is constantly changing moving forward and rapidly receding into the past. It waits for no one, and, if we are not careful, can easily sweep us off our feet. Have you ever found yourself focusing on how many things you can get done during the day, rushing from one activity to the next with hardly a moment to catch your breath? Have you ever felt as though you were on treadmill 18 JOHNSTON, Mystical Theology, 9. 19 THOMAS AQUINAS, Summa Theologica (I, q. 10, a. 1, resp.; a. 4, resp.), trans. Fathers of The English Dominican Province, vol. 1 (New York: Benziger Brothers, Inc., 1947) 40, 42. 20 AUGUSTINE OF HIPPO, The Confessions, trans. Rex Warner, 1.1 (New York: Signet Classics, 1963) 17. THE WAY OF DISCERNMENT 43 stuck in high gear? Have you ever felt like you were caught in a mad race against time (the “rat race,” as it is sometimes called), yet anxiously going nowhere? If so, you are not alone. Many of us today have gotten caught up in the hectic pace of modern life. We commute long hours; we over-schedule our days; our cell phones are constantly ringing; we eat on the run; we have become masters at multi-tasking; and we are constantly looking at our watches. We talk about the importance of time management, but to tell you the truth, I seriously wonder if, more often than not, it is actually we who are being managed by time. At times, I also question the quality of what we accomplish. Something must give way when we increasingly try to do more and more in less and less time. It usually ends up being either ourselves or the work we do – and the two are obviously related. Part of the problem, I think, is that we sometimes forget that time itself is a part of God’s creation and that we are called to be masters of time rather than its ceaseless and unwitting slaves. Time, in other words, was made for us – not vice versa. It is in this context that we see the importance of Sabbath rest for ourselves, for the quality of our work, for our attitude toward time, and for our relationship with Christ and others. As Bishop John of Karpathos reminds us way back in the early seventh century: “If Christ is our ‘wisdom, righteousness, sanctification and redemption, ’ it is clear that He is also our rest. As He Himself says, ‘Come to Me, all that labor and are heavy laden, and I will give you rest.’ He says also that the Sabbath – and ‘sabbath’ means ‘rest’ – was made for man; for only in Christ will the human race find rest.”21 When we move from the surface to the depths of life, we find that we have a greater capacity to rest in time, to rest in Christ, to rest in one another, and to savor the present moment. “The present,” French philosopher Blaise Pascal (1588-1651) tells us, “is the only moment 21 The Philokalia, trans. G. E. H. Palmer, Philip Sherrard, and KMallistos Ware, vol. 1 (London/Boston: Faber and Faber, 1979) 310-11. For the Scriptural references in the quotation, see 1Cor 1: 30; Mt 11: 28; Mk 2: 27. 44 DENNIS J. BILLY that is truly ours.”22 So let us embrace it, baptize it, make it truly our own, allow it to become a part of us so that we can give ourselves to God completely in the here-and-now. Thomas Merton (1915-1968) puts it this way: “(...) if we will only attune ourselves to the voice of the Spirit and take care to give God not what He desires of somebody else, in some other situation, but precisely what He asks of us. In doing this, we will give Him our whole selves. He asks nothing more of us, for as soon as we give ourselves completely to Him, He gives Himself completely to us.”23 When we give ourselves to God in this way, we cannot help but live the Gospel on a deep level of consciousness; we take on a contemplative attitude toward life and are able to celebrate God’s presence with us in the here-and-now, what some authors like to call the “sacrament of the present moment.”24 The eighteenth-century spiritual treatise Abandonment to Divine Providence, until recently thought to be the work of Jean-Pierre de Caussade, S. J. (1675-1751) and considered by no less an authority than Dom David Knowles “a spiritual classic of the first order,”25 presents progress in the spiritual life in terms of a person’s deepening capacity to find God’s will in the present moment. At one point, the author of the treatise speaks of the days of old in this way: We are always hearing of ‘the early centuries’ and ‘the days of the saints.’ What a way to speak! Surely we must realize that in every age, 22 BLAISE PASCAL, Thoughts, Letters, Minor Works, trans. W. F. Trotter, M. L. Booth, O. W. Wright (New York: P. F. Collier and Son, 1910) 362. 23 THOMAS MERTON, The Ascent to Truth (New York: Harcourt, Brace and Company, 1951) 216. 24 See Mt 1: 23; JEAN-PIERRE DE CAUSSADE, The Sacrament of the Present Moment, trans. Kitty Muggeridge (New York: HarperCollins, 1981) 52. For a discussion on fostering a contemplative attitude toward life, see WILLIAM A. BARRY and WILLIAM J. CONNOLLY, The Practice of Spiritual Direction (Minneapolis, MN: The Seabury Press, 1982) 46-64. 25 DAVID KNOWLES, “Introduction,” in J. P. DE CAUSSADE, Self-Abandonment to Divine Providence, trans. Algar Thorold (London: Burns and Oates, 1959), v. For the authorship of the treatise, see DOMINIQUE SALIN, “The Treatise on Abandonment to Divine Providence,” The Way 46/2 (April, 2007) 21-24. THE WAY OF DISCERNMENT 45 including this one, God’s will works through every moment, making each one holy and giving it a supernatural quality. Can we imagine that in the days of old there was a secret method of abandoning oneself to the divine will that is now out of date? And had the saints of those early times any other secret apart from that of obeying God’s will from moment to moment? And will not God continue until the end of the world to pour out his grace upon all the souls who utterly abandon themselves to him?26 To this day, God continues to pour out his grace on us. He gives us grace just as he gives us a share in his being. He does so guttatim, “drop by drop,” from one moment to the next. It surrounds us and is everywhere to behold. We find it by letting go of time’s stranglehold over us and placing ourselves in God’s holy rest. As the author of the treatise on abandonment says, “This is true spirituality, which is valid for all times and for everybody. We cannot become truly good in a better, more marvelous, and yet easier way than by the simple use of the means offered us by God, the unique director of souls.”27 Living the Gospel in the present moment does not mean that we forget about the past and future, ignore their relevance for today, or somehow relegate them to a lower status in our understanding of time. To do so would be to overlook the historical dimension of the faith and the way the Church’s living memory of the past shapes our present reality. “Tradition,” the late Jaroslav Pelikan (1923-2006) tells us,” “is the living faith of the dead”28 and, as such, represents a bond between the past, present, and future generations. To do so would also be to deny the eschatological dimension of the faith, the teleological nature of human action, and the Church’s firm conviction that history, while constantly moving forward, will one day draw to a close. To forget about the past and the future would be tanta26 JEAN-PIERRE DE CAUSSADE, Abandonment to Divine Providence, trans. John Beevers (Garden City, NY: Image Books, 1966) 50. 27 Ibid., 26. 28 JAROSLAV PELIKAN, The Vindication of Tradition (New Haven and London: Yale University Press, 1984) 65. 46 DENNIS J. BILLY mount to denying the faith of our fathers and the legacy we will bequeath to future Catholics. It would distort time by making it something it is not. Every present moment comes from the future and moves to the past. Like Janus, the two-faced Roman god from whom the month of January gets its name, it looks in two directions, both forward and backward in time. As such, it is connected to every other moment that ever has been and ever will come to pass. To live the Gospel in the present moment means to be both rooted in the past and hopeful about what is still to be. If we do not embrace time in this way, then we will never be able to let go of it. Nor will we be able to live the Gospel on a deep level of consciousness, let alone foster a contemplative attitude toward life. We cannot abandon ourselves to God’s will for us in the present moment, if we are worried or fearful about what has already happened in our lives or what the future has in store for us. To live in the present moment we must be at peace with where we have come from and where we are going. Jesus himself bids us to be at peace and not be afraid.29 We share in this peace by putting on the mind of Christ and doing our best to live and act as he did. His attitudes, thoughts, words, and actions must be reflected in our own.30 “Christ’s mode of time,” Hans Urs von Balthasar observes, “is an expression of the fact that he renounces sovereignty over his own existence.”31 Christ now lives a mystical life in and through the members of his body, the Church. Like him, we too must renounce sovereignty over our existence by entering the world of those around us and giving ourselves to them completely so that we might become nourishment for them and a source of hope. In this way, and with God’s help, Christ’s mode of time becomes our own and discloses to us in the present moment the Gospel mysteries of the Incarnation, the Cross, the Eucharist, and the Resurrection. In this way, 29 See, for example, Mt 28: 10; Lk 24: 36; Jn 20: 20-21. See Rom 12: 2; Eph 4: 22; Col 3: 9-10. 31 HANS URS VON BALTHASAR, A Theology of History (New York: Sheed and Ward, 1963) 49. 30 THE WAY OF DISCERNMENT 47 the entire Gospel narrative manifests itself to us and enables us to live out the call to discipleship in the here-and-now. We learn how to abandon ourselves to the present moment precisely by looking for these four Christological dimensions in the situations we face on a daily basis. In relation to Christ, von Balthasar asserts, “it is always Today.”32 With each new day, the call to discipleship comes to us anew. We are called to listen for the call of Christ in our hearts and respond to the needs of the present moment as manifested in the responsibilities and duties of our state in life. 6. The Gifts of the Spirit Such peace comes not from ourselves, but from God. Jesus, the Prince of Peace, mediates God’s peace to us through the gift of his Spirit, who calms our fears, enables us to follow the Lord’s call, heightens our spiritual senses, and leads us to holy rest. It is his Spirit, present in our midst and dwelling in our hearts, who gives us the peace that the world cannot give. It is his Spirit who teaches us to abandon ourselves to the present moment in this way and who helps us to rest in the Father’s loving, providential care. It is his Spirit who teaches us to love God by living in the present and faithfully fulfilling the duties and obligations of our state in life from one moment to the next. It is his Spirit who teaches us the ways of love and leads us along the path of patient endurance. Merton tells us that the soul of the mature Christian is “an instrument played by the Holy Spirit: organum pulsatum a Spiritu Sancto. The Holy Ghost draws from this instrument harmonies and a melody of which reason and the will of man alone could never even dream.”33 The soul of the mature Christian, he goes on, “is like the well-trained ear of a musician, sensitive to the slightest modulations of pitch in a voice or instrument.”34 The 32 Ibid., 34. MERTON, The Ascent to Truth, 181. 34 Ibid., 182. 33 48 DENNIS J. BILLY mediocre Christian, by way of contrast, “is one who, morally speaking, never knows when he is flat.”35 How can we tell what is from God and what is not? How do we know when we have gone flat and are singing off-key? Saints, theologians, and spiritual writers have responded to this question for centuries. One of the best answers that I have found comes from Gregory of Sinai, an Orthodox monk of early fourteenth century, who says, “(...) you can tell from its effects whether the light shining in your soul is from God or from satan.”36 The evil one, he says, “cannot induce you to be gentle, or forbearing, or humble, or joyful, or serene, or stable in your thoughts; he cannot make you hate the worldly, or cut off sensual indulgence and the working of the passions, as grace does. He produces vanity, haughtiness, cowardice and every kind of evil.”37 Gregory then employs a simple metaphor from real life: “The lettuce is similar in appearance to the endive, and vinegar to wine; but when you taste them the palate discerns and recognizes the differences between each. In the same way the soul, if it possesses the power of discrimination can distinguish with its noetic [i.e., spiritual] sense between the gifts of the Holy Spirit and the illusions of satan.”38 Discernment, for such a person, is an internal, spiritual sense that represents a spontaneous, moment by moment, response to the inner promptings of the Spirit. The gifts of the Spirit are those interior dispositions of mind and heart that help a person enter the present moment and give oneself completely to it in order to become nourishment and a source of hope for others. They represent the perfection of the virtues in our lives and bear the effects of love, joy, peace, patience, kindness, goodness, faithfulness, gentleness, and self-control.39 The more we live in the Spirit, the more will we manifest these qualities, these “fruits of the Spirit,” in our lives. There will come a 35 Ibid. The Philokalia, vol. 4, p. 286. 37 Ibid. 38 Ibid. 39 See Gal 5: 25; The Catechism of the Catholic Church, no. 736. 36 THE WAY OF DISCERNMENT 49 point, moreover, when thinking and acting in this way requires little (if any) forethought. The Holy Spirit is like a prism through which light passes and fills the room of our souls with myriad, multi-colored rays. In this way, the refracted light of divine love enlightens our minds and hearts, our thoughts, will, and feelings, in ways that enrich our lives and lead us to fullness of life. These diverse and multi-colored rays are the gifts of the Spirit. According to the Thomistic doctrine on the gifts and virtues: “Christian sanctity, which consists essentially in the perfection of charity supported by the other theological, moral, and intellectual virtues, cannot in fact be reached unless the virtues are perfected by the action of the Holy Ghost through his Gifts.”40 These gifts first come to light in chapter eleven of Isaiah when the prophet says, “The spirit of the Lord shall rest upon him: a spirit of wisdom and of understanding, a spirit of counsel and of strength, a spirit of knowledge and of fear of the Lord, and his delight shall be the fear of the Lord.”41 These deep spiritual qualities of wisdom, understanding, counsel, knowledge, fortitude, piety, and fear of the Lord are the perfection of the virtuous life and represent the interior dispositions of someone who is capable of listening and responding to the inner promptings of the Spirit. When manifested in our thoughts, words, and actions, they are evidence that the Spirit’s influence so permeates our lives that we have ceased to be the principal agents of our actions. They indicate that we have become so open to Christ that his Spirit has taken control of our lives and moves us from one moment to the next under the influence of divine love. It does so while preserving our freedom as we become increasingly conformed unto Christ. The Apostle Paul puts it best, “I have been crucified with Christ, and the life I live now is not my own; Christ is living in me.”42 40 MERTON, The Ascent to Truth, 210. See Is 11: 2-3; The Catechism of the Catholic Church, no. 1831. For a treatment of the gifts of the Spirit, see JORDAN AUMANN, Spiritual Theology (London: Sheed and Ward, 1980) 88-97. 42 Gal 2: 20. 41 50 DENNIS J. BILLY The gifts of the Spirit have great importance for the way of discernment. They are offered to all Christians and help us to become our truest and deepest selves in the faith. They are not in any way spectacular or dramatic, but are meant to be visibly manifest in the daily life of every Christian. They represent the spiritual life at its best and, in my opinion, need to be better understood and more deeply appreciated by the faithful. Merton puts it this way: “The Gifts attune us to special inspirations which enable us to arrive at supernatural judgments and decisions with an ease and efficacy that would be entirely impossible if we were moved by our own faculties, even under the guidance of ordinary grace.”43 He goes on to describe their quiet, hidden features: The inspirations of the Holy Ghost are quiet, for God speaks in the silent depths of the spirit. His voice brings peace (...). If He moves us to action, we go forward with peaceful strength. More often than not His inspirations teach us to sit still. They show us the emptiness and confusion of projects we thought we had undertaken for His glory. He saves us from the impulses that would throw us into wild competition with other men. He delivers us from ambition. The Holy Spirit is most easily recognized where He inspires obedience and humility. No one really knows Him who has not tasted the tranquility that comes with the renunciation of our own will, our own pleasure, our own interests, without glory, without notice, without approval, for the interests of some other person. The inspirations of the Spirit are not grandiose. They are simple. They move us to seek God in works that are difficult without being spectacular. They lead us in paths that are happy because they are obscure. That is why they always bring with them a sense of liberation.44 The person with a discerning heart is so close to God that he or she is able to follow the inspirations of the Spirit from one moment to the next. To follow these inner promptings, a person must be blessed with 43 44 MERTON, The Ascent to Truth, 184-85. Ibid., 185-86. THE WAY OF DISCERNMENT 51 an inner solitude of heart that enables him or her to respond spontaneously to the divine instincts that the Spirit has implanted deep within the heart. Such a person has usually walked the path of discernment for a long time and made great progress along the long and protracted journey of the purgative, illuminative, and unitive ways. For such a person, discernment is no longer merely a question of interpreting the law, forming one’s conscience, or detaching oneself from the things of this world. Nor is it any longer merely a question of leading a virtuous life through the support ascetical practices and a fervent life of prayer. All these are now simply taken for granted and will continue to have a prominent place in such a person’s daily walk with the Lord. However faint and imperfect this practice of life in the Spirit may be, such a person knows what it means to be intimately united with God and the focus in his or her life has increasingly shifted away from a concern for self to a deep desire to serve God and others. Conclusion Authentic Christian discernment propels us ever more deeply into living the Gospel in the present moment. In their own way, that is what the apostles tried to do in the opening chapter of the Acts of the Apostles when they cast lots to select a successor to Judas. They did so, however, and it is very important to remember this, before the day Pentecost, not after it. Once they received the Spirit, they would never again feel the need to cast lots, roll dice, draw straws – or what have you – to discern God’s will. Life in the Spirit changed everything for them. It can do the same for us. The goal of discernment is to become so deeply rooted in the Spirit that we respond spontaneously to its inner promptings from one moment to the next. From this perspective, it is what Merton describes as “a kind of spiritual instinct by which we recognize the difference between impulsions of pride (even under the most spiritual guises) and the inspirations of divine grace.”45 It is also the ultimate 45 Ibid., 175. 52 DENNIS J. BILLY goal of theology, as fides quaerens intellectum (“faith seeking understanding”): “All philosophy, all theology that is vitally aware of its place in the true order of things, aspires to enter the cloud around the mountaintop where man may hope to meet the living God.”46 Theology, in other words, ultimately has to do with experiencing God. Mature discernment is a deep spiritual sense given to us by God to help make that happen. I think that many of us (myself included) suffer from a great lack of imagination when it comes to the possibilities offered to us by our faith and the opportunities we have for developing a deep, lasting, intimate relationship with God. We find ourselves settling for less when we should always be asking for more. I thank God that his dream of what we are and can become, far exceeds our own meager expectations of ourselves. The Christian life is all about the satisfaction of our deepest hungers and the quest for true happiness. It is about God’s promise to give us the fullness of life and the possibility we have of sharing in that life even now, in the present moment. It is about fostering a contemplative attitude toward life and living the Gospel on a deep level of consciousness. It is about letting go of time so that we might rest in it and even celebrate it in our daily lives. It is about giving ourselves wholeheartedly to the duties and responsibilities of the present moment. It is about being ourselves and allowing God to reside in us and transform us from the inside out. It is about letting God be God in our lives so that we might be fully alive with the Spirit and be empowered to touch others deeply with the love of the Lord Jesus. It is about making our way home to the Father, one step at a time, with Jesus as our quiet companion and his Spirit for our trusty guide. It is about living the Gospel in the present moment, as our future first touches, then embraces, and inhabits our past, and as the way of discernment takes root in our souls, becomes an intimate part of who we are, and leads us to our journey’s end: “Until that time when time, like wine/ From grape, takes on a different shape.”47 46 Ibid., 59. DENNIS BILLY, “Biding Time,” in As There As the Sky (Whitby, ON: The Plowman, 1995) 22. 47 THE WAY OF DISCERNMENT 53 SUMMARIES Christian discernment propels us ever more deeply into living the Gospel in the present moment. It begins with a person’s conscience and its capacity to distinguish between good and evil and is assisted by a dedicated regimen of prayer and penance. It deepens and matures through virtuous living and the spiritual insights gained from the sound guidance of an experienced spiritual director. It is perfected by living a life in the Spirit and conforming oneself to God’s will in all things. Each of these elements contributes to a process of discernment involving patient waiting and intent listening for the manifestation of God’s will in one’s life. *** El discernimiento cristiano nos empuja constantemente a vivir el evangelio con una mayor profundidad en el momento actual. Inicia con la consciencia y con la capacidad de la persona de distinguir entre el bien y el mal, y es ayudado con una vida de oración y de penitencia. Profundiza y acrecienta la vida virtuosa y la comprensión espiritual que proviene del sano consejo de un buen director espiritual. Es perfeccionado a partir de una vida en el Espíritu y en conformidad con la voluntad de Dios en todas las cosas. Cada uno de estos elementos contribuye a un proceso de discernimiento que involucra la espera y la intención perseverante por la manifestación de la voluntad de Dios en la propia vida. *** Il discernimento cristiano ci muove sempre a vivere il vangelo più profondamente nel momento attuale. Comincia con la coscienza e la capacità della persona di distinguere fra il bene e il male ed è aiutato da un regime dedicato alla preghiera e alla penitenza. Approfondisce e fa maturare la vita virtuosa e le comprensioni spirituali ottenute dal sano consiglio di un buon direttore spirituale. È perfezionato da una vita nello Spirito e in conformità alla volontà di Dio in tutte le cose. Ciascuno di questi elementi contribuisce ad un processo di discernimento che coinvolge l’attesa e l’intenzione pazienti per la manifestazione della volontà di Dio nella sua vita. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE À LA LUMIÈRE DE L’ÉCRITURE En marge du récent document de la Commission Théologique Internationale sur la loi naturelle Réal Tremblay, C.Ss.R.* Le récent document de la Commission Théologique Internationale (CTI) sur la loi naturelle encourage les autres religions à tirer de leurs expériences des données en faveur de la loi naturelle1. Il se permet cette recommandation dans le sillage de sa recherche sur le fondement d’une “éthique universelle” à la lumière de la réception thomiste de l’hellénisme2. À côté de cette voie, il y en a d’autres plus étroitement reliées à l’expérience du rapport des croyants à la personne du Christ considérée à juste titre par Vatican II comme la lumière véritable éclairant “le mystère de l’homme”3. Ça et là évoquées par le texte de la CTI, ces voies n’y ont pas été vraiment prises en compte, ni approfondies4. Il * The author is an ordinary professor of moral theology at the Alphonsian Academy. * El autor es profesor ordinario de teología moral en la Academia Alfonsiana. 1 COMMISSION THÉOLOGIQUE INTERNATIONALE, À la recherche d’une éthique universelle. Nouveau regard sur la loi naturelle, Cerf, Paris, 2009, n. 12-17. 2 Est-il nécessaire de signaler que cette recherche est faite naturellement dans le cadre de la tradition chrétienne? 3 GS 22, 1. 4 Je parle ici d’une lecture christique de l’“histoire du salut” qui implique, en plus d’une lecture à deux étapes qui va du commencement à la fin (pratiquement celle du document: cf. n.103s), une lecture inversée de la même histoire qui va de l’“accomplissement” à l’“origine”, lecture apparentée à celle de l’Église apostolique tout imprégnée de la foi pascale (cf. Lc 24, 25-27). Pensons, par exemple, à son interprétation de la figure du “Serviteur souffrant” d’Isaïe. StMor 48/1 (2010) 55-69 56 RÉAL TREMBLAY y a donc place pour une étude en ce sens. Sans parler du fait que, dans la foulée de l’esprit conciliaire à peine évoqué, la personne du Fils de Dieu incarné et ressuscité ne vient pas défigurer l’humanum et son agir moral, mais “modeler” son visage et ses exigences éthiques de manière à ce que tous s’y reconnaissent et aspirent à s’y conformer tellement sont grandes leur dignité et leur destinée5. Je procéderai en trois vagues successives étroitement reliées entre elles. Dans un premier temps, je tenterai d’illuminer les origines de l’homme à partir du Christ. Nous verrons en effet ce dernier se reporter au “commencement” pour dégager et ainsi affermir une structure essentielle de l’humanum et de son agir, structure rendue obscure et donc équivoque par suite des manoeuvres peccamineuses de l’homme dans l’histoire6 (1). Puis, ce sera l’examen, dans la même perspective, d’autres étapes constitutives de l’“histoire du salut” (2) pour finir avec la “plénitude des temps” où nous retrouverons des données rencontrées précédemment, mais, cette fois, assumées, purifiées et surtout accomplies par le Christ (3). 1. L’éclairage christique des origines Commençons notre étude avec un extrait de l’évangile de Matthieu: 3Des Pharisiens s’approchèrent de (Jésus) et lui dirent, pour le mettre à l’épreuve: «Est-il permis de répudier sa femme pour n’importe quel 5 Il est bien entendu que l’humanum et ses lois ne perdent pas leur consistance propre parce qu’elles se trouvent incluses dans l’expérience de foi dans le Christ. Leur statut d’être est analogiquement celui de la nature humaine du Christ. Unie à la nature divine dans la personne du Fils, la nature humaine garde la consistance qui lui est propre. 6 Dans cette lecture inversée de l’histoire du salut, nous rencontrerons à la fois le “Jésus de l’histoire” de la tradition synoptique et le “Christ de la foi” pascale de la tradition paulinienne. Nous verrons que le rôle du second confirme celui du premier. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 57 motif?» 4Il répondit: «N’avez-vous pas lu que le Créateur, dès l’origine (¤π” ¤rch̃j), les fit homme et femme, 5et qu’il a dit: Ainsi donc l’homme quittera son père et sa mère pour s’attacher à sa femme, et les deux ne feront qu’une seule chair? 6Ainsi ils ne seront plus deux, mais une seule chair. Eh bien! ce que Dieu a uni, l’homme ne doit pas le séparer.» 7«Pourquoi donc, lui disent-ils, Moïse a-t-il prescrit de donner un acte de divorce quand on répudie?» 8«C’est, leur dit-il, en raison de votre dureté de coeur que Moïse vous a permis de répudier vos femmes, mais dès l’origine (¤π” ¤rch̃j) il n’en fut pas ainsi. 9Or je vous le dis: quiconque répudie sa femme – pas pour “prostitution” – et en épouse une autre, commet l’adultère» (Mt 19, 3-9). En ce passage, Jésus invite ses interlocuteurs à relativiser les interprétations du statut de l’union de l’homme et de la femme accumulées au cours de l’histoire et à revenir à la vérité du “commencement”. Cette union est indissoluble parce qu’elle fait partie de la volonté de Dieu exprimée dans l’ordre de la création. Par ce retour à l’origine ou par sa relecture, Jésus se situe dans l’orbite de la littérature sapientielle (surtout postexilique) très sensible à la sagesse transcendante de Dieu à l’oeuvre dans la création (cf. Sg 6, 22; 9, 8; Si 15, 14; 16, 26; etc.)7. Il s’attribue implicitement le rôle de la Sagesse créatrice et dévoile une structure foncière de l’humanum et de son agir. 7 Ces textes sont signalés par J. GNILKA, Das Matthäusevangelium, II. Teil (HThKTH., 12/2), Herder, Freiburg-Basel-Wien, 1988, 152. Vient ici spontanément à l’esprit un passage de l’Encyclique de JEAN-PAUL II Veritatis Splendor où il est question des rapports de l’immutabilité de la loi naturelle et de la culture. “Si l’on remettait en question les éléments structurels permanents de l’homme [...], on rendrait incompréhensible la référence que Jésus a faite «à l’origine», justement lorsque le contexte social et culturel du temps avait altéré le sens originel et le rôle de certaines normes morales (cf. Mt 19, 1-9). Dans ce sens, l’Église «affirme que, sous tous les changements, bien des choses demeurent qui ont leur fondement ultime dans le Christ, le même hier, aujourd’hui et à jamais». C’est lui le «Principe» qui, ayant assumé la nature humaine, l’éclaire définitivement dans ses éléments constitutifs et dans le dynamisme de son amour envers Dieu et envers le prochain” n. 53. (C’est le Pape qui souligne). 58 RÉAL TREMBLAY Cette allusion au “commencement” et sa mise en rapport avec le Christ par le Christ lui-même nous reportent presque spontanément à la tradition paulienne où il est affirmé que tout fut créé “dans”, “par” et “pour” le Christ (cf. Col 1, 14-18). Dans un article récent, Chantal Reynier s’est occupée de l’exégèse de ce texte. Étant donné que ce morceau embrasse plus large que les simples normes de l’humanum, j’éviterai d’entrer dans le détails de l’exégèse pour ne retenir que son noyau central particulièrement éclairant pour notre propos. Reynier résume son analyse ainsi: Le développement de la réflexion paulinienne conduit à découvrir que celui qui réconcilie tout est celui en qui tout est créé, non seulement au sein de l’humanité, mais au niveau du cosmos. Le Christ en qui nous avons le pardon des péchés par sa mort et sa résurrection, nous révèle son identité de Fils et ouvre, de façon inattendue, sur le rapport qu’il a à la création. «Tout a été créé en lui [...], par lui et pour lui» (Col 1, 16). La création est contenue dans le Fils, «Premier-Né de toute créature» (Col 1, 15) et «Premier-Né d’entre les morts» (Col 1, 18). En venant en tant que Fils, en cette création, le Christ la réconcilie avec Dieu de l’intérieur du créé, la faisant ainsi entrer dans l’intimité du mystère de Dieu8. Selon cette exégèse donc, la christologie plus avancée de Paul confirme et approfondit le contenu essentiel de la péricope matthéenne sous l’angle qui nous intéresse ici. Le Christ est non seulement l’interprète de tout le créé dans lequel sont naturellement inclus l’homme et l’agir correspondant à son identité; il est cet interprète en tant qu’il en est le Sauveur et, par là, le Créateur. 8 CH. REYNIER, L’eschatologie et la protologie des épîtres aux Colossiens et Éphésiens, dans PATH 7(2009)/2, 273. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 59 2. Le déploiement de l’humanum et des normes de son agir dans le déroulement de l’“histoire du salut” En parlant comme je l’ai fait plus haut de la littérature sapientielle, nous entrons dans le déroulement proprement dit de l’“histoire du salut” qu’il faut maintenant considérer de plus près sous l’angle qui nous intéresse ici. Une autre péricope de Matthieu servira d’introduction à notre réflexion. 1Alors les Pharisiens et des scribes de Jérusalem s’approchent de Jésus et lui disent: 2«Pourquoi tes disciples transgressent-ils la tradition des anciens? En effet, ils ne se lavent pas les mains au moment de prendre leur repas.» – 3«Et vous, répliqua-t-il, pourquoi transgressez-vous le commandement de Dieu au nom de votre tradition? 4En effet, Dieu dit: Honore ton père et ta mère, et Que celui qui maudit son père ou sa mère soit puni de mort. 5Mais vous, vous dites: Quiconque dira à son père et ou à sa mère: “Les biens dont j’aurais pu t’assister, je les consacre”, 6celui-là sera quitte de ses devoirs envers son père et sa mère. Et vous avez annulé la parole de Dieu au nom de votre tradition. 7Hypocrites! Isaïe a bien prophétisé de vous, quand il a dit: 8Ce peuple m’honore des lèvres, mais leur coeur est loin de moi. Vain est le culte qu’ils me rendent: les doctrines qu’ils enseignent ne sont que préceptes humains» (Mt 15, 1-9). Jésus profite du reproche des pharisiens adressé aux disciples de ne pas respecter la “tradition des anciens” touchant les ablutions rituelles pour dévoiler leur hypocrisie prévue par Isaïe et surtout pour leur rappeler l’observance du quatrième commandement du Décalogue qui passe bien avant leur pratique du “corban” dont ils se servent pour contourner la “Loi”. Jésus retourne à cette clause des “Dix Paroles” et au respect inconditionnel qui lui est dû en insistant sur son enracinement dans la “Parole de Dieu” qu’il est lui-même en raison de l’autorité avec laquelle il s’y rapporte9. 9 “Die Tradition des Korban ist (...) als Gegengebot gekennzeichnet. Sie haben das Wort Gottes durch die Tradition aufgehoben. Für Jesus sind Gottes- 60 RÉAL TREMBLAY C’est dire que Jésus fut de quelque manière présent à la marche d’Israël dans le désert et au moment de la proclamation des clauses de l’Alliance sur la montagne du Sinaï (cf. Ex 20, 1-21; Dt 5, 6-22). Et cela nous mène à un passage de saint Paul dont le contenu est en substance le suivant. Pour exhorter les Corinthiens à ne pas succomber à la tentation de l’idolâtrie et à être sujets aux châtiments qui y font suite, Paul leur rappelle l’expérience d’Israël dans le désert. C’est dans ce contexte qu’il évoque le “rocher” (cf. Nb 20, 8) qui, selon une tradition rabbinique, accompagnait les Israélites dans leurs pérégrinations à travers le désert et que les docteurs juifs avaient tendance à identifier à Yahvé (cf. Ps 18, 3). L’Apôtre le spiritualise et l’identifie au Christ: “(Les Israélites) buvaient ... à un rocher spirituel qui les accompagnait et ce rocher c’était le Christ” (1Co 10, 4). Comment comprendre cette présence anticipée du Christ dans l’Ancien Testament? Les dons spirituels dont jouissent aujourd’hui les croyants (baptême et eucharistie) étaient figurés dans l’Alliance ancienne10. Et cette préfiguration d’une certaine manière contenait déjà spirituellement la présence du Christ. Les spéculations sur la Sagesse à coup sûr connues de Paul entrent-elles ici en ligne de compte? C’est probablement le cas et cela d’autant plus que l’Apôtre vit dans la foi au Ressuscité qui pouvaient en activer le souvenir et l’usage. Cette présence du Christ auprès du Peuple dans le désert nous reporte à la péricope johannique bien connue des rapports de Jésus à Abraham. Il y est fait allusion au fameux “Je suis” (e”g6 e„m…) de la manifestation de Dieu à Moïse sur l’Horeb (cf. Ex 3, 14) et du pacte dienst und Dienst an den Menschen unteilbar. Wer meint, Gott zu dienen, indem er lieblos handelt, befindet sich auf dem falschen Weg. Mit Berufung auf den Namen Gottes die Eltern schädigen, ist der Entartung der Religion”. – “Maßgeblich ist der Wille Gottes, der im Liebesgebot seinen klarsten Ausdruck gefunden hat. Auch das 4. Gebot ist eine Explikation des Liebesgebotes. Was immer sich gegen das Liebesgebot richtet, ist verwerflich, widergöttlich, bekämpfenswert” GNILKA, Das Matthäusevangelium, II. Teil, 22. 23. 10 Cf. Ex 13, 21; 14, 22 pour le baptême; Ex 16, 4-35; 17, 5-6; Nb 20, 7-11 pour l’eucharistie. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 61 d’Alliance avec le peuple d’Israël qui s’ensuivit (cf. Ex 20, 1-21; Dt 5, 6-22). Lisons d’abord le texte: 56«Abraham, votre père, exulta à la pensée qu’il verrait mon Jour. Il l’a vu et fut dans la joie.» 57Les Juifs lui dirent alors: «Tu n’as pas cinquante ans et tu as vu Abraham!» 58Jésus leur dit: «En vérité, en vérité, je vous le dis, avant qu’Abraham existât, Moi, je Suis (e”g6 e„m…)» (Jn 8, 56-58). Rudolf Schnackenburg commente: Jésus possède une préexistence réelle dans laquelle est inclus l’être éternel et divin. À la différence de Jean le Baptiste qui ne pouvait guère formuler son témoignage autrement qu’en ces termes pr7to”j mou h’n (1, 15. 30), Jésus parle au présent, ce qui le situe au-delà du temps et dans le présent éternel de Dieu. Cela n’est rien d’inédit pour la christologie johannique du Logos et du Fils. En face de cet Être éternel, Abraham est un homme, qui est entré une bonne fois en ce monde (“il devint” = il est né). Face au patriarche, Jésus jouit ainsi d’une supériorité essentielle, d’une préséance absolue. Dans le contexte du discours (sur la liberté), il ne s’agit pas cependant d’une affirmation métaphysique significative pour (Jésus) lui-même, d’une affirmation christologique “en soi”, mais de la condition de l’assurance du salut pour nous: c’est uniquement comme Fils appartenant depuis toujours à Dieu et “demeurant dans la maison” (v. 3511) que Jésus peut mener à la vraie liberté et donner cette vie victorieuse de la mort (v. 51). La christologie est ordonnée à la sotériologie12. Cette affirmation de la présence de Jésus à tous les temps (ici au temps d’Abraham) en raison de sa préexistence, de son identité éter- 11 L’original renvoie au v.36 qui est de toute évidence une erreur. R. SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, II. Teil (HThKNT., IV/2), Herder, Freiburg-Basel-Wien, 19803, 300. (C’est moi qui traduis et c’est l’auteur qui souligne). 12 62 RÉAL TREMBLAY nelle et divine13 nous permet de le voir présent, non seulement, comme chez Paul, aux diverses étapes de la périgrination d’Israël dans le désert, mais, plus en amont encore, au temps de la proclamation des “dix Paroles” sur le Sinaï. Du reste, toujours selon notre exégète, Jésus s’attribue ailleurs dans le même évangile johannique (8, 26. 28) la formule de la révélation de Dieu à Moïse (cf. Ex 3, 6-15) avec le sens qu’elle prend à cet endroit. À ce propos, Schnackenburg écrit encore: On retrouve aussi dans la reprise de cette parole de Dieu par Jésus l’invitation à l’écouter comme celui en qui le Dieu des pères, le Dieu d’Abraham, d’Isaac et de Jacob, se fait proche (du peuple élu) pour actualiser ses promesses de salut14. Conformément à cette exégèse, on peut tranquillement affirmer avec saint Jean que les clauses du Décalogue qui expriment pratiquement les normes foncières de la “loi naturelle” viennent du Christ toujours à l’oeuvre dans l’affirmation progressive de l’Alliance de Dieu avec son peuple. Cette attention johannique à l’identité proprement divine de Jésus évoque sans contredit les spéculations déjà signalées de la littérature sapientielle. Que l’évangéliste y ait puisé à grandes brassées n’est plus à démontrer. Ce qui importe pour nous dans le présent contexte est de préciser brièvement les traits propres de cette littérature. Il est communément admis parmi les exégètes que la pensée grecque ne peut pas être à l’origine de la doctrine johannique du Logos. Sa racine est plutôt à chercher dans la théologie de la “Parole” développée, dans l’Ancien Testament, à partir des récits de la création, 13 Le sens du présent texte est différent des autres textes johanniques (8, 24. 28) où est également utilisée la formule de révélation (e”g6 e„m…) qui devrait être rapprochée d’Ex 3, 14. Comme dans ce texte de l’Exode, il s’agit, non pas de la révélation de l’être métaphysique de Dieu, mais plutôt de sa fidélité à l’égard d’Israël et de l’assurance de son aide et de sa protection. 14 SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, II. Teil, 301. (C’est moi qui traduis). Cf. aussi Ibid. 253. 256-257. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 63 de l’avènement de la révélation et passant, moyennant les morceaux poétiques, dans la littérature sapientielle du judaïsme tardif. En plus d’être une puissance créatrice et de soutènement pour le monde, elle est une force vivifiante et porteuse du salut. À l’oeuvre dans la création, chez les prophètes et dans la Loi, la Parole a plusieurs fonctions qui peuvent être comparées à celles attribuées au Logos de Jean. Ces observations empruntées à l’étude de Schnackenburg sur l’origine et le spécifique du Logos johannique15 viennent confirmer l’affirmation faite plus haut à partir de l’usage johannique du nom de Dieu révélé à Moïse dans l’épisode du buisson ardent (cf. Ex 3, 14). Le Christ est présent au moment de la proclamation de la Loi et il en est le maître d’oeuvre16. Voilà donc un ensemble de données scripturaires – il y en a d’autres –, qui nous permet d’enjamber le temps sans lui dérober sa consistance. Divin, le Christ parle constamment dans le temps qui précède sa venue incarnée, venue qui contiendra sa parole définitive17. 15 R. SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, I. Teil (HThKNT., IV/1), Herder, Freibug-Basel-Wien, 19794, 259. 16 Il est intéressant de constater que le nouveau document de la CTI s’intéresse à la littérature sapientielle comme lieu d’émergence de la loi naturelle (cf. n. 23). Dans la ligne de sa lecture des commencements à la “plénitude des temps” en vue des rapports raison/Logos et loi, il a la tendance à considérer cette littérature hors de l’histoire du salut et à l’envisager uniquement du point de vue de “l’homme dans le monde”. Il est bien entendu que cette prise de position ne laisse aucune place à la présence anticipée du Christ dans le sens indiqué plus haut. 17 Il serait intéressant de consulter les Pères sur cette question. À propos d’Irénée par exemple, Benats écrit: “Riflettendo a partire dall’affermazione paolina che il fine della Legge è Cristo, Ireneo conclude che Cristo «deve dunque essere stato anche il suo principio» (A.H. IV, 12, 4). Ne trova delle conferme nella Scrittura. Vede nel discendere del Figlio per liberare il popolo afflitto in Egitto una specie di anticipazione della sua “discesa” radicale che è l’incarnazione, in cui in modo visibile e tangibile egli si rende presente fra gli uomini nella loro storia; «dal principio, infatti – sottolinea Ireneo, facendone una chiave ermeneutica della storia precedente all’incarnazione –, il Verbo di Dio si era abituato a salire e discendere per la salvezza di coloro che erano malmenati» (A.H. IV. 12, 4)” B. BENATS, “Qui enim finem intulit, hic et initium operatus est” (A.H. IV, 12, 4). Rilettura della storia a partire dell’evento del Figlio incarnato in Ireneo di Lio- 64 RÉAL TREMBLAY 3. L’accomplissement christique de l’humanum et de ses normes Discontinuité dans la continuité. L’on serait même tenté de dire qu’il n’y a “accomplissement”, comme le mentionne le titre de ce paragraphe, que s’il y a anticipation. Pour achever, il faut qu’il y ait commencement. Jésus ne peut pas achever ce qui ne lui appartient pas depuis toujours (cf. Jn 1, 11). Il est donc venu prendre de son bien esquissé dans les temps de préparation à sa venue incarnée et pascale, la “plénitude des temps”, et porter ce bien à sa pleine réalisation. Ce qui s’applique à toutes les réalités constitutives de l’Ancien Testament vaut à coup sûr pour la Loi ancienne en ces clauses pour ainsi dire essentielles ou “naturelles” telles que présentes au “commencement” et formulées dans le Décalogue. La lecture de l’histoire de l’avant vers l’arrière pratiquée précédemment à partir de diverses traditions néotestamentaires reçoit ici son point de condensation et sa justification. Sur cet ensemble de données, la tradition synoptique en général et l’évangile de Matthieu en particulier restent des points de repère incontournables. C’est donc sur cet évangile que je fixerai mon attention. Pour rester fidèle au but de ce travail, je n’insisterai pas sur l’ampleur du dépassement des normes du Décalogue par celles du “Sermon sur la Montagne”18, mais sur ce qui l’explique et, en fin de compte, sur son origine christique. Comment cela? Commentant le v. 17 du chapitre 5 de Matthieu: “N’allez pas croire que je sois venu abolir la Loi ou les Prophètes; je ne suis pas venu abolir, mais accomplir”, J. Gnilka se demande ce que veut dire l’“idée d’accomplissement”. À ce propos, il écrit: Matthieu lui-même nous aide à comprendre l’idée de l’accomplissement. Au fait, il est évident que l’on a affaire à un contenu complexe. ne, dans PATH 7(2009)/2, 313. Cf. aussi L. F. LADARÍA, Cristo y el misterio de la creacíon, dans M. GAGLIARDI (ed.), Il mistero dell’incarnazione e il mistero dell’uomo, LEV, Città del Vaticano, 2009, 65-85. 18 Dans la foulée du texte biblique, Irénée le décrit avec beaucoup de raffinement. Cf. mon essai: Incarnazione e morale, dans M. GAGLIARDI (ed.), Il mistero, 174-177. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 65 “La Loi et les prophètes” ont chez Matthieu une signification normative. Lorsque les commandements de l’amour de Dieu et du prochain, plus précisément la Règle d’or, représentent pour lui le résumé de la Loi et des prophètes (7, 12; 22, 40), ce sens est désigné. De là, on n’est pas loin de rapprocher l’accomplissement dû à Jésus de sa doctrine en laquelle il ramène la Loi et les prophètes à l’amour de Dieu et du prochain comme à leur essence et leur accomplissement. Cela ne veut pas dire que les commandements individuels auraient perdu leur validité, (...), mais ils restent ordonnés à l’amour, ils en dépendent (22, 40). L’imitation de Dieu en sa perfection dans laquelle débouchent la série d’antithèses n’est aussi rien d’autre que l’amour19. D’après cette exégèse donc, Matthieu nous offrirait la clé d’interprétation de l’“accomplissement” dans le fait qu’il perçoit “la Loi et les prophètes” résumés dans les commandements de l’amour de Dieu et du prochain ou dans la “Règle d’or”. De là, il peut puiser dans l’enseignement de Jésus qui reconduit “la Loi et les prophètes” à l’amour de Dieu et du prochain comme à leur “essence” et à leur “accomplissement”. Le dépassement des clauses du Décalogue s’explique donc par l’amour de Dieu et du prochain. De plus, l’imitation du Père ou la perfection en laquelle aboutissent tous les débordements de la “Loi et des prophètes” n’est qu’un autre nom de cet amour. Implicite à cette exégèse, il y a l’affirmation que Jésus est à l’origine de ce “plus” de la “Loi et des prophètes” à la fois comme celui qui l’annonce, qui y appelle et qui le réalise en sa personne. On pourrait trouver l’écho de ce texte dans la péricope bien connue du “jeune homme riche” dans sa version matthéenne (cf. Mt 19, 16-22). Je me suis déjà occupé de ce passage dans le contexte d’une étude visant à démontrer comment le Christ dilate la loi naturelle après l’avoir confirmée20. Je me contente ici d’y renvoyer pour l’a- 19 J. GNILKA, Das Matthäusevangelium, I. Teil (HThKNT., 12/1), Herder, Freiburg-Basel-Wien, 1988, 143-144. (C’est moi qui traduis). 20 Vous, lumière du monde. La vie morale des chrétiens: Dieu parmi les hommes, Fides, Montréal, 2003, 133-151. 66 RÉAL TREMBLAY nalyse des détails en en retenant cependant quelques lignes qui concernent plus directement l’idée de l’“accomplissement” dont il vient d’être question. Comment se représenter (la) perfection (désirée par le jeune homme)? Comme en Mt 5, 48, elle est liée à la compréhension que Jésus a de la “Loi” et elle concerne la «justice» qui surpasse celle des scribes et des pharisiens (cf. Mt 5, 20). Toute tournée vers celle de Dieu, la perfection requiert, réclame l’être entier et indivisible de l’homme au service de Dieu et des frères. Tout cela doit évidemment descendre dans la vie concrète, y prendre chair. Qu’est-ce à dire? Le «jeune homme riche» doit exprimer le don entier de sa personne en vendant ses biens matériels et en en distribuant les revenus aux pauvres. Dans la situation concrète en laquelle retentit l’appel de Jésus, c’est en cela que consiste le comportement approprié à l’amour des frères résumé de toute la «Loi»21. On retrouve ici l’idée de l’“accomplissement” transposée au niveau de la vie morale du “jeune homme riche” pour prendre, à ce plan, la forme d’un dépouillement total de ses biens pour les frères (commandement de l’amour du prochain) et ainsi la forme d’une marche à la suite de Jésus, le “Pauvre” par excellence qui appelle: “Puis viens et suis-moi” (Mt 19, 21). Il y a donc une présence du Christ à la “loi naturelle” de la création à la “plénitude des temps” en passant par les étapes historiques qui précèdent cette dernière. De quel Christ s’agit-il? Du Christ, tantôt en son identité de Verbe incarné, mort et ressuscité, tantôt comme Verbe, mais toujours rattaché de quelque manière à son incarnation. Dans le Nouveau Testament, la loi naturelle n’est pas délaissée. Elle est dépassée, dilatée en un “plus” qui n’est que l’écho de la présence incarnée et pascale du Fils de Dieu – “il y a ici plus que Jonas... et plus que Salomon” (Mt 12, 41.42) –, Loi qui ne peut se vivre que par la même présence qui appelle et soutient. 21 Vous, lumière du monde, 149. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 67 Conclusion Ce lien du Christ à l’humanum comme à la loi qui le régit a plusieurs avantages. En voici quelques-uns. Il nous protège d’un type de pensée conçue à deux étages où le Christ apparaît comme un ajout à un système rationnel autosuffisant, pensé sans lui, comme aurait pu faire... Aristote qui ne connaissait pas le Christ. Il nous protège ensuite d’un type de pensée qui laisse croire que l’homme peut en définitive se réaliser par ses propres moyens, cultivant ainsi un certain pélagianisme de souche génésiaque où l’homme cède à la tentation de se diviniser par lui-même (cf. Gn 3, 5). Il nous protège encore d’un type de pensée qui, sans apparaître tel, fait abstraction du Christ ou le repousse délicatement en marge du réel alors que, comme dernière “Parole” du Père, il en constitue incontestablement le centre: “En ces jours qui sont les derniers, Dieu nous a parlé par un Fils, qu’il a établi héritier de toutes choses, par qui aussi il a fait les mondes” (He 1, 2). Il nous protège aussi d’un type de pensée qui situe la raison et la foi comme deux réalités parallèles et qui n’arrive plus à établir entre elles un point de rencontre par le truchement d’une raison aspirant au dépassement d’elle-même, ouverte sur l’Infini, ouverture que le rapport au Christ est seul à expliquer et à pouvoir assouvir. Il nous protège enfin d’un type de pensée qui laisse croire que la morale de l’“excellence” n’est qu’une option et que l’homme peut trouver sa pleine réalisation à moindres frais. Une telle voie christique d’accès à la loi naturelle pose la question de son caractère universel. Comment y répondre? Sans remettre en cause la donnée fondamentale de la foi chrétienne d’après laquelle le Christ est la “Norme universelle et concrète” (Balthasar), il est possible d’emprunter d’autres pistes de réflexion comme celle pratiquée par saint Thomas sur la base de l’hellénisme par exemple22. À une 22 Sans préjudice du jugement à porter sur elle et sur le mode avec lequel elle est reproposée dans le document de la CTI. Sur ce point, cf. l’étude de F. MACERI, Il Logos che ama è la legge dell’uomo (à paraître dans Rassegna di Teologia). 68 RÉAL TREMBLAY condition cependant: considérer cette voie et d’autres analogues comme des possibilités parmi d’autres sans atténuer la conviction que la foi dans le Christ et ses exigences éthiques, une fois expliquées dans le sens d’un Dieu présent par amour à l’homme de tous les temps, peut attirer le coeur de quiconque est de bonne volonté. Les deux voies d’accès à la loi naturelle (la voie christique et les autres de type rationnel) sont donc nécessaires. Disqualifier la première ou la relativiser au nom des secondes irait contre l’Écriture, contre la consistance du mystère du Christ et sa capacité de toucher tout homme créé pour aimer et resté sensible à l’amour. La raison d’être de cette étude est de s’opposer à cette tendance. LA VOIE CHRISTIQUE D’ACCÈS À LA LOI NATURELLE 69 SUMMARIES Besides a consideration of life in practice (the Thomistic reception from Hellenism) of the recent document from the International Theological Commission to give a foundation to a ‘universal ethic’ through the discovery and elaboration of the natural law, there are other aspects. One of these is rooted in the experience of faith in the person of Christ, “True light” that illuminates “the mystery of man” (Gaudium et spes, 22, 1). This article wishes to illustrate such an affirmation by proceeding in three stages: reading of the “beginning” by starting from Christ, reading (from the same point of view) of the presence of the humanum in the other phases of the story of salvation and, finally, the assumption, purification and overcoming of the humanum in the person of Christ in the “fullness of time.” *** Además de la vía práctica (la recepción tomista del helenismo) a que hace referencia el reciente documento de la Comisión Teológica Internacional acerca de la fundamentación de ‘una ética universal’ mediante el descubrimiento y elaboración de la ley natural, hay otras vías. Una de ellas se basa en la experiencia de fe en la persona de Cristo, ‘Luz verdadera’ que ilumina ‘el misterio del hombre’ (GS. 22, 1). Este artículo intenta ilustrar una tal afirmación en tres momentos: la lectura del ‘comienzo’ a partir de Cristo, la lectura, desde el mismo punto de vista, de la presencia del ‘humanum’ en otras etapas de la historia de salvación y, finalmente, la asunción, purificación y superación del ‘humanum’ a través de la persona de Cristo en la ‘plenitud de los tiempos’. *** Accanto alla via praticata (la recezione tomista dell’ellenismo) dal recente documento della Commissione Teologica Internazionale per fondare un’“etica universale” tramite la scoperta e l’elaborazione della legge naturale, ve ne sono altre. Una di esse si radica nell’esperienza di fede nella persona di Cristo, “Luce vera” che rischiara “il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes, 22, 1). Questo articolo vorrebbe illustrare tale affermazione procedendo in tre tappe: lettura dell’“inizio” a partire da Cristo; lettura, dallo stesso punto di vista, della presenza dell’humanum nelle altre fasi della storia della salvezza e infine assunzione, purificazione e superamento dell’humanum nella persona di Cristo nella “pienezza dei tempi”. DAL VALORE DI FINALITÀ ALLA FONDAZIONE CRISTOLOGICA DELLA MORALE L’itinerario di Domenico Capone Faustino Parisi* Domenico Capone1, in un brano tratto dalla dissertazione per il dottorato in filosofia Intorno alla verità morale, pubblicato nel lontano 19512, descrive la virtù della prudenza come la chiave di volta della vita morale, per quel suo movimento continuo e sostanziale; virtù formalmente intellettuale ed intimamente e sostanzialmente morale, per ragione della materia che attinge e per il principio che la governa, con lo scopo precipuo di conoscere l’ordinabilità propria degli atti umani e quindi guidare l’azione morale concreta (recta ratio agibilium). La virtù della prudenza, è dunque, quella realtà mediana tra attività e fi- * The author is a professor of moral philosophy at the ISSR in Foggia. * El autor es profesor de filosofía moral en el ISSR en Foggia. 1 Domenico Capone nasce a Siracusa il 3 maggio del 1907. Compie i suoi studi di Filosofia presso la Gregoriana di Roma e presso L’Institut Catholique e la Sorbona di Parigi. Dal 1957 al 1985 è docente di teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma. Muore il 23 giugno del 1995. Per una completa bibliografia su Capone, M. NALEPA – T. KENNEDY (a cura di), La coscienza morale oggi. Omaggio al prof. Domenico Capone, Edacalf, Roma 1987, 15-22; su D. Capone: W. COLMAN MCDONOUGH, The nature of moral truth according to Domenico Capone, Pars dissertationis ad doctoratum, Accademia Alfonsiana, Roma 1990; M. DOLDI, Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori italiani. Bilancio e prospettive. LEV, Roma 2000; A. NIEMIRA, Religiosità e Moralità. Vita morale come realizzazione della fondazione cristica dell’uomo secondo B. Haering e D. Capone, Ed. PUG, Roma 2003. 2 D. CAPONE, Intorno alla verità morale. Excerpta ex Dissertatione ad Lauream in Facultate Philosophica Pontificiae Univeristatis Gregorianae, Napoli 1951. StMor 48/1 (2010) 71-100 72 FAUSTINO PARISI nalità, tra molteplice e uno, luogo nel quale e per il quale la verità si fa vita3. Espressione quanto mai pregnante ed efficace, che salda mirabilmente verità di conoscenza e verità di prassi. Il problema per il cristiano si pone allorquando, da una morale puramente umana, orientata finalisticamente dall’eudemonismo, ossia dalla ricerca della felicità, imperniata sull’utilizzo della virtù dianoetica della prudenza e operante in ambito di ragion pratica, come appunto quella descritta da Aristotele nell’Etica a Nicomaco, si intende passare ad una morale specificamente cristiana che si coniughi cioè con la fede e sia cristologicamente fondata, come richiesto dal Concilio Vaticano II (Optatam Totius n.16)4. Per Capone tale passaggio è possibile se il cristiano riconosce che il valore di finalità è dato alla virtù della prudenza dalla carità del Cristo risorto, signore del mondo, mi- 3 “Qui voglio soltanto discutere qualche aspetto della prudenza, che ha per oggetto la determinazione dei mezzi da eleggere. Questa virtù formalmente intellettuale, è intimamente, o con maggiore esattezza, sostanzialmente morale, per ragione della materia che attinge e per il conoscere la ordinabilità propria degli atti umani e secondo tale ordinabilità, come è conosciuta, intimare prudentemente o come dice il Vasquez, “insinuare” in tali atti l’attuosa e attuale tendenza al fine. Perciò essa è definita: recta ratio agibilium. Ed appare con chiarezza come tra attività e finalità, tra molteplice ed uno essa sia la chiave di volta della vita morale, cioè della verità che si fa vita. Per questo non si può non affermare in forma categorica il primato della prudenza in Morale, purché tale virtù non si svuoti del suo valore morale, cioè del valore di finalità e quindi dell’amore del fine che deve pervaderla” (D. CAPONE, Intorno alla verità morale, 20). 4 “Etica o etica cristiana?” è questo, infatti, il titolo di un saggio-dispensa di Capone sul problema di un’etica specificamente cristiana. Egli afferma che “non si tratta di alternativa tra due proposte di etica, ma di due espressioni, per sapere quale delle due risponde alla realtà esistenziale: l’etica che prescindendo dalla dottrina e presenza del Cristo, deduce le norme del comportamento dalla fenomenologia morale esistenziale, dalle concezioni filosofiche, dalla definizione scolastica dell’uomo, come animal-rationale, oppure l’etica cristiana che nella proposta e presenza del Cristo integra l’etica dei filosofi, o meglio della gente comune e ne risolve le mille aporie, e così dà certezza all’uomo, ad ogni uomo? Noi vedremo che l’etica, se vuole esser proposta di umanesimo integrale, senza residui, non può non essere e dirsi cristiana” (D. CAPONE, Etica o etica cristiana?, c.c., 1973, 7). L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 73 stero dell’amore paterno di Dio, finis finium, principio e fine di tutta la vita cristiana, ed éskaton che anima l’opzione fondamentale buona. Un procedimento presente, anche se non totalmente compiuto, già in grandi moralisti come S. Agostino, S. Tommaso e S. Alfonso5, e ancora oggi, uno dei punti nevralgici, non risolti di molta teologia morale contemporanea, afferma Capone, che così prosegue: “più volte abbiamo sottolineato l’originalità della vita morale cristiana come tensione escatologica del nostro essere, personificato in Cristo; tensione che deve essere vitale sintonia con la tensione dell’essere filiale del Cristo; il quale si pone come mistero dell’amore paterno di Dio e quindi come storia di salvezza dell’umanità, da trasformare in ecclesiale regno di Dio”6. Di conseguenza la bontà e la verità dell’atto morale, non può, in prima battuta, essere messa in relazione formale con l’ordine ideale, con un ordine morale oggettivo, pretesa di stoici e molti scolastici, bensì in sintonia vitale con la realtà misterico-storico-salvifica del Cristo risorto e Signore del mondo. “Questa sintonia è tensione escatologica, scandita da progressiva e sempre più profonda risoluzione dell’esistere e dell’agire spazio-temporale nel nostro essere in Cristo”7. Soltanto così si potrà superare quel finalismo intenzionale ed eudemonistico, in favore di un finalismo, “sacramentale nel suo dinamismo antropologico ed escatologico nel suo realizzarsi ecclesiale e cosmico”8, che più compiutamente esprima la novità assoluta dell’evento Cristo e dia alla morale cristiana una specificità, non sempre altrimenti riconoscibile. 5 “Nell’ordine soprannaturale e quindi nella scienza teologica della vita morale questo valore di finalità è dato alla prudenza dalla carità per cui la prudenza del cristiano è nettamente distinta e superiore alla prudenza umana. La grande intuizione ed azione scientifica di S. Alfonso, in continuità perfetta con S. Tommaso, è proprio nell’aver sottolineato il valore di finalità e quindi di carità che è e deve essere nella prudenza e nella vita morale” (D. CAPONE, Intorno alla verità morale, 20). 6 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, principio di valore della vita morale, c.c., (1969) 93. 7 Ivi. 8 Ivi. 74 FAUSTINO PARISI Seguire le tracce di questo passaggio, proposto da Capone, è come ripercorrere l’intero arco del suo trentennale insegnamento all’Accademia Alfonsiana, purtroppo rintracciabile, in massima parte, nei numerosi corsi ciclostilati, ad uso interno degli studenti, in tutto 32 che coprono un lasso di tempo dal 1957 al 19859, nei pochi testi pubblicati10, in alcune raccolte miscellanee11 e nei vari articoli appar19 Dei corsi ciclostilati segnalo quelli consultati per la presente ricerca: Introductio in theologiam moralem S. Alfonsi (1958), 55 p.; De supremo principio valoris conscientiae christianae secundum doctrinam S. Alfonsi (1959), 64 p.; De prudentia atque conscientia (1960), 108 p.; De prudentia et de conscientia (1965), 77 p.; De fine ultimo. De caritate, seu de principio valoris moralis actus humani (1961), 105 p.; De caritate Dei finis ultimi vitae moralis in Christo (1963), 140 p.; De caritate Dei in Mysterio Christi ut principio valoris vitae christifidelis (1967), 69 p.; Introductio generalis in theologiam spiritualem de perfectione caritatis (1961), 113 p.; De theologia spirituali seu de perfectione caritatis (1961 e 1963), 50 + 98 p.; Disegno di una teologia morale fondamentale della vita cristiana intesa come vita di unione sacramentale con Cristo (1968 e 1970), 60 p.; Prudenza e coscienza in situazione (1968), 237 p.; Cristo, mistero della carità di Dio, principio di valore della vita morale (1969 e 1972), 100 p.; La vita in Cristo: vita di fede-carità-speranza in Dio (1969), 171 p.; Note di introduzione alla teologia morale (1971), 305 p.; La persona dell’uomo nell’essere, nell’esistere, nell’agire morale in Cristo (1972), 345 p.; La scienza morale, la prudenza e la coscienza morale in situazione, nell’economia del Mistero del Cristo (1972), 72 p.; Etica o etica cristiana? (1973), 241 p.; Introduzione alla teologia morale (1976), 334 p.; Dalla scienza alla coscienza morale. Mediazione ermeneutica della prudenza (1977), 207 p.; Introduzione alla teologia morale: scienza, coscienza e Mistero del Cristo (1978), 520 p.; Introduzione alla teologia morale (in coll. Majorano, 1985), 101 p. 10 D. CAPONE, Teologia morale fondamentale, ed. Ut Unum Sint, Roma 1971; Introduzione alla Teologia Morale, EDB, Bologna 1972; L’uomo è persona in Cristo. Introduzione Antropologica alla Teologia Morale, EDB, Bologna 1973; S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso sviluppo e attualità, Edacalf, Roma 1997. 11 D. CAPONE, Pastoralità, prudenza e coscienza, in AA.VV., Magistero e morale, Ed. Dehoniane, Bologna 1970, 347-389; Teologia morale e storicità della persona: la storicità è incontro di ontologia e di economia del mistero pasquale del Cristo, in AA.VV., Fondamenti biblici della teologia morale (Atti della XXII settimana Biblica, Paideia, Brescia 1873, 45-60; Sistemi morali, in AA.VV., Dizionario Enciclopedico di teologia morale, Ed. Paoline, Roma 1973, 941-948; Prudenza e verità di coscienza in situazione, secondo S. Tommaso, in AA.VV., Tommaso d’Acquino nel suo VII. L’agire morale, Dehoniane, Napoli 1977, 409-420; Correlazione tra Diritti e Do- L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 75 si su Studia Moralia e altre riviste teologiche12. Ciò che impressiona in tanta produzione scientifica e divulgativa è la coerenza e la sistematicità di pensiero, che anticipa il dibattito filosofico e teologico, di questi anni, teso a rivisitare le tematiche aristoteliche e tomiste, anche se non proprio o non sempre in una mera ripresa di scuola13. Un’altra delle caratteristiche dei corsi del prof. Capone è, poi, la loro organizzazione, solitamente suddivisa in tre parti. La prima è occupata dal riferimento costante alla filosofia greca, in particolare Aristotele, Stoicismo e Neoplatonismo. Tanta attenzione alla filosofia (per alcuni suoi allievi eccessiva e assai poco rilevante dal punto di vi- veri, in AA.VV., Diritti umani. Dottrina e prassi, AVE, Roma 1982, 783-801; Il rinnovamento dell’insegnamento della teologia morale secondo il Vaticano II. Iter del Decreto O. T. n.16, in AA.VV., Parola Spirito (Studi in onore di Settimio Cipriani), vol II, Paideia, Brescia 1982, 1221-1246; Cristocentrismo in teologia morale, in L. ALVAREZ VERDES – S. MAJORANO (a cura di), Morale e Redenzione, Edacalf, Roma 1983, 65-94; Teologia morale e carità, in AA.VV., Atti del I convegno teologico pastorale su Carità: ermeneutica e metodologia, Dehoniane, Bologna 1987. 12 D. CAPONE, “Antropologia, coscienza e personalità” in StMor 4 (1966) 73113; “Cristo speranza dell’uomo”, in StMor 7(1969) 57-117; “Il mistero del Cristo e la fondazione della teologia morale”, in Asprenas 16 (1969) 331-356; “Ritorno a S. Tommaso per una visione personalistica in teologia morale”, in RTM 1 (1969) 85-103; “La verità nella coscienza morale, in StMor 8 (1970) 7-36; “Intorno alla norma morale”, in StMor, 17 (1979) 123-150; “La Teologia morale in Italia, oggi”, in StMor 18 (1980) 5-32; “Per la teologia della coscienza cristiana”, in StMor 20 (1982) 67-92. 13 Cfr. P. CARLOTTI (a cura di), Quale filosofia in teologia morale?. Las, Roma 2003; G. ABBÀ, Felicità vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Las, Roma 1995; ID., Quale impostazione per la filosofia morale. Ricerche di filosofia morale – 1, Las, Roma 1996; ID., Costituzione Epistemologica della filosofia morale. Ricerche di filosofia morale – 2, Las, Roma 2009; R. CARSILLO, Il problema morale in MacIntyre, Levante, Bari 2000; J.-L. BRUGUÈS, Corso di Teologia morale fondamentale. La felicità orizzonte della morale, vol. 5, ESD, Roma 2007; D. J. BILLY-T. KENNDY (a cura di), Some Philosophical Issues in Moral Matters. The collected Ethical Writings of Joseph Owens, Edacalf, Roma 1996; W. KLUXEN, L’etica filosofica di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2005; G. SAMEK LODOVICI, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2007; M. COZZOLI, Per una teologia morale delle virtù e della vita buona, LUP, Roma 2002; ID. Etica teologale. Fede carità speranza, ed. San Paolo, Roma 20094. 76 FAUSTINO PARISI sta teologico14), è, per Capone, motivata dal fatto che se anche l’enucleazione teologica della dottrina morale evangelica, di per sé, non è legata ad alcuna filosofia, in quanto la speculazione e quindi la presentazione dell’unica e universale verità sono molteplici e variano secondo le culture, “i primi Padri e scrittori ecclesiastici che si diedero alla presentazione colta della dottrina morale cristiana, si avvalsero: alcuni delle categorie stoiche, altri delle categorie neoplatoniche; finalmente nel Medio Evo i teologi fecero largo ricorso ad Aristotele”15. Il futuro, con l’evidente e dilagante pluralismo culturale e lo sviluppo delle scienze umane, potrà offrire all’unica verità diverse vie di approfondimento e presentazione, e sarà un compito assai arduo per le future generazioni di teologi, chiosa Capone16. La parte centrale dei corsi è dedicata all’analisi del pensiero dei grandi teologi moralisti, da S. Agostino a S. Tommaso e S. Alfonso, con vari excursus sulla storia della teologia morale. L’ultima parte è riservata alle conclusioni, che offrono una panoramica del dibattito attuale, per poi sfociare nella proposta di una fondazione cristologica della morale cristiana, oramai “parte del “novum” che tutta l’Accademia persegue, in attualizzazione del “novum” proprio del “Christus in nobis” (Cf. Col 1, 27) e del suo Spirito che, sempre prendendo dal Cristo (Gv 16, 1415) rinnova la faccia della terra”17. In sostanza un progetto di riforma della teologia morale e soprattutto del suo insegnamento nei se14 “In publica disputatione quae habita fuit die 7 mai 1966 in Aula magna Academiae alphonsianae, quamque promovit Associatio studentium Academiae et in actis “Dialogo” a. I, n. 2 relata est diximus initium non solum totius studii seminaristici (cf. Dialogo n. 2 pp. 10-11, 23) sed etiam nostri cursus de caritate faciendum esse in posterum a Mysterio Christi. Diximus ibi: Anche io nei miei corsi finora ho cominciato preteologicamente dal fine, venendo poi alle nozioni di carità, per finire quindi col Mistero del Cristo. Ma alcuni di voi mi han detto che sarebbe stato meglio cominciare col Cristo, perché solo lì ci si orienta in pieno. Credo che questi suggerimenti debbano prevalere, almeno quando si parla a seminaristi o sacerdoti. Altro è quando si parla a non credenti (Ibid., p. 28)” (D. CAPONE, De caritate Dei in Mysterio Christi, 1). 15 D. CAPONE, Cristo mistero della carità di Dio, 99. 16 Cfr. D. CAPONE, Cristo mistero della carità di Dio, 99. 17 D. CAPONE, “Per la teologia della coscienza cristiana”, StMor 20 (1982) 67. L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 77 minari e nelle facoltà teologiche, che Capone si prefigge di realizzare fin dall’inizio del suo percorso di ricerca teologica e di docenza universitaria, suddiviso idealmente in tanti capitoli di un manuale mai scritto, ma ben chiaro alla sua mente: l’uomo come persona in persona Christi; il tema della prudenza in generale come recta ratio e della prudenza cristiana come decisione del qui ed ora nella tensione escatologica del Cristo risorto; la posizione centrale della coscienza, intimo e inviolabile luogo di decisione morale della persona in dialogo con Dio; la rivalutazione della teologia morale, casistica, sapienziale e cristica, così come intesa da S. Alfonso18. Nella presente ricerca si è tenuto conto della suddivisione della teologia morale, proposta dal prof. Capone, nei suoi corsi all’Accademia, che, come lui stesso afferma, affrontano pre-teologicamente il tema del fine dell’azione morale, per addentrarsi in una morale più specificamente cristiana, attraverso le nozioni di carità, e concludersi nella tensione escatologica del Mistero del Cristo risorto19. I tre paragrafi 18 “Che cosa pensare della teologia morale di S. Alfonso nel campo ampio e completo della sua dottrina e prassi spirituale? Fu questa la domanda per la quale già negli anni 1943-1953 iniziai un tentativo di risposta, procedendo analiticamente per vari settori. Che cosa pensare della teologia del santo nel campo dei moralisti casisti; e quindi che cosa pensare della teologia morale in sé, della sua fondazione sul Mistero del Cristo; della virtù della prudenza; della dottrina della coscienza? Sono queste le domande alle quali ho cercato di rispondere dal 1957 ad oggi, rinnovando ogni anno schemi di lezioni e di dispense. Ricordo qui alcuni punti che mi sembrano significativi, cioè: 1) l’agire morale come espressione vitale e dinamica della densità di essere di persona nell’uomo; 2) la prudenza come “recta ratio” sapienziale ed esistenziale “agibilium” in situazione e sua verità in giudizio di coscienza retta; 3) la “prudenza cristiana” come “dokimazein” della tensione “escatologica” del Cristo risorto in noi quale Mistero del Padre, presente in noi col suo Spirito di risurrezione ed emergente come chiamata, o volontà di Dio cioè come “kairos” in ogni situazione concreta, nostra e nella storia; 4) la coscienza morale come interiorità profonda dove la persona si incontra con Dio che lo chiama e come giudizio di valore in situazione; 5) che cosa era la teologia morale sia casistica che sapienziale-cristica secondo S. Alfonso” (D. CAPONE, “Per la teologia della coscienza cristiana”, in StMor 20 (1982) 71-72). 19 Cfr. D. CAPONE, De caritate Dei in Mysterio Christi, 1. 78 FAUSTINO PARISI in cui è stata suddivisa ripropongono, anche nella terminologia, lo stesso schema: 1. Sul finalismo in filosofia e teologia morale; 2. Sul valore di finalità dato alla prudenza dalla Carità del Padre per mezzo del Cristo; 3. Sul Cristo risorto, kairos del tempo: dal finalismo intenzionale al finalismo escatologico. 1. Sul finalismo intenzionale in filosofia e teologia morale 1.1. Saggezza, prudenza e felicità in Aristotele E. Berti, ordinario di Storia della Filosofia nell’università di Padova, e noto studioso di Aristotele20, nel riproporre l’attualità del tema della prudenza aristotelica, preferisce utilizzare al suo posto il termine di saggezza21, perché meglio renderebbe quella che è l’attività tipica di questa specifica e fondamentale virtù dianoetica. Di questa virtù (aretè) 22 va evidenziato l’aspetto assolutamente pratico, 20 Tra le sue pubblicazioni: La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1962; Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987; Le ragioni di Aristotele, Laterza, Bari 1989; Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992; Aristotele, Laterza, Bari 1997; Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, Milano 2004; Nuovi studi aristotelici I: epistemologia, logica, dialettica, Morcelliana, Brescia 2004; In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della Filosofia Antica, Laterza, Bari 2007; Guida ad Aristotele, Laterza, Bari 2007; Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 2008. 21 “Tutti i dizionari lo spiegano come una forma di cautela, cioè come una disposizione implicante attenzione alle conseguenze delle proprie azioni, e quindi in generale una certa esitazione, o lentezza” (E. BERTI, Nuovi studi aristotelici. Filosofia pratica, vol. 3, Morcelliana, Brescia 2008, 61). 22 “Arete, virtù, indica l’eccellenza di un ente o di una attività svolta da un ente. Il senso del termine greco è lontano dal significato di ‘virtù’ nella nostra lingua, ‘disposizione d’animo volta al bene’. Come Omero parlava dell’arete del cavallo che consiste nel ben correre, così Aristotele parla della arete dell’occhio che consiste nel vedere bene. In generale Aristotele afferma, “ogni virtù ha l’effetto di portare alla buona realizzazione ciò che è virtù e di far sì che egli eserciti bene la sua opera (ergon)” (C. NATALI, Etica, in E. BERTI (a cura di), Guida ad Aristotele, 247); cfr. M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Laterza, Bari 1989, 158-217. L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 79 che la tiene a debita distanza sia dalla metafisica che dalla stessa filosofia pratica o filosofia della praxis23. Per Aristotele le virtù dianoetiche, virtù per eccellenza della ragione o della parte razionale dell’anima, sono la sophia, o sapienza, e la phronesis, o saggezza-prudenza. La prima, la migliore delle scienze, conosce i principi primi di tutte le cose, “le cose che non possono essere differentemente”, la seconda, è un sapere pratico che ha come oggetto e come fine la prassi umana, cioè l’azione morale, ossia “quelle realtà che possono essere anche differentemente”. La sapienza delibera, decide e quindi sceglie i mezzi per raggiungere un fine buono, connesso al fine ultimo che è la felicità. Da questo punto di vista la phronesis, ossia la prudenza, non potrà mai essere per Aristotele né una scienza come la matematica, appunto perché non fa dimostrazioni, né tanto meno un’arte, perché non produce altro da sé. L’agire moralmente buono è un’azione fine a se stessa, che ha, cioè, come fine la bontà dell’azione. Non a caso la realizzazione migliore di questa virtù Aristotele la vede nell’uomo politico (e al suo tempo proprio nell’ateniese Pericle), ossia in chi è chiamato a realizzare il bene della comunità di cui gli è stato affidato il governo. Il politico non potrà mai essere un filosofo, come voleva Platone, o un poeta o un intellettuale, ma un uomo d’azione, capace, cioè, di vedere che è bene per lui e per gli uomini in generale, di amministrare uno stato come si amministra una famiglia. Quindi per Aristotele, contrariamente a Kant, nessu23 La prudenza, non va confusa con la filosofia pratica, ammonisce E. Berti. Una tocca la sfera della morale individuale e della coscienza, l’altra la filosofia della prassi: la saggezza o prudenza è lo strumento concreto di guida dell’azione morale, strettamente collegato alla coscienza personale o anche di gruppo, mentre la filosofia pratica è un insieme di riflessioni argomentative e non prescrittive sulla prassi, fatte proprie anche dalla scienza politica e dall’economia (Cfr. E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989, 113-139; ID., “Saggezza o Filosofia pratica?”, in Etica & Politica / Ethics & Politics, 2 (2005) 113; F. VOLPI, “La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità” in Il Mulino 35 (1986) 928-949; C. PACCHIANI, Che cos’è la “Filosofia pratica?”, in D. VENTURA, Giustizia e Costituzione in Aristotele, Franco Angeli, Milano 2009, 7-45. 80 FAUSTINO PARISI na funesta separazione tra etica e politica, tra etica della felicità e azione politica24. Nell’impostazione eudemonistica della morale aristotelica centrale è il riferimento al principio di finalità, ossia a quell’orientamento al bene e alla felicità che segna e caratterizza ogni azione morale. Capone chiama questo orientamento intenzionalismo (di qui anche il termine di finalismo intenzionale)25, che in morale assume e presenta concettualmente il bene, nella sua duplice veste di fine da intendere e mezzo da eleggere per quel fine. Se ne parla esplicitamente nel primo libro dell’Etica a Nicomaco: ogni uomo, nell’agire, tende costantemente alla felicità, come a suo fine ultimo, e pone la felicità quale ragione ultima di ogni attività e della sua stessa vita. In tutti è vivo il desiderio della felicità. Ma cosa si intende per felicità? La risposta aristotelica è complessa e oscilla tra un contenuto concretissimo ed una lettura intellettualistica. Afferma Berti: è “abbastanza plausibile che la felicità consiste anzitutto nello svolgere le proprie funzioni naturali, per esempio nutrirsi, svilupparsi, esercitare i sensi, muoversi, parlare, dialogare, fare all’amore, fare ricerca”, ma “il bene dell’uomo, cioè la felicità, consiste nell’agire secondo virtù, cioè nel compiere in modo eccellente la funzione propria dell’uomo, che è connessa all’esercizio del logos, e se le virtù sono molte, secondo la migliore e la più perfetta”26. In so- 24 “Qui siamo, come si vede, agli antipodi dell’etica kantiana, individualista e irresponsabile; il vero saggio è il politico, l’uomo che realizza il bene della comunità di cui gli è affidato il governo” (E. BERTI, Nuovi studi aristotelici, 67). 25 Il dinamismo intenzionale sarebbe determinato dal “bene presente in noi solo intenzionalmente. Cioè da una realtà estrasoggettiva, che echeggiando nel nostro interno come nostro bene, diventa presente in noi non con la sua realtà esistenziale individuale, ma con una realtà concettuale, con una intentio, che è quasi una fotografia ideale dentro di noi, secondo una particolare angolazione ottica, che rivela la convergenza viva di noi e della cosa estrasoggettiva. Per questa convergenza la cosa appare come bene e come valore che ci attrae. Si tratta quindi di una presenza intenzionale, per cui una realtà estrasoggettiva entra nel soggetto e si pone allo stato di oggetto attraente verso la realtà che è fuori” (D. CAPONE, Cristo mistero della carità di Dio, 95). 26 E. BERTI, Saggezza o Filosofia pratica?, 10. Stesso punto di arrivo della riflessione di Capone: “Eliminando tutti gli altri beni inadeguati alla felicità vera L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 81 stanza sia Capone che Berti concordano nell’affermare che “la vita teoretica è il culmine della felicità, ma questa include tutte le altre virtù in cui si esercita il logos, in particolare la philia (che non è solo l’amicizia, ma ogni forma di affetto)”27, alla quale Aristotele dedica quasi un quinto dell’intera Etica a Nicomaco28. 1.2. Il finalismo morale nello Stoicismo e nel Neoplatonismo Di finalismo intenzionale è intessuto anche lo Stoicismo e il Neoplatonismo, più volte fatti oggetto di studio dal prof. Capone29. Le tesi dello Stoicismo sono note alla storia della filosofia, dalla sua origine greca, che identifica fisica, logica e morale, alla rilettura roma- dell’uomo, egli la pone nell’atto più elevato dell’uomo: la speculazione della verità” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 100). La felicità per Aristotele, spiega G. Reale, non può consistere né nei piaceri della carne, né nella ricerca di onori, né nella ricchezza, ma neppure nella ricerca di un “trascendente Bene-in-sé, perché in tal caso, è evidente che non sarebbe realizzabile né acquisibile per l’uomo” come pretendeva Platone. “Il bene dell’uomo” e quindi la sua felicità, “non potrà che consistere nell’”opera” che gli è peculiare, cioè in quell’opera che egli ed egli solo sa svolgere”, ossia “quella della ragione e l’attività dell’anima secondo ragione”, senza però trascurare i beni materiali che se anche “non possono dare la felicità, la possono tuttavia guastare o compromettere (almeno in parte) con la loro assenza”(cfr. G. REALE, Aristotele, Laterza, Bari 19864, 104-106). 27 E. BERTI, Saggezza o Filosofia pratica?, 11. 28 Questa sintesi mirabile raggiunta da Aristotele e fatta propria da san Tommaso sembra essersi dispersa, per Capone, nelle tesi, ad esempio, di uno “Scoto, ma anche di molti tomisti, che risalirono verso la concezione intellettualistica della prudenza. Così la ratio recta fu da alcuni logicizzata, da altri giuridizzata, e la coscienza fu ridotta a semplice singolarizzazione del dato scientifico o giuridico” (D. CAPONE, Cristo Mistero della carità di Dio, 103). E, cosa ancora peggiore, in teologia morale, “logicizzando l’intenzionalismo finalistico della situazione (contro Aristotele e S. Tommaso) ne ha reso più difficile la comprensione come kairòs escatologico, nel mistero del Cristo” (Ivi, 103), precludendosi di fatto il passaggio all’intenzinalismo escatologico. 29 D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 17-21; De caritate Dei in Mysterio Christi, 11-12; Cristo, mistero della carità di Dio, 103-109. 82 FAUSTINO PARISI na, più attenta alla civis e alla sua dimensione giuridica30. Capone ne evidenzia spesso gli influssi negativi sulla teologia e in particolare sulla teologia morale, a partire soprattutto dal XIV secolo31. A suo avviso furono proprio gli stoici che, affermando l’unità costitutiva e la razionalità di tutta la realtà, ossia la comunione profonda di logica e natura e di logica e fisica (scienza di tutta la realtà), “razionalizzarono la chiave della vita morale: la coscienza e il finalismo che unisce e fonde coscienza e realtà”32 e logicizzarono l’intenzionalismo. Così il famoso detto del vivere secondo natura, teorizzato per la prima volta dagli stoici, e ripreso oggi, anche se non proprio allo stesso modo, da certa divulgazione scientifica, con venature romantiche, non è un invito ad una vita semplice e sana, a contatto con la natura, ma un preciso e deciso riferimento ad un rapporto con una natura “dinamizzata dal logos spermatikos”33, alla quale si è indissolubilmente assoggettati. La coscienza è, per gli stoici, attraversata da un telos, immanente nella natura, presente come ortos logos, ossia come eco della legge cosmica, che orienta e guida l’azione morale. Una legge di provenienza, perfino divina, come afferma Cicerone34. Obbedire ad una legge ci30 Afferma Capone che “sarebbe errore parlare univocamente dello stoicismo morale, che varia di età in età e dalla Grecia a Roma. Comunque, mentre nello stoicismo greco predomina il fisicismo, per cui fisica, logica, prudenza e coscienza si identificano nel radicale logos spermatikos cosmico, nello stoicismo romano predomina il civismo, identificato con la romanitas; la recta ratio o legge cosmica diventa la ratio recta summi Jovis (Cicerone, De Legibus 1. II, c. IV), lex sempiterna, e la prudenza diventa giurisprudenza” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 105). 31 “Quando dal secolo XIV in poi l’essenzialismo, allontanandosi dalla sintesi di S. Tommaso, rielaborerà l’oggettivismo fisicista di derivazione stoica, e la natura sarà essenzializzata, con conseguente essenzializzazione della legge naturale e del fine naturale, l’intenzionalismo a carattere piuttosto logico, si riaffermerà in etica. Il giuridismo si svilupperà invece sulla linea segnata dall’umanesimo e darà luogo ad un nuovo casismo” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 106). 32 Ivi, 103. Cfr. D. CAPONE, “Antropologia, coscienza e personalità”, in StMor 4 (1966) 85-87. 33 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 104. 34 Afferma Cicerone: “Vi era infatti una norma, derivata dalla stessa natura, che spinge al ben fare e tiene lontani dal delitto, la quale non incomincia ad es- L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 83 vile, così intrecciata di umano e di divino, è obbedire a Dio stesso, al sommo Giove, garante supremo della legge, e “rector Romae”35. Solo le passioni possono in qualche maniera minare questo idilliaco rapporto di coscienza-natura-legge universale-legge civile. Le passioni, per la loro caratteristica di illogicità e di stravolgimento dell’ordine universale e particolare, impediscono all’uomo il riconoscimento di quest’ordine universale e la realizzazione dei suoi dettami. Unico rimedio contro le passioni rimane l’ascetica, sinonimo di ragione e di guida razionale dell’agire umano, e quindi di a-patia cioè di non-azione, più che di azione morale tesa alla purificazione dal male. “Scopo principale dell’ascetica stoica è la apathenia, l’impassibilità; e virtù ascetica fondamentale è la sophrosyne, la mens sana”36, un tema, questo della virtù della temperanza (sophrosyne), presente anche in Aristotele37. Infine rettitudine morale e rettitudine di giudizio, sere legge solo nel momento in cui viene scritta, ma fin da quando è nata. E precisamente essa ebbe origine insieme all’intelletto divino. Motivo per cui la prima e vera legge, efficace nel comandare e nel proibire, è la retta ragione del sommo Giove” (De Legibus, L. II, c. X). 35 Il pius romano è, dunque, colui che osserva le leggi della civis. Così facendo potrà pervenire alla beatitudine dopo morte, avendo compiuto i propri doveri di onesto cittadino Di qui anche il tema dell’amor patriae, una delle caratteristiche del civis romanus (Cfr. Cicerone, De Repubblica, L. VI, cc. VII-VIII, cit. in D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 17). 36 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 104. 37 “«Per questo motivo attribuiamo alla temperanza questo nome, perché salva la saggezza». In greco temperanza si dice sophrosyne, che con un gioco di parole Aristotele interpreta come ciò che «salva» (sozei) la phronesis. Ciò significa che, se uno non è temperante, cioè non sa dominare i desideri, per esempio il desiderio di denaro, o di piaceri in genere, non può nemmeno essere prudente, cioè saper deliberare la scelta dei mezzi più adatti a realizzare il fine buono. Aristotele infatti aggiunge: «La temperanza salva il giudizio saggio; in effetti non è che il piacere e il dolore distorcano ogni tipo di giudizio (per esempio quello che il triangolo ha o non ha la somma degli angoli interni uguale a due angoli retti), bensì soltanto i giudizi che riguardano l’azione. Infatti i fini delle azioni sono le azioni stesse: a chi è corrotto dal piacere o dal dolore non è più manifesto il principio, né che è in vista di questo o per causa sua che deve scegliere e fare tutto ciò che sceglie e fa: il vizio infatti distrugge il principio dell’azione morale»” (E. BERTI, Nuovi studi aristotelici, 63). 84 FAUSTINO PARISI non sono più frutto di virtù, né di accordo tra appetito retto e recta ratio, come era nell’impostazione aristotelica, ma, ancora una volta, sintonizzazione con la legge, cosmica e universale. Per Capone si può smascherare, così, l’origine stoica di molte affermazioni, oggi tanto diffuse nel comune sentire cristiano, come, ad esempio, quella dell’esistenza di un ordine morale oggettivo, che avrebbe in Dio creatore il suo fondamento e orientamento ultimo38; quella di una legge naturale, che reggerebbe l’universo, costante riferimento per la vita e l’azione degli uomini39, e quella delle cosiddette evidenze etiche, che, imponendosi di per sé, finiscono con lo svalutare l’azione della coscienza morale40. In tutte queste affermazioni ciò che si perde immediatamente è la realtà stessa della persona umana, imago Dei, che passa in secondo piano, come schiacciata da tanta oggettività e impersonalità di leggi e di doveri. L’uomo nella visione cristiana, invece, non è più singolo o individuo autoreferenziale, come voleva lo stesso Aristotele, non è un “semplice organo della natura cosmica”41, come affermano gli stoici, ma è persona, chiamata, in Gesù Cristo, ad una particolare modalità di incontro e di comunione filiale con il Padre42. Di tutt’altro avviso sono i neoplatonici, che ripropongono l’antico dualismo, di anima e corpo, spirito e materia, mescolato a miti misterici e teorie gnostiche. Il finalismo neoplatonico ha un solo scopo, un telos nella vita che si acqueta solo nell’estasi, ossia nell’unione con 38 Cfr. D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, EDB, Bologna 1972, 41-42. 39 Cfr. D. CAPONE, L’uomo è persona in Cristo, 92-103; ID., “Antropologia, coscienza e personalità”, in StMor 4 (1966) 85-87. 40 Cfr. D. CAPONE, “La verità nella coscienza morale”, in StMor 8 (1970) 12-15. 41 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 105. 42 Va però riconosciuto agli stoici, afferma ancora Capone, il merito del superamento di quella specie di aristocrazia filosofica, pur presente in Aristotele e di una concezione delle realtà materiali e terrestri, del tutto degradata, com’era nella visione platonica. Non c’è disprezzo del corpo o delle realtà terrestri presso gli stoici, ma solo necessità di garantire luminosità alla coscienza per riconoscere il bene assoluto, reso opaco dalle passioni. L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 85 l’Uno. L’uomo è mente che deve liberarsi dal corpo, realtà materiale dell’uomo. In Plotino si ha una ontologia Unius43 con tre ipostasi fondamentali: Anima, Mente e Uno. Impegno morale dell’uomo è liberarsi della mondanità, sinonimo di molteplicità, per ricomporsi in unità. Scopo dell’azione morale non è tendere finalisticamente verso il bene o la felicità, ma un ritornare dall’esilio. Le passioni impediscono questo cammino o ritardano questo ritorno. Si viene qui ad esasperare, per Capone, il razionalismo intellettualistico degli stoici e “la morale diventa un servizio ascetico per l’ascesa artistica, eroticadialettica della mente, il nous, verso la tensione mistica per l’unione estatica con l’Uno”44. Esattamente il cammino inverso operato dalla katabasi di Cristo, che per far risalire l’uomo verso Dio, discende dal seno del Padre e si fa carne, nota Capone. 1.3. Il fine dell’azione morale in S. Agostino, S. Tommaso 1.3. e S. Alfonso La scelta dei tre teologi moralisti più importanti della storia della chiesa, S. Agostino, S. Tommaso e S. Alfonso, da parte del prof. Capone, non è casuale. Si tratta di tre teologi che hanno ripreso e fatto proprio il tema del fine dell’azione morale e della felicità. Tale fine rimane sempre la ricerca del sommo bene o felicità, ma non in un sé cosmico, come volevano gli stoici, né nella stessa vita della polis, come voleva Aristotele, ma in Dio e nel Dio rivelato. Solo in Dio la ricerca della felicità diventa alla fine beatitudine, ossia vita beata, mai intesa, almeno in questi autori, come esito o premio post mortem del pio cristiano (come lo poteva essere per il pius romanus), bensì come quotidiana realtà vitale del credente. Come si vedrà non si è affatto di fronte ad un semplice spostamento in avanti o in alto del fine filo- 43 “Plotinus legem exitus-reditus enuntiat, et hoc quia eius ontologia non est ontologia naturae, ut est in Aristotele et Stoicis, sed ontologia UNIUS: tò En est ratio totius universi et eius legis quae est eminenter dynamica” (D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 19); cfr. ID., De caritate Dei in Mysterio Christi, 12. 44 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 109. 86 FAUSTINO PARISI sofico-naturalistico. Non è un semplice “battezzare” la visione eudemonistica del fine dell’azione morale. Se S. Agostino accetta “il finalismo eudemonistico greco e romano e lo trasmette a s. Tommaso, e per lui a noi”45, lo fa in quanto considera Dio quale fons bibendae felicitatis46: principio di ogni natura, luce per conoscere la verità e fine di ogni azione morale47. L’ontologia agostiniana è decisamente teologica o teocentrica48: Dio è al centro di tutto come “principium nostrum, lumen nostrum, bonum nostrum”49, oggetto di vita attiva e di vita contemplativa, perché convergenza “di scienza etica pratica e di sapienza onto-fisico-logico-teoretica; di scienza che per via di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza insegna il valore delle cose terrestri ed allontana così dal male e di sapienza che per via di carità, fede e speranza, insegna la pietà verso Dio, cioè il culto di Dio; di deliberazione della ragione inferiore e di risoluzione della ragione superiore”50. Una ontologia che ruota attorno 45 Ivi, 115. Cfr. AGOSTINO, De Civitate Dei, 1.8, cc. 4, 10: CSEL 40, 360, 370-371. 47 “Deus ergo quatenus est Esse constituit naturam, quatemus est VERUM, fundat veritatem et scientiam eius, quatemus BONUM fundat ethicam” (D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 22). Il maiuscolo è di Capone. 48 L’ontologia agostiniana teocentrica ha però forti venature neoplatoniche, laddove viene esclusa ogni forma di dualismo, in favore di un principio unitario che se pur diviso in due parti, una ratio inferior e una superior, si fonde alla fine e confluisce in un’unica realtà. L’anima-mens-ratio è in Agostino attiva, quando presiede all’azione razionale, contemplativa, quando, diretta dalla sapienza, contempla i valori eterni; è razionale, cioè scienza, quando dirige l’azione intorno alle realtà terrestri, è contemplativa, quando contempla Dio (cfr. D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 117). 49 Cfr. AGOSTINO, De Civitate Dei, 8, X. 50 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 118. Da questa tripartizione, scaturisce “la vita contemplativa che tende a Dio come bonum nostrum, è oggetto dell’etica; la vita contemplativa che tende a Dio come a principium nostrum è oggetto della fisica (noi diremmo teologia ontologica); ma a quest’ultima viene attribuita anche la logica che in fondo parla di Dio come lumen nostrum” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 117). Cfr. D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 22-23; ID., De caritate Dei in Mysterio Christi, 17. 46 L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 87 ai tre termini dell’esse, del verum e del bomun, riferiti a Dio e alla relazione uomo-Dio51. Ma, per alcuni, anche un’ontologia teocentrica come quella agostiniana è ancora troppo legata all’eudemonismo filosofico, sia pure cristianamente battezzato, e ripropone sostanzialmente quel dualismo aristotelico, per il quale la vita morale sarebbe inferiore a quella teoretica o per lo meno e in qualche modo bisognosa di essa. In risposta a tale obiezione Capone ricorda che S. Agostino “considera l’inquietudine di riposare in Dio non come semplice inquietudine psicologico-intenzionale, ma come inquietudine ontologica: non è Dio che è fatto per noi, ma noi siamo fatti per lui”52. Prima di essere bonum nostrum, il Dio di S. Agostino è principium nostrum e lumen nostrum, e come tale determina in noi una vita, non puramente intellettuale o intenzionale, ma “vita dell’uomo, come imago Dei”53. È il richiamo al dato di una creazione dell’uomo secondo la rivelazione cristiana54, 51 “La tensione esistenziale di Agostino, l’anelito alla ricerca e alla conoscenza che caratterizzano il suo itinerario filosofico trovano la loro naturale conclusione nell’acquisizione di un principio che fonda e comprende i due poli della sua riflessione filosofica, l’uomo e Dio. Il primo di carattere ontologico è individuato nell’uomo, quando la sua esistenza e il suo linguaggio si radicano in una “ontologia triadica della persona”; il secondo, di carattere metafisico, si riconosce nell’idea di Dio: nella “metafisica dell’Essere trinitario” che si manifesta nella creazione e nella Rivelazione” (G. SANTI, Agostino d’Ippona Filosofo, LUP, Roma 2003, 119); Cfr. M. F. SCIACCA, Sant’Agostino, L’Epos, Palermo 1991, 321-326. 52 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 118. 53 Ivi. 54 “Dunque questa trinità dello spirito non è immagine di Dio, perché lo spirito ricorda se stesso, si comprende e si ama, ma perché può anche ricordare, comprendere ed amare Colui dal quale è stato creato. Quando fa questo, diviene sapiente. Se non lo fa, anche quando si ricorda di sé, si comprende e si ama, è insensato. Si ricordi dunque del suo Dio, ad immagine del quale è stato creato, lo comprenda e lo ami. Per dirlo in breve, esso onori il Dio increato che l’ha creato capace di lui e di cui può essere partecipe; per questo è scritto: Ecco: il culto di Dio, questa è sapienza. E non per la sua luce, ma per la partecipazione a quella luce suprema sarà sempre sapiente e regnerà beato là dove sarà eterno” (De Trinitate, 14, c.5, cit. in D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 119). 88 FAUSTINO PARISI che illumina e dà un senso del tutto nuovo al discorso agostiniano. Si è “in una vita spirituale integrale, in cui l’uomo e Dio sono in mutua presenza intelligente ed amante: Dio dà per amore paterno, l’uomo risponde per pietà filiale. E questa vita è vita beata, perché è vita eterna”55. Un superamento dell’eudemonismo filosofico, in senso religioso e teologico cristiano. Afferma Capone che “noi oggi questa vita superiore la chiamiamo vita morale in senso pieno”, in quanto “le virtù cardinali diventano incarnazione dell’amore di carità: ordo amoris”, e le buone abitudini, o i boni mores si trasformano in boni amores56. Dopo aver utilizzato l’immagine di Dio, fons bibendae felicitatis, S. Agostino riconosce la centralità della vita beata sapienziale e il dinamismo della presenza spirituale di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio, spingendosi oltre la stessa visione contemplativa di Dio, di certa teologia spirituale, pur sempre venata di neoplatonismo57. Sulla linea agostiniana si pone decisamente anche S. Tommaso. Per Capone egli accoglie le tesi del finalismo che intende Dio come bonum nostrum, assume e corregge l’eudemonismo aristotelico, ma “senza negare l’oggettivismo “teoretico” di S. Agostino (da non confondere con l’oggettivismo cosmico-stoico) anzi affermandolo come valore supremo a cui tendere, enuclea una dottrina morale veramente “pratica” 55 Ivi. Ivi, 120. 57 Capone si pone esplicitamente la domanda se nella visione agostiniana è il Cristo il fine ultimo della nostra vita morale: “Habetne Christus rationem finis ultimi nostrae vitae?” (D. CAPONE, De caritate Dei in Mysterio Christi, 17). La risposta ancora una volta evidenzia il netto distacco delle posizioni agostiniane dalla filosofia classica, sia stoica che neoplatonica: ”vita ergo mentis regitur non hellenice ab ordine mere intentionali quidditative et legaliter enucleato, sed a salvifica praesentia Dei in mundo”. E questa presenza di Dio nel mondo, non filosoficamente quiddativa né giuridicamente enucleata, è proprio il mistero di Cristo, meglio il mistero di Dio in Cristo, alfa e omega, luce e guida di tuta la storia umana e di ogni singolo uomo: “in questa visione Cristo diventa nostra scienza e nostra sapienza; scienza perché con la fede purifica la nostra vita terrestre; sapienza perché ci rivela e ci inserisce nelle verità eterne” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 120); Cfr. D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 27-28. 56 L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 89 sullo schema delle virtù”58. Letture parziali della monumentale opera tommasiana hanno indotto molti in errore, secondo Capone. Anche S. Tommaso in fondo sostituirebbe la visione filosofica di Dio con una visione beatifica dell’essenza divina, e cioè con la beatitudine, stabile in quanto ultraterrena e definitiva. Costoro non tengono conto che per S. Tommaso il fine ultimo di carità è di natura teologica e caratterizza ogni azione del cristiano, ogni suo gesto morale: “la carità ci fa attingere Dio come fine ultimo, in quanto ci unisce a sé e ci partecipa della sua carità trinitaria, la sua vita intima come Dio uno che si effonde in Trinità e Trinità che è infinita fecondità di unità indivisibile”59. Questa vita unitaria e trinitaria, divinamente personale, sempre attuale è per Tommaso la vita beata. La risposta dell’uomo, e quindi la sua moralità, consiste nell’aprirsi a questa vita beata, come affermava S. Agostino, fonte di gloria e di felicità. Contro una visione del finalismo di natura “ontocosmica, fisicometatifica”, stoico e neoplatonico, entrata a far parte della teologia morale dell’epoca, attraverso Pietro Lombardo, S. Alberto e lo stesso S. Bonaventura60, S. Tommaso riteneva che Dio aveva dotato l’uomo “di natura personalistica, padrona del proprio atto”, che pone l’uomo come “volontà cosciente e libera”. Una concezione personalistica che è alla fine “tensione di volontà ontologica”61, che cioè coinvolge l’intera persona umana. Capone propone un ritorno al personalismo di S. Tommaso, inteso come “finalismo della persona, il “finis operantis”, in senso ontologico-personalistico prima che in senso accidentale: cioè bene-fine”62. Una posizione mediana che non perda né l’ordine oggettivo dei “bona naturae”, che sulla rete delle essenze, formano i fini particolari ed i relativi mezzi”, né ceda al “soggettivismo individualistico e quindi relativistico”. Una morale concreta “per uomini condizionati all’errore ed all’esistenza spazio58 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 122. Ivi, 123. 60 D. CAPONE, “Ritorno a s. Tommaso per una visione personalistica in teologia morale”, in RTM 1 (1969) 86. 61 Ivi. 62 Ivi, 94-95. 59 90 FAUSTINO PARISI temporale, che diventa sempre più difficile in questa nostra età tecnologica”63. La cosa conclude Capone “non è facile per se stessa; ma lo diventa meno, se si chiude nell’essenzialismo quidditativo, che si definisce come astrazione dall’esistenziale e dalla sua fallibilità”64. Per Capone ciò che più propriamente caratterizza la visone morale di S. Tommaso è, però, il concetto di partecipazione: “il fine è assimilarsi a Dio, partecipandone la perfezione”, con una particolarità che non deve sfuggire. Essa “non è finalizzata dal soggetto di cui è perfezione, ma da Dio, di cui vuol essere riproduzione o meglio espressione parziale; ed è proprio questa espressività e parzialità in rapporto a Dio perfezione assoluta e semplice, che fonde in unità di origine e di armonia tutte le creature, perfezioni parzialmente espressive della perfezione di Dio”65. Quando si parla della morale tommasiana occorre ricordare questo fondamentale aspetto che l’uomo, il cristiano, agisce per assimilarsi a Dio, non solo e non tanto per il suo fine proprio, ma perché chiamato a realizzare in sé, ad esprimere in sé le perfezioni di Dio, così, glorificandolo. Si può quindi concludere, per Capone, che S. Tommaso “pur mantenendo la bipolarità aristotelica nella dottrina morale, ne rifiuta l’opposizione e con S. Agostino risolve il finalismo eudemonistico nel finalismo ontologico, per cui l’uomo in quanto persona tende a porsi come immagine di Dio, come gloria di Dio”66. 63 Ivi, 95. Ivi. Afferma Capone che S. Tommaso aveva praticamente messo le basi per ogni futura teologia morale centrata sulla persona e la sua coscienza: ”Con la dottrina della moralità degli atti umani, sulla prudenza, sulla legge naturale, ma soprattutto con la dottrina sulla legge nuova e sulla grazia, con la dottrina sulla carità come “forma virtutum”, specialmente come “amicitia hominis ad Deum” e come vita dialogale con Dio, “ familiaris conversatio cum ipso”, cioè come vita di persona con Dio-persona, s. Tommaso aveva insegnato con organicità vitale e didattica, quanto occorreva per un tractatus de conscientia di vera teologia morale fondamentale” (S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso, 318-319); Cfr. D. CAPONE, L’uomo è persona, 70-71 65 D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 123-124. 66 Ivi, 125. 64 L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 91 Intorno alla verità morale S. Agostino agit intuitive, S. Tommaso analytice eam resolvendo tum notionaliter tum ontologice, mentre S. Alfonso agit componendo eam in statu praxeos, existentialiter67. In queste tre affermazioni è contenuto il cammino del finalismo intenzionale morale nella teologia cristiana, che caratterizza e accomuna questi grandi pensatori. S. Alfonso è fortemente influenzato dall’insegnamento morale di S. Tommaso, ricevuto non passivamente, ma “verificato e sviluppato in dinamismo pastorale”68. Cinque secoli di distanza separano i due teologi, situazioni culturali ed ecclesiali decisamente diverse, ma comune è l’opzione morale per la persona e la centralità della coscienza69. L’uomo non è oggetto ma soggetto, in quanto persona, nell’ordine morale e la legge, anche quella naturale, ha vigore di legge, formalmente e qui ed ora, solo quando si pone all’interno della persona, quale convinzione di coscienza. Comune è, pure, la visione della virtù della prudenza: muovendosi dal principio che “lex dubia non est lex promulgata, ideo non obligat”, S. Alfonso ricorda che siffatto principio va coniugato con l’altro che afferma “che il valore supremo della persona sta nella comunione di grazia con Dio”70. Una comunione da realizzare con saggezza, tenendo conto delle concrete condizioni e istanze della persona. Dunque, “per agire prudentemente, bisogna agire sapientemente; e per agire sapientemente, bisogna agire prudentemente”71. Un principio morale e pa67 Cfr. D. CAPONE, De fine ultimo. De caritate, 56. Ivi. 69 Cfr. D. CAPONE, “S. Tommaso e S. Alfonso in teologia morale”, in Asprenas 21 (1974) 439-473. 70 S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso, 332. Afferma Capone: “Theologia moralis S. Alfonsi non est metaphysica tractatio de rationibus ultimis ordinis moralis; neque est scientia theoretica de natura actum humanorum deque eorum principiis. S. D. declarat se velle scribere de morali theologia, “quae totat ad praxim dirigenda” (Theol mor. T.II, p. 689); de theologia morali nempe quae sit immediatissima directioni prudentiae in foro conscientiae, quin tamen cum ipsa confundatur” (D. CAPONE, Introductio in theologiam moralem S. Alfonsi, c.c., (1958) 4). 71 S. BOTERO – S. MAJORANO (a cura di), D. Capone. La proposta morale di sant’Alfonso, 332. 68 92 FAUSTINO PARISI storale che però cozzava, al tempo di S. Alfonso, con il criterio fondamentale di una “totale conformità della coscienza con la verità oggettiva della legge; in mancanza di evidenza della legge, la verosimiglianza o probabilità della legge era vincolante”72. Di qui l’accusa mossagli di essere un lassista casista. Per costoro la gloria di Dio consisteva nella realizzazione dell’ordine delle leggi prese nella loro materialità, anche se la persona veniva ridotta a puro esecutore di un ordine. Qui S. Tommaso e S. Alfonso si ritrovano concordi, per Capone, nella comune reazione a siffatta impostazione: “Dio cerca come sua gloria e supremo valore nel mondo, la vita della persona come sua immagine: lo stato di grazia. È una ragione di ordine superiore, sapienziale, che passando attraverso il filtro realistico della valutazione della prudenza, diventa regola pastorale”73. 2. Sul valore di finalità dato alla prudenza dalla Carità 2. del Padre per mezzo del Cristo Con queste affermazione si chiude una prima parte della riflessione di Capone, tesa a rivalutare la virtù della prudenza per la filosofia e la teologia morale. L’itinerario percorso ora sembra più chiaro: da una iniziale visone filosofica e laica della prudenza si è passati gradualmente a una teologica e cristiana. Un percorso legittimo e sostenuto storicamente dai grandi teologi moralisti. Nella teologia morale il dato di prudenza viene a ricevere un significato nuovo a causa dall’evento Cristo, e subisce quasi una torsione di significato, come direbbe R. Buttiglione74, da virtù dianoetica proiettata verso la felicità nella polis, a virtù cardinale proiettata verso la vita beata per Cristo in Dio, escatologicamente in terra e definitivamente in cielo. Non si tratta più di prudenza aristotelica, dunque, che cerca il giusto mezzo tra temperanza e fortezza, in una vita di comunità politica e cittadi- 72 Ivi, 333. Ivi. 74 R. BUTTIGLIONE, Il pensiero di Karol Wojtyla, Jaca Book, Milano 1982, 97. 73 L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 93 na, non si è più in presenza di un finalismo intenzionale, per cui il fine è sì presente a noi e alla nostra mente, come oggetto conosciuto e anche amato, ma non del tutto posseduto nella realtà. “Si tratta di prudenza che emana dalla presa di coscienza del mistero del Cristo, quale nostra vera realtà, come principio operante nella nostra persona, caratterizzata, animata dalla storicità dell’attuale e attuosa economia del Cristo risorto”75. In un testo, già citato nella presente ricerca, Capone pone in mirabile sintesi i termini fondamentali e i momenti essenziali di questa nuova visone della prudenza. Essa consiste primariamente nella “tensione escatologica del nostro essere, personificato in Cristo” 76. Lapidaria è l’espressione da lui utilizzata nel testo de L’uomo è persona in Cristo, laddove afferma che “Cristo personifica come universale sacramentale-assiologico, non come universale metafisico-logico”77. Se si riconosce il momento sacramentale-assiologico, la figura e l’azione del Cristo assumono i connotati di sacramento di salvezza, ma anche di “proto-uomo, il primo-genito di tutta l’umanità e di tutta la creazione. In lui abita “corporalmente” la pienezza di Dio, ontologicamente, ed è “spirito vivificante” (1 Cor 15, 45). La vita morale del cristiano diventa “tensione che deve essere vitale sintonia con la tensione dell’essere filiale del Cristo”, il quale a sua volta si pone come “mistero dell’amore da parte di Dio”, così come chiaramente espresso nella 1 Cor 1, 9: “Dio vi ha chiamato alla comunione di vita del suo figlio, Gesù Cristo, signore nostro”. Quando invece si accentua l’impostazione metafisico-logico, per un “essenzialismo formalequidditativo, che riduce l’ordine ontologico in ordine logico”78, la figura del Cristo diventa “soprattutto rivelatore dell’essenza di Dio, come architetto e legislatore, solo in secondo luogo come pastore e salvatore”79, e la sua azione quella di una profonda restaurazione, e non di fondazione originaria dell’ordine morale. Si avrebbe una mo75 D. CAPONE, L’uomo è persona, 173. Cfr. D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 93. 77 D. CAPONE, L’uomo è persona, 26. 78 Ivi, 25. Cfr. D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 132-138. 79 D. CAPONE, L’uomo è persona, 61-62. 76 94 FAUSTINO PARISI rale, non cristologicamente fondata, ma solo teocentrica nella quale viene espressa l’esemplarità dell’essenza divina, perdendo l’esemplarità del Cristo, quale uomo nuovo per tutti i cristiani. Infine in una lettura sacramentale assiologica la carità del Padre, non solo si manifesta a noi nel suo Figlio, ma ci raggiunge tramite lui: “questa carità il padre la concentra nel Cristo, come suo disegno di vita da comunicare, fuori di sé, all’umanità, naturalmente e soprannaturalmente”80. C’è in questa visione un dato di concretezza e di completezza di vita, non presente nella visione puramente filosofica della prudenza, Cristo non è un semplice ideale riferimento per l’azione morale del cristiano ma è una realtà concreta, realizzazione concreta dell’amore paterno di Dio. Per questo si può affermare che in Cristo tutto si ricapitola e si ritrova: “ordine cosmico, ordine creaturale, ordine paterno-filiale di grazia”. Dal Cristo tutto, poi, viene a noi “dalla nostra benedizione e simbiosi” 81 con lui82. Dire carità salvifica, precisa Capone, è lo stesso che dire volontà di Dio con piano di salvezza. Una salvezza che non indica “soltanto la liberazione dalla “malattia e morte” per il “peccato originale”, ma tutto il piano di Dio di comunicare la sua gloria all’uomo, come sua vita, come sua “salute piena”. “Gloria Dei, vivens homo” ci ha detto Ireneo”83. Con questa nuova comprensione del valore della prudenza acquista diverso valore anche il concetto di finalità. Il finalismo dell’atto morale prima di essere “imbevuto della relazione trascendentale alle leggi delle cose, come espressione cosmica della ragione eterna di Dio, è atto imbevuto di Cristo in noi, della sua grazia, come legge nuova”84, prima di essere “ordine di ragione inscritto nella nostra essenza” elemento di una intenzionalità filosofica introiettata in noi, è intenzionalità “tutta protesa verso il Cristo in noi, e col Cristo verso 80 D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 77. Ivi, 78. 82 “L’essere della persona, liberato e personificato dal Cristo, è inserito nella sua umanità fatta chiesa, come regno di Dio, regno di libertà per i singoli e per l’umanità intera” (D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 137). 83 D. CAPONE, L’uomo è persona, 63. 84 Ivi. 81 L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 95 Dio in noi. Intenzione ontologica, poi opzionale, poi attuale”85. Le basi di tale mutazione del concetto di prudenza si trovano sia in S. Tommaso, per il quale la prudenza è “ministra sapientiae” perché “cerca, confronta, valuta e finalmente giudica e dispone energicamente l’attività di tutta la persona lasciandosi dirigere sempre dalle ragioni supreme della sapienza e quindi della carità”86, e sia in S. Paolo che attribuisce alla prudenza il compito di confrontare dati concreti, circostanze, istanze di ordine spirituale nel mondo concreto in cui i cristiani vivono, per cogliere quella che è la volontà di Dio in questo tempo cioè nel kairos presente e il dokimazein (lo scegliere). Perché questo si realizzi occorre avere chiari i nuovi termini di riferimento che danno un più preciso stimolo e orientamento alla recta ratio. La prudenza deve assumere come principio e criterio di valore, il mistero del Cristo (kairos) afferma Capone, e “la tensione verso il giorno del Cristo”(éskaton)87. 85 Ivi, 79. “Questa visione del Padre che il Cristo ci rivela è decisiva per la vita morale del cristiano. Qui c’è tutta l’economia della vita in Cristo, se ricordiamo che l’opera del Padre è l’attuazione del piano di salvezza, del quale il Cristo è il mysterium. Gesù si pone in noi come parola del Padre, parola che ci chiama a rispondere, e la parola di risposta è lui stesso” (D. CAPONE, L’uomo è persona, 47). 86 D. CAPONE, L’uomo è persona, 172. S. Tommaso intende la carità soprattutto come amicizia con Dio, finalismo e forma virtutum e amore del prossimo, discostandosi in questo dalle tesi di un Pietro Lombardo e dalle successive letture metafisiche di questa virtù cardinale. Per S. Tommaso “la carità è caratterizzata dall’oggetto e dal fatto di esser dinamismo di vita d’amicizia con Dio, fondata sulla comunicazione della beatitudine di Dio (II-II, 24, 2); partecipazione creata dalla carità increata, lo Spirito santo che unisce il Padre e il Figlio” (D. CAPONE, Cristo, mistero della carità di Dio, 79). 87 “In questo dinamismo cristiano la fede-carità si pone come speranza, afferma Capone, che ha valore ed energia ontologica (in quanto tocca il cuore della realtà umana in esistenza) e storico-misterica (la presenza del Cristo in noi) e si pone anche come prudenza, come mente di Cristo in noi e ci guida nell’azione morale, ossia in quel movimento che scruta, giudica e risolve le nostre situazioni secondo il valore del kairos del Cristo in noi e di noi nel Cristo, e si pone infine come pazienza del Cristo (2Tess 3, 5), la quale “signoreggia il male spaziotemporale e lo vive e risolve come momento del trionfo pasquale ed escatologico del bene” (Ivi, 93). 96 FAUSTINO PARISI Questo finalismo escatologico, appena descritto non si trova, né si può trovare, nel linguaggio dei filosofi, e neppure in quei filosofi presenti nell’enucleazione teologica di molti Padri della chiesa, come si è visto, e di certa manualistica, ricorda Capone, ancora troppo influenzati, da elementi di derivazione stoica e neoplatonica. La critica è molto esplicita: “i filosofi presenti in qualche modo nei nostri manuali preteologici e teologici, parlano di dinamismo morale non come dinamismo escatologico e storico, determinato da una presenza sacramentale esistenziale dell’éskaton in noi; ne parlano come se fosse soltanto dinamismo intenzionale, determinato dal bene presente in noi intenzionalmente”88. 3. Sul Cristo risorto, kairos del tempo: 3. dal finalismo intenzionale al finalismo escatologico Una volta messo al centro l’evento Cristo risorto, kairos del tempo ed éskaton in noi, anche la dimensione intenzionale acquista un diverso senso, esistenziale ed escatologico89. È questa l’occasione per Capone di porre una chiara distinzione tra intenzionalismo e intenzionalità. L’intenzionalismo ha il preciso significato di “trasposizione della realtà, che è fuori del nostro pensiero, nella intentio, intesa come pensiero o come forma concettuale”90 che poi agisce sulla volontà per determinare l’agire morale. L’intenzionalità invece è più legata alla di- 88 Ivi, 95. “Il principio di finalità diventa dinamismo escatologico e non soltanto intenzionale, dà un dinamismo originale alla prudenza: diventa il “dokimazein” della volontà di Dio (S. Paolo!); la quale volontà parla simultaneamente con i principi universali che danno i valori, con la legge nuova evangelica che si esprime principalmente nella legge di carità e dall’altra parte parla col realismo della situazione, che è anch’essa “segno della volontà di Dio”. E si noti che la situazione è compenetrazione della realtà totale della persona con la realtà complessa in cui la persona deve pur vivere da uomo e da cristiano” (D. CAPONE, Introduzione alla teologia morale, 147). 90 Ivi, 133. 89 L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 97 namica della persona “viene da tensione personalistica dell’essere”, che dice necessariamente autocoscienza, autopresenza totale, senza veli, e nello stesso tempo dice ampiezza e libertà ontica. Per non scadere in una forma di immanenza assoluta, che degrada l’uomo e lo deifica, Capone ricorda che il nostro essere personalistico è pur sempre un essere partecipato, per cui si ha immanenza e alterità trascendente nello stesso tempo, che dà vita ad una serie di punti bipolari: trascendenza-immanenza, oggetto-soggetto, possesso-tendenza, essere-agire, essenza essente-essenza esistente, Dio principio-Dio fine91. In forza del mistero di Cristo, “Dio opera in noi come fine ultimo con la sua presenza escatologica nel suo sacramento che è l’umanità del Cristo risorto in noi, sicché egli, come éskaton assoluto è già presente in noi”92. Finalismo intenzionale e finalismo escatologico sono due differenti modi di intendere il valore di finalità dato alla virtù della prudenza, non necessariamente in conflitto o in contrasto tra di loro. L’escatologia non va ad interferire o ad eliminare l’intenzionalità ma modifica profondamente la condotta del cristiano, per effetto della presenza di Dio in noi. Una tale presenza non è soltanto per via intenzionale quasi fosse una realtà di natura extrasoggettiva di natura concettuale, ma è “già in noi in crescita; e quello che di lui è già in noi, dà un altro dinamismo all’intenzione di quello che deve crescere in noi. Carità e speranza s’intrecciano in un solo dinamismo sostenuto dalla fede”93. Per far comprendere meglio questo procedimento Capone fa ricorso alla “legge dell’incarnazione” per la quale “l’escatologia assume l’intenzionalismo e l’intenzionalismo si attua nell’escatologia”. Noi agiamo per via intenzionale, perché questo modo di procedere è in noi per il nostro stesso esistere. Ma il nostro esistere cristiano più che far parte di una realtà cosmica che tutto comprende, è un “affiorare spazio-temporale del nostro essere partecipato secondo il modo umano”94. È un’ontologia di partecipazione 91 Cfr. Ivi, 134. Ivi, 97. 93 Ivi. 94 Ivi, 98. 92 98 FAUSTINO PARISI e per questo l’escatologia è presenza nell’ordine soprannaturale. La preoccupazione di sempre di Capone è che l’ontologia dell’ente, personalizzato per partecipazione di essere da parte dell’Essere assoluto, non venga confusa con una metafisica dell’ente, essenzializzato a detrimento dell’essere, come più volte ripetuto. Nella visione cristiana e teologica questa partecipazione si “personifica in Trinità, senza pluralizzarsi” per restare uno, e “fuori di sé personifica e moltiplica per via di partecipazione, o semplicemente pone in esistenza tutto quello che non pone come sua immagine. Ed ordina il puro esistente all’uomo che è essente; e l’uomo lo fonda, lo redime, lo assume nel Cristo, a cui egli partecipa il suo Essere non per creazione, ma per generazione”95. Il linguaggio forse troppo tecnico e un po’ cifrato con il quale solitamente si esprime il prof. Capone, può fuorviare dalla comprensione della portata teologica della tesi di fondo che è quella di proporre una teologia morale centrata sulla figura di Cristo, fondata su di lui. Ma il Cristo fonte della morale è messaggero e mistero dell’amore paterno di Dio, è il Signore risorto e Signore del mondo, finis finium, il principio e fine di tutta la vita cristiana, e l’éskaton che anima l’opzione fondamentale buona. Questa realtà del Cristo innestata sul finalismo prudenziale di matrice aristotelica, come si è visto, ne cambia radicalmente e ontologicamente la natura. I concetti di sacramentalità e di escatologia stanno ad indicare questa nuova particolarissima realtà: uno strumento naturale, ripiegato e rimodellato meglio di altri al servizio della morale cristocentrica e cristologica. Conclusione La conclusione riprende il discorso iniziale. La domanda di Capone riguardava la possibilità di un utilizzo della virtù della prudenza aristotelica in campo teologico. La risposta è stata ovviamente si. Primo, perché offre un andamento di concretezza, di ragion pratica, e di legame con la recta ratio, che altre metodologie morali non sem- 95 Ivi. L’ITINERARIO DI DOMENICO CAPONE 99 brano possedere, e poi perché il meccanismo della prudenza, una volta divenuta virtù cardinale, acquista con l’evento Cristo una dimensione assolutamente nuova. Si fa sacramentale e assiologia, temporale ed escatologica: vissuta nel tempo (kairòs) ma in dimensione escatologica (éskaton). Altre soluzioni al problema di un passaggio da una morale umana ad un’altra specificamente cristiana sono sempre possibili, specie oggi che ci si deve confrontare con l’irrompere delle nuove scienze umane. Capone, figlio del suo tempo e anticipatore del nostro, ci ha offerto una via, quella della virtù della prudenza, che da Aristotele passa e si trasforma in S. Tommaso e nell’evento Cristo acquista una inaspettata ricchezza ontologica ed escatologica, e al tempo stesso ha voluto metterci in guardia dai pericoli derivanti dallo stoicismo e dal neoplatonismo, filosofie, mai sopite nel comune sentire occidentale e cristiano, che portano con sé il grande dramma di disancorare l’uomo dalla terra, per proiettarlo o in un mondo perfetto ma astratto, in un ordine morale oggettivo, o in dimensioni spirituali pur contemplative, ma intese come un improbabile ritorno da un esilio, alla fine anch’esse autoreferenziali e autopropositive, che non ha riscontri nella tradizione biblica. 100 FAUSTINO PARISI SUMMARIES The article traces the philosophical and theological journey of professor Domenico Capone on the value of the virtue of prudence. In particular, it considers the transition from a purely human morality, eudemonistically oriented, focusing on the use of the dianoetic virtue of prudence and working in the field of practical reason, just like that of Aristotle and endorsed by St. Thomas, to a specifically Christian morality, that is to say that it is combined with faith and is christologically based, as required by the Second Vatican Council. For Capone, such a progression is possible if the Christian recognizes that the value of finality has been given to the cardinal virtue of prudence by the charity of the risen Christ, Lord of the world, Mystery of the paternal love of God, finis finium, the beginning and end of all Christian life, and the éskaton that animates the good fundamental option. Even today, it is one of the hot spots that has not been resolved by a lot of contemporary moral theology. *** El artículo repasa el itinerario filosófico y teológico del profesor Domenico Capone sobre el valor de la virtud de la prudencia. Considera de modo particular el pasaje de una moral puramente humana, orientada eudomonísticamente, basada en la utilización de la virtud dianoética de la prudencia y operante en el ámbito de la razón práctica, como es precisamente la aristotélica, hecha propia por Santo Tomás, a una moral más específicamente cristiana, esto es, conciliada con la fe y que sea fundada cristológicamente, como pide el Concilio Vaticano II. Para Capone, tal pasaje es posible si el cristiano reconoce que el valor de finalidad que se da a la virtud cardinal de la prudencia procede de la caridad de Cristo resucitado, Señor del mundo, misterio del amor paterno de Dios, finis finium, principio y fin de toda la vida cristiana, y esjaton que anima la opción fundamental buena. Siendo éste, aún hoy, uno de los puntos neurálgicos y no resueltos por mucha teología moral contemporánea. *** L’articolo ripercorre l’itinerario filosofico e teologico del prof. Domenico Capone sul valore della virtù della prudenza. In particolare viene preso in considerazione il passaggio da una morale puramente umana, eudemonisticamente orientata, imperniata sull’utilizzo della virtù dianoetica della prudenza e operante in ambito di ragion pratica, come appunto quella aristotelica, fatta propria da S. Tommaso, ad una morale più specificamente cristiana che si coniughi cioè con la fede e sia cristologicamente fondata, come richiesto dal Concilio Vaticano II. Per Capone tale passaggio è possibile se il cristiano riconosce che il valore di finalità è dato alla virtù cardinale della prudenza dalla carità del Cristo risorto, signore del mondo, mistero dell’amore paterno di Dio, finis finium, principio e fine di tutta la vita cristiana, ed éskaton che anima l’opzione fondamentale buona. Ancora oggi, uno dei punti nevralgici e non risolti di molta teologia morale contemporanea. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA Una tarea por realizar? J. Silvio Botero G., C.Ss.R.* Introducción Estamos a pocos meses del 30º aniversario de la promulgación de la encíclica Dives in misericordia, de Juan Pablo II (30 de Noviembre, 1980). Una encíclica que, a juicio de un comentarista, cogió por sorpresa a los mismo teólogos. La tradición eclesial del II Milenio parece haber pecado por un cierto rigor moral. Hablar entonces de misericordia, de benignidad, de flexibilidad, sonaba a debilidad, a complicidad, a alcahueteria; por esta razón la misericordia tenía mala prensa. La tradición eclesial severa fundaba sus planteamientos principalmente en la ley; una ley, a veces, interpretada al estilo ockamista: ‘bueno es lo que está mandado, malo lo que está prohibido’1. Una tal postura aludía a un estadio elemental, rudimentario, del proceso evolutivo del ser humano; el Doctor Angélico había advertido que no se fijara una norma igual para todos, para los niños igual que para los adultos2. Una nueva orientación de la ética intenta dejar de lado una moral del ‘imperativo’ para optar por la ética del ‘indicativo vinculante’; este tipo de orientación se inspira en la misma enseñanza del Apóstol: “en otro tiempo fuisteis tinieblas, mas ahora sois luz en el Señor. Vivid como hijos de la luz” (Efes. 5, 8). Se trata de sugerir una ética ba* The author is an invited professor at the Alphonsian Academy. * El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana. 1 Cfr. J. SILVIO BOTERO G., De la norma a la vida. Evolución de los principios morales, P. S., Madrid 2003, 53-58. 2 Cfr. STO. TOMÁS DE AQUINO, Suma Teológica I – II, q. 96, a. 2, resp. StMor 48/1 (2010) 101-123 102 J. SILVIO BOTERO G. sada en la misma persona: porque eres persona humana, compórtate como corresponde a esta condición. El Concilio Vaticano II en la Gaudium et Spes centró todo su pensamiento en torno al hombre: “es el hombre todo entero quien centrará las explicaciones que van a seguir (...)” (3). El ‘ethos’ de la misericordia que propone Juan Pablo II en la Dives in misericordia responde a una nueva perspectiva que tiene presente el Papa; contestando la pregunta que se hace él mismo – “basta la justicia?”, afirma: “esta especie de abuso de la idea de la justicia y la alteración práctica de ella atestiguan hasta qué punto la acción humana puede alejarse de la misma justicia, por más que se haya emprendido en su nombre” (12). Con la encíclica Dives in misericordia el Papa está recuperando, no sólo para la iglesia sino también para toda la humanidad, lo que S. Justino llamó una ‘semilla del Verbo’; la misericordia es un valor que está presente aun en las culturas anteriores al cristianismo. Lentamente, pero en forma progresiva, el valor humano y cristiano de la misericordia va ganando terreno, por lo menos a nivel teórico, dentro de la reflexión eclesial. El III Milenio espera ver los frutos concretos de un esfuerzo paciente de quienes han terciado en la brega por abrir la puerta a la misericordia: el ejemplo de Jesús de Nazareth – el Buen Pastor –, la práctica de la iglesia primitiva, la figura de Juan XXIII, el ‘Papa Bueno’, de Pablo VI urgiendo el restablecimiento de la ‘equidad canónica’, de Juan Pablo II con la encíclica Dives in misericordia, de Benedicto XVI que ha enfatizado el binomio ‘Verdad-Amor’. 1. La misericordia, una “semilla del Verbo” Se atribuye a S. Justino (+ 165) haber acuñado la expresión ‘semilla del Verbo’ (‘Logos Spermatikos’)3: enseñaba este Padre apologis- 3 Cfr. S. JUSTINO, I. Apología 46; II. Apología 8, 13; GIAMPIERO BOFF, “La dottrina sui ‘semi del Verbo’: origine e sviluppo”, Credere oggi 54/6 (1989) 51-62. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 103 ta que el Logos divino apareció en Cristo en toda su plenitud, pero que todo hombre lleva en su razón un germen (‘esperma’) del Logos que lo capacita para conocer la verdad. Esta intuición de Justino tuvo continuadores en el cristianismo primitivo, a veces tímidos, en la persona de Tertuliano, de Clemente de Alejandría, de Orígenes, de Eusebio de Cesarea y S. Agustín. La expresión “semilla del Verbo” fue posteriormente recogida por el Concilio Vaticano II en sus documentos; la recolección de términos del concilio hecha por Delhaye y otros4 señala, por lo menos, 7 lugares en que se hace alusión a ‘semilla del Verbo’; el Decreto Ad gentes presenta cinco de ellos; este dato es significativo para nuestro propósito por cuanto este decreto hace referencia a la misión evangelizadora de la iglesia. De este modo deben crecer de la semilla de la Palabra de Dios en todo el mundo iglesias particulares autóctonas (6). Familiarícense con sus tradiciones nacionales religiosas; descubran con gozo y respeto las semillas de la Palabra que en ellas se contienen (11), El Espíritu Sto., que llama a todos los hombres a Cristo por las semillas de la Palabra y la predicación del Evangelio y suscita en los corazones el homenaje de la fe, cuando engendra a los que creeen en Cristo (...) (15). “Consideren atentamente la manera de incorporar a la vida religiosa cristiana las tradiciones ascéticas y contemplativas, cuyas semillas ha esparcido Dios algunas veces en las antiguas culturas (...) (18). La semilla que es la Palabra de Dios, al germinar en tierra buena, regada con el rocio celestial, absorbe la savia, la transforma y la asimila para dar al fin fruto abundante (22). 4 PHILIPPE DELHAYE – MICHEL GUERET – PAUL TOMBEUR, Concilium Vaticanum II. Concordance, index, listes de fréquence, tables comparatives, CETEDOC, Louvain 1974, 601. 104 J. SILVIO BOTERO G. La Declaración Nostra Aetate sobre las relaciones de la Iglesia con las religiones no cristianas, si bien no alude expresamente a las ‘semillas del Verbo’, implícitamente sí está haciendo referencia a ellas: “Ya desde la antiguedad y hasta nuestros días se encuentra en los diversos pueblos una cierta percepción de aquella fuerza misteriosa que se halla presente en la marcha de las cosas y en los acontecimientos de la vida humana y, a veces también el conocimiento de la suma divinidad e incluso del Padre” (2). ‘Semillas del Verbo’ se podrían enumerar en cantidad en la tradición religiosa de los pueblos no cristianos; entre otras, el sentido religioso y trascendente, la paternidad, la filiación5 y la fraternidad, la presencia de la divinidad en los ancianos del pueblo, la necesidad de orar a la divinidad, de pedir perdón. En este contexto interesa exponer la misericordia como una semilla del Verbo’; una semilla que aparece en las culturas más antiguas de la humanidad. La obra Eleos de Marín y Mantovani6 desarrolla la semilla de la misericordia presente en el paganismo antiguo, en la tradición de la India, en el Budismo, en el confucianismo, en la tradición hebraica, en el Islam, en el pensamiento africano y en algunos autores más recientes como Nietzsche, Levinas, Romano Guardini. M. Marin, queriendo referirse a la misericordia entre los dioses del Olimpo griego, describe el período de Omero a Platón y a Aristóteles. A este propósito escribe: la capacidad de experimentar compasión por los sufrimientos inmerecidos de las personas era considerado como un signo de genuino humanismo; pero no siempre fue así: mientras para Aristóteles la solidaridad con los semejantes era valorada en forma positiva, como una pasión, para los estoicos era un vicio7. Para Sócrates, quien se niega a prestar una pequeña ayuda que le supone un peligro, se arriesga a ser considerado como un hombre injusto y malvado. 5 Cfr. GIUSEPPE RUAN GUO-ZHANG, Un intento di inculturazione cristiana in Cina. Il rapporto tra Confucianesimo e Cristianesimo intorno alla pietà filiale, Pontificia Università Lateranense, Roma 2004. 6 Cfr. MAURIZIO MARIN e MAURO MANTOVANI, a cura di, Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia, LAS, Roma 2002. 7 Cfr. MAURIZIO MARIN e MAURO MANTOVANI, a cura di, Eleos..., 19. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 105 El Budismo primitivo veía la benevolencia-compasión como el valor primario y fundamental de todas las prácticas religiosas y morales; lo revela una sentencia del Itivutka, una de las fuentes más antiguas del Budismo: “monjes, ninguno de los medios aptos para adquirir méritos aquí en el mundo vale la décima sexta parte de la benevolencia, que es redención del corazón; la benevolencia supera a todos los medios”8. Como un anticipo de algo que encontramos en el N. T., también el Budismo se preguntaba: por qué la divinidad debe compadecerse de los mortales? El Buda histórico – Shakyamuni – es considerado como una divinidad en el sentido de que habiendo eliminado todos los defectos y habiendo adquirido todas las cualidades, precisamente por esto, es omnisciente e iluminado y representa el modelo del refugio; ha sido iluminado para beneficio de todos los seres; por esta razón, la gran compasión que posee es la causa principal de haber obtenido el estado de ‘Buda’9. En la tradición confuciana se atribuye a Chou haber introducido una nueva orientación en la historia intelectual china transformando el sentimiento de compasión y de solicitud por el débil en un mandamiento ético; este mandamiento no era algo meramente teórico: We-jen fue un oficial que tenía el cargo de organizar un depósito de dinero para que el soberano pudiera demostrar su compasión por la gente. Entre las manifestaciones de compasión que recomendaban hay una serie de acciones piadosas que hacen pensar en las llamadas ‘obras de misericordia’ del Catecismo católico: vestir a quien tiene frío, nutrir al hambriento, socorrer al pobre, consolar al triste, etc10. En la tradición de la India, la figura de Mahatma Ghandi con su preocupación por la ‘ahimsa’ (no violencia) ha sido paradigmática; el término ‘ahimsa’ para los hindúes incluye el sentido de otros dos vo18 Cfr. ZAC T. GEOGE, “Benevolenza-compassione nel Buddismo”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 143. 19 Cfr. JIGME THUBTEN, “La Compassione nel Buddismo. Domande e risposte”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 154-155. 10 Cfr. XIAODONG GUO, “Misericordia, pietà e compassione nella filosofía cinese. In particolare nel Confucianesimo”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 164-165. 106 J. SILVIO BOTERO G. cablos – ‘daya’ y ‘karuna’11; la ‘ahimsa’ es una doctrina religiosa, una vía espiritiual, un valor moral, una ley social de la cultura y de la tradición hindú, escibe Thuruthiyil12; esta concepción de la ‘ahimsa’ aparece como clásica también en el Budismo, Hinduismo y en el Jainismo. Leyendo el Corán, la obra fundamental del Islam, causa impresión leer el estribillo con que encabeza cada una de las 114 ‘suras’ a excepción de la ‘sura’ IX: “en el nombre de Dios, clemente y misericordioso”13. Para cualquier musulmán, escribe Samir Emad, todo el Corán es una grandísima obra de misericordia en favor de la salvación de los hombres; afirma, incluso, que el Corán, según una tradición, se inició a partir de un gesto de misericordia de Mahoma14. La ‘sura’ XC enseña que ‘la vía hacia el Altísimo’ consiste precisamente en realizar obras de misericordia: dar libertad al cautivo, alimentar al hambiento en la carestía, socorrer al pobre. También la cultura africana ofrece testimonios respecto de la misericordia. Nkafu Nkemnkia abre su reflexión sobre el pensamiento africano con un dicho significativo: “en esto consiste la perfección del amor fraterno y recíproco: compartir todo porque todos pertenecemos a una única familia de seres vivientes. Quien vive ama, comparte, perdona y se alegra de ser bueno; quien no sufre, llora y sonríe con el otro, no es un ser viviente”15. 11 La palabra ‘daya’ es un vocablo rico de sentimientos interiores y espirituales hacia una persona que provoca compasión; el término ‘karuna’ conlleva la superioridad del sujeto que, sintiendo misericordia, sea a nivel psicológico o mental, trata de ayudar al sujeto por quien siente compasión. 12 Cfr. SCARIA THURUTHIYL, “Ahimsa (non violenza: compassione, misericordia, amore) nella tradizione religiosa indiana e nell’esperienza del Mahatma Ghandi”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 107. 13 Cfr. Il Corano. Introduzione, traduzione e commento di Cherubino M. Guzzetti, LDC, Leumann (Torino) 1989. 14 Cfr. SAMIR EMAD, “Il concetto di misericordia nell’Islam”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 219. 15 Cfr. MARTÍN NKAFU NKEMNKIA, “Misericordia e compassione nel pensare africano”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 177. La traducción es mía. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 107 Un elemento novedoso que aparece en forma explícita es que la primera experiencia de amor se vive en la familia: desde la pareja de esposos y padres de familia se difunden por todo el clan los valores de la vida humana, de la convivencia, de la capacidad de ser ciudadanos llenos de respeto por los otros. Entre los africanos se considera como atributo fundamental de los padres de familia la compasión y la misericordia; en la familia se inicia la educación para la solidaridad con todos los compatriotas del continente negro. En esta larga tradición de las culturas del Oriente sobre la ‘semilla’ de la misericordia, se debe incluir la tradición hebrea. Di Segni rechaza la concepción que hubo acerca del Dios del Antiguo Testamento como un Dios justiciero y el Dios del Nuevo Testamento como el Dios del amor misericordioso; tanto el Dios de la Antigua Alianza como el Dios de la Nueva Alianza, uno y otro son el Dios de la justicia y del amor16. La afirmación de Di Segni es justa; de una parte, se puede tomar en consideración la anotación que hacía el Cardenal Pellegrino: por un texto de la S. Escritura que haga referencia a la justicia, diez hacen alusión a la misericordia17. De otra parte, basta observar de cerca los salmos18 que eran la oración del pueblo hebreo; el Salmo 84, entre otros, deja entrever la fundamentación que el Antiguo Testamento daba a la alianza; la alianza echaba sus cimientos sobre dos pilares: el amor misericordioso (‘Hesed’) y la fidelidad (‘Emet’)19. 16 Cfr. RICCARDO DI SEGNI, “La misericordia nella tradizione ebraica”, en Eleos. L’affanno della ragione tra compassione e misericordia..., 191-192; Piero STEFANI, “Compassione-misericordia nella tradizione ebraica”, Studi – Fatti – Ricerche 111 (2005) 3-6. 17 Cfr. M. PELLEGRINO, “L’Église gérante de la misericorde”, Le Supplement 134 (1980) 373-388. 18 Cfr. UBALDO TERRINONI, Buono è il Signore (Sal. 103, 8). Il messaggio biblico della misericordia, EDB, Bologna 2008. 19 Cfr. FÉLIX ASENSIO, Misericordia et veritas. El ‘Hesed’ y el ‘Emet’ divinos. Su influjo religioso-social en la historia de Israel, Aedes Universitatis Gregorianae, Romae 1949; J. SILVIO BOTERO G., “La verdad y el amor. Presencia de un binomio en la S. Escritura y en el Magisterio”, Studia Moralia 40 (2002) 425-465. 108 J. SILVIO BOTERO G. El pueblo hebreo cuando oraba a Yahvé lo hacía poniendo de presente los dos atributos divinos: “Señor, Dios de piedad y de misericordia, lento a la cólera y rico de gracia y de verdad, que mantiene en pie la misericordia por mil generaciones” (Ex. 34, 6-7). También el Salmo (85, 15): “Mas Tú, Señor, Dios clemente y compasivo, tardo a la cólera, lleno de amor y verdad, vuélvete a mí, tenme compasión”. Hay que advertir algo especial: mientras en las culturas del Oriente, generalmente la misericordia aparece en la conducta ética de los hombres, ahora en la revelación bíblica la misericordia se manifiesta como algo que pertenece exclusivamente a Dios y que Él participa a los hombres; sobre todo, es el Nuevo Testamento el que hace esta confrontación: las parábolas de la misericordia en el Evangelio de Lucas (15, 4-32) y otros textos en que aparece Jesús de Nazareth invitando a “ser misericordioso como Él es misericordioso” (Lc. 6, 36) dan testimonio. La sentencia de Lucas en el texto griego tiene un detalle significativo que merece atención: el evangelista ha traducido el adverbio ‘como’ con una expresión griega (‘Kaqw/j’) muy apropiada para significar lo que intenta decir: el adverbio ‘Kaqw/j’ expresa en griego, no una mera semejanza externa (w/j), sino la fuente de donde procede la misericordia20; es como si quisiera afirmar: sed misericordiosos con la misma misericordia que Yo tengo con vosotros. La Comunidad cristiana primitiva es, en una buena medida, un ejemplo de la práctica de la misericordia; la proximidad al ejemplo del ‘Buen Pastor’ y las vicisitudes que experimentó durante las persecuciones de los primeros siglos afinaron el sentido de la misericordia entre los pastores de la iglesia. Testimonios se podrían citar tantos!!!. Baste hacer mención del Patriarca de Constantinopla, S. Juan Crisóstomo (354-407) quien entendía el término griego ‘su/katabasij’ (condescendencia) en una doble dirección: descendente-ascendente, que se puede traducir como ‘bajar para rehabilitar21. Con esta ima20 Cfr. OLIVER DINECHIN, “ ‘Kaqw/j’: la similitude dans l’évangile selon saint Jean”, Recherches de Sciences Religieuses 58 (1970) 195-236. 21 Cfr. FABIO FABRI, “La condiscendenza divina nell’ispirazione bíblica secondo S. Giovanni Crisostomo”, Biblica 14/1 (1933) 330-347; J. SILVIO BOTERO G., HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 109 gen quería subrayar la actitud de Dios en la persona de Cristo que baja hasta el hombre para rehabilitarlo y acompañarlo en el camino de regreso (subida) a la Casa del Padre22. Igualmente el arte occidental se ha interesado por el tema de la misericordia durante los siglos XIII al XVIII23; Boespflug hace una reflexión sobre la compasión de Dios-Padre a través de 10 esculturas y pinturas de la S. Trinidad en que el Padre está representando ‘la piedad’ en favor de su Hijo muerto en cruz. A estas imágenes se podría añadir la pintura que representa al ‘padre de la parábola de Lucas cuando el hijo pródigo’ regresa a casa, de Rembrandt. También la literatura, sobre todo la literatura popular ha hecho frecuente en el argot del pueblo términos como ‘benignidad’, ‘flexibilidad’, ‘condescendencia’. El paso de una época de severidad a un período de permisividad social, jurídica, pedagógica, ha dado buena prensa a todo aquello que suene a tolerancia en sentido positivo. Incluso a nivel teológico existe una tendencia a la benignidad. En el lenguaje literario, autores como Papini, Mauriac, Péguy, han dado relieve a la misericordia. Llegando al Concilio Vaticano II nos encontramos con un testimonio más de este largo camino de la ‘semilla del Verbo’, la misericordia; la Constitución Dei Verbum se expresó en estos términos: “sin mengua de la verdad y de la santidad de Dios, la S. Escritura nos muestra la admirable condescendencia de Dios, para que aprendamos su amor inefable y cómo adapta su lenguaje a nuestra naturaleza con su providencia solícita” (13). El Concilio está haciendo mención de la ‘condescendencia’ según la comprensión de S. Juan Crisóstomo a quien cita en la nota 11 de la Constitución. La benignidad pastoral. Hacia una pedagogía de la misericordia, Paulinas, Bogotá 2005, 35-41; IDEM, “La condescendencia: ‘bajar para rehabilitar’. Una pedagogía moral para nuestro tiempo”, Efemérides Mexicana 23/69 (2005) 357-377. 22 Cfr. S. JOANNIS CHRYSOSTOMI, In cap. III ‘Gn’. Homil. XVI, PG. 53, 134. 23 Cfr. FRANÇOIS BOESPFLUG, “La compassión de Dieu le Père dans l’art occidental (XIII-XVIII siècles), Le Supplement. Revue d’éthique et théologie morale 172 (1990)124-159; UGO VIGLINO, “Il tema della misericordia nell’arte cristiano”, en ‘Dives in misericordia’. Commento all’enciclica di Giovanni Paolo II, a cura di José Saraiva Martín, Paideia, Brescia 1981, 319-347. 110 J. SILVIO BOTERO G. P. Dacquino, comentando la Dei Verbum destaca la sabia pedagogía divina que se adapta a la condición humana en una forma muy respetuosa con el objetivo de que el mensaje salvífico sea comprendido por todos; esta actitud de condescendencia se hace más patente aún en el momento de la Encarnación del Verbo24. La ‘semilla del Verbo’, sembrada en el corazón de los pueblos a través de los siglos va germinando progresivamente hasta ‘hacerse carne humana’ en la Persona de Cristo. 2. Núcleo teológico della Dives in misericordia En el momento de la promulgación la encíclica Dives in misericordia fue objeto de comentarios sobre su mensaje25. Posteriormente Juan Pablo II promovió un triduo de años en vista a la preparación del Jubileo del año 2000; con esta ocasión dedicó el año 1999 a la reflexión sobre el ‘Padre misericordioso’; esta celebración suscitó abundante literatura al respecto26. Para Yanguas esta encíclica constituye “una llamada singular dirigida a la iglesia para que proclame, trate de vivir ella misma, inculque a los demás e implore de Dios esa misma misericordia de la que el hombre y el mundo contemporáneo tienen tanta necesidad”27. 24 Cfr. PIETRO DACQUINO, “L’ispirazione dei libri sacri e la loro interpretazione”, en La Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, LDC, Leumann (Torino) 1967, 319-320. 25 JOSÉ SARAIVA MARTÍN, a cura di, ‘Dives in misericordia’. Commento all’enciclica di Giovanni Paolo II, Paideia, Brescia 1981; ARMANDO BANDERA, “Justicia, amor, misericordia. Reflexiones sobre la encíclica Dives in misericordia”, CienciaTomista 108 (1981) 209-237; J. M. YANGUAS, “Dives in misericordia: el amor misericordioso, fuente y perfección de la justicia”, Scripta Theologica 14 (1982) 1018-1045. 26 COMISIÓN CENTRAL DEL GRAN JUBILEO, Dios Padre misericordioso, Celam, Bogota 1999; FRANCESC RAMIS D., Lucas, evangelista de la ternura de Dios. Diez catequesis para descubrir al Dios de la misericordia, Verbo Divino, Estella 1997; ALFREDO MARRANZINI, Verso il Padre della misericordia, Città del Vaticano 2000. 27 JOSÉ M. YANGUAS, “Dives in misericordia: el amor misericordioso, fuente y perfección de la justicia”, Scripta Theologica 14 (19982) 603. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 111 La misericordia tuvo en tiempos pasados mala prensa a causa de prejuicios contra ella; se la identificaba con debilidad, con complicidad, con alcahuetería. Yanguas denuncia cuatro de estos prejuicios que ha tomado de la misma encíclica: cuando supone una relación de desigualdad entre el que la ofrece y el que la recibe; cuando mantiene esa desigualdad entre ambos; cuando es un proceso unilateral; cuando es humillación y ofensa a la dignidad del hombre28. Bandera destaca tres núcleos dentro de la encíclica: una reflexión teológica sobre los datos bíblicos en torno al amor misericordioso; a este respecto es interesante la larga nota 52 en que el Papa analiza el término hebreo que en el A.T. expresa la misericordia: rahamin; un segundo núcleo es la historia; Juan Pablo II describe la situación fáctica de la humanidad actual que experimenta el ‘gran giro’ que se está verificando; en tercer lugar, la pastoral con la que intenta dar una respuesta: la iglesia debe tomar conciencia de la necesidad de dar testimonio de la misericordia de Dios29. Es posible destacar otros tres núcleos diferentes: 1. El planteamiento de la necesidad de crear el ‘ethos’ evangélico de la misericordia (3); 2. un éthos’ que tiene especial aplicación entre aquellos que están más cercanos, esposos, padres e hijos, amigos (14); 3. la misión de la iglesia “tratando de introducirla y encarnarla en la vida” (12). A propósito del primer núcleo – la necesidad de elaborar un ‘ethos’ de la misericordia – la encíclica es explícita: “es necesario constatar que Cristo, al revelar el amor-misericordia de Dios, exigía al mismo tiempo a los hombres que a su vez se dejasen guiar en su vida por el amor y la misericordia. (...) Cristo proclama con las obras, más que con las palabras, la apelación a la misericordia que es una de 28 Cfr. JOSÉ M. YANGUAS, “Dives in misericordia: el amor misericordioso...”, 604. 29 Cfr. ARMANDO BANDERA, “Justicia, amor, misericordia. Reflexiones sobre la encíclica Dives in misericordia”, Ciencia Tomista 72 (1981) 212-223. 112 J. SILVIO BOTERO G. las componentes esenciales del ethos evangélico” (3). Se trata de promover el ethos del amor misericordioso, en contraposición al ethos tradicional de la ley y de la severidad. Juan Pablo II ha tenido en cuenta la parábola del ‘hijo pródigo’ (Lc. 15, 11-32). En esta parábola aparece patente el paso de una moral de la justicia al ethos del amor misericordioso: 1. “Padre, dame la parte de la herencia que me corresponde” (Lc. 15, 12). Se aplicaba aquí la lógica de la justicia en que el hijo de la parábola se considera dentro de la relación ‘patrón-obrero’, trabajosalario. 2. “Estando él todavía lejos, le vio su padre y se conmovió, corrió, se echó a su cuello y le besó efusivamente” (Lc. 15, 20). Aquí se revela la lógica del amor misericordioso; lo manifiesta el término griego que emplea el evangelista: e/splagcnisqh (se conmovió en sus entrañas); es un vocablo que hace expresa alusión al amor de la madre (rehem = regazo materno). Ya en el A. T. aparece clara la imagen de Dios como ‘padre’ pero con una fuerte connotación de ‘maternidad’, afirma J. Jeremías; esta insinuación la revelan diversos detalles del A. T.: el verbo hebreo rhaph = encuvar, rahamin = vientre, hul = parir, El Sadday = montes (que aluden a los pechos de la mujer); el Deuteronomio compara la protección de Yahvé con la del águila que vuela sobre sus polluelos (32, 11). Isaías se pregunta “si acaso una mujer puede olvidar a su niño de pecho, puede no compadecerse del hijo de sus entrañas? Pues aunque ésa llegase a olvidarlo, yo no te olvido” (49, 15). A este movimiento de ‘feminización’ de la imagen de Dios ha contribuido, en buena medida, la teología feminista que, según Moltmann, ha llegado a intuir en la Trinidad, no sólo una Persona que hace referencia a lo femenino (el Espíritu Sto.), sino también a intuir la presencia de dimensiones femeninas en cada una de las tres divinas personas30. Desde esta perspectiva se comprende por qué en la se- 30 Cfr. JÜRGEN MOLTMANN, Nella storia del Dio trinitario, Queriniana, Brescia 1993, 12-16. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 113 gunda mitad del siglo XX haya abundado la literatura sobre la ‘maternidad’ de Dios Padre31. Esta línea de reflexión llega hasta Juan Pablo I que afirma: “Dios es Padre y Madre al mismo tiempo”32. El ethos del amor misericordioso desemboca en la superación de una concepción ‘machista’33 de Dios y, por lo tanto, obliga a superar el tipo de relaciones interpersonales entre varón-mujer; como enseña el Documento de Puebla, “la ley del amor conyugal es comunión y participación, no dominación” (582). El ‘ethos’ del amor misericordioso tiene un modelo explícito; más que un modelo es la fuente misma: el Verbo del Padre hecho Carne en la persona de Cristo y Plenitud de la ‘semilla del Verbo’ presente en el A. T. y en las culturas antiguas. Tambien Lucas y Mateo emplean los términos griegos e/leoj, oi/ktirmwn y spla/sggna con el sentido de ‘compasión’: “sed compasivos como (Kaqw/j) vuestro Padre es compasivo” (Lc. 6, 36). Pablo, escribe Esser, “puede tender un puente entre sus enseñanzas y sus exhortaciones, entre el indicativo y el imperativo, mediante la expresión ‘por la misericordia’ (oi/ktirmwn) de Dios (Rom. 12, 1). De la misma manera que en esta expresión quedan sintetizados la acción y el desiginio salvífico de Dios, la misericordia de Dios es el supuesto de la vida cristiana; por ella, los cristianos pueden y deben tener ‘entrañas de misericordia”34. El ‘ethos’ del amor misericordioso, según Juan Pablo II, consiste en “hacer presente al Padre en cuanto amor y misericordia que aparece 31 Cfr. JÜRGEN MOLTMANN, “Il Padre materno”, Concilium 17 (1981) 86-95; R. R. RADFORD, “La natura femminile di Dio”, Concilium 17 (1981) 102-112; J. C. ENGELSMANN, The feminine Dimension of the Divine, Philadelphia 1979; MARÍA C. LUCCHETTI, “Abba’: un Padre maternal?”, Estudios Trinitarios 36/1 (2002) 69-102; D. SÖLLE, “Gott, Mutter von uns Allen”, Orientierung 49 (1985) 37-58. 32 Cfr. GIOVANNI PAOLO I, “Nella preghiera la speranza di pace”, en Insegnamenti di Giovanni Paolo I, Editrice Vaticana 1979, 61. 33 Cfr. F. RAURELL, “Il mito della maschilità di Dio come problema ermeneutico”, Laurentianum 25 (1984) 3-77. 34 H. H. ESSER, “Misericordia”, en Diccionario Teológico del N. T., III, Sígueme, Salamanca 1983, 99-104. 114 J. SILVIO BOTERO G. en la conciencia de Cristo como la prueba fundamental de su misión de Mesías; lo corroboran las palabras pronunciadas por Él primeramente en la sinagoga de Nazareth (Lc. 4, 18) y más tarde ante sus discípulos y ante los enviados por Juan Bautista” (Dives in misericordia 3). El segundo núcleo subraya la trascendencia que tiene el ‘ethos’ del amor misericordioso en la sociedad, a partir de la pareja-familia. La encíclica Dives in misericordia afirma: “el amor misericordioso es sumamente indispensable entre aquellos que están más cercanos: entre esposos, entre padres e hijos, entre amigos” (14). Un año después escribirá Juan Pablo II en la Familiaris consortio: “la comunión conyugal constituye el fundamento sobre el cual se va edificando la más amplia comunión de la familia, de los padres y de los hijos, de los hermanos y de las hermanas entre sí, de los parientes y demás familiares” (21). Estas dos sentencias están en estrecha relación: la comunión entre las personas se inicia en la pareja humana; la Gaudium et Spes afirma que “Dios no creó al hombre en solitario. Desde el principio los hizo hombre y mujer; esta sociedad de hombre y mujer es la expresión primera de la comunión de personas humanas. El hombre es, en efecto, por su misma naturaleza, un ser social, y no puede vivir ni desplegar sus cualidades sin relacionarse con los demás (12). El ser humano es relación; pero una relación que se funda en la capacidad de amar al otro; se trata de un amor que es participación del mismo amor de Dios; por tanto, un amor que es benigno, que es indulgente, que es misericordioso, como afirma Pablo en el ‘Himno al amor’ (1Cor. 13, 4-8). El Documento de Puebla había señalado las cuatro relaciones fundamentales de la persona que encuentran su pleno desarrollo en la vida de familia: paternidad, filiación, hermandad, nupcialidad” (583). La familia, como “la escuela del más rico humanismo” (GS. 52) deberá ser, por tanto, la primera escuela en que se enseñe y se cultive un nuevo tipo de relaciones interpersonales, ya no fundadas tanto sobre el deber y la justicia, cuanto sobre el amor misericordioso. La pedagogía tradicional había abonado demasiado una educación basada en el cumplimiento exacto de la ley, en forma rigurosa; N. Galli, aludiendo a los métodos en la educación familiar, presenta ‘el método autoritario’: “el sistema autoritario, en sus diversos aspectos y matices, parte de la idea de que la inmadurez y la inexperiencia del HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 115 educando han de apuntalarse en la autoridad parental, según formas coercitivas e indiscutibles para lograr éxitos positivos”35. Al querer corregir el autoritarismo de las décadas pasadas, se tiene la tentación de caer en el ‘permisivismo’ que Galli designa como ‘el modelo libertario’: “el modelo libertario es un modelo de ‘no intervención’. Se llega a pensar que el mejor modo de asegurar el desarrollo personal de los hijos consiste en dejarlos al arbitrio de sí mismos, ya que las dificultades del desarrollo agudizan su capacidad de encontrar soluciones, preparando los sujetos para una vida responsable”36. El ‘ethos’ del amor misericordioso, que se inicia en la pareja-familia, no equivale a permisividad, a debilidad, a complicidad. S. Juan Crisóstomo, con su célebre fórmula de ‘bajar para rehabilitar’ ha indicado la manera de entender correctamente el ‘ethos’ del amor misericordioso: significa condescender con la debilidad y miseria humana, no en plan de ‘cerrar los ojos’ ante el mal, sino para comprender, para ayudar, para estimular la rehabilitación de la persona. El ‘ethos’ del amor misericordioso conlleva el perdón, la reconciliación, la redención del hombre. Es significativo que en las últimas décadas ha comenzado a difundirse una buena cantidad de literatura sobre el perdón: el perdón entre esposos y en familia37, el perdón en sociedad, el perdón incluso a nivel nacional e internacional38; se trata del perdón que se va difundiendo en círculos concéntricos. 35 NORBERTO GALLI, La pedagogía familiar hoy, Herder, Barcelona 1976, 34; Giorgio NARDONI, Modelli di famiglia. Conoscere e risolvere i problemi tra genitori e figli, Ponte alle Grazie, Milano, 2001, 39-43. 36 NORBERTO GALLI, La pedagogía familiar hoy..., 37-38; GIORGIO NARDONI, Modelli di famiglia..., 63-68. 37 Cfr. UFFICIO NAZIONALE DELLA CEI PER LA PASTORALE DELLA FAMIGLIA, Il perdono in famiglia, a cura di Sergio Nicolli, Cantagalli, Siena 2008; Jean LAFFITE, “El perdón entre esposos”, en Amor conyugal y vocación a la santidad, Universidad Católica de Chile, Santiago 1996, 143-146; J. SILVIO BOTERO G., Llamados a la perfección cristiana como pareja humana. Fundamento y perspectiva, S. Pablo, Bogotá 2008, 159-163. 38 Cfr. GALO BILBAO – XAVIER ETXEBERRIA, El perdón en la vida pública, Universidad de Deusto, Bilbao 1999; Robert J. SCHREITER, Violencia y reconciliación. Misión y ministerio en un orden social en cambio, Sal Terrae, Santander 1992. 116 J. SILVIO BOTERO G. La justicia con que se ha querido regular las relaciones sociales no ha sido suficiente para crear un clima más humano: “la justicia por sí sola no es suficiente y, más aún, puede conducir a la negación y al aniquilamiento de sí misma”, escribe el Papa (Dives in misericordia 12). En este contexto se puede reportar la sentencia de Jesús: “si vuestra justicia no es superior a la de los escribas y fariseos, no entraréis en el Reino de los cielos” (Mt. 5, 20). Juan XXIII había afirmado que la justicia florece en el amor, un amor que debe ser misericordioso39. Implantar el ‘ethos’ de la misericordia en las relaciones conyugales, familiares y sociales constituye un verdadero desafío para nuestro tiempo. El tercer núcleo consiste en la misión de la iglesia “tratando de introducir la misericordia y encarnarla en la vida” (Dives in misericordia 12). A este núcleo Juan Pablo II ha dedicado la sección VII de la encíclica: ‘la misericordia de Dios en la misión de la iglesia’. A este propósito escribe: “la iglesia debe profesar y proclamar la misericordia divina en toda su verdad, como nos ha sido transmitida por la revelación. (...) La iglesia vive una vida auténtica, cuando profesa y proclama la misericordia – el atributo más estupendo del Creador y del Redentor – y cuando acerca a los hombres a las fuentes de la misericordia del Salvador, de las que es depositaria y dispensadora” (Dives in misericordia 13). La comunidad eclesial (jerarquía y pueblo cristiano) tienen muchos caminos para realizar la misericordia: sea en la vida sacramental dispensando los medios de santificación, sea mediante la Doctrina Social, sea en las relaciones diplomáticas con los gobiernos mediante el esfuerzo por realizar la justicia en el mundo y por alcanzar la paz. “La misericordia auténticamente cristiana – escribe el Papa – es también en cierto sentido, la más perfecta encarnación de la ‘igualdad’ entre los hombres (14). “Tratar de introducir la misericordia y encarnarla en la vida” encuentra un equivalente en la propuesta de Pablo VI al sugerir el es- 39 Cfr. JUAN LUIS SEGUNDO, El caso de Mateo. Los comienzos de una ética judeocristiana, Sal Terrae, Santander 1994, 86-118: “El ‘más’ de Jesús como cumplimiento de la ley”. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 117 tablecimiento de la ‘civilización del amor’; a esta ‘civilización del amor’ ha aludido Juan Pablo II señalándola como “el fin al que deben tender todos los esfuerzos en campo social y cultural, lo mismo económico y político” (Dives in misericordia 14). Incluso el Concilio Vaticano II había enseñado que “la iglesia, por medio de sus hijos, puede ofrecer una gran ayuda para dar un sentido más humano al hombre y a su historia” (GS 40). 3. La misericordia en la perspectiva del tercer milenio Son numerosas las voces que desde diversos ángulos se escuchan reclamando que la iglesia se dedique a aplicar la misericordia en favor de los hombres. Pocos meses antes de que Juan Pablo II promulgara la encíclica Dives in misericordia (30 Nov. 1980) se realizaba en Roma el Sínodo de Obispos sobre la familia (26 Sept. – 25 Oct. 1980); dos detalles revelan la preocupación del Sínodo en torno a la misericordia: el primero aparece a través de las múltiples intervenciones de los Padres sinodales reclamando la atención pastoral en favor de las diversas situaciones conflictivas de los fieles (divorciados, el cónyuge inocentemente abandonado, las uniones consensuales, los matrimonios mixtos)40. El segundo detalle aparece en las “43 Proposiciones “que el Sínodo acordó enviar al Papa para la elaboración de la Exhortación Apostólica Post-sinodal; la ‘proposición 14, 6’ planteaba la recomendación de que “se ponga en marcha una nueva y más profunda investigación, teniendo en cuenta la praxis de la Iglesia Oriental, con el objetivo de hacer más efectiva la misericordia pastoral”41. Posteriormente, el Sínodo sobre la Penitencia y la Reconciliacion (1983) durante las sesiones sinodales subrayó frecuentemente el tema 40 Cfr. GIOVANNI CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1980, La Civiltà Cattolica, Roma 1982. Ver índice de ‘Principali argomenti trattati’ (p. 827-842). 41 SINODO DEI VESCOVI SULLA FAMIGLIA, “Le 43 Proposizioni”, Il Regno-Doc. 26 (1981) 390. La traducción es mía. 118 J. SILVIO BOTERO G. de la reconciliación a diversos niveles: reconciliación dentro de la misma iglesia, reconciliación con las otras comunidades cristianas, reconciliación con los no-cristianos, reconciliación con algunos grupos de fieles en particular (divorciados y divorciados vueltos a casar), etc42. Si bien no alude expresamente a ‘misericordia’, se puede suponer que con el término ‘reconciliación’ está haciendo referencia a ella. La Exhortación Apostólica post-sinodal Reconciliatio et Paenitentia (2 Dic. 1984) hace una confrontación especial entre el ‘mysterium pietatis’ (misterio o sacramento de piedad) y el ‘misterium iniquitatis’ (misterio de iniquidad): el pecado del hombre vencería y terminaría por ser destructivo, y el plan salvífico de Dios quedaría sin realizarse, o incluso derrotado, si el ‘misterio de piedad’ no se hubiera insertado en el dinamismo de la historia para derrotar el pecado del hombre43; el Papa pensaba, sin duda, en la Carta del Apóstol Santiago: “tendrá un juicio sin misericordia el que no tuvo misericordia; pero la misericordia se siente superior al juicio” (2, 13). A este propósito conviene reportar la sentencia del Papa en la encíclica: “el perdón atestigua que en el mundo está presente el amor que es más fuerte que el pecado” (14). Del Sínodo sobre la Eucaristía (2005) hay dos detalles a destacar: el primero aparece en la ‘Proposición 40” del elenco de 50 ‘proposiciones’ que el Sínodo envió al Papa en vista de la futura Exhortación Apostólica post-sinodal; en ella el sínodo postula una postura y una acción pastoral de preocupación, de acogida de los fieles divorciados y vueltos a casar44. En este mismo año, Benedicto XVI, dirigiéndose a la Rota Romana con ocasión de la apertura del Año Judicial (28 Enero 2006), hacía una observación significativa: el reciente sínodo de obispos sobre 42 Cfr. GIOVANNI CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1983, La Civiltà Cattolica, Roma 1985, 859-868: Indice de ‘Principali argomenti trattati’. 43 Cfr. JOANNES PAULUS II, “Adhortatio Apostolica post Synodum episcoporum Reconciliatio et Paenitentia (2 Dic. 1984)”, en Enchiridion Vaticanum II. Documenti Ufficiali della Sta. Sede (1983-1985), IX, EDB, Bologna 1987, nn. 1134. 44 Cfr. SINODO DEI VESCOVI 2005, “Elenco Finale delle Proposizioni”, Il Regno-Attualità 19 (2005) 553. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 119 la Eucaristía había manifestado interés por el problema de los fieles no casados canónicamente, en vista a la participación en el sacramento de la Eucaristía, y recomendaba empeñarse en la regularización de esta situación; pero al mismo tiempo anotaba el Papa que la Instrucción Dignitas connubii (25 Enero 2005) del Pontifico Consejo para los Textos Legislativos parece poner límites a la propuesta pastoral del sínodo, creando de este modo una contraposición entre derecho y pastoral45. Esta insinuación de Benedicto XVI está en sintonía con una actitud contínua que ha manifestado durante su pontificado: el intento de conciliar la ‘verdad y el amor’; ya en la homilía de apertura del conclave que lo eligió Sumo Pontífice hizo alusión a este binomio cuatro veces46; posteriormente en muchas otras ocasiones ha vuelto a hacer mención de él. Es posible afirmar que el Papa está llamando a una nueva actitud, a una actitud de conciliación entre ‘teoría y práctica’, entre ‘verdad y amor’, entre ‘derecho y pastoral’ lo que producirá efectos positivos en vista a hacer pasar la reflexión sobre la ‘misericordia’ de un plano un tanto o bastante teórico a un plano más práctico y pastoral. Conclusión Concluyendo esta reflexión sobre la misericordia, una ‘semilla del Verbo’, que progresivamente se ha ido desarrollando a lo largo de la historia hasta merecer la ‘recepción’ por parte del Magisterio de la iglesia, se debe poner de presente que ha sido una reflexión, en muy buena medida, a nivel teórico. La propuesta del Sínodo de Obispos (1980) de “hacerla efectiva como misericordia pastoral” aún no se constata en forma patente. Por esta razón se hacía ya en el titulo de esta reflexión la pregunta: una tarea por realizar? 45 Cfr. BENEDETTO XVI, “L’amore per la verità, fondamentale punto di incontro tra diritto e pastorale”, Osservatore Romano 29 Gennaio 2006, 5. 46 Cfr. J. RATZINGER, “Omelia nell’Initium conclavis”, AAS 97/5 (2005) 687688. 120 J. SILVIO BOTERO G. Sí se puede constatar, en cambio, un intento de conciliar en forma dialéctica (incluyente) varias ‘aporías’ que han sido tratadas en forma excluyente, como el ‘reloj de péndulo’; tradicionalmente se había enfatizado la ley, el derecho, de manera radical, llegando a un rigor que a veces parecía menos humano. El Concilio Vaticano II anotó que “la humanidad pasa de una concepción más bien estática de la realidad a otra más evolutiva y dinámica de donde surge un nuevo conjunto de problemas que exige nuevos análisis y nuevas síntesis” (GS. 5). Una de estas ‘nuevas síntesis’ es la reconciliación del derecho con la pastoral. Los teólogos han puesto sobre la mesa de reflexión la necesidad de relacionar estas dos disciplinas dentro de la iglesia: derecho y pastoral47. Pablo VI, cuando se trató de revisar el viejo Código de Derecho Canónico sugirió las notas que debían tipificar al nuevo código: la moderación, el espíritu de caridad, de benignidad, cualidades éstas que diferencian el código eclesiástico de cualquier otro código profano48. A Pablo VI se debe también la iniciativa de recuperar en la legislación eclesial la vieja categoría de la ‘equidad canónica’ que él definió, con términos de S. Cipriano de Cartago, como “justitia dulcore misericordiae temperata” (el rigor de la justicia legal que debe ser mitigado con el dulce sabor de la misericordia)49. En esta perspectiva de conciliar derecho y pastoral se debe anotar también algunas propuestas hechas por teólogos y juristas acerca de la revisión de algunos cánones del Derecho Canónico; por ejemplo, du47 Cfr. PAUL VI, “Le droti canonique dans la pastorale de l’Église”, Documentation Catholique 59/74 (1977) 251-253; Gianfranco GHIRLANDA, “La carità come principio giuridico fondamentale costitutivo del diritto ecclesiale”, La Civiltà Cattolica 128/II (1977) 454-471; IDEM, “La misericordia di Dio nel diritto ecclesiale e la Nota della CEI sui matrimoni irregolari”, Rassegna di Teologia 21/4 (1988) 257-272. 48 Cfr. ACTA COMMISSIONIS, “Principia quae Codicis Juris Canonici recognitionem dirigant”, Communicationes 1-2 (1971) 83. 49 PAOLO VI, “Libertà e autorità, valori essenziali inscindibili”, en Insegnamenti di Paolo VI, VIII (1970) Poliglotta Vaticana 1971, 83; IDEM, “Natura e valore pastorale delle norme giuridiche nella chiesa”, en Insegnamenti di Paolo VI, XI, Poliglotta Vaticana 1974, 127. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 121 rante el Sínodo de Obispos (1980) varios Padres sinodades intervinieron en favor de una reconsideración del canon 1060 que dé la prioridad dentro del matrimonio a la persona humana y no tanto al ‘favor juris’50. Otro elemento que hace presión en pro de una efectiva puesta en práctica de la misericordia dentro de la comunidad eclesial es el canon 1752 con que se cierra el nuevo Código de Derecho Canónico: “la salvación de la almas debe ser la ley suprema de la iglesia”. Comenta Arrieta que la introducción de este canon dentro del nuevo código obedeció a la intención de mitigar la resistencia a la promulgación del nuevo código51. Existe todavía otro canon (978) que es más explícito a este respecto: “al oir confesiones, tenga presente el sacerdote que hace las veces de juez y de médico, y que ha sido constituido por Dios ministro de justicia y a la vez de misericordia divina para que provea al honor de Dios y a la salud de las almas”. El Código alude a las funciones de juez y de médico; S. Alfonso M. De Liguori, Patrono de confesores y de moralistas, había propuesto otras dos funciones del confesor: la de ‘padre’ y la de ‘maestro’, pero con una notable diferencia: da la prioridad a la función de ‘padre’ y luego enuncia las funciones de médico, de maestro o doctor y, finalmente, la de juez52. Incluso es significativa su posición de frente al Concilio de Trento (Denz. 1692) que advertía al confesor acerca del peligro de ser demasiado indulgente; el Sto. Doctor de la Iglesia, en sintonía con S. Juan Crisóstomo, prefería dar la prioridad a la misericordia antes que 50 Cfr. GIOVANNI CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1980..., 144-145, 146, 166, 180, 231, 296, 332, 338, 341, 354, 160, 364, 369, 373, 383, 468, 764, 771; Janusz KOWAL, “Conflitto tra ‘favor matrimonii’ e ‘favor personae’”, Periodica 94 (2005) 243-273; RUFINO CALLEJO DE PAZ, “El ‘favor matrimonii’ (c. 1060): aspectos a revisar”, CienciaTomista 127 (2000) 135-159; BERNARDO VANEGAS, “La crítica actual del principio del ‘favor matrimonii’”, Universitas Canonica 3 (1981) 313-341. 51 Cfr. JUAN IGNACIO ARRIETA, “La ‘salus animarum’ quale guida applicativa del diritto da parte dei pastori”, Jus Ecclesiae 12/2 (2000) 370. 52 Cfr. S. ALFONSO M. DE LIGUORI, Pratica del confessore, Casa Mariana, Frigento (AV) 1987, 5-36. 122 J. SILVIO BOTERO G. a la severidad (“nonne melius es propter misericordiam rationem dare quam propter crudelitatem?”), teniendo en cuenta las circunstancia del estado, del sexo, de la edad; de este modo, quería evitar la fuga del penitente por causa del rigor, y animarlo a la frecuencia del sacramento de la reconciliación53. La ‘recepción’ plena de la misericordia dentro de la iglesia católica, a nivel práctico y efectivo, está por lograr todavía. La conmemoración del 30º aniversario de la promulgación de la Dives in misericordia podrá ser una buena ocasión para impulsar la elaboración dentro de la comunidad eclesial del ‘ethos’ del amor misericordioso de Dios para que “la iglesia profese y proclame la misericordia divina en toda su verdad” (Dives in misericordia 13). 53 Cfr. SANCTI ALPHONSI M. DE LIGORIO, Theologia Moralis, III, Typis Polyglottis Vaticanis 1909, 518-520. HACIA LA “RECEPCIÓN” DEL “ETHOS” DE LA MISERICORDIA 123 SUMMARIES In this article the intention of the author is to develop the presence of ‘Mercy’ as the ‘Seed of The Word’ in his History: begining with ancient Cultures and continuing in christian Revelation and, at the End, the presence of ‘Mercy’ in the Magisterium. If we wish to evaluate its practical Application the Encyclica Dives in misericordia (30 Nov. 1980), we must recognize that it remains more theoretical than practical. *** Con estas páginas se ha intentado exponer la presencia de la misericordia como ‘una semilla del Verbo’ en su largo itinerario a lo largo de la historia de la humanidad: comenzando con su presencia en las culturas antiguas, continuando con la aparición dentro del mensaje revelado y culminando con la reflexión que ha hecho sobre la misericordia el Magisterio de la Iglesia. Evaluando la proyección de la encíclica Dives in misericordia (30 Nov. 1980) en la vida concreta de la comunidad eclesial, quizás habría que afirmar que se ha quedado a un nivel más teórico que práctico-existencial. *** L’autore di questo articolo si propone di sviluppare il concetto di ‘misericordia’ facendo attenzione alla sua presenza come ‘Seme del Verbo’ nel suo lungo cammino storico. Incominciando dalle culture antiche, la ricerca continua con l’esame della presenza della ‘misericordia’ nella Rivelazione cristiana e nel Magistero della Chiesa. Facendo una valutazione della proiezione dell’Enciclica Dives in misericordia, di Giovanni Paolo II (30 Novembre 1980), nella comunità ecclesiale si constata che la sua applicazione pastorale è rimasta ad un livello piuttosto teorico che pratico. WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? Brian Johnstone, C.Ss.R.* One of the most basic notions in Christian theology and in Christian ethics or moral theology is the “person.” But what does this word mean? The aim of this article is to offer an answer to that question. My response will integrate some traditional concepts of the person with contemporary thinking in order to resolve some difficulties associated with the concept and provide an account of this notion that might be meaningful within our contemporary culture. It will be argued in this article that the concept of the person, as it has been presented in philosophy and Christian theology, has sometimes focused one-sidedly on the person as individual and rational, to the neglect of the person as relational and, most notably, as loving and loved, rather than merely rational.1 If we are to understand and value the person we may have to adopt a different way of thinking, a way which could be described as thinking within love.2 This way of thinking would be characterized more concretely as the practical thinking that guides the expression of love in the receiving and giving of gifts. These ideas, I will seek to explain further in the course of this article. * The author is an ordinary professor at the Catholic University of America. * El autor es profesor ordinario en la Universidad Católica de América. 1 For example, the otherwise excellent work of ROBERT SOKOLOWSKI, Phenomenology of the Human Person (Cambridge: Cambridge University Press, 2008) does not mention love at all. Sokolowski adopts the term “agent of truth” as a synonym for “the human person”, p. 1. 2 For this idea, I am indebted to JEAN-LUC MARION, The Erotic Phenomenon, tr. Stephen E. Lewis, Chicago: The University of Chicago Press, 2007. However, I have not simply appropriated Marion’s thinking as will become clear later in this article. StMor 48/1 (2010) 125-141 126 BRIAN JOHNSTONE As a starting point for our reflection on the person, I propose the following as something that might be generally agreed upon. When we acknowledge another as a person we recognize that other as an individual, as one who is in relationship with us and as one who has moral claims on us. When we acknowledge that another has moral claims on us we often say that the other has “dignity.” These three words will be key themes in the following analysis of the meaning of person: individual, relationship and dignity. 1. The Concept of Person in the Tradition It would be beyond the scope of this article to seek to explain the very complex history of the development of the concept of person within the Christian tradition; this has been done very competently with respect to Boethius and St. Thomas by others, such as Koterski.3 With regard to the meaning of person in the Eastern tradition, the work of Zizioulas is particularly illuminating, particularly with regard to relationship or communion.4 For the purposes of this article, Charles Taylor’s summary of the development of the notion in the early centuries of the Church is helpful: “(...) for this way of thinking, the person is the kind of being which can participate in communion.”5 However, Taylor has indicated only one interpretation of the person according to which to be a person is to be first of all constituted a kind of being, that is a person, who can then subsequently enter into communion. An alternative interpretation would be to consider the person not merely as one who can engage in communion, but as one who actually is engaged in communion, that is, in relationships and, by being engaged in com3 JOSEPH KOTERSKI, “Boethius and the Theological Origins of the Concept of Person,” American Catholic Philosophical Quarterly 78 (2004) 203-224. 4 JOHN D. ZIZIOULAS, Person as Communion (Crestwood, N. Y.: St. Vladimir’s Seminary Press, 1985) 67. 5 CHARLES TAYLOR, A Secular Age (Cambridge, Mass.: The Belknap Press of Harvard University Press, 2007) 278. WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 127 munion, is constituted a person. It would seem that, if we are to understand the meaning of person, we need to keep both perspectives in view, the individual and the relational, . The one must not be absorbed by the other. As Zizioulas describes the development of the notion of person in the ancient Greek view, the ruling framework was the rational necessity of a unified and harmonious world, a whole where the whole does not exist for man, but man for the whole. Man is then embedded in the whole and there is no place for freedom; the status of being a person, which entails freedom, can only be a mask; it does not designate the real being of man, which is still bound by necessity. In the Roman view, it is rather the social and legal whole that has priority; again personhood is a mask, and does not belong to the being of man.6 There is no place for personal freedom, or rather, freedom is in an ambiguous situation: on the one hand, the social organization suppresses personal freedom, but, on the other, to some extent, it makes freedom socially possible, for example, by the protection afforded by law against violence and domination. Zizioulas, sees the guiding dynamic of the development in the Christian tradition as the identification of person with the very being of man: personhood is not something added on to man, man is a person.7 The Christian tradition understood that God is personal and free, that He is not constrained by cosmic necessity; and likewise understood that the human person is free. Thus, to the three key words, individual, relationship, dignity, we would need to add a fourth, freedom. The story of the person in the Christian tradition, I suggest, is the story of how these four elements were connected. But the story has not yet ended and we may find that there are still additional steps to be taken. In the next section, I will outline some of the major medieval developments. 6 ZIZIOULAS, Person, 30. Zizioulas account is much more subtle and interesting than this summary can express. 7 128 BRIAN JOHNSTONE 2. Metaphysics and Persons The original definition (of St. Thomas) was constructed to deal with metaphysical questions, within theological inquiries concerning the persons in the Trinity8 and concerning the sense in which Christ could be said to be a person.9 When St. Thomas adopted the definition of Boethius: “A person is an individual substance of a rational nature, ”10 he was seeking a rational account of the mystery of three in one God, or rather intending to show that no contradiction was involved in the Catholic doctrine, which held that there are three persons but one divine nature. He constructed the definition of person according to this interest, drawing on the philosophical-theological resources available to him. However, Aquinas made some important changes in adopting the definition of Boethius. Person, for him, is “(...) a complete substance that is subsistent by itself distinct from others and rational in nature.”11 It is a significant change. The person cannot be something added on to something else or a part of a whole. Thus, the human soul is not a person, even in the separated existence after death; nor is the human nature of Christ a complete person. Again, this understanding of person allows Thomas to deny that the divine essence is a person, since it does not exist apart from the persons of the Trinity. The person must be what possesses the nature and all its acts and operations. Aquinas could thus honor the Augustinian insight re- 18 S. Th. I, 29, 1. S. Th. III, 16, 12. 10 BOETHIUS, Contra Eutychen et Nestorium, 3; BOETHIUS, The Theological Tractates, With an English Translation by H. F. Stewart and E. K. Rand, (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1962) 85. St. THOMAS AQUINAS, S. Th. I, 29, 1. Contemporary theologians have paraphrased the classical definition as: “An actual unique reality of a spiritual being, an undivided whole existing independently and not interchangeably with any other.” KARL RAHNER, ed. Encyclopedia of Theology: The Concise Sacramentum Mundi. New York: Saber, 1975, s. v. “Person” by Max Miller and Alois Halder. 11 KOTERSKI, “Boethius,” 224. 19 WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 129 garding the divine persons as subsistent relations.12 Augustine himself did not know or use the term, but he had the fundamental idea of what Thomas Aquinas later called a ‘subsistent relationship’.13 With the identification of person with subsistent relationships, Thomas thus brings together both the individual, separate status of the person and the relational; the person is a relation. Boethius himself was thinking about other persons, human persons and angels, but in formulating his definition he was concerned principally with questions concerning the nature of Christ and the Trinity. St. Thomas’s interests were likewise primarily theological. However, the nature of the human person was also implied in the theological developments and we need to give attention to this topic. Theologians, for example, David Coffey, assume that what we say about persons in reference to God can also be said, in some way, of human persons. Coffey writes: “Human beings are persons because they stand in a transcendental relation to another than themselves, to God, and they achieve their personhood before him through relations with other human beings in the world.”14 This reflects the kind of metaphysics that I believe needs to be overcome by a logic of love, expressed in the giving and receiving of gifts. I would suggest, human beings are persons in receiving from God a gift of love, which renders them lovable and capable of giving the gift of love to others and receiving from the others, who receive that gift, their being as lovers. “Transcendental relationship,” in this view, becomes “a relationship of receiving and giving.” Persons do not “achieve” their personhood, as Coffey writes, they receive their personhood as a gift from God, which they receive as a gift given to them by other human persons with whom they are in communion. If we want to use the word “achieve,” we could say that persons “achieve” their personhood by actively receiving it as a gift. 12 KOTERSKI, “Boethius.” 224. YVES CONGAR, I Believe in the Holy Spirit, vol. 3, Part B – chapter 1. 14 DAVID COFFEY, Deus Trinitas (Oxford: Oxford University Press, 1999) 86. Cited in GERALD GLEESON, “Speaking of Persons, Human and Divine,” Sophia 54: 1 (2004) 58. 13 130 BRIAN JOHNSTONE 3. Human Persons: Parts of a Whole or Individuals In the medieval period, the ancient problem concerning the relationship between the human person as an individual, the whole of the cosmos and the whole of society, still remained. The individual could still be thought of as a part of the community. Such a notion of the individual as part of the community is behind the justification of capital punishment by St. Thomas himself, 15 and his qualified acceptance of slavery.16 Later, the same prioritizing of the community over the person as individual supported the continued acceptance of torture, for example, by St. Alphonsus Liguori.17 In the medieval and pre-modern views, the person is still a part of the whole, even if not totally so; in contrast, in the typically modern view where the person is apart from society and enters society by free choice. In the earlier view, the person exists within relationships, while in the latter the person exists prior to relationship. The central issue then in an adequate account of what it means to be a person, is to give adequate recognition to the relational element of personhood, that is, to recognize the person’s being in communion, without allowing the person to be absorbed as part of a whole. The classic definition, when linked to the notion of subsistent relationship, as it has been explained earlier, succeeded in including both dimensions, the individual and the social: to be a person meant to be an individual in a rational nature, which is a subsistent relationship, that is a “social” being. The account of “person” that has been outlined thus far would have to be called “metaphysical.” This raised two problems for us who have to explain what we mean by person in our contemporary cultural circumstances. The first is to claim, or reclaim, a place for metaphysics in a philosophical climate that is strongly an15 ST. THOMAS AQUINAS, S. Th, II-II, q. 64, a. 2 (on capital punishment). HECTOR ZAGAL, “Aquinas on Slavery: An Aristotelian Puzzle,” Congresso Tomista Internazionale: L’umanesimo Cristiano Nel III Millennio: Prospettiva Di Tommaso D’aquino, Roma, 21-25 settembre 2003, Pontificia Accademia di San Tommaso – Società Internazionale Tommaso d’Aquino. 17 Theologia Moralis (4: 3: 3). 16 WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 131 ti-metaphysical.18 Jean-Luc Marion, upon whose thinking I am drawing in this article, seeks to overcome “metaphysics,” by which he seems to mean any framework that restricts or encloses thought.19 For Marion, even the concept of “being” is limiting. Thus, if we think of God in terms of “being” we are not reaching God, but constructing an “idol” that blocks our gaze from God and turns it back on ourselves.20 From the preceding discussion a basic question emerges: should we construct our definition of person in the framework of “being” or is this too limiting? Zizioulis and Spaemann, in particular, among recent authors develop their notion of person in terms of being, thus the notions of person that they propose are still based on metaphysics. Are their positions still sustainable in the light of contemporary critiques of metaphysics? Is there any place for a metaphysics in understanding the notion of person? Why is a response to the rejection of metaphysics necessary or useful? I would suggest that if we simply repeat traditional metaphysics in our account of the person, we are not likely to receive a hearing outside the circle of those who still uphold such a way of thinking. Spaemann himself, in his reconstruction of the meaning of being in regard to the person, does not simply repeat the standard view of metaphysics, but seeks to integrate the insights of Levinas.21 It would not be out of order then to introduce the thought of Marion, who was himself influenced by Levinas and who is a significant thinker today. It will seem odd to suggest that Marion could be invoked here: as has been noted he intends to overcome metaphysics. However, let us see what we can make of his thinking in connection with our present theme. 18 Jean-Luc Marion for example is a strong critic of metaphysics. Cf. CHRISTINA M. Gschwandtner, Reading Jean-Luc Marion: Exceeding Metaphysics (Bloomington: Indiana University Press, 2007) 39. 20 This consideration is not without precedent in the tradition; as traditional theology held, we cannot have a “concept” of God: since a concept is necessarily limiting. According to St. Thomas Aquinas, we have no positive quidditative or natural-kind concept of God. 21 Spaemann, Persons, 127. 19 132 BRIAN JOHNSTONE 4. Persons and Phenomenology: Marion I would suggest that Marion has much to offer both to the philosophy of religion and to theology, however, there are some difficulties with his thinking that cannot be overlooked. In the first place, the notion of the “horizon of givenness” that, for Marion, is to provide the framework for all thinking, looks rather like a form of metaphysics.22 A second question is whether phenomenology itself is capable of dealing with the questions that Marion seeks to answer. A critic, Joseph O’Leary, thinks not. O’Leary has questioned whether phenomenology itself can deal with the reality of gift, a basic theme in Marion’s work. This author argues that in the pursuit of a phenomenological account of gift, “(...) the gift slips out of the phenomenologist’s sight,” and “phenomenology tends to overreach itself in its efforts to retrieve the territories subtracted from its sway.”23 Indeed, he suggests that the gift is only one of many cases, where phenomenology does not allow us to come to grips with the “matter itself.” By this, I understand O’Leary to refer to the “empirical realities of giving and receiving as human relational activities (...).”24 If this criticism is valid, phenomenological thinking, as conducted by Marion, may not be able to illumine the relational element of the person in particular as this relational element is actually and really constituted. I would suggest that we can discover the relational nature of persons, first of all, in the concrete reality of the giving and receiving of gifts, a reality which must take into consideration the empirical realities entailed. This is to suggest that we should begin, not with ideas of gifts, but real gifts, given and received by real persons. What I mean by this is that the way we think about persons 22 On Givenness, see JEAN-LUC MARION, Being Given: Towards a Phenonology of Givenness, tr. by Jeffrey L, Kossky (Paolo Alto: Stanford University Press, 202) 79. 23 Marion himself strongly rejects this criticism. Personal communication, 2009. 24 JOSEPH O’LEARY, “The Gift: A Trojan Horse in the Citadel of Phenomenology?” in Givenness and God: Questions of Jean-Luc Marion. WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 133 must be such as to guide us in asking such questions as whether this actual, concrete person can freely receive this particular gift or not. I am not convinced that phenomenogical thinking can do this. The second critique is directed to the same question, but considers the specifically ethical aspect of this question. Gerald McKenney points to the “indifference to love as deed” in Marion’s work,” which he sees as due to “a nearly exclusive emphasis on love as knowledge.”25 I would agree with this criticism and suggest that we need to include in our notion of person, not only the knowledge that comes with love, but the deeds or actions that express love to another. Perhaps we could deal with these difficulties by retaining the notion of love as knowledge, but interpreting this knowledge as the practical reason that guides the giving and receiving of gifts. This is my own suggestion for a solution to the problem. A theory of knowledge, even a theology of love as knowledge, does not provide us with a basis for an adequate notion of the person; we must start with the concrete practice of the expression of love in action, and specifically in the actions of the giving and receiving of gifts. Love is not of itself a “subsistent” reality, or, if you will a “subsistent value.” Persons “subsist,” that is exist, as individuals distinct from others; similarly a gift does not subsist, that is exist independently of other beings. A box of chocolates does not exist as a Christmas gift; it is a gift only in its being given by a giver and received by a receiver. The kind of practical knowledge that I am proposing would lead to a notion of the person, not only as “the acting person” but as the receiving and giving one, who in receiving and giving is constituted a person. In the light of these suggestions, we can return to the task of reclaiming a place for a kind of metaphysics. We could adopt a framework of thinking of which the structures are the receiving and giving of gifts; within this framework the argument would be developed as follows. If the giver is to be able to give a gift to the receiver, then the 125 GERALD MCKENNY, “(Re)placing Ethics: Jean-Luc Marion and the Horizon of Modern Morality” in Counter-Experiences: Reading Jean-Luc Marion, ed, Kevin Hart (Notre Dame, Ind.: University of Notre Dame Press, 2007) 353. 134 BRIAN JOHNSTONE logic of love expressed in giving would require her to seek to understand as well as possible the nature of the proposed receiver, the nature of the gift to be given and the nature of the giver herself. This could be expressed in other words: the individual giver would need to seek knowledge of the individual receiver and of the individual gift, but by the acts of giving and receiving, all are subsumed into a relationship. An individual becomes a giving and receiving individual in this relationship, that is, becomes a person in relationship. We could consider such knowledge of the nature of persons and things, as a type of metaphysics. Such knowledge would not limit love or the knowledge that guides love, but would make its expression in act possible. It would in a sense “limit” love in bringing it to focus on a concrete deed in relation to a concrete other, but this is the completion of love, not the limitation of love. This would amount to arguing that knowledge of the nature of persons and things is a necessary condition for the giving and receiving of gifts. Such knowledge would require also an investigation of the empirical facts of the giver’s and the receiver’s situations and of the circumstances in which the giving and receiving were to take place. We would thus come to know the meaning of person from actual engagement with concrete, actual persons in the relationships of giving and receiving. This, I would argue is the way by which we come to know the person of God. We know God as personal through our reception of the gifts of God, which we recognize as gifts of love. If we accept that love is an analogous concept, the primary analogate is God’s love. But it would be more accurate to say that the primary analogate is loving, a verbal form, rather than the substantive “love.” We could then say the concept of “human person” is analogous in regard to God, who gives the human person personhood. The aspect of sameness between the divine person and the human person is love as giving; while the aspect of difference consists in that the human person is first of all receiving love, prior to its being able to give love. I have sought to retrieve a place for metaphysics by proposing a metaphysics of love. This leaves two questions: how is a metaphysical account of the person linked to a moral understanding of the person and what is a metaphysics of love. WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 135 5. From Metaphysics to Morals Let us examine how Spaemann deals with this problem. He interprets Kant’s injunction that we may never use humanity merely as a means as meaning that “... he other remains as him or herself essentially outside all contexts available for our interpretation of events (...)”. My earlier reflections included a similar idea, namely that the knowledge of a person cannot be captured in a fixed framework of concepts, but is beyond all interpretations. But I have also argued that practical reason, in order to guide the giving of a gift to a person, must necessarily form a notion of the person and this it does by conceiving the person as one who received and gives the gift of love. Spaemann argues that, if we understand being “not as the most abstract being, as ‘something in general’ but as “absolute posit” (Kant) the actus essendi (act of being) preceding every possible objective attribute (...)” then Being means “beyond being.”26 Being, so understood is incommensurable and absolute.27 Then Spaemann moves from the incommensurability of Being to the incommensurablity of the person. Roughly, the argument here is as follows: Being is absolute, that is, beyond all limits. But the person is Being. Therefore, the person is absolute. Thus, he argues “Personal identity as Being-in-itself (...) eludes every possible definition in terms of context.”28 However, the move from Being to person does not seem to be adequately explained. Then the author needs to make the further move from a metaphysical notion of person as (absolute) Being, to a moral notion of the person as one who makes (absolute) moral claims on us. This he does by invoking Levinas’s notion of the “command” which issues from the “face” of every human being, without condition.29 This 26 By “being” Spaemann would seem to mean the conceptualized notion we form of beings, while Being refers that which lies beyond all concepts, but provides the ground of beings. 27 SPAEMANN, Persons, 127. 28 SPAEMANN, Persons, 127. 29 The author cites, EMMANUEL LEVINAS, Totality and Infinity, tr. Alfonso Lingis (Duquesne University Press, 1969). 136 BRIAN JOHNSTONE command takes the form, “Thou shalt not kill;” thus we arrive at an absolute prohibition against killing a person. This is a way of linking a metaphysical account of the person to a moral account of the person; but is it convincing? 6. The Dignity of the Person Another way of connecting a metaphysical account of the person to a moral account is by invoking “dignity.” Spaemann writes, “The term person has always (since Boethius) served as a nomen dignitatis, a concept with evaluative connotations.”30 Since Kant, the notion of the dignity of the person has become accepted as the foundation of moral claims, in particular of human rights. It is the presence of selfgoverning reason in each person that Kant thought offered decisive grounds for viewing each as possessed of equal worth and deserving of equal respect, that is of having dignity. Kant’s best known formula is that already mentioned; it required that humanity in ourselves and in others be treated always as ends and never as mere means.31 For Kant, what counts about persons is their rational will, and others are to count as persons because they have likewise a rational will. In brief, that which is constitutive of the person is rationality and on this is based the absolute value of the person. This seems to be Spaemann’s position.32 But how do we make the move from the metaphysical concept “rationality” to the moral concept “value?” The word “dignity” does not provide an explanation for this move; it covers over the lack of one. The same problem arises in moral theology. Authors begin with a metaphysical concept of the person and then assume, without further argument, that this concept has moral significance. 30 SPAEMANN, Persons, 2. KANT, Groundwork for the Metaphysics of Morals, AA iv.429. (Practical Philosophy, ed. And tr. Gregor, 80. 32 SPAEMANN, Persons, 127. 31 WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 137 7. Metaphysics and Morality: Moral Theology As an illustration of this problem, I cite the arguments of those Catholic moralists who hold that the human embryo is a person in the metaphysical sense, namely an individual substance of a rational nature, and assume that they have thereby established that the embryo has value, or dignity, that is, has moral claims on us. I could equally cite those moral theologians who argue that it cannot be proved that the embryo is an individual substance of a rational nature and conclude that the embryo is not a person and therefore has no absolute moral claims on us.33 In neither case do these conclusions follow. What is the problem here? Some history may help. As Spaemann explains, after the acceptance of the definition of Boethius, philosophy (in the West) took two directions: one sought to explain what is meant by “rational” as in “rational nature;” the other, especially in English speaking countries endeavored to specify the qualities or attributes that a being must have if we are to be justified in calling that being a “person.”34 This framework, I suggest, has been adopted in both secular discussions of the issue and in moral theology. The arguments work as follows: we presume that we are persons, and that what constitutes us as persons is that we have certain attributes, above all rationality. We then presume, further, that because we are persons we have a special moral status. Then we ask whether others have the same attributes as we have, again, especially rationality. Since we have moral respect for ourselves, we are willing to give moral respect to others if they qualify as persons as we understand persons. So we require that the embryo has rationality. The secular argument is that the embryo does not have rationality and so is not a person. Catholic arguments seek to prove that the embryo has rationality in a potential sense; but is this not to accept the same framework? It is still assumed that the embryo is to be accepted as a per- 33 34 NORMAL FORD, When did I Begin; Shannon. SPAEMANN, Persons, 9. 138 BRIAN JOHNSTONE son if it has certain attributes. The only difference is that Catholic arguments require, as a criterion of acceptance, potential rationality rather than actual rationality. 8. A New Framework: The Metaphysics of Love By the logic of love I mean the inner structure of love, the rationally intelligible structures that appear when we reflect on the reality of being loved and loving or more specifically on receiving and giving gifts as the expressions such love. The corresponding framework, I argue, should be different than the one that is usually taken for granted in our contemporary social imaginary.35 Rather than assuming that another human being is not a person until we have proved that she or he is so according to the kind of criteria discussed previously, we should presume that the other is a person, until the contrary is proven. What could be such a proof? It would be necessary to show that the other, by nature, as distinct from contingency, is not capable of freely receiving the kinds of gifts that would enable him or her to become, or to become more, a free receiver and giver of gifts. This applies also to a human embryo; the human embryo is, by reason of its nature, capable of receiving gifts from us that will enable it to become, in time, a rational, free giver of gifts; it is capable of receiving that which is necessary for it to develop rationality; it does not have to be rational already. A human embryo can receive such gifts; that is the crucial point. An animal, on the other hand, cannot receive the kinds of gifts that would enable it to become a free giver of gifts; nor can we give such gifts to an animal; the kind of communion that is possible between human beings, is not possible between humans and animals. When we understand that the other is one who can be given gifts, that is loved in this sense, we come to understand the inner structure 35 I take the term, of course, from CHARLES TAYLOR, A Secular Age (The Belknap Press of Harvard University Press, 2007) 173. WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 139 or logic of love. Love is not amorphous sentiment, but an orientation of our selves towards giving to an other, so that the other may be fulfilled in becoming a receiver and giver of gifts to others. An ought or obligation to particular acts of love arises from our basic commitment to love. Given that commitment we recognize an other as one who can be loved, and ought to be loved, because it we refuse to love we deny our own selves as beings who have been loved and so are capable of love. When we recognize another as one who can and indeed ought to be loved, we use the name “person” of that other. The concept person could thus be best expressed, not simply in a verbal form, as I have proposed earlier, but by a gerundive verb form: to be a person would then mean “requiring to be loved,” (amandus, amanda). Why ultimately is this so? For Christian believers the answer would be that the person is to be loved by us, because that person has been loved by God, in that God gave that person the gift of love. To refuse to love would be to refuse to participate in God’s love. One who does not believe in God, would still have to concede that the embryo was loved into existence by its parents: its very being is the embodiment of love. For a Christian, to love another is to participate in God’s loving that other; for a secular humanist to love another might be considered a participation in the highest capacity that has emerged in us through evolution. To reject it would be to reject evolution. I would suggest that we could explain the meaning of person as follows: God loves all beings in the sense that God gives all beings the gift of existence; God loves living beings, in the sense that God gives living beings the gift of life; God loves human beings in the sense that God gives human beings the gifts of existence, of life, and also the gift of love by which they become capable of being loved and of loving. God gives human beings the gift of reason so that they will be able to love in a human way that is reasonably. Thus, rationality is an attribute of human persons, but this is so because the capacity to love which is (logically) prior requires the capacity to reason. The capacity to reason is necessary to understand the other as a receiver of gifts, to understand ourselves as the givers of gifts and to understand what would be a true gift for the other and a true gift for ourselves. 140 BRIAN JOHNSTONE Finally, the framework of giving and receiving, would enable us to understand “individual substance” in a somewhat different way. The point of being an individual substance is not individuality for its own sake that is, being set apart from others. Rather the point of being an individual substance is that this way of being is necessary for giving gifts to and receiving gifts from others; a person is one individual substance in giving and receiving. There is obviously much more that would need to be said, but to conclude I would suggest how we might express the meaning of person. A person is an individual who is loved by God and therefore loveable. The nature of the person specifies how the person can be loved, namely by freely giving gifts that can be freely received, such that the person can become a free giver. A person is one who ought to be loved by me, because if I refuse to love that person, I reject my own personhood as a free receiver and giver of gifts. WHAT DOES IT MEAN TO BE A PERSON? 141 SUMMARIES The notion of “person” is central to moral theology. This article proposes a new way of understanding the meaning of person. The classic concepts of person are examined, in particular those of Boethius and St. Thomas Aquinas. One difficulty is that these concepts are interpreted in terms of metaphysics and this presents us with the problem of responding to the rejection of metaphysics by much of contemporary philosophy. Another question is how we may relate a metaphysical definition of person to moral questions, in particular whether the human embryo is a person. It is proposed that a way towards a solution is through a phenomenology of love as developed by Jean-Luc Marion. In the Christian vision the person is best designated as one who is to be loved, as amandus or amanda. *** La noción de “persona” es central en la teología moral. Este artículo propone un nuevo modo de comprender su significado. Examina los conceptos clásicos de persona, en particular los de Boecio y Santo Tomás de Aquino. Una dificultad de estos conceptos es que están formulados en términos metafísicos, y esto crea el problema de tener que responder al rechazo de la metafísica de gran parte de la filosofía contemporánea. Otra cuestión es cómo podemos relacionar la definición metafísica de persona con las cuestiones morales, en particupar con la cuestión de si el embrión humano es una persona. Se propone como vía hacia la solución la fenomenología del amor, tal como fue desarrollada por Jean-Luc Marion. En la visión cristiana, a la persona se la comprende mejor como aquel que debe ser amado, como amandus o amanda. *** Il concetto di ‘persona’ è centrale nella teologia morale. Questo articolo propone un nuovo metodo nel modo di capire il concetto di ‘persona’. Qui, i concetti classici, soprattutto quelli di Boezio e S. Tommaso d’Aquino, sono sottoposti ad un esame. Una delle difficoltà è che questi concetti sono stati interpretati alla luce della metafisica, e questo ci presenta il problema del rifiuto della metafisica in gran parte della filosofia moderna. Un’altra difficoltà è come possiamo stabilire un rapporto fra una definizione metafisica di persona e le questioni morali, soprattutto sulla questione se l’embrione umano sia una persona o meno. Questo articolo propone che si potrebbe trovare una soluzione tramite una fenomenologia dell’amore, come è stata sviluppata da Jean-Luc Marion. Nella visione cristiana la persona è presentata come una creatura che dovrebbe essere amata, come amandus o amanda. IL PECCATO SEGRETO LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE Maurizio P. Faggioni, ofm* La masturbazione può essere definita come “l’eccitazione volontaria degli organi genitali, al fine di trarne un piacere venereo”1. Con questo termine si intende, perciò, ogni manipolazione – diretta o tramite strumenti – degli organi genitali propri o altrui finalizzata all’ottenimento del piacere dell’orgasmo al di fuori dell’unione sessuale. La parola “masturbatio” è attestata negli Autori latini solo a partire da Marziale nel I secolo d. C. e la sua etimologia è controversa, forse da “manu-stuprare”, compiere un atto sessuale con la mano, o * The author is an ordinary professor of moral theology at the Alphonsian Academy. * El autor es profesor ordinario de teología moral en la Academia Alfonsiana. 1 CATECHISMUS CATHOLICAE ECCLESIAE, Città del Vaticano 1997, n. 2352 (le traduzioni sono nostre, a meno di diversa indicazione). La definizione ricalca quella data da san Tommaso secondo il quale si commette il peccatum immunditiae “si absque omni concubitu, causa delectationis venereae, pollutio procuretur” (Summa Theologiae, II-IIae, q. 154 a. 11 co.). Nella definizione sono importanti la pollutio fuori del rapporto sessuale e l’ottenimento del piacere sessuale. Vedere alcune esposizioni sintetiche: CAPPELLI G., Autoerotismo, in COMPAGNONI F., PIANA G., PRIVITERA S. (dirr.), Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 60-70; CICCONE L., Etica sessuale. Persona, matrimonio, vita verginale, Milano 2004, 143-154; DIANIN G., Matrimonio sessualità fecondità. Corso di morale familiare, Padova 2005, 343-356; PLÈ A., RIVA A., ROSSI L., La masturbazione. Profilo teologico, psicologico, morale e pastorale, Torino 1968; RUSSO G. Autoerotismo, in ID. (cur.) Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia, Leumann (TO) 2004, 258-261; ZUCCARO C., Morale sessuale. Nuovo manuale di teologia morale, Bologna 1997, 106-127. StMor 48/1 (2010) 143-193 144 MAURIZIO P. FAGGIONI da “manu-turbare”, turbare con la mano2. Nella Tradizione morale si soleva parlare di “pollutio voluntaria” o, più genericamente, di “immunditia” con riferimento a ciò che può inquinare (“polluere” in latino) e rendere immondi e contaminati. Si ricorse anche a eufemismi, quale “mollities” che ricalcava il greco “malakia” cioè “mollezza”, “peccato segreto” o anche “vizio solitario”, mentre solo più tardi, verso il XVIII secolo, prese campo il termine “onanismo”, riferito al biblico Onan (cfr. Gen. 38). Le espressioni più recenti “autoerotismo”, “autosessualismo” e “ipsazione” alludono alla dinamica psichica, narcisistica e autoreferenziale, sottesa alla masturbazione3. 1. Frequenza e tipologia La diffusione della masturbazione è notevole nella popolazione maschile e, in misura minore, nella popolazione femminile. Si tratta di un comportamento che può essere presente, con caratteri e psicodinamiche particolari, sin dai primi anni di vita, che è tipico dell’età preadolescenziale e adolescenziale e che resta frequente in percentuale non irrilevante anche nella popolazione adulta e anziana dei due sessi. In uno studio molto accurato di Leitemberg intorno alla masturbazione adolescenziale è emerso che l’attività masturbatoria inizia 2 Cfr. ADAMS J. N., The Latin Sexual Vocabulary, Baltimore 1990, 209-211. In latino, stando agli Autori classici e alle testimonianze epigrafiche, per indicare il masturbare si ricorreva più comunemente ad altri termini: “frico”, “sollicito”, “contrecto”, “tero”. 3 Il medico polacco Stanislaw Kurkiewicz usò l’espressione ipsazione in una monografia uscita a Cracovia nel 1917 e il termine ipsismus fu ripreso da Magnus Hirschfeld nella Sexualpathologie del 1920. Il termine autoerotismo fu introdotto da H. Havelock Ellis nel 1897 negli Studies in the Psychology of Sex intendendo con questa espressione “i fenomeni di emozione sessuale spontanea prodotti in assenza di qualsiasi stimolo esterno, sia diretto che indiretto”. Il termine fu accolto da Sigmund Freud nei Tre saggi sulla sessualità del 1905, ridefinendolo e adattandolo alla sua teoria della sessualità. Il termine autosessualismo fu diffuso negli anni ’30 dallo psicologo ceco Bohuslav Brouk (1902-1978) che pubblicò a Praga una monografia dal titolo Autosexualismus a Psychoerotismus. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 145 verso i 13 anni nel 63% dei ragazzi e nel 33% delle ragazze4. Sempre secondo questo studio, fra i 18 e i 24 anni si masturbava l’86% dei ragazzi e il 60%. Da uno studio del 2008 sulla popolazione inglese è emerso che, dopo i 35 anni la frequenza della masturbazione tende a diminuire nei maschi, mentre si mantiene piuttosto costante nelle donne, e che, in generale, nella fascia dei soggetti fra i 16 e i 44 anni si era masturbato nel mese antecedente l’inchiesta il 73% degli uomini e il 36.8% delle donne5. Secondo uno studio statunitense pubblicato nel 2007 relativo ad una fascia più estesa verso l’età matura (18-60 anni) riferivano atti masturbatori il 61% dei maschi e il 38% delle femmine6. In un altro studio statunitense dedicato alla popolazione matura e anziana, fra i 57 e gli 85 anni, è risultato che, nell’anno precedente l’inchiesta, avevano praticato una attività masturbatoria circa il 52% degli uomini e il 23% delle donne, senza grandi differenze fra persone con relazioni di coppia e persone singole7. Dal momento che la pratica masturbatoria risponde a motivazioni e dinamiche personali diverse nelle varie fasi della vita e nei diversi vissuti, per una corretta formulazione del giudizio morale nei sin4 LEITENBERG H., DETZER M. J., SREBNIK D., Gender differences in masturbation and the relation of masturbation experience in preadolescence and/or early adolescence to sexual behavior and sexual adjustment in young adulthood, “Archive of Sexual Behavior” 22 (1993) 87-93. 5 GERRESU M., MERCER C. H. GRAHAM C. A. et al., Prevalence of masturbating and associated factors in a British national probability survey, “Archive of Sexual Behaviour” 37 (2008) 266-278. 6 ANIRUDDHA D. A. S., Masturbation in the United States, “Journal of Sex and Marital Therapy” 33 (2007) 301-317. 7 TESSLER LINDAU S., SCHUMM L. P., LAUMANN E. O. et al., A study of sexuality and health among older adults in the United States, “New England Journal of Medicine” 335 (2007) 762-774. Tenendo conto che non di rado le difficoltà sessuali dell’età portano a praticare la masturbazione reciproca, nel questionario si specificava che per masturbazione si intende “stimulating your genitals (sex organs) for sexual pleasure, not with a sex partner”. I dati medi sono riferiti a tutta la popolazione studiata, ma – come è intuibile – scorporando i dati, si constata che l’attività masturbatoria, così come l’attività sessuale in genere, declina con l’età. Cfr. DELAMATER J., MOORMAN S. M., Sexual behavior in later life, “Journal of Aging Health” 19 (2007) 921-945. 146 MAURIZIO P. FAGGIONI goli casi e per una fruttuosa opera di educazione e accompagnamento pastorale, occorre tener conto dei contesti esistenziali nei quali tale pratica si colloca8. Nella masturbazione infantile, presente sin dai primi anni di vita, prevale la semplice ricerca di gratificazione fisica senza il raggiungimento dell’orgasmo, data l’immaturità sessuale, mancando la piena consapevolezza del significato sessuale dell’atto e non essendo presenti fantasie erotiche strutturate. Qui il piacere è legato al semplice funzionamento di un organo senza ricorso ad oggetti esterni, neppure fantastici, e senza riferimento ad una autorappresentazione compiuta del proprio corpo. Benché la nozione di autoerotismo sia usata come sinonimo di masturbazione e sia da molti riportata simpliciter al narcisismo, per Freud si trattava di categorie distinte: nel narcisismo è l’Io, come autorappresentazione unificata del proprio corpo, a diventare l’oggetto di piacere, mentre nell’autoerotismo in senso stretto le pulsioni parziali, ancora disgregate o solo imperfettamente organizzate, vengono soddisfatte isolatamente. “Le pulsioni autoerotiche – scrive Freud – sono assolutamente primordiali; qualcosa, una nuova azione psichica, deve dunque aggiungersi all’autoerotismo perché si produca il narcisismo”9. La masturbazione adolescenziale è legata alle dinamiche psicofisiche dello sviluppo puberale e si accompagna, di regola, a fantasie erotiche. È l’espressione di una sessualità che tende alla sua piena definizione, ma che si trova ancora una fase immatura, segnata dall’ondeggiare tra il ripiegamento narcisistico e l’apertura alla relazione di tipo adulto10. Il corpo che, con i suoi rapidi cambiamenti, intimorisce l’adolescente, viene scoperto come corpo sessuato e come fonte di gratificazione erotica. Non di rado l’adolescente mette in atto comportamenti masturbatori come compensazione a livello genitale di conflit18 Cfr. MARCUS I. M., FRANCIS J. J. (edd.), Masturbation. From Infancy to Senescence, New York 1995. 19 FREUD S., Introduzione al narcisismo (1914), in Opere. vol. VII, Torino 1976, 446-447. 10 SHAPIRO T., Masturbation, sexuality, and adaption: normalization in adolescence, “Journal of the American Psychoanalytic Association” 56 (2008) 123-146. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 147 ti extrasessuali e quindi come segno di reazione, protesta o rivalsa dinanzi a frustrazioni di varia natura. La masturbazione a scopo compensatorio, via finale comune a livello genitale di disagi sia sessuali sia extrasessuali, può prolungarsi anche nell’età adulta e senile e permanere accanto a un esercizio più maturo della sessualità di coppia. Talora può assumere la forma della masturbazione simbolica quando si verifica uno spostamento verso oggetti sostitutivi come attorcigliarsi i capelli o tirarsi il lobo dell’orecchio. Si osserva, inoltre, negli adolescenti il comportamento della masturbazione di gruppo, diversa dalla masturbazione mutua, come momento di rassicurazione sulla propria accettazione all’interno del gruppo dei pari11. Nell’adulto, accanto alla masturbazione compensatoria, esiste anche una masturbazione di carattere semplicemente edonistico, spesso nell’ambito di una attività genitale disordinata, ma che può comparire anche nelle persone sposate insoddisfatte della loro vita sessuale. Diversa ancora la dinamica della masturbazione intraconiugale che può essere mutua o essere effettuata da un solo coniuge sull’altro: può essere vissuta come preliminare all’atto coniugale vero e proprio o come pratica sessuale alternativa o come sostitutivo dell’atto coniugale quando, per impossibilità fisica o per difficoltà psichiche, non è possibile l’unione sessuale. Chiamiamo masturbazione compulsiva un comportamento masturbatorio frequente e incoercibile che può essere sintomo di una sindrome nevrotica o frenastenica o di francamente psichiatrica come la schizofrenia. In alcune forme di masturbazione coattiva il riferimento a fantasie sessuali può mancare e, addirittura, può non esserci piacere sessuale. La masturbazione compulsiva può far parte di quell’entità discussa e dai margini un po’ vaghi attualmente denominata “sex addiction” o dipendenza dal sesso12. In effetti, la DSM-IV, rife11 CORNOG M., Group masturbation among young and old(er): a summary with questions, “Journal of Sexology Education and Therapy” 26 (2001) 340-346. 12 Vedere, per esempio: CARNES P., Out of the Shadows: Understanding Sexual Addiction, Minneapolis 20013; IRONS R., SCHNEIDER J. P., Differential Diagnosis of Addictive Sexual Disorders Using the DSM-IV, “Sexual Addiction & Compulsivity” 3 (1996) 7-21; SCHNEIDER J. P., Understanding and Diagnosing Sex Addic 148 MAURIZIO P. FAGGIONI rimento standard per la diagnostica delle malattie mentali, non ha la categoria nosografia di “sex addiction”, ma, sotto la denominazione generica di “disordini sessuali non altrimenti specificati”, descrive una serie di sintomi che rientrano nel quadro definito dagli Autori come “sex addiction”: “ricerca compulsiva di partners multipli, fissazione compulsiva su un partner irraggiungibile, masturbazione compulsiva, relazioni amorose compulsive e sessualità compulsiva in una relazione”13. La masturbazione compulsiva può essere l’unico sintomo del quadro o può accompagnarsi con altre manifestazioni di natura ossessiva e incontrollabile. Ben diversa dalla masturbazione compulsiva è la manipolazione dei genitali, talora insistita e spinta fino all’orgasmo, dovuta a flogosi dei genitali che il soggetto, sia maschio sia femmina, cerca di mitigare attraverso sfregamenti ripetuti. A parte deve essere considerata, infine, la masturbazione su indicazione medica per verificare le qualità biologiche del seme o per diagnosticare una infezione urogenitale. 2. L’Antichità e il Medioevo Per gli Antichi non pare che l’attività masturbatoria creasse particolare imbarazzo e difficoltà14. In alcuni miti di origine egizi, addi- tion, in COOMBS R. H. (ed.), Handbook of Addictive Disorders, New Jersey 2004, 197-232; STEIN D. J., BLACK D. W., PIENAAR W., Sexual disorders not otherwise specified: compulsive, addictive, or impulsive?, “CNS Spectrums” 5 (2000) 60-64. 13 AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (APA), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders IV, Washington, D. C. 1994. In senso più generale e senza un preciso riferimento alla forma compulsiva, già Freud si era riferito alla masturbazione come alla “dipendenza primaria”. 14 Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi sulla masturbazione nel tempo, essendo la comprensione del fenomeno masturbatorio strettamente connessa con la comprensione generale della sessualità e, quindi, del Sé pubblico e privato: BENNEYY P., ROSARIO V. A. (eds.), Solitary Pleasures: The Historical, Literary, and Artistic Discourses of Autoeroticism, New York 1995; LAQUEUR TH. W., Solitary Sex: A Cultural History of Masturbation, New York, 2003 (trad. it. Sesso solitario. Storia culturale della masturbazione, Milano 2007). IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 149 rittura, la genealogia degli dei sarebbe derivata dal seme sparso dal dio Atum attraverso un atto masturbatorio. La masturbazione non era una attività riprovata neppure dai Greci, anche se venne ritenuto una infrazione delle regole e una mancanza di pudore (aneideia) l’uso di Diogene di Sinope (ca 390-325 a. C.) il quale, coerente con i dettami della Scuola cinica da lui iniziata, praticava la masturbazione in pubblico, quale libera espressione della spontaneità dell’uomo rispetto alle convenzioni sociali15. Il gesto provocatorio di Diogene dette a Galeno, il grande medico del II secolo dopo Cristo, l’occasione di spiegare l’opportunità per il maschio di ricorrere alla masturbazione per liberarsi dagli eccessi di umori corporei. Nella sua prospettiva tipicamente stoica, il piacere dell’atto masturbatorio non può costituire una finalità da perseguire, ma un semplice accompagnamento dell’atto: “Gli uomini casti – egli scrive – non praticano i piaceri sessuali per il godimento che vi è connesso, ma per ovviare a un inconveniente, come se in realtà non vi fosse godimento alcuno”16. “Compito di un regime razionale – commenta M. Foucault – è dunque quello di rimuovere il piacere come fine a se stesso e far sì che ci si rivolga agli aphrodisia indipendentemente dall’attrattiva del piacere e come se esso non esistesse”17. Non mancano notizie neppure sulla masturbazione femminile in Grecia: le Tribadi, donne invasate dal furore orgiastico del dio Dioniso, erano dette così perché indulgevano nel masturbarsi o nel masturbare le compagne e, in greco, “tribo” significa appunto “strofino”. Gli Scrittori ci attestano, spesso con compiaciuta malizia, l’uso di strumenti usati dalle donne per stimolarsi da sole o a vicenda, come si legge nel VI mimiambo di Eronda Le donne a colloquio segreto, dove l’oggetto del colloquio sono, appunto, i falli di cuoio scarlatto 15 DIOGENE LAERZIO, Vitae philosophorum, VI, 69. Cfr. DIONE CRISTOSTODiscorso VI, Contro la tirannide, 16-20; PLUTARCO, De Stoicorum repugnantiis, 1044b. Dobbiamo anche segnalare alcune testimonianze letterarie latine in cui si dimostra una certa riprovazione per la masturbazione dell’adulto: MARZIALE, Epigrammi, lib. II, 104; 9, 42; 14, 203. 16 GALENO, De locis affectis, VI, 5. 17 FOUCAULT M., La cura di sé. Storia della sessualità 3, Milano 20064, 142. MO, 150 MAURIZIO P. FAGGIONI (detti “baubònes”) preparati dal calzolaio Cerdone e molto apprezzati – a quanto pare – dalle signore18. Nella Scrittura i testi che alludono alla masturbazione sono pochi e di significato incerto. Nel Vecchio Testamento l’unico testo che riprova direttamente la masturbazione è Sir 23, 16 dove si dice che “un uomo impudico nel suo corpo non desisterà finché il fuoco non lo divori”. L’episodio narrato in Gen 38, 8-10 di Onan che, obbligato dalla legge del levirato ad unirsi alla cognata Tamar, rimasta vedova, “sparge il seme a terra”, si riferisce chiaramente al coitus reservatus e Onan, fra l’altro, non è punito esattamente per questo, ma per la sua trasgressione alla legge del levirato. La Tradizione giudaica, però, si riferiva a questo episodio per condannare la masturbazione, sottolineando la frustrazione della potenza fecondante dell’uomo e la dispersione del seme (in ebraico “sh’cha’tat zerah”). Il Talmud insegna che “nel caso di un uomo, la mano che si spinge sotto l’ombelico dovrebbe essere tagliata via”19. Legati al tabù del seme e molto influenti sulla teologia cristiana antica e medievale, soprattutto monastica, ci sono, infine, i testi del Levitico e del Deuteronomio che parlano delle polluzioni spontanee: “L’uomo che ha un’emissione seminale si risciacquerà tutto il corpo e sarà impuro fino a sera” (Lev. 15, 16; cfr. Deut. 23, 11-12). Nel Nuovo Testamento non si parla direttamente della masturbazione perché l’interpretazione del malakòi di 1 Cor 6, 9, reso dalla Vulgata con molles, come riferito a coloro che praticano la masturbazione o malakìa (in latino mollities) oggi, in genere, non è più accettata dagli Esegeti20. Il termine malakòs copre un’area semantica che comprende i significati di morbido, delicato, debole e simili. In sen- 18 ERONDA, Mimiambi, VI. Questo strumento era denominato anche “òlisbos”. Cfr. ARISTOFANE, Lysistrata, 109; CRATINO, frag. 78. 19 Talmud Niddah, 13a (cfr. Mt. 5, 30). 20 L’interpetazione di malakoi come masturbatori viene ripresa in: BOSWELL J., Christianity, Social Tolerance and Homosexuality, Chicago 1980, 106-107. Si badi, però, che l’opera è destinata a dimostrare la tesi che i primi secoli cristiani furono tolleranti verso l’omosessualità e, quindi, tende a eliminare tutto ciò che può suonare condanna verso l’orientamento omosessuale. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 151 so morale generale può significare incontinente, non controllato21. In senso più restrittivo, nella koinè il termine malakòs può indicare l’omosessuale passivo o pathikòs, come il corrispondente latino mollis 22. Nella grecità bizantina la parola malakìa indica la masturbazione e questo significato, attraverso i termini corrispondenti mollities o mollitia, è presente anche nella latinità medievale23. La Tradizione cristiana, nell’ambito della sua lettura tendenzialmente naturalista della sessualità, condanna la masturbazione in quanto opposta alla finalità del sesso e all’uso naturale delle potenze generative, ma – in base ai testi in nostro possesso – nei primi cinque secoli cristiani non sembra che la masturbazione sia stata messa a fuoco come problema a sé stante, ma sembra piuttosto che venisse compresa nel contesto del generale invito alla castità24. Dapprima l’attenzione si portò sulla polluzione in quanto emissione di seme, anche spontanea, perché ritenuta incompatibile con la purezza rituale del presbitero e del consacrato, in continuità con la mentalità veterotestamentaria del puro e dell’impuro: questa preoccupazione si riflette nell’uso dei termini immunditia e peccatum immunditiae in riferimento alla masturbazione25. 21 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea 7, 4, 4. Cfr. FEDRO, Fabulae 4, 14; CATULLO, Carmina 25, 1; MARZIALE, Epigrammata 3, 73; PETRONIO ARBITRO, Satyricon 23. 23 Cfr. VINCENZO DI BEAUVAIS, Speculum Doctrinale 4, 162. San Tommaso ricorda questa accezione del termine mollities in riferimento alla polluzione procurata “che alcuni chiamano mollities” (“quam quidam mollitiem vocant” in Summa Theologiae II-IIae, q. 154 art. 1 co). Egli, però, seguendo la Glossa ordinaria, spiegava i “molles” di 1 Cor 6, 9 con “muliebria patientes”. Cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae II-IIae, q. 138 a. 1 arg. 1: “Super illud I ad Cor. VI, neque adulteri neque molles neque masculorum concubitores, Glossa exponit molles, idest pathici, hoc est muliebria patientes”; ID. Super I Cor., cap. 6, lec. 2: “Neque molles, id est, mares muliebria patientes, neque masculorum concubitores, quantum ad agentes in illo vitio”. 24 Si veda, soprattutto, lo studio di CAPPELLI G., Autoerotismo. Un problema morale nei primi secoli cristiani?, Bologna 1986; ELLIOTT D., Fallen Bodies: Pollution, Sexuality, and Demonology in the Middle Ages, Philadelphia (Penn) 1998. 25 Il Cappelli, nello studio citato, si discosta dalla interpretazione corrente e qui anche da noi accolta sul rapporto fra polluzione e purezza rituale. Egli ritiene che, anche riguardo alle polluzioni notturne, la preoccupazione sia so22 152 MAURIZIO P. FAGGIONI Con l’affinarsi della riflessione morale la masturbazione venne sempre più compresa come trasgressione dell’esercizio etico della sessualità, naturalmente finalizzata al rapporto uomo-donna, e del retto uso delle facoltà generative. In Oriente si segnala, per l’autorevolezza e la diffusione, la raccolta penitenziale intitolata Kanonarion. È attribuita tradizionalmente a Giovanni il Digiunatore, patriarca di Costantinopoli (582-595), ma il testo rivela – secondo la critica più recente – la presenza di quattro autori e dovrebbe aver ricevuto l’ultima redazione nel IX secolo26. Nell’ambito dei sette peccati carnali – il cui nucleo principale risale allo strato più antico della raccolta – si identifica la polluzione volontaria (malakia) distinguendone due tipi, quella che uno compie su se stesso e quella che si compie su altri27. La masturbazione viene descritta come “terribile, dominatrice di molti (polykratetos) anzi dominatrice di tutti (pantokratetos)... perché essa capita alle persone sin dall’età giovanile e per essa molti perdono la verginità e perché domina anche su persone eminenti”28. La penitenza prescritta sembra appartenere ad uno strato redazionale più tardivo e prevede un regime penitenziale di 40 giorni29. L’impostazione e le regole del Kanonarion sono state riprese nella letteratura penitenziale successiva e, soprat- prattutto etica a motivo dei “pensieri” e dei “desideri” che accompagnano la polluzione spontanea e che possono essere legati a comportamenti intemperanti, soprattutto alimentari, dei monaci. 26 Si veda l’edizione moderna: ARRANZ M., Protokanonarion o Kanonarion primitivo di Giovanni monaco e diacono e il Deuterokanonarion o secondo Kanonarion di Basilio, Roma 1993. La questione della genesi e degli autori delle diverse stratificazioni del testo tràdito è stata rivista ultimamente da: VAN DE PAVERD F., The Kanonarion by John, Monk and Deacon and Didascalia Patrum, Roma 2006. 27 I sette peccati carnali elencati nella prima parte del Penitenziale sono: malakia (masturbazione), porneia (fornicazione), moicheia (adulterio), arsenokoitia (atti omosessuali), paidophthoria (corruzione di giovani), ktenovasia (bestialità), haimomixia (incesto). 28 Cfr. ARRANZ M., Protokanonarion o Kanonarion primitivo di Giovanni monaco 50.52; VAN DE PAVERD F., The Kanonarion by John, Monk, 17. 29 ARRANZ M., Protokanonarion o Kanonarion primitivo di Giovanni monaco, 85. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 153 tutto, nella cosiddetta Didascalia Patrum, un rifacimento del Kanonarion che, attraverso le traduzioni, influenzò l’ambiente slavo30. La masturbazione viene riprovata chiaramente e frequentemente anche nei Penitenziali medievali latini31. A san Colombano (540-615), monaco irlandese promotore di un vasto movimento di evangelizzazione e fondatore di importanti centri monastici sul continente, vengono attribuiti due penitenziali, uno annesso alla Regola ed uno legato alla prassi della penitenza privata. Non è ancora risolta del tutto la questione dell’attribuzione e della genesi di questi Penitenziali, ma si tratta, comunque, di testi che, attraverso la diffusione del monachesimo irlandese, hanno influenzato vaste zone del continente europeo. Nel Penitenziale annesso alla Regola si prevedono penitenze di gravità diversa per gli atti masturbatori compiuti dai monaci con gli ordini e i voti e per quelli compiuti da coloro che ancora non hanno professato e si accenna ad un trattamento differenziato per i più giovani: Se uno ha fornicato con se stesso o con una bestia, faccia 2 anni di penitenza, se non ha gli ordini; se invece ha gli ordini o i voti, faccia 3 anni di penitenza, se l’età non lo scusa32. Nel Liber poenitentialis destinato alla penitenza privata dei laici le pene sono relativamente più miti e si introduce una distinzione – segno di sensibilità pastorale – fra coloro che sono istruiti e gli ignoranti: Chi eccita il suo corpo con una masturbazione (“mollitione”) così che risulti contaminato dal suo peccato, confessi l’impudicizia al sacerdo- 30 Cfr. HERMAN E., Il più antico penitenziale greco, “Orientalia Christiana Periodica” 19 (1953) 71-127. 31 Una presentazione sintetica della sessualità nell’Alto Medioevo e nella letteratura penitenziale: BRUNDAGE J. A., Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, Chicago 1987, 124-175. 32 S. COLOMBANO, Penitenziale, c. 10, in S. COLOMBANO, Le opere. BIFFI I., GRANATA A. (curr.), Milano 2001: “Si quis per se ipsum fornicaverit aut cum iumento, II annos poeniteat, si gradum non habet; si autem gradum aut votum, III annos poeniteat, si aetas non defendit” (cfr. PL 80, 224). 154 MAURIZIO P. FAGGIONI te, faccia penitenza a pane e acqua per 2 anni o per 1 anno se lo scusa la qualità della sua cultura, perché il sacerdote preghi per lui il Signore e gli rimetta la colpa33. Un altro Penitenziale legato alla cultura monastica irlandese, ma composto probabilmente in Francia all’inizio del IX secolo, detto Bigotianum, prevedeva cento giorni di penitenza per un singolo atto masturbatorio, ma imponeva sette anni se era diventata abitudinaria; le pene, però, venivano dimezzate se si trattava di giovani fra i 12 e i 20 anni34. I Penitenziali di ambiente germanico e anglo-sassone tendevano a maggiore indulgenza. Il Penitenziale attribuito tradizionalmente a Teodoro di Tarso, arcivescovo di Canterbury (610690 ca.), prevedeva quaranta giorni di penitenza per la masturbazione nell’uomo e nella donna35. In uno dei Penitenziali più recenti, quello contenuto del Decreto di Burcardo di Worms, del 1008-1012, erano prescritti 10 giorni a pane e acqua per la masturbazione solitaria e 20 giorni per la masturbazione in compagnia, così come per la masturbazione compiuta dai maschi aiutandosi con oggetti (un attrezzo di legno forato). Colpisce nel testo di Burcardo l’insistenza sulla masturbazione femminile solitaria e reciproca, servendosi di falli artificiali: 33 S. COLOMBANO, Liber poenitentialis, in S. COLOMBANO, Le opere: “Cap. IV. Quis vero suscitat corpus suum mollitione aliqua ut peccato suo inquinetur, impudicitiam fateatur sacerdoti, II annos vel unun si qualitas eruditionis defenderit, in pane et aqua poeniteat, ut oret pro illo ad Dominum et remittatur ei”. Sembra davvero eccessivo – per la nostra sensibilità – un anno di digiuno per un atto masturbatorio, tenendo conto che l’omicidio e la sodomia sono puniti nel medesimo Penitenziale con dieci anni di digiuno e la fornicazione occulta di un diacono con una donna con cinque anni di digiuno. 34 Poenitentiale Bigotianum, II 1, 1, in BIELER L. (ed.), The Irish Penitentials (Scriptores Latini Hiberniae vol. 5), Dublin 1963, 218. 35 TEODORO DI TARSO, Poenitentiale, lib. I, De fornicatione, 9, in HADDAN A.W., STUBBS W. (eds.), Councils and Ecclesiastical Documents relating to Great Britain and Ireland, vol. 3, Oxford 1878, 177: “Si se ipsum coinquinat, XL dies [peniteat.]”. In questo Penitenziale, la masturbazione viene valutata molto meno gravemente di altre colpe sessuali, come la fornicazione, l’adulterio e la sodomia. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 155 Hai fatto quello che sogliono fare alcune donne, fabbricandoti un oggetto o dispositivo a forma di membro virile a seconda delle tue voglie, e lo hai legato con legacci al luogo delle vergogne o di un’altra ed ha compiuto un atto sessuale (fornicatio) con altre donne o altre donne mediante lo stesso strumento o un altro lo hanno fatto con te? Se hai fatto questo, cinque anni di penitenza nei giorni prescritti36. In Occidente la riflessione morale sulla masturbazione ricevette una sistemazione teologica nella prospettiva del peccatum contra naturam dapprima con Incmaro di Reims nel IX secolo e poi con il Liber Gomorrhianus di san Pier Damiani nell’XI secolo37. L’occasione dell’intervento di Incmaro fu il dibattito sulla liceità del divorzio fra il re Lotario e la regina Tetberga durante il quale era riemersa per la regina l’accusa incresciosa di aver avuto rapporti innaturali e incestuosi con il proprio fratello, accusa dalla quale era stata scagionata in precedenza attraverso un cosiddetto giudizio di Dio. Il teologo carolingio spiega – ricorrendo a sant’Agostino – che per uso coniugale o naturale della sessualità si deve intendere “quello che avviene attraverso gli organi creati con lo scopo di permettere l’unione dei due sessi in vista della procreazione”38. Coerentemente, perciò, si 36 BURCARDO DI WORMS, Decretorum libri XX (PL 140, 971): “Fecisti quod quaedam mulieres facere solent, ut faceres quoddam molimen aut machinamentum in modum virilis membri, ad mensuram tuae voluntatis, et illud loco verendorum tuorum, aut alterius, cum aliquibus ligaturis colligares, et fornicationem faceres cum aliis mulierculis, vel aliae eodem instrumento, sive alio, tecum? Si fecisti, quinque annos per legitimas ferias poeniteas”. 37 Sullo sviluppo della categoria di contra naturam nell’Alto Medioevo: BOLLOUGH V. L., The Sin against Nature and Homosexuality, in BULLOUGH V. L., BRUNDAGE J., Sexual Practices and the Medieval Church, Buffalo 1982, 55-71; CHIFFOLEAU J., Contra naturam. Pour une approche casuistique et procédurale de la nature médiévale, “Micrologus” 4 (1996) 265-312. 38 INCMARO DI REIMS, De divortio Lotharii et Tetbergae, interr. XII (PL 125, 690C): “[Usus naturalis] qui fit membris ad hoc creatis, ut per ea possit ad generandum sexus uterque misceri”. Si tratta di una citazione da SANT’AGOSTINO, De nuptiis et concupiscentia, lib. 2, 20 (PL 44, 457). 156 MAURIZIO P. FAGGIONI può ritenere “naturalis usus” l’unione sessuale di un uomo con una prostituta mentre si deve ritenere “un atto contro natura fare uso di quella parte del corpo che non è fatta per la generazione, anche se questo si fa con la propria moglie”39. I peccati sodomitici consistono, in ultima analisi, nell’esercizio della genitalità e nella ricerca del piacere al di fuori dell’unione coniugale procreativa, sia che si tratti di rapporti fra maschi, sia tra femmine (usando, per esempio, falli artificiali)40, sia di congiungimenti bestiali (“cum pecore”), sia di polluzione volontaria, sia di atti genitali non procreativi con la moglie41. Questa linea argomentativa fu ripresa da san Pier Damiani (10071072), monaco benedettino per molti aspetti antesignano della riforma gregoriana del XI secolo42. Nel 1051 pubblicò e dedicò a papa Leone IX il Liber Gomorrhianus nel quale si additava nelle pratiche contro natura una nefandezza che rovinava il clero e la Chiesa e se ne chiedeva la decisa repressione43. Muovendosi nell’orizzonte 39 INCMARO DI REIMS, De divortio, 690C: “Ab ea vero parte corporis, quae non ad generandum est instituta, si et coniuge utatur, contra naturam est et flagitiosum” Il testo con l’espressione “ea pars”, “quella parte” intende – è chiaro – il vas praeposterum. 40 INCMARO DI REIMS, De divortio, 692D-693A: “Quae (scil mulieres) carnem ad carnem, non autem genitale carnis membrum intra carnem alterius, factura prohibente naturae, mittunt; sed naturale huiusce partis corporeae usum in eum usum qui est contra naturam commutant: quae dicuntur quasdam machinas diabolicae operationis nihilominus ad exaestuandam libidinem operari”. 41 Cfr. INCMARO DI REIMS, De divortio, 693 A-C. 42 FORNASARI G., Medioevo riformato dell’XI secolo. Pier Damiani e Gregorio VII, Napoli 1996; . TAGLIAFERRI M. (cur.), Pier Damiani. L’eremita, il teologo, il riformatore (1007-2007), Bologna 2009. 43 S. PIER DAMIANI, Opusculum septimum. Liber Gomorrhianus ad Leonem IX Romanum Ponteficem, (PL 145, coll. 161-190). Oltre all’edizione settecentesca del Gaetani ripresa dal Migne, c’è l’edizione moderna di Kurt von Reindel pubblicata nel 1983 in MGH, Epistolae 2. 1, 284-330. Traduzione italiana in: PIER DAMIANI, Lettere (22-40), GARGANO G. I., D’ACUNTO N. (cur.), (Opere di Pier Damiani 1/2), Roma 2001, 162-227. Ampia bibliografia sul Liber Gomorrhianus in: FACCHINI U., Pier Damiani. Un padre del secondo millennio. Bibliografia 1007-2007 (Opere di Pier Damiani. Complementi), Roma 2007, 323-327. Si veda, inoltre: SKWIERCZYŃSKI K., L’apologia della Chiesa, della società o di se stesso? Il Liber Gomorrhianus di s. Pier Damiani, in TAGLIAFERRI M. (ed.), Pier Damiani, 259-279. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 157 della polarità munditia/immunditia e ricollegandosi ai tabù veterotestamentari sul seme, alla mistica del seme virile di ascendenze stoiche e alla pratica ascetica cristiana, considera contra naturam qualunque effusio seminis al di fuori dell’atto coniugale44. Il santo Dottore, perciò, nel considerare le “quattuor diversitates” della “Sodomitica immunditia” enumera, coerentemente con la sua impostazione, la polluzione per masturbazione, la polluzione procurata manualmente da altri, la emissione di seme “inter crura” e il coito “in terga”45. La lettera di plauso inviata da papa Leone è considerata il primo testo pontificio che parla direttamente di masturbazione46. L’Avellanita auspicava la dimissione dal clero dei chierici che si fossero macchiati di una delle quattro forme di immunditia e si lamentava che alcuni Pastori della Chiesa si mostrassero verso questi vizi “humaniores forsitan, quam expediat”. Il Papa non accolse le richieste di san Pier Damiani, ma affermando di voler agire humanius, con più misericordia, decretò la possibilità di riammissione al proprio ufficio, dopo penitenza, per coloro che avessero commesso, per uno dei primi tre peccati (masturbazione solitaria o masturbazione reciproca o coito inter femora) e minacciava la dimissione senza possibilità di riammissione, neppure dopo penitenza, solo per coloro avessero avuto rapporti anali o per coloro che avessero commesso per lungo tempo il peccato di masturbazione fatta da se stessi o con il concorso di altri o con molti, anche se per breve tempo, la masturbazione 44 San Pier Damiani nel Liber Gomorrhianus cap. 2, parlando di coloro “qui per semetipsos sordescunt” spiega, poco dopo, che la causa di questo contagio è il seme: “qui per semetipsos egesta seminis contagione sordescunt”. 45 S. PIER DAMIANI, Liber Gomorrhianus, cap. 2 (REINDEL K., Die Briefe des Petrus Damiani, 1, München 1983, 287) “Alii siquidem semetipsos polluunt, alii sibi invicem inter se manibus virilia contrectantes inquinantur, alii inter femora, alii fornicantur in terga”. Il testo parve crudo agli editori antichi e fu addolcito: “Alii siquidem secum, alii aliorum manibus, alii inter femora, alii denique consummato actu contra natura delinquunt”(PL 145, 161). 46 LEONE IX, Lettera Ad splendidum nitentis (PL 145, 159D-160C, in DS 687-688). La lettera viene ricordata come il primo documento magisteriale in tema di masturbazione (cfr. per esempio, le auctoritates cui rimanda in nota la dichiarazione Persona Humana, n. 9). 158 MAURIZIO P. FAGGIONI reciproca e il coito inter femora47. “Tale decisione – commenta uno studio recente – fu sentita da Damiani come un vero colpo per la sua attività e per le richieste da lui avanzate. Leone IX non sollevò mai la questione ai sinodi da lui presieduti. Il papa, dopo aver scritto la lettera in generale, perse interesse per il problema e le relazioni tra i due riformatori si raffreddarono notevolmente”48. Dopo il Liber Gomorrhianus diventerà comune accostare la masturbazione alle pratiche sodomitiche nell’ambito dei cosiddetti peccati contro natura i quali comportano in generale l’esercizio della genitalità e, in particolare, una dispersione del seme, al di fuori dell’unione procreativa. San Tommaso diede una sistemazione classica dell’argomento49. Nella Summa contra Gentiles (1257-1259) egli tratta dei peccati contro natura nella prospettiva della Provvidenza di Dio e riprende l’argomento della finalità naturale dell’effusio seminis che è la procreazione: questa finalità è una espressione del governo provvidente e della volontà del Creatore. “È evidente – egli conclude – che ogni emissione di seme compiuta in modo tale che la generazione non possa seguirne, è contraria al bene dell’uomo e, se questo è fatto deliberatamente, è un peccato. Sto parlando di modalità dalle quali per sé non può risultare la generazione, come sarebbe l’emissione di seme 47 LEONE IX, Ad splendidum nitentis: “Ablata aliis spe recuperationis sui ordinis, qui (1) per longa tempora secum sive cum aliis (2) vel cum pluribus, brevi licet tempore, quodlibet duorum feditatis genere (scil. invicem vel inter femora) quae descripseras, maculati sunt (3) vel, quod est horrendum dictu et auditu, in terga prolapsi sunt”. Per chiarezza abbiamo aggiunto la numerazione nell’elenco delle tre fattispecie. 48 SKWIERCZYŃSKI K., L’apologia della Chiesa, della società o di se stesso?, 269. 49 Testi principali: S. TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 122; ID., Summa Theologiae II-IIae, q. 154 a. 11 co. Facendosi eco delle preoccupazioni della ascetica monastica sia orientale sia occidentale, nel giovanile Commento alle Sentenze, Tommaso affronta nel dettaglio il tema della polluzione involontaria, delle sue cause, in rapporto alle suggestioni diaboliche, all’uso smodato di cibi, alla fantasia, ai ricordi, e della eventuale indegnità a ricevere e celebrare l’eucaristia (ID., Scriptum super Sententias., lib. 4, d. 9, q. 1, a. 4, qc. 2 co.). IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 159 al di fuori dell’unione naturale del maschio e della femmina. Perciò, peccati di questo tipo sono detti contro natura”50. In questa stessa prospettiva, nella lectura della lettera agli Efesini (1261 ca) scrive che per impurità (“immunditia”) si intende “ogni polluzione contro natura, che cioè non è ordinata alla generazione”51. Nella Summa Theologiae (II pars, 1269-1272), muovendosi nella duplice prospettiva del retto uso del piacere sessuale e della conformità degli atti sessuali alle dinamiche della natura umana. l’Angelico spiega che, fra i peccati di lussuria, espressione del vizio di intemperanza, il vizio contro natura ha un particolare motivo di deformitas – di distorsione, cioè, della bellezza – perché oscura il significato della sessualità. Si distinguono varie specie di trasgressione della regola della natura: prima di tutto la polluzione volontaria fuori dell’atto sessuale, detta anche immunditia, impurità, o – da alcuni – mollities; in secondo luogo un atto sessuale compiuto con un animale che è la zoofilia (bestialitas); in terzo luogo l’unione sessuale con un sesso indebito e cioè maschio con maschio e femmina con femmina, che è il vizio sodomitico in senso proprio52. 50 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 122: “Ex quo patet quod contra bonum hominis est omnis emissio seminis tali modo quod generatio sequi non possit. Et si ex proposito hoc agatur, oportet esse peccatum. Dico autem modum ex quo generatio sequi non potest secundum se: sicut omnis emissio seminis sine naturali coniunctione maris et feminae; propter quod huiusmodi peccata contra naturam dicuntur”. 51 S. TOMMASO D’AQUINO, Super Ephesinos, cap. 5, lect. 2: “Et omnis immunditia, id est omnis pollutio contra naturam, scilicet quae non ordinatur ad generationem”. Nella Summa Theologiae Tommaso spiega che si parla di immunditia “sive secundum inordinatam emissionem quarumcumque superfluitatum, vel specialiter quantum ad emissionem seminis” (Summa Theologiae II-IIae, q. 148 a. 6 co). 52 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae II-IIae, q. 154 a. 11 co.: “Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, ibi est determinata luxuriae species ubi specialis ratio deformitatis occurrit quae facit indecentem actum venereum. Quod quidem potest esse dupliciter. Uno quidem modo, quia repugnat rationi rectae, quod est commune in omni vitio luxuriae. Alio modo, quia etiam, super hoc, repugnat ipsi ordini naturali venerei actus qui convenit humanae speciei, quod dicitur vitium contra naturam. Quod quidem potest pluribus modis 160 MAURIZIO P. FAGGIONI Nel valutare la gravità di questi peccati contro natura Tommaso ritiene che il criterio debba essere quello della distorsione o abuso della sessualità: il più grave, sotto questo punto di vista, è la bestialità in cui ci si unisce con una specie diversa, viene poi il vizio sodomitico in cui ci si unisce con il sesso indebito e, quindi l’unione sessuale compiuta senza rispettare il modo naturale53. La masturbazione è di tutti il meno grave perché più che essere un abuso della sessualità, consiste nell’omissione del suo uso debito che è l’unione sessuale con una persona “altra”54. San Tommaso giustamente tende a non enfatizzare la gravità della masturbazione e, nonostante il linguaggio naturalista, vorremmo cogliere un afflato incoativamente personalista nell’espressione “concubitus ad alterum” Parlando in questi termini si sottolinea, infatti, che il disordine essenziale della masturbazione non sta soltanto nella ricerca del piacere venereo al di fuori dell’unione sessuale, ma soprattutto nell’esercizio della sessualità in una modalità solipsistica e questo costituisce una implicita negazione della intrinseca dimensione interpersonale e relazionale della sessualità umana. D’altro canto, se Tommaso insegna la minor gravità della masturbazione rispetto agli altri peccati contro natura tuttavia, configurandosi come violazione dell’ordo naturae stabilito da Dio creatore, qualunque peccato contro natura, inclusa la masturbazione, è da lui giudicato più grave di qualsiasi altro peccato di lussuria, inclusi l’incesto, contingere. Uno quidem modo, si absque omni concubitu, causa delectationis venereae, pollutio procuretur, quod pertinet ad peccatum immunditiae, quam quidam mollitiem vocant. Alio modo, si fiat per concubitum ad rem non eiusdem speciei, quod vocatur bestialitas. Tertio modo, si fiat per concubitum ad non debitum sexum, puta masculi ad masculum vel feminae ad feminam, ut apostolus dicit, ad Rom. I, quod dicitur sodomiticum vitium”. 53 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae II-IIae, q. 154, art. 12, ad 4: “Gravissimum autem est peccatum bestialitatis, ubi non servatur debita species... Post hoc autem est vitium sodomiticum, ubi non servatur debitus sexus. Post hoc autem est peccatum ex eo quod non servatur debitus modus concumbendi”. 54 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae II-IIae, q. 154, art. 12, ad 4: “Gravitas in peccato magis attenditur ex abusu alicuius rei quam ex omissione debiti usus. Et ideo inter vitia contra naturam infimum locum tenet peccatum immunditiae, quod consistit in sola omissione concubitus ad alterum”. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 161 l’adulterio e lo stupro55. Questa criteriologia assiologica peserà a lungo sulla valutazione morale della masturbazione e influirà grandemente sull’impegno posto a livello pastorale per stroncarla. 4. La Modernità Uno dei tratti caratterizzanti la riflessione etica moderna, a partire dal XV secolo, fu l’attenzione per le dimensioni individuali del vissuto morale e per il rapporto delicato e talora problematico fra la coscienza del soggetto e la norma morale nella cangiante varietà delle situazioni. Rispetto alla trattazione, in genere molto sobria, fattane dalla grande Scolastica, la morale post-tridentina si studiò di approfondire con acribia le diverse fattispecie di polluzione sia volontaria sia spontanea, distinguendole accuratamente, indagando sottilmente sull’intenzione dei soggetti nel prevedere o procurare o non impedire la polluzione e creando una complicata e un po’ voyeristica casuistica. L’elaborazione di una precisa tassonomia della trasgressione forniva al soggetto una falsariga sulla quale narrarsi, prendendo coscienza della propria soggettività e, insieme, consegnandola ad altri56. Leggendo questa produzione morale, è difficile sottrarsi alla suggestione di M. Foucault che vede nella insistenza sugli argomenti sessuali e nell’invito pressante alla narrazione 55 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-IIae q. 154, art. 12, ad 1: “Sicut ordo rationis rectae est ab homine, ita ordo naturae est ab ipso Deo. Et ideo in peccatis contra naturam, in quibus ipse ordo naturae violatur, fit iniuria ipsi Deo”. 56 La morale post-tridentina costituisce un anello di transizione fra il modello medievale di comprensione degli atti contro natura e il modello ottocentesco. Cfr. HURTEAU P., Catholic moral discourse on male sodomy and masturbation in the seventeenth and eighteenth centuries, “Journal of the History of Sexuality” 4 (1993) 1-26:” “I will argue that post-Tridentine moral theology, which to date has been most frequently overlooked in scholarly works in the field of the history of sexual variance and its relation to religion, constitutes an important missing link between the Thomistic natural law approach to nonprocreative sexual acts and the nineteenth-century medical model stressing the innate dispositions of the sexual subject” (p. 1). 162 MAURIZIO P. FAGGIONI dei vissuti personali, soprattutto nell’ambito della confessione, un modo tutto moderno per portare alla luce il desiderio e poterlo così più agevolmente sottoporre al controllo biopolitico. Con la masturbazione è direttamente in gioco il controllo della fruizione del piacere e questo controllo, riguardando un peccato occulto e sfuggente alla verifica sociale, doveva essere esercitato con accuratezza in un ambito di interiorità quale è previsto dal sacramento della penitenza o dalla direzione di spirito. Immersi in un nuovo clima culturale, dal XVI secolo molti Moralisti, senza mettere in discussione l’idea tradizionale della finalizzazione degli atti sessuali alla procreazione, concentrarono la loro attenzione sulla tematica del piacere e del retto uso dei piaceri57. Per i Moralisti rigoristi, fedeli alla lezione agostiniana, il piacere era guardato con sospetto e il godimento del piacere sessuale doveva essere giustificato dal bene della procreazione. Per i Moralisti più inclini a riconoscere la positività del piacere sessuale, il piacere era un bene in sé ed era stato annesso da Dio all’atto sessuale come un invito a procreare: Dio, pertanto, nella sua legge non aveva proibito la masturbazione per il fatto arreca piacere, ma la aveva proibita perché, senza questa proibizione, gli uomini avrebbero cercato il piacere nella masturbazione e non nell’atto coniugale procreativo, con gravi danni per la società e la natalità. Scrive a questo proposito Th. Sanchez citato poi letteralmente da Enrico Busembaum (1609-1668): La natura ha negato all’uomo l’emissione del seme fuori del matrimonio, in ogni circostanza, perché [nella masturbazione] il godimento del piacere è così forte che gli uomini, accecati dalla passione, si convincerebbero facilmente di avere un valido motivo per eccitare il seme. Ne deriverebbero molti e gravi danni per il bene comune e ne risulterebbe ostacolata la generazione58. 57 Cfr. VEREECKE L., Da Guglielmo d’Ockham a sant’Alfonso de Liguori, Cinisello Balsamo 1990, 656-701. 58 SANCHEZ T., De sancto matrimonii sacramento, Venezia 1667, lib. 9, d. 17, n. 15: “Natura administrationem seminis, extra matrimonium, in omni eventu, IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 163 Non stupisce che, estenuando questa prospettiva, si giunga a non cogliere più il disordine morale intrinseco della masturbazione e che il principe dei Lassisti, il Caramuel, abbia potuto affermare che “la masturbazione non è proibita per diritto naturale, per cui, se Dio non l’avesse proibita, spesso sarebbe buona e talvolta obbligatoria sotto pena di peccato mortale”59. La proposizione fu condannata, insieme ad altre proposizioni lassiste, dal Sant’Uffizio nel 1679, sotto Innocenzo XI, che era personalmente tuziorista60. Con la Modernità si osserva anche un allargamento di prospettiva riguardo alla masturbazione. L’interesse della cultura antica e medievale, inclusa la morale, era rivolto in modo preponderante agli adulti, ma, con il sorgere dell’Età moderna e l’avvento della famiglia borghese, si assistette ad un crescente interesse per l’infanzia e per l’adolescenza che condusse, fra l’altro, alla nascita di una scienza pedagogica vera e propria. Si può osservare, in questo contesto, una insistenza crescente sul tema della masturbazione nei bambini e nei giovanissimi, segno di una volontà di regolazione sempre più forte ed estesa ad ogni tipo di esercizio della sessualità, anche prima della età adulta. Sentiamo, per esempio, come secondo il manuale di Jean Gerson (1363-1429) il confessore deve portare i giovanissimi a confessare l’abitudine masturbatoria: Il Confessore, dopo aver parlato in modo affabile e familiare e non austero di altri argomenti o vizi, scenda gradatamente e quasi per caso homini denegavit, eo quod adeo vehementer sit in ea re [scil. masturbatione] sensus voluptatis, ut homines passione excaecati, passim sibi facile persuaderent habere se iustam causam irritandi seminis, unde plurima gravissimaque vitia contra bonum comune et in impeditione generationis emergerent”. Cfr. BUSEMBAUM H., Medulla Theologiae Moralis, lib. 3, t. 4, cap. 2, d. 4; S. ALFONSO, Theologia Moralis, lib. 3, t. 4, cap. 2, d. 4 (ed. Gaudé 1, 697). 59 CARAMUEL J., Theologia intentionalis, Lione 1664, lib. IV, n. 1965: “Mollities iure naturae prohibita non est. Unde si Deus eam non interdixisset, saepe esset bona et aliquando obligatoria sub mortali” (cfr. ID., Theologia Moralis, Lovanio 1645, lib. 4, n. 1603). 60 Cfr. DS 2149. La frase era stata colpita dalla censura dell’Università di Lovanio nel 1653 e fu sottoposta al Sant’Uffizio da un gruppo di teologi fautori del Baianismo. 164 MAURIZIO P. FAGGIONI all’indagine su questo peccato, dicendo così: “Amico, ti ricordi se mai nella tua infanzia, verso i 10 o 12 anni, il tuo pene o membro si sia eretto?”. Se dice di no, subito deve essere convinto che è una bugia e che vuol fingere e che ha paura di essere scoperto, perché è noto che questo accade a tutti i bambini che non abbiano difetti fisici, quando stanno al caldo nel letto o altrove. Perciò bisogna insistere in modo sempre più aperto perché dica la verità. Allora il confessore, se si tratta di un penitente molto giovane, dirà: “Amico, forse che questo non era indecente? Che cosa facevi, dunque, perché non diventasse eretto?”. E ciò sia detto con volto tranquillo perché appaia che quanto si chiede non è disonesto o da tenere sotto silenzio, ma è come un rimedio contro la suddetta pretesa disonestà dell’erezione. Se non vuol rispondere, si chieda pianamente di conseguenza: “Amico, forse che toccavi o strofinavi il tuo pene come sogliono fare i bambini?”61. Il testo prosegue sempre più incalzante, spingendo il giovane penitente a rovistare nei ricordi e nei sottofondi della memoria per rintracciare le circostanze più imbarazzanti. L’invito a non tacere, incoraggiato da una affermazione sulla non disonestà dell’argomento (“illud, quod quaeritur non sit inhonestum vel silendum”), ha chiaramente lo scopo di far emergere alla consapevolezza i desideri sessuali per poterli meglio reprimere e correggere. 61 GERSON J., De confessione mollitei, in Johannis Gersonii opera omnia, Anversa 1706, vol. I, tom. 2, 453-454: “Igitur post aliqua colloquia de alii materiis aut vitiis familiariter ac affabiliter non austere facta, descendat gradatim & quasi ab obliquo Confessor ad inquisitionem hujusmodi peccati, sic dicendo: “Amice, recordaris quod unquam in pueritia tua circa 10 aut 12 annos tua virga, vel membrum pudendi, fuerit erecta?”. Si dicit quod non, statim convincitur mendacii, & quod vult fingere & timet capi, quia constat hoc omnibus pueris non vitiatis corpore, dum calefacti sunt in lecto vel alias sæpe contingere. Idcirco magis ac magis aperte debet urgere ut dicat veritatem. Item Confessor, si ille sit juvenis præcipue: “Amice, nunquid istud erat indecens? Quid ergo faciebas ut non erigeretur?”. Et dicatur hoc vultu tranquillo, ut appareat quod illud quod quæritur non sit inhonestum vel silendum, sed quasi remedium contra præfatam erectionis prætensam inhonestatem. Si nolit respondere, plane petatur consequenter: “Amice, nunquid palpabas aut fricabas virgam tuam quemadmodum pueri solent?”. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 165 Il discorso sulla masturbazione e la campagne educative tese a sradicarla divennero quasi ossessivi sul finire del XVII secolo sia in campo cattolico sia, con ancora maggiore rigore, in quello protestante. Questo atteggiamento repressivo verso la masturbazione non sorprende certo nel contesto di una Chiesa della Riforma e della Controriforma, ma ciò che non ci si aspetterebbe è l’inasprimento verso la masturbazione che si ebbe nella cultura illuminista del XVIII secolo. Si trattò di un vero e proprio spartiacque culturale che coinvolse tutta la comprensione della vita sessuale e che – giustamente – Patrick Singy ha denominato la secolarizzazione della moralità, intendendo con questa espressione “il trasferimento di una pratica sessuale da una sfera teologica ad un discorso scientifico”62. Nell’Illuminismo si assistette al trasferimento della preoccupazione antimasturbatoria dalla morale alla scienza: la masturbazione, dopo essere stata considerata per secoli un disordine morale nell’ambito teologico morale, veniva ad essere individuata come un comportamento antinaturale e antisociale. Era un comportamento antinaturale perché andava contro la logica insita nella natura ed era gravido, pertanto, di effetti psicofisici devastanti sui soggetti che la praticavano63. Era anche un comportamento antisociale perché dissipava, in una dimensione fantastica e sensitiva, preziose energie psico-fisiche altrimenti destinate alla produzione, alla procreazione e al benessere64. Non erano certo nuove le preoccupazioni sui presunti danni prodotti dalla masturbazione alla salute dei ragazzi ed erano presenti anche in autori del XVI e XVII secolo. Nel contesto illuminista presero vigore e consistenza, come se fosse il bisogno di trovare una sorta di contrappasso laico per la trasgressione delle eterne leggi della natura, 62 SINGY P., Friction of the genitals and the secularization of morality, “Journal of the History of Sexuality” 12 (2003) 345-364 (cit. p. 345). 63 Sull’innaturalità della masturbazione nel secolo dei Lumi: STOLBERG M., The crime of Onan and the laws of nature. Religious and medical discourses on masturbation in the late seventeenth and early eighteen centuries, “Paedagogica Historica” 2003 (39) 701-717. 64 È la tesi storiografica che sta al centro del già menzionato saggio di LAQUEUR T. W., Solitary Sex. 166 MAURIZIO P. FAGGIONI equivalente alla punizione teologica che comportava la violazione dell’ordine stabilito dal Creatore, per l’uso illecito del sesso e del piacere65. Il primo scritto che tratta in modo ampio le conseguenze negative del comportamento masturbatorio sembra essere stato un opuscolo intitolato Onania composto da un mezzo ciarlatano, il quacchero John Marten, per reclamizzare alcuni suoi ritrovati pseudoterapeutici, pubblicato nel Regno Unito nel 170866. Chi, con la sua autorità, dette dignità scientifica alla tesi della perniciosità della masturbazione fu il medico svizzero calvinista Samuel-August Tissot (1728-1797)67 il quale pubblicò, nel 1760, un volume intitolato L’onanisme dal significativo sottotitolo di Dissertation sur les maladies produites par la masturbation68. Per dare un’idea del libro, riportiamo la descrizione fatta dal Tissot di un giovane diciasettenne dedito alla masturbazione e ridotto, per questo, in pochi anni, a un relitto umano: Informato del suo essere, mi recai presso di lui; più che un individuo vivente, trovai un cadavere sdraiato su un pagliariccio, magro, pallido, sudicio, puzzolente, quasi incapace d’ogni movimento: spesso gli colava dal naso un sangue smorto e acquoso; e continuamente gli usciva dalla bocca una bava. Colto da diarrea, egli emetteva gli escrementi in letto, senza addarsene. Lo spargimento dell’umore semina- 65 COOK A., The politics of pleasure talk in 18th-Century Europe, “Sexualities” 12 (2009) 451-466; VIDAL F., Onanism, Enlightment Medicine, and the Immanent Justice of Nature, in DASTON L., VIDAL F. (eds)., The Moral Authority of Nature, Chicago 2004, 254-281. 66 Onania; or, The Heinous Sin of Self-Pollution, and all its Frightful Consequences, in Both Sexes, Considered, London, 1723. Ristampato in: The Secret Vice Exposed! Some Arguments Against Masturbation, New York 1974. L’opuscolo è anonimo, ma pare ormai sicura l’attribuzione a John Marten. 67 JENKINS S., Dr Samuel Auguste Tissot, “Journal of Medical Biography” 7 (1999) 187–191. 68 TISSOT S. A., L’Onanisme. Dissertation sur les maladies produites par la masturbation, 1764 (trad. it. TISSOT S. A. L’onanismo, trad. F. Cezzi, 1994). Vedere: JORDANOVA L., The popularization of medicine: Tissot on onanism, “Textual Practice” 1 (1987) 68-79; STENGERS J., VAN NECK A., Histoire d’une grande peur, la masturbation, Paris 1998, (trad. it. Storia della masturbazione, Bologna 2009). IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 167 le era continuo; i suoi occhi caccolosi, torbidi e spenti, non avevano più la facoltà di girare; il polso era estremamente debole, ma pronto e frequente; la respirazione, molto imbarazzata; la magrezza, estrema, eccettuati i piedi, i quali cominciavano a diventare tumidi, molli e sierosi. Il disordine dello spirito non era minore: non aveva più idee, più memoria; inetto a leggere due frasi; senza riflessione, senza inquietudine sulla sua sorte; non aveva altra sensazione che quella del dolore, la quale lo assaliva penosamente, ogni tre giorni almeno. Era un essere molto al di sotto del bruto, ed offriva in sé uno spettacolo, di cui è difficile immaginare tutto l’orrore. Molto a stento si poteva riconoscere ch’egli una volta aveva appartenuto alla specie umana... Morì dopo poche settimane (giugno 1757) col corpo ch’era tutto un tumore molle e sieroso69. Le edizioni dell’Onanisme furono numerosissime e fu tradotto nelle principali lingue europee, compreso l’italiano, e sulla sua scia furono scritti libri e libelli che associavano la masturbazione alle affezioni più diverse e più terribili. La psicosi onanista percorse tutta la cultura europea del ’700. Voltaire (1694-1778) amplificò l’eco del lavoro di Tissot menzionandolo nella voce Onanisme del suo Dictionnaire philosophique70 e J. J. Rousseau (1712-1778) che già nell’Emilio, proprio per evitare la masturbazione, aveva raccomandato di vigilare con attenzione sui ragazzi e di non lasciarli mai soli, dopo che, nel 1762, il Tissot gli ebbe inviata una copia del suo libro, si impegnò ancora più ala69 TISSOT S. A., L’Onanisme, 33. VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, voce Onan, Onanisme, in Oeuvres complètes, tom. 20, MOLAND L. (ed.), Paris 1879, 135: “Tissot, fameux médecin de Lausanne, a fait aussi son Onanisme, plus approfondi et plus méthodique que celui d’Angleterre. Ces deux ouvrages étalent les suites funestes de cette malheureuse habitude, la perte des forces, l’impuissance, la dépravation de l’estomac et des viscères, les tremblements, les vertiges, l’hébétation, et souvent une mort prématurée. Il y en a des exemples qui font frémir. M. Tissot a trouvé par l’expérience que le quinquina était le meilleur remède contre ces maladies, pourvu qu’on se défît absolument de cette habitude honteuse et funeste, si commune aux écoliers, aux pages, et aux jeunes moines. Mais il s’est aperçu qu’il était plus aisé de prendre du quinquina que de vaincre ce qui est devenu une seconde nature”. 70 168 MAURIZIO P. FAGGIONI cremente nella lotta alla masturbazione infantile e adolescenziale71. Fra i grandi oppositori settecenteschi della masturbazione va ricordato, infine, E. Kant (1724-1804) che, nella Metafisica dei costumi, addirittura giudicava la masturbazione peggiore del suicidio72. Le certezze della medicina settecentesca sugli effetti nefasti della pratica masturbatoria, confermate per oltre un secolo da una vasta letteratura medica, trovarono una nuova declinazione nel secolo seguente innestandosi nella interpretazione sociologica e psichiatrica dei comportamenti devianti elaborata da parte della scienza positivista. Si introdusse la nozione dell’onanista come uomo de-generato e deviato, ben riconoscibile per le sue stigmate e caratteristiche psico-somatiche. Nelle lezioni su Gli anormali Michel Foucault cercò di tracciare una suggestiva archeologia della anormalità a partire dall’osservazione che, proprio nel XIX secolo, vennero a confluire nell’unica figura dell’anormale tre tipi umani distinti: il mostro, l’incorreggibile e il masturbatore. “L’individuo anormale del XIX secolo – egli scrive – resterà a lungo segnato – nella pratica medica, nella pratica giudiziaria, nel sapere così come nelle istituzioni che lo circondano – da una mostruosità che diventa sempre più sfumata e diafana; da un’incorreggibilità correggibile in cui gli apparati disciplinari investono sempre meglio le loro energie; da quel segreto comune e singolare che è l’etiologia generale e universale delle peggiori irregolarità. La genealogia dell’individuo anormale – conclude – ci rinvia a queste tre figure: il mostro, l’incorreggibile, l’onanista”73. In periodo pre-analitico, Richard von Krafft-Ebing (1840-1902) nella Psycopathia sexualis, pubblicata in prima edizione nel 1886, fece l’ultimo passo collegando strettamente la abitudine masturbatoria con l’omosessualità e tutta una serie di situazioni neuro e psicopato- 71 BAIER G., A proper arbiter of pleasure: Rousseau on the control of sexual desire, “The Philosophical Forum” 30 (2010) 249-268. 72 KANT I., Die Metaphysik der Sitten, Zweiter Teil, § 7, Königsberg 1797 (trad. it. Metafisica dei costumi, Milano 2006, 463-467). Cfr. SOBLE A., Kant and sexual perversion, “The Monist” 86 (2003) 55-89; KIELKOPF CH., Masturbation. A Kantian condemnation, “Philosophia” 25 (1997) 233-246. 73 FOUCAULT M., Les Anormaux. Cours au Collège de France 1972-1975, Paris, 1999 (trad. it. Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-1975, Milano 2000, 61). IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 169 logiche74. In questa opera monumentale e molto influente egli sosteneva l’opinione, più tardi modificata, che l’omosessualità detta anche “sessualità antipatica” può essere innata o acquisita: la pratica masturbatoria è una delle cause principali per la genesi e il consolidamento della omosessualità acquisita e, di conseguenza, l’abbandono della masturbazione, insieme con l’ipnosi e la forza di volontà, ha un ruolo essenziale nel superamento della attrazione omosessuale. Per tutta una serie di contingenze storico-culturali convergenti, la repressione della masturbazione infantile e adolescenziale diventò, così, nei secoli XVIII e XIX un caso serio e un dovere urgente per prevenire nei giovani la pratica di una abitudine tanto dannosa per la loro salute e il loro equilibrio psicofisico quanto gravida di ricadute negative su tutta la società. Oltre ad un controllo serrato dei comportamenti dei giovanissimi, oltre alla diffusione di notizie allarmanti sugli effetti dell’onanismo e al ricorso a severi metodi punitivi, si produssero strumenti per legare le mani o per contenere gli organi sessuali dei ragazzi e delle ragazze, impedendo ogni tentativo di masturbazione75. Il medico francese C. F. Lallemand (1790-1853), avendo accostato la spermatorrea o perdita spontanea di seme dell’adulto e i suoi effetti negativi con la masturbazione76, fornì una ulteriore ba- 74 KRAFFT-EBING R. von, Psychopathia sexualis. Mit besonderer Berucksichtigung der contraren Sexualempfindung: eine klinisch-forensische Studie, Stuttgart 1887. Il testo ebbe edizioni e fu tradotto nelle principali lingue europee. Prima edizione italiana con introduzione di Cesare Lombroso: Le Psicopatie sessuali con speciale considerazione alla inversione sessuale. Studio clinico-legale, Torino 1889. 75 Non stupisce l’approvazione data a questa profilassi della masturbazione dalla medicina pastorale di fine ottocento: ESCHBACH A. Disputationes physiologico-theologicae, Roma-Parigi 19012, disp. V, cap. IV, 91-92. Più sorprendente apprendere che, negli anni ’30 del XX secolo, un autorevole e consultatissimo lavoro di medicina pastorale ancora li consigliava, per “risolvere” i casi più resistenti: ANTONELLI G., Medicina Pastoralis, Roma 1932, vol. II, 237-238. 76 LALLEMAND C. F., Des pertes séminales involontaire, 3 volumes, Paris 18351845. L’opera fu più volte ristampata ed ebbe varie traduzioni. Vedere, inoltre: STEPHENS E., Pathologizing leaky male bodies: spermatorrhea in nineteenth-century British medicine and popular anatomical museums, “Journal of History of Sex” 17 (2008) 421-438. 170 MAURIZIO P. FAGGIONI se scientifica alle credenze diffuse. Egli propose la circoncisione come deterrente della masturbazione adolescenziale e questa indicazione, poco seguita nel Continente, trovò il sostegno di scienziati eminenti come l’inglese Jonathan Hutchinson (1828-1913) e si diffuse nel rigido puritanesimo dell’Inghilterra vittoriana e negli Stati Uniti77. Il ginecologo inglese Isaac Baker Brown (1811-1873) e il celebre endocrinologo francese Charles Brown-Séquard (1817-1894) sostennero la clitoridectomia delle bambine per evitare la masturbazione e le sue presunte sequele di ninfomania, malinconia, cecità e paralisi78. Nel 1866-1867 il dottor Baker Brown si trovò al centro di un violento dibattito scientifico e deontologico a motivo delle sue teorie sulla clitoridectomia e, alla fine, fu espulso dalla Società ostetrica inglese, ma, sopito il clamore del caso Baker, la pratica della clitoridectomia continuò sino alla fine del secolo79. Nel 1894, il dottor A. J. Bloch di New Orleans in un articolo intitolato Sexual Perversion in the Female si riferì alla masturbazione femminile come ad una lebbra morale e descrisse diversi casi da lui brillantemente risolti, come quello della quattordicenne sofferente di nervi che era stata curata “liberando il 77 DARBY R., The masturbation taboo and the rise of routine male circumcision: A review of the historiography, “Journal of Social History” 36 (2003) 737-757; ID., Pathologizing male sexuality: Lallemand, spermatorrhea, and the rise of circumcision, “Journal of the History of Medicine and Allied Sciences” 60 (2005) 283-319; HODGES F., A Short History of the Institutionalization of Involuntary Sexual Mutilation in the United States, in DENNISTON G. C., MILOS F. M. (edd.), Sexual Mutilations: A Human Tragedy, New York 1997, 17-40; WALLERSTEIN E. Circumcision: An American Fallacy, New York 1980. 78 MOSCUCCI O., Clitoridectomy, Circumcision and the Politics of Sexual Pleasure in Mid-Victorian Britain, in MILLER A. H., ADAMS J. E. (edd.), Sexualities in Victorian Britain, Bloomington 1996; RODRIGUEZ S.W., Rethinking the history of female circumcision and clitoridectomy: American medicine and female sexuality in the late nineteenth century, “Journal of the History of Medicine and Allied Sciences” 63 (2008) 323-347; STUDD J., A comparison of 19th century and current attitudes to female sexuality, “Gynecological Endocrinology” 23 (2007) 673-681; STUDD J., SCHWENKHAGEN A., The historical response to female sexuality, “Maturitas” 63 (2009) 107-111. 79 SHEEHAN E., Victorian clitoridectomy: Isaac Baker Brown and his harmless operative procedure, “Gender Issues” 1985 (5) 39-53. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 171 clitoride dalle sue adesioni e istruendo la paziente sui pericoli della masturbazione”80. È questa – per fortuna – una delle ultime voci mediche a favore della clitoridectomia antimasturbatoria, ma sembra davvero impossibile che la cultura occidentale, oggi così indignata di fronte alle mutilazioni genitali femminili tipiche della cultura subsahariana, abbia potuto approvare e giustificare con argomenti ideologici, ma ritenuti scientifici, una tale inutile crudeltà81. Ancora più inquietante è che la clitoridectomia sia stata ritenuta un intervento moralmente accettabile e, talvolta, consigliabile anche dalla Medicina pastorale cattolica82. È una conseguenza dello slittamento dal piano etico – quello tipico della Tradizione teologico-pastorale – che chiedeva di superare la masturbazione e gli eccessi sessuali con la crescita morale, al piano medico – quello che si è imposto dall’Illuminismo in poi – che trovava cause e rimedi della sregolatezza sessuale nell’ambito organico. La convergenza tra i due piani apparve provvidenziale perché dava inattese conferme scientifiche a posizioni morali consolidate, ma, allo stesso tempo, esponeva la riflessione morale, basata sull’antropologia della sessualità, alla continua evoluzione del sapere scientifico, basato sulla biologia della sessualità. 4. La discussione etica contemporanea Nella cultura del secolo XX, sotto l’influsso delle scienze umane, si è assistito a una completa inversione di tendenza rispetto alla condanna dell’onanismo decretata dalla scienza del sette-ottocento. S. Freud 80 BLOCK A. J., Sexual perversion in female, “New Orleans Medicine and Surgery Journal” (new series) 22 (1894-1895) 1-7. 81 Sull’etica delle mutilazioni genitali femminili: DEL MISSIER G., Le mutilazioni genitali femminili, “Medicina e Morale” 50 (2000) 1097-1143. 82 Cfr. ANTONELLI G., Medicina Pastoralis, Roma 1932, vol. II, 274: “Si vero omnia haec ad evellendum laethale vitium adhuc non sufficiunt, recurrendum est ad amputationem clitoridis (clitoridectomia) in mulieribus, etiam adultis. Haec operatio facillima est et omnino innoxia”. 172 MAURIZIO P. FAGGIONI fu tra i primi a sostenere apertamente la positività della masturbazione infantile nell’ambito dello sviluppo normale della sessualità e questa idea, variamente ripresa e tematizzata, segnò un mutamento radicale nella considerazione della masturbazione83. Dal punto di vista della psicologia, la masturbazione svolgerebbe una funzione positiva nello sviluppo della persona, nell’equilibrio psicofisico e nello stabilimento di una adeguata autostima e questo non solo nelle età giovanili, ma anche nell’età adulta84. Nel volume dal titolo altamente significativo La masturbazione come mezzo per conseguire la salute sessuale, il prof. Coleman scrive che tra gli psicologi contemporanei “c’è l’impegno fondamentale di normalizzare la masturbazione”85. Sotto l’influsso di questa letteratura che ritiene la masturbazione, specie quella dei bambini e degli adolescenti, un fenomeno normale dell’evoluzione della sessualità, alcuni Moralisti cattolici hanno cominciato a dubitare della oggettiva gravità della masturbazione e si sono mostrati piuttosto indulgenti in proposito, sostenendo che si dovrebbe parlare di “colpa reale e grave” solo nella misura “in cui il soggetto cedesse deliberatamente ad un’autosoddisfazione chiusa in se stessa (ipsazione), perché in tal caso l’atto sarebbe radicalmente contrario a quella comunione amorosa tra persone di diverso sesso”86, in cui sta il senso ultimo della sessualità. In questa posizione due elementi indubbiamente veri (l’alta frequenza statistica e l’individuazione dell’elemento formale della trasgressione grave) sono usati per trarne una conclusione discutibile: la masturbazione, essendo un fenomeno normale, è da considerarsi atto ordinariamente legge83 MAKARI G. J., Between seduction and libido: Sigmund Freud’s masturbation hypotheses and the realignment of his etiologic thinking, 1897-1905, “Bulletin of History of Medicine” 72 (1998) 638-662. 84 Classica la raccolta di studi: MASTERS R. E. L. (ed.), Sexual Self-Stimulation. Los Angeles 1967. Cfr. GIUSTI E., DI FRANCESCO G., L’autoerotismo. L’alba del piacere sessuale: dall’identità verso la relazione, Roma 2006. 85 BOCKING W., COLEMAN E. (eds.), Masturbation as a Means of Achieving Sexual Health, Binghanton (NY) 2002, 8: “There is the basic task of ‘normalizing’ masturbation”. Cfr. PPFA (Planned Parenthood Federation of America), Masturbation. From Stigma to Sexual Health, New York 2002. 86 CONGR. DOTTR. FEDE, Dich. Persona humana, n. 9, AAS 68 (1976) 8. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 173 ro e solo in casi singoli ed eccezionali, grave. Contro queste opinioni, la dichiarazione Persona Humana della Congregazione per la Dottrina della Fede ha ribadito il rifiuto morale della masturbazione definendola “un grave disordine morale”87. Questa posizione è stata ripresa dal Catechismo della Chiesa Cattolica insegnando che “sia il Magistero della Chiesa – nella linea di una Tradizione costante – sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato”88. La Dichiarazione Persona Humana contesta l’idea che la normalità statistica, alla quale fanno riferimento psicologia e sociologia, possa essere ribaltata in normalità morale o criterio di verità etica. La diffusione e tolleranza del comportamento masturbatorio, infatti, va ricondotta – si dice – alla fragilità dell’uomo nei confronti del sesso, dovuta alla ferita del peccato originale e, nella cultura occidentale, è frutto di molteplici fattori di per sé moralmente riprovevoli come la perdita del senso di Dio, la depravazione dei costumi, la sfrenata licenza di pubblicazioni e spettacoli, la commercializzazione del sesso, l’oblio del pudore. Per sostenere la sua posizione molto netta contro la masturbazione, Persona Humana ricorre a due ordini di argomenti, di autorità e di ragione. Nel riportare gli argomenti di autorità tratti dalla Bibbia e dalla Tradizione, la Dichiarazione propone con molta circospezione i dicta probantia e cioè le prove scritturistiche usualmente addotte dai Teologi antichi, ben consapevole della loro fragilità, ma conclude che “anche se non si può stabilire con certezza che la Scrittura riprova questo peccato con una distinta denominazione, la Tradizione della Chiesa ha giustamente inteso che esso veniva condannato nel Nuovo Testamento, quando questo parla di impurità, di impudicizia, o di altri vizi, contrari alla castità e alla continenza”. Si rimanda, quindi, ad alcuni testi del Magistero che respingono formalmente la masturbazione89. Le 87 Ibid. CATECHISMUS CATHOLICAE ECCLESIAE, n. 2352. 89 LEONE IX, Ep. Ad splendidum nitentis, del 1054 (DS 687-688); S. UFFIZIO, Decreto 2 marzo 1679 (DS 2149); PIO XII, Discorso ai partecipanti al XXVI Congresso della Società italiana di urologia, 8 ottobre 1953, AAS 45 (1953) 677-678. 88 174 MAURIZIO P. FAGGIONI auctoritates magisteriali addotte sono scarse e non del tutto pertinenti: si ricorda lettera di plauso di Leone IX a san Pier Damiani per il Liber Gomorrhianus e la condanna alla degradazione dei chierici recidivi in abitudini infamanti, inclusi coloro che “semetipsos polluunt”, ma sarebbe forzare il testo voler vedere in esso una condanna indistinta della masturbazione; si menziona un decreto del Sant’Uffizio rivolto contro la proposizione lassista del Caramuel che negava che la proibizione della masturbazione fosse di legge naturale, ma questo non è che una prova indiretta della sua gravità morale; si rimanda a due testi di Pio XII che, però, riguardano specificamente la raccolta del seme a scopo medico. Il fatto che il Magistero dei secoli passati non abbia ritenuto di esprimere una posizione generale sulla masturbazione, non significa però – lo abbiamo visto – che la Tradizione non abbia elaborato una dottrina inequivocabile sulla gravità della masturbazione ed è sull’insieme di questa Tradizione sostanzialmente unanime che si fonda, in ultima analisi, la prova di autorità di Persona Humana. L’argomento più interessante portato dalla Dichiarazione contro la masturbazione è, però, di natura antropologica e dipende dalla lettura della sessualità e, quindi, dell’etica sessuale sviluppata nell’ambito del personalismo cristiano. Per la morale cattolica la sessualità è un linguaggio privilegiato della relazione interpersonale e la sua verità deriva dalla autenticità della relazione nel contesto della quale essa viene vissuta. Solo nel contesto della relazione coniugale, la sessualità può essere impegnata con integrità in conformità con il suo significato originario e fondante. La masturbazione, in quanto esercizio della facoltà sessuale al di fuori della relazione coniugale e, addirittura, di qualsiasi relazione va contro uno dei cardini del modello cristiano di etica sessuale che vieta, appunto, di disgiungere l’esercizio della sessualità genitale dal contesto dell’amore coniugale90. Rispetto alla dinamica antropologica dell’atto coniugale, si può dire che masturbazione contraddice il senso unitivo, vale a dire oblativo/comunionale, e procreativo della sessualità, frustrandone la verità e una simile contraddizione non può mai essere ritenuta in sé insignificante 90 Cfr. CATECHISMUS CATHOLICAE ECCLESIAE, n. 2352. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 175 o indifferente. Muovendosi lungo una linea di pensiero con notevoli consonanze all’impostazione cattolica, il filosofo italiano Umberto Galimberti spiega che “nella masturbazione... il desiderio che non desidera l’altro è un desiderio che non diventa veicolo di trascendenza, ma oggetto della propria immanenza, giocata in quel breve spazio che separa la tensione dalla soddisfazione che la estingue”91. Vorremmo notare qui un equivoco che – a nostro avviso – percorre la discussione teologico morale contemporanea in tema di masturbazione: la continua confusione tra il piano della oggettività e quello della soggettività e, quindi, fra la gravità oggettiva della masturbazione e la colpevolezza soggettiva degli atti masturbatori92. Questi due aspetti, pur essendo strettamente interconnessi, devono essere tenuti distinti. Riguardo alla gravità oggettiva il Magistero – come si è visto – la ha ribadita anche recentemente. Sullo sfondo sta la vexata quaestio della parvitas materiae in re venerea, anche se essa storicamente non riguardava la masturbazione, ma gli sguardi e i toccamenti. San Tommaso aveva insegnato che nell’ambito della sessualità, non si dà mai parvità di materia per cui tutti i peccati contro la castità, essendo la materia in ogni caso grave, devono considerarsi mortali93. Il motivo di questa severità era comprensibile per quanto riguardava l’uso della facoltà generativa fuori del matrimonio, ma era più difficile spiegare come semplici sguardi o toccamenti, anche se compiuti con piena avvertenza e deliberato consenso, fossero sempre peccati mortali. Il motivo – piuttosto discutibile – è che il consenso al piacere illecito connesso con i peccati di lussuria è in sé peccato mortale, 91 GALIMBERTI U., Le cose dell’amore, Milano 2004, 52 (sul tema della masturbazione tutto il capitolo 5. Amore e solitudine, pp. 47-56). 92 Secondo l’impostazione classica, il peccato mortale è un atto umano deordinato rispetto al fine ultimo. In esso intelletto e volontà abbracciano con piena avvertenza e integro consiglio, comprendendolo, cioè, e volendolo come tale, un oggetto che è in sé materia grave. L’oggetto in sé è materia grave quando, deliberatamente scelto, priva l’anima della sua ordinazione al fine ultimo, che è la carità. Cfr. LOTTIN O., Principes de Morale, Louvain (B) 1947, 297-299. 93 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-IIae, q. 154, art. 2. 176 MAURIZIO P. FAGGIONI e questo non vale solo per il consenso in atto, ma anche per il consenso ordinato a tale piacere che si esprime negli sguardi e nei toccamenti94. Tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII si fece strada una opinione diversa che ammetteva anche in re venerea la possibilità della parvità di materia, almeno per alcuni oggetti ritenuti non gravemente disordinati, come un pensiero o un bacio95. Papa Clemente VIII (1592-1605) e papa Paolo V (1605-1621) avevano ordinato di denunciare all’Inquisizione coloro che sostenevano che baci, abbracci e toccamenti in vista della delectatio carnalis non erano peccati mortali96. Nel 1612 Claudio Acquaviva, generale dei Gesuiti, era intervenuto con un decreto che proibiva ai professori della Compagnia d’insegnare la opinione della parvità di materia. È significativo il fatto che nella edizione del 1607 del De sancto Matrimonii Sacramento del gesuita T. Sanchez venisse dichiarata veracissima sententia l’opinione della parvità di materia nel piacere sessuale, quando questo provenga esclusivamente dal tatto e dal pensiero. Secondo lui, infatti, non c’erano ragioni convincenti per ammettere la parvità di materia negli altri comandamenti ed escluderla, invece, nel sesto comandamento97. A partire, però, dall’edizione successiva, pubblicata nel 1614, morto l’autore, questa opinione possibilista sulla parvità di materia scomparve dal trattato98. Al tempo di Alessandro VII, il Sant’Uffizio rispondendo a un dubium sulla sollicitatio, ribadiva, nel 1661, che “in rebus venereis non datur parvitas materiae”99 e nel 1666 condannò una proposizione che 94 Ibid., art. 4. Ampio studio sull’argomento in: DIAZ-MORENO J. M., La doctrina moral sobre la parvedad de materia “in re venerea” desde Cayetano hasta San Alfonso, “Archivio Teològico Granadino” 23 (1960) 5-138. 96 Cfr. GIUNCHEDI F., Eros e norma. Saggi di sessualità e bioetica, Roma 1994, 49 (nota 5). 97 SANCHEZ T., De sancto matrimonii sacramento, lib. 9, disp. 47, nn. 7. 9. 16. 98 Si discute se la rettifica sia stata introdotta dall’autore stesso o da un correttore (come farebbe pensare l’avvertenza del frontespizio: Superiorum auctoritate correcta). 99 Responsum S. Officii, 11 febbraio 1661 (DS 2013). 95 IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 177 considerava probabile l’opinione che, se si esclude il pericolo di consenso ulteriore e di polluzione, un bacio desiderato per il piacere carnale che ne nasce è un peccato soltanto veniale100. La questione, nonostante, queste condanne di singole opinioni è rimasta non definita, anche se l’opinione pressoché universale fu quella della non parvità di materia101. Ai nostri giorni non sono mancati moralisti che hanno invocato la parvità di materia anche nel campo del sesto comandamento indipendentemente dalle circostanze attenuanti102. Non vogliamo qui entrare nella discussione, ma almeno per quanto riguarda la masturbazione, riteniamo che, alla luce della impostazione personalista della morale sessuale, la gravità dell’autoerotismo risulta più evidente di quanto non risultasse nella impostazione naturalista tradizionale: esso, infatti, contraddice apertamente il senso comunionale della sessualità umana ed è, in questo senso, contra naturam, cioè contro il significato interpersonale insito nella sessualità umana come suo logos originario. Ambrogio Valsecchi, in un lavoro ormai classico, spiegava che “la nuova visione della sessualità, come funzione intersoggettiva e potenza di oblatività e di dialogo sociale, non può non respingere il comportamento autoerotico che da se stesso appare solipsistico e privo di qualsiasi apertura comunionale”103. 100 Propositiones LXV damnatae, 18 marzo 1666, n. 40 (DS 2060). Fino ad oggi la questione è rimasta sostanzialmente a questo punto, anche se la stessa nozione di materia è stata recentemente messa in discussione da alcuni moralisti tacciandola di fisicalismo. Nella prassi pastorale attuale si mantiene l’idea della materia oggettivamente grave, ma – forti dei progressi delle scienze psicologiche – si tendono ad attenuare avvertenza e consenso. Vedere: BOYLE J. P., Parvitas Materiae in Sexto in Contemporary Catholic Thought, Washington D. C. 1987; KLEBER K. H., De parvitate materiae in sexto. Ein Bietrag zur Geschichte der katholischen Moraltheologie, Regensburg 1971; ORSENIGO E., La parvità di materia nella lussuria: riflessioni storico-dottrinali, “La Scuola Cattolica” 92 (1964) 425-442. 101 Si veda: ORSENIGO C., La parvità di materia nella lussuria, 440-441. 102 Una esposizione sintetica delle ragioni a favore della parvità secondo i moralisti contemporanei in: ROSSI L., Masturbazione, in ROSSI L. VALSECCHI A. (dirr.), Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Cinisello Balsamo 19877, 619-620. 103 VALSECCHI A., Nuove vie dell’etica sessuale. Discorso ai cristiani, Brescia 1972, 162. 178 MAURIZIO P. FAGGIONI Ovviamente per la nostra mentalità e per la prospettiva personalista sottesa all’etica sessuale cattolica contemporanea, una unione sessuale con una prostituta o uno stupro sono oggetti più gravi di un atto masturbatorio e comportano un disordine morale più evidente, così che un soggetto morale è in grado di percepire con più facilità la trasgressione della legge naturale in questi casi di evidente dissociazione fra amore autentico e esercizio della sessualità che non nel caso della masturbazione104. Il fatto, però, che la masturbazione, paragonata ad altre colpe di natura sessuale, possa essere considerata un disordine oggettivamente meno grave di altri, non significa che essa costituisca un disordine lieve e il fatto che una persona moralmente immatura o condizionata da un ambiente immorale possa avere difficoltà a cogliere l’intrinseca inautenticità di un atto masturbatorio non significa che esso non sia oggettivamente difforme dal senso umano della sessualità. È vero che un singolo atto masturbatorio non può essere ritenuto indice di una inversione dell’ordine sessuale nella persona che lo compie, ma non si può neppure accettare la proposta di Ch. Curran che la masturbazione si configuri una materia grave solo in determinati contesti intenzionali105. In questo senso Veritatis splendor respinge l’accusa di fisicalismo fatta da molti Moralisti moderni nei confronti della teoria morale tradizionale e annovera la masturbazione fra gli esempi di oggetti morali intrinsecamente illeciti106. 104 Cfr. HÄRING B., Shalom: Pace. Il sacramento della riconciliazione, Roma 1969, 326: “Ciò significa che, se c’è un grado minore di disordine, ci sono delle buone ragioni per ritenere che una persona media non si renda conto che è in gioco la salvezza e non prenda una decisione derivante dalle profondità della sua volontà: quindi si tratta di una decisione imperfetta, di un peccato veniale”. Si noti il passaggio dalla discussione sulla parvità di materia nel caso della masturbazione (“un grado minore di disordine”) alla conclusione che si tratta di un peccato veniale, dall’oggettivo al soggettivo. 105 CURRAN CH., Masturbation and Objectively Grave Matter, in ID., A New Look in Christian Morality, NotreDame 1968, 214. Cfr. Human Sexuality. New Directions in American Catholic Thought, New York 1977 (trad. it. La sessualità umana. Nuovi orientamenti nel pensiero cattolico americano, Brescia 1978, 166). 106 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Veritatis splendor, n. 47: “Secondo alcuni teologi, una simile argomentazione biologista o naturalista sarebbe presente an- IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 179 5. Orientamenti pastorali Ferma restando l’oggettiva gravità degli atti masturbatori, la loro stessa diversificata tipologia ci fa intuire che le situazioni sono molto diverse fra loro e l’approfondimento delle psicodinamiche sottese ad essi ci porta necessariamente a prevedere che soggettivamente, specie negli adolescenti o in particolari situazioni di tensione intraconiugale o di solitudine estrema o nelle persone con disturbi della sfera psichica, può esserci un’attenuazione della sua gravità morale107. Gli operatori pastorali devono, perciò, valutare prudentemente le singole situazioni e collocare il comportamento masturbatorio nel contesto dell’intera vita morale, senza isolare tale comportamento dalla persona e puntare più sulle cause che sul sintomo. Il ricorso a strumenti psicologici e pedagogici può riuscire di grande aiuto, anche se la comprensione delle dinamiche profonde connesse con la masturbazione non deve portare a sottovalutare o addirittura a negare margini di libertà nei confronti degli atti masturbatori. “La psicologia moderna – si legge in Persona Humana – offre, in materia di masturbazione, parecchi dati validi e utili, per formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale e per orientare l’azione pastorale. Essa aiuta a vedere come l’immaturità dell’adolescenza, che può talvolta prolungarsi oltre questa età, lo squilibrio psichico o l’abitudine contratta possano influire sul comportamento, attenuando il carattere deliberato dell’atto, e far sì che, soggettivamente, non ci sia sempre colpa grave”108. Pur riconoscendo la necessità di tener conto delle diverse si- che in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in quelli riguardanti l’ambito dell’etica sessuale e matrimoniale. In base ad una concezione naturalistica dell’atto sessuale, sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la contraccezione, la sterilizzazione diretta, l’autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale”. 107 NALESSO A., Sulla capacità dell’adolescente al peccato grave contra sextum. Contributo alla formazione di un criterio di valutazione morale del fenomeno masturbatorio dell’adolescenza, Roma 1971. 108 CONGR. DOTTR. FEDE, Dich. Persona humana, n. 9, AAS 68 (1976) 8. Cfr. CATECHISMUS CATHOLICAE ECCLESIAE, n. 2352: “Ad aequum iudicium de re- 180 MAURIZIO P. FAGGIONI tuazioni esistenziali e psichiche per valutare correttamente la gravità soggettiva degli atti masturbatori, la Dichiarazione avverte che “tuttavia, in generale, l’assenza di grave responsabilità non deve essere presunta: ciò significherebbe misconoscere la capacità morale delle persone”. Questa conclusione è spiaciuta a molti commentatori perché sembra affermare la presunzione della colpa soggettivamente grave per ogni atto masturbatorio in qualunque situazione e da chiunque sia posto, anche giovanissimo109. La formulazione forse non felicissima della Dichiarazione è giustificata – a nostro avviso – dalla volontà di prendere posizione contro coloro che, da una parte, minimizzano la libertà delle persone in nome dei condizionamenti psichici e, dall’altra, ritengono l’oggetto masturbatorio in sé moralmente non connotato, facendone consistere la gravità morale solo in un atteggiamento di fondo verso la sessualità coscientemente e deliberatamente distorto. Non credo, però, che Persona Humana volesse insegnare una disciplina più rigorosa rispetto alla sapienza pastorale tradizionale la quale, come abbiamo visto, per esempio, nei Penitenziali di san Colombano – certo non sospettabili di lassismo o di relativismo morale – prevedeva per le trasgressioni sessuali dei giovani o degli incolti pene più leggere, venendosi a configurare per loro de facto una presunzione di minore colpevolezza soggettiva in questo ambito particolare. Il caso della masturbazione degli adolescenti è stato ripreso in prospettiva psicopedagogica nel documento della Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano. In esso si sponsabilitate morali subiectorum efformandum et ad pastoralem actionem recte ducendam, perpendentur immaturitas affectiva, vis habituum contractorum, angustiae status vel alia elementa psychica vel socialia, quae possunt moralem minuere, fortasse etiam ad minimum reducere, culpabilitatem”. 109 Cfr. HÄRING B., Sessualità, in ROSSI L., VALSECCHI A. (dirr.), Dizionario enciclopedico di Teologia Morale, Cinisello Balsamo 19877, 1428: “L’indifferenziata condanna della masturbazione abbraccia univocamente anche la prima giovinezza, e in modo tale che anche qui debba rimanere costante la presunzione per l’esistenza del peccato mortale soggettivo. Nei casi singoli si potranno addurre circostanze attenuanti, purché però non si tocchi la presunzione generale”. Si veda anche: HÄRING B., Masturbazione: fenomeno e guarigione, Catania 1973. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 181 ricorda agli educatori di “tener presente che la masturbazione e altre forme di autoerotismo sono sintomi di problemi assai più profondi, i quali provocano una tensione sessuale che il soggetto cerca di superare ricorrendo a tale comportamento. Questo fatto richiede che l’azione pedagogica sia orientata più sulle cause che sulla repressione diretta del fenomeno... Per aiutare l’adolescente a sentirsi accolto in una comunione di carità e strappato dal chiuso del proprio Io, l’educatore dovrà sdrammatizzare il fatto masturbatorio e non diminuire la sua stima e benevolenza verso il soggetto; dovrà aiutarlo a integrarsi socialmente, ad aprirsi e interessarsi agli altri, per potersi liberare da questa forma di autoerotismo, avviandosi verso l’amore oblativo, proprio di un’affettività matura; nello stesso tempo, lo incoraggerà a fare ricorso ai mezzi raccomandati dall’ascesi cristiana, come la preghiera e i sacramenti, e ad impegnarsi nelle opere di giustizia e di carità”110. L’adulto che si accusa spesso di questa materia in confessione o nella consulenza pastorale tende spesso a sviluppare forti sensi di colpa e di scarsa autostima. Non ha senso fare interventi ulteriormente colpevolizzanti su una persona già sofferente e consapevole della gravità morale dei suoi atti. Bisogna, al contrario, orientare la persona ad aprirsi al dialogo, all’altruismo, all’impegno e al servizio per gli altri e a individuare le situazioni conflittuali alla base di tensioni emotive che vengono smorzate attraverso la gratificazione masturbatoria. Se la persona vuole davvero superare il comportamento masturbatorio, dovrà evitare quanto può eccitare la fantasia e può spingerlo a vivere un sessualità virtuale, immaginativa, narcisistica e staccata da un contesto relazionale autentico: sotto questo punto di vista si nota un legame forte tra uso di pornografia o, comunque, di visioni e di letture erotiche e la pratica masturbatoria. Nel caso di sposati nei quali la masturbazione solitaria si affiancasse regolarmente alla vita sessuale coniugale o, addirittura, la sostituisse, bisogna aiutare la persona a esaminare le sue dinamiche coniugali ed incominciare – se necessario 110 CONGR. EDUC. CATTOLICA, Orientamenti educativi sull’amore umano, 99100. Si veda: CIOTTI C., RIGON S., La masturbazione. Considerazioni psicodinamiche, “Tredimensioni. Psicologia Spiritualità Formazione” 5 (2008) 303-312. 182 MAURIZIO P. FAGGIONI – una vera e propria terapia di coppia. Nell’adulto, dove non ci siano ragioni evidenti che possano spiegare l’impossibilità di controllare questi atti disordinati, pur desiderandolo onestamente, può essere utile consigliare il ricorso ad uno psicologo di retta coscienza e di saldi principi morali. In questo senso, in sede di confessione, il buon senso tradizionale insegna a distinguere l’atto masturbatorio occasionale, del tutto periferico all’orientamento di fondo della vita morale del soggetto e che non costituisce un problema, una volta superato l’episodio, dal comportamento masturbatorio, in cui la frequenza e la compulsività degli atti impone una analisi più approfondita. Nel caso della masturbazione intraconiugale o degli sposati, pur trattandosi sempre di un disordine che oscura il senso del mutuo dono che si esprime compiutamente solo nell’unione sessuale, si dovranno discernere con delicatezza le diverse situazioni e le circostanze attenuanti. La colpevolezza soggettiva potrebbe essere attenuata se un partner rifiuta il rapporto sistematicamente e il coniuge che si vede rifiutato, quando la tensione raggiunge livelli insostenibili, ricorre obtorto collo alla masturbazione. Non crea problemi morali il caso in cui la stimolazione dei genitali del coniuge o propri sia finalizzata non alla soddisfazione masturbatoria, ma al raggiungimento di una adeguata eccitazione sessuale cui segua un atto coniugale che sia – per quanto dipende dagli sposi – integro. Questo può essere il caso, per esempio, di una coppia anziana in cui esiste una certa difficoltà a raggiungere la eccitazione genitale adeguata per l’unione sessuale. In ambito coniugale è anche opinione comune fra gli Autori classici che una donna, prima dell’unione fisica, se ciò accade nel contesto o immediatamente prima dell’incontro intimo con lo sposo, possa predisporsi a raggiungere la piena soddisfazione sessuale attraverso toccamenti dei genitali compiuti da se stessa o anche dal marito111. Viene ritenuta, infine, opinione fondata da par111 Cfr. S. ALFONSO M. DE LIGUORI, Theologia Moralis, lib. VI, De matrimonio, n. 919 (ed. Gaudé 4, 101): “Omnes autem concedunt uxoribus quae frigidioris sunt naturae, posse tactibus se excitare ante copulam, ut seminent in congressu maritali statim habendo”. La donna, secondo la fisiologia antica è di natura più fredda dell’uomo perché dotata di minor calor naturalis e, pertanto, raggiunge più lentamente l’orgasmo e la conseguente secrezione delle ghiandole vulvo-vaginali. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 183 te della Morale classica anche la liceità della stimolazione dei genitali della donna, sempre nel contesto dell’intimità coniugale, sino a raggiungere l’orgasmo, qualora il marito abbia raggiunto l’orgasmo prima di lei112. Sant’Alfonso sintetizza l’opinione maggioritaria dicendo che, “come la donna si può preparare con toccamenti all’unione sessuale, così può portare a compimento con toccamenti l’unione sessuale stessa”113. La ragione è che la seminatio della donna, identificata con la secrezione delle ghiandole vulvo-vaginali e corrispondente all’eiaculazione virile, è indispensabile o, comunque, utile alla generazione e, quindi, è un elemento fisico che entra nella perfezione dell’atto coniugale in quanto virtualmente fecondo. Questa idea risalente almeno a Galeno nel II sec. d. C., cadde definitivamente verso la metà del XIX secolo quando Félix Archimède Pouchet giunse alla conclusione che l’ovulazione femminile è spontanea e del tutto indipendente dallo “spasmo voluttuoso”114. Se, però, l’orgasmo femminile non è funzionale alla generazione, viene meno la motivazione addotta dai più per provare la liceità della stimolazione clitoridea immediatamente dopo il coito. Resterebbe, a giustificare questa pratica, l’idea – non condivisa però da sant’Alfonso – che l’orgasmo da parte di entrambi i coniugi entri nella pienezza dell’atto o che, comunque, si deve intendere come parte integrante dell’unione coniugale anche ciò che immediatamente la prepara e ciò che la compie115. Riguardo allo stato di vita clericale e religioso, è opportuno distinguere diverse situazioni. 112 Cfr. S. ALFONSO M. DE LIGUORI, Theologia Moralis, lib. VI, De matrimonio, n. 919 (ed. Gaudé 4, 101): ”[Quaeritur] an autem, si vir se retrahat post seminationem, sed ante seminationem mulieris, possit ipsa statim tactibus se excitare ut seminet... Communius vero affirmant Wigandt, Lessius etc.”. 113 S. ALFONSO M. DE LIGUORI, Theologia Moralis, lib. VI, De matrimonio, n. 919 (ed. Gaudé 4, 101): “Sicut potest uxor tactibus se praeparare ad copulam, ita etiam potest actum copulae perficere”. 114 Cfr. SORCINELLI P., Avventure del corpo. Culture e pratiche nell’intimità quotidiana, Milano 2006, 125-126. 115 Ci si potrebbe chiedere, con Alfonso, se questo vale anche per il marito nel caso che la moglie volesse interrompere l’atto dopo che lei per prima ha rag- 184 MAURIZIO P. FAGGIONI Date le molte fragilità e difficoltà dei giovani, soprattutto in Occidente, nell’area affettivo-sessuale, bisogna stare molto attenti prima di ammettere un candidato o una candidata nel percorso formativo iniziale e sarà bene chiedere, per coloro che presentano comportamenti o tendenze incoerenti con gli ideali della vita sacerdotale e religiosa, che siano soddisfatte le tre condizioni richieste dal documento finale del Congresso sulle vocazioni al Sacerdozio e alla Vita consacrata in Europa: “1° Che il giovane sia cosciente della radice del suo problema, che molto spesso non è sessuale all’origine. 2° La seconda condizione è che il giovane senta la sua debolezza come un corpo estraneo alla propria personalità, qualcosa che non vorrebbe e che stride con il suo ideale, e contro cui lotta con tutto se stesso. 3° Infine è importante verificare se il soggetto sia in grado di controllare queste debolezze, in vista di un superamento, sia perché di fatto ci cade sempre meno, sia perché tali inclinazioni disturbano sempre meno la sua vita (anche psichica) e gli consentono di svolgere i suoi doveri normali senza creargli tensione eccessiva né occupare indebitamente la sua attenzione”116. Nel caso di un formando al presbiterato o alla vita consacrata, occorre verificare se il comportamento masturbatorio sia indice di immaturità psicoaffettiva, che deve essere attentamente considerata nel tempo precedente un impegno definitivo. Nell’ambito della castità – secondo le Direttive sulla Formazione del 1990 – si richiede, infatti, “che sia stata raggiunta una conveniente maturità psicologica e affettiva” e una meta dell’azione formativa è, pertanto, quella “di aiutare ciascuna e ciascuno a controllare e a padroneggiare i propri impulsi sessuali”117. Il comportamento masturbatorio potrebbe anche essere indizio di conflitti in aree extrasessuali o rappresentare – soprattutto se ricompare dopo un certo tempo dall’ingresso nella formazione – giunto l’orgasmo (S. ALFONSO M. DE LIGUORI, Theologia Moralis, lib. VI, De matrimonio, n. 919, ed. Gaudé 4, 101). Sullo sfondo – è chiaro – sta l’eterna questione dell’uso dei piaceri venerei. 116 PONTIFICIA OPERA VOCAZIONI, Congresso sulle vocazioni al Sacerdozio e alla Vita consacrata in Europa Roma, 5-10 maggio 1997. 117 CONGR. IST. VITA CONSACRATA, Direttive sulla formazione negli istituti religiosi, 2 febbraio 1990, n. 13, AAS (1990). IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 185 una forma regressiva in risposta a un grave disagio personale e relazionale o, più semplicemente, denotare l’emergere di una chiamata ad uno stato di vita non celibatario. In ogni caso il comportamento masturbatorio abituale rivela la presenza di forti spinte centripete e di bisogni non soddisfatti che si oppongono alla tensione oblativa che sta alla base della vita presbiterale e religiosa. In ambito formativo, pertanto, il fenomeno masturbatorio non va drammatizzato perché in genere, con adeguato accompagnamento spirituale e pedagogico e con serio impegno da parte del giovane, esso può essere superato, ma non va neppure minimizzato perché la dissonanza con le esigenze della vita scelta può alla lunga risultare lacerante ed espone il giovane al rischio di infedeltà alle promesse fatte a Dio. Non si deve temere di consigliare al giovane di prendere tutto il tempo necessario per giungere alla dovuta chiarezza interiore e alla necessaria maturità personale prima di una scelta definitiva118. Fra coloro che sono già ordinati e consacrati perpetuamente possiamo incontrare persone che lottano, le quali vanno sostenute e incoraggiate a confessarsi spesso, vincendo la stanchezza e la vergogna e ricordando che il fine della castità è la carità, ma possiamo anche incontrare persone che non lottano più e che, forse, hanno smesso di credere alla propria vocazione o che hanno accettato una situazione ambigua e, alla fine, nevrotizzante. A queste persone sfiduciate dobbiamo consigliare una seria revisione di vita e un rinnovato esame delle loro motivazioni vocazionali. In generale, quando siamo a contatto con una persona consacrata che abbia commesso colpa grave in 118 In una istruzione preconciliare per i direttori spirituali dei candidati alla vita religiosa si diceva che “un candidato che abbia l’abitudine del peccato solitario e che non abbia dato una fondata speranza di poter superare questa abitudine entro un periodo di tempo prudentemente fissato non deve essere ammesso al noviziato” E aggiungeva che “si deve essere ancora più rigorosi nell’ammissione alla professione perpetua e ai sacri ordini”. Si indicava, infine, un intero anno senza cadute nella masturbazione come criterio prudente di acquisizione dell’habitus della continenza. Cfr. S. CONGR. RELIGIOSI, Istr. Religiosorum Institutio, 2 febbraio 1961, n. 30. L’istruzione non si trova negli AAS e circolò riservatamente, ma con l’autorità di un testo ufficiale della Congregazione. 186 MAURIZIO P. FAGGIONI materia sessuale, bisogna saper valorizzare anche la vergogna e il dolore come spazio di libertà che si apre nel peccato e come espressione di un appello alla fedeltà che sgorga dal profondo della persona; può essere utile anche chiedere alla persona che cosa consiglierebbe ad un penitente o a un confratello o consorella che si trovasse nelle sue stesse condizioni, perché questo aiuta ad uscire dal tunnel della propria colpa e a guardare con maggiore serenità alla propria situazione; infine è essenziale rinnovare la stima e la fiducia, magari chiedendo noi stessi, se il penitente è sacerdote e se lo desideriamo veramente, di essere confessati da lui. 6. La raccolta del seme per scopi medici Ci sono diverse situazioni mediche nelle quali è di grande importanza poter ottenere il seme, per la diagnosi e terapia di malattie delle vie genitali (es. infezione, flogosi), per lo studio della fertilità maschile, per procedere a tecniche di procreazione assistita intra o extracorporea. La raccolta può avvenire in diversi modi: sia dopo un atto sessuale condomato, sia mediante masturbazione, sia attraverso la spremitura della prostata e delle vescichette seminali, sia attraverso mezzi cruenti come la puntura dell’epididimo o la biopsia testicolare119. L’uso del condom (che si può chiedere ovviamente solo agli sposati) presenta qualche difficoltà perché non tutti riescono ad avere rapporti sessuali a comando, per la conservazione dei campioni e per il fatto che i profilattici in commercio non danno tutte le garanzie necessarie di asespsi e di composizione del latice120. I sistemi più indaginosi o addirittura cruenti di prelievo del seme, anche in assenza dell’atto coniugale, sarebbero eticamente accettabili, ma sono solitamente sono esclusi o perché gravati di rischi o perché il seme che se 119 GERRIS J., Methods of semen collection not based on masturbation or surgical sperm retrieval, “Human Reproduction Update” 5 (1999) 211-215. 120 Per questo si usano particolari semen collection devices. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 187 ne ottiene non è del tutto idoneo per gli scopi. Il metodo MESA (Microsurgical Epididymal Sperm Aspiration), per esempio, ha due inconvenienti: richiede l’anestesia generale del paziente la quale comporta sempre un margine di rischio e permette di recuperare solo spermatozoi non ancora completamente maturati e ciò richiede un processo di capacitazione in laboratorio piuttosto elaborato121. Di gran lunga più diffusa è la pratica della masturbazione o manipolazione dei genitali. Dal punto di vista morale il metodo della masturbazione presenta problemi: essendo, infatti, la masturbazione un disordine oggettivo, qualunque sia lo scopo per cui essa si compie resta un male e il fine buono – si sa – non giustifica i mezzi cattivi. In questo senso si espresse nel 1929 il Sant’Uffizio e tale risposta è stata ripresa in almeno due occasioni da Pio XII122. Alcuni moralisti contemporanei hanno, però, sottolineato la differenza fra un atto masturbatorio vero e proprio e una manipolazione dei genitali senza componenti autoerotiche, in cui mancherebbe la malizia della masturbazione e quindi l’oggettività del disordine. Essi, infatti, sottolineano che la malizia della masturbazione consiste nella ricerca del piacere sessuale al di fuori della relazione sessuale. L’opinione ha una sua logica, è stata sostenuta da Autori non secondari123 e non è stata rifiutata espressamente dal Magistero recente, per cui po121 DI PIETRO M. L., SGRECCIA E., Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e diritto, Brescia 1999, 33. 122 Decretum S. Officii, 24 luglio 1929, AAS 21 (1929) 490 (cfr. DS 3684): “Qu. Utrum licita sit masturbatio directe procurata, ut obtineatur sperma, quo contagiosus morbus ‘blenorragia’ detegatur et, quantum fieri potest, curetur. Resp. Negative”. Cfr. PIO XII, Discorso ai partecipanti al XXVI Congresso della Società italiana di urologia, 8 ottobre 1953, AAS 45 (1953) 678; ID., Discorso ai partecipanti al II Congresso mondiale sulla fecondità e sterilità umana, 19 maggio 1956, AAS 48 (1956) 472. 123 Cfr. AUER A., Etica y medicina, Madrid 1972, 135-136; PERICO G., Fecondazione extracorporea ed “Embryo transfer”. Informazioni tecniche e riflessioni morali, “Aggiornamenti sociali” 49 (1984) 265; TETTAMANZI D., Bambini fabbricati. Fertilizzazione in vitro, embryo transfer, Casale Monferrato 1985, 33-35; VISSER J., Problemi etici dell’embryo transfer, “Ricerca scientifica ed educazione perma- 188 MAURIZIO P. FAGGIONI trebbe essere seguita come opinione almeno probabile. A mio avviso, queste argomentazioni più che tradursi in una approvazione esplicita e tanto meno di un suggerimento da parte del sacerdote eventualmente interrogato, lo autorizzano a tollerare nel penitente in buona fede una decisione in questo senso. Si registra a questo proposito un parere del Comitato Nazionale di Bioetica italiano del 1991 che invita gli operatori sanitari a rispettare la sensibilità e le convinzioni del paziente il quale, non di rado, non gradisce questa metodica di raccolta e richiede che egli sia informato in modo semplice, ma onesto sulle possibili alternative124. Più di recente si è introdotto in alcuni Centri l’uso di uno speciale vibratore, detto Viricare. Essendo calibrato su una fascia di frequenze che non stimolano i recettori della sensibilità cosciente, esso dà stimolazioni solo pressorie e non sensitive e riesce nella maggior parte dei casi a determinare eiaculazione solo per via riflessa, senza la componente psichica erotico-fantastica e le sensazioni piacevoli dell’orgasmo masturbatorio125. L’assenza delle componenti emotive e piacevoli della masturbazione rende l’uso del vibratore eticamente accettabile, almeno per coloro che riconoscono la malizia della masturbazione nella ricerca del piacere ottenuta attraverso l’emissione del seme al di fuori della comunione sponsale126. nente” 1982-1983, 48 (citato in Tettamanzi, p. 31). Secondo mons. Ciccone questa opinione, se accettata, aprirebbe la strada a facili abusi: CICCONE L., Etica sessuale, 150-153. Dopo la pubblicazione di Donum Vitae anche mons. Tettamanzi ha preso delicatamente le distanze dall’opinione favorevole precedentemente professata. 124 COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA, Problemi della raccolta e del trattamento del liquido seminale umano, Roma 1991. 125 SPAGNOLO A. G. et al., Valutazione scientifica ed etica di un metodo per il prelievo diagnostico del liquido seminale umano, “Medicina e Morale” 43 (1993) 1189-1203. 126 La questione del l’uso piacere è – come si vede – ancora del tutto operante. La Tradizione post-tridentina si era interrogata a lungo se il desiderare o il compiacersi del piacere sessuale derivante dalla polluzione spontanea notturna fossero peccaminosi, laddove la Tradizione monastica e scolastica si era interrogata sulla immunditia che involontariamente poteva derivare da questo fenomeno fisiologico. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 189 Sempre nell’ambito medico, bisogna distinguere – cosa che di solito non si fa – la raccolta del seme per scopi diagnostici dalla raccolta del seme da impiegarsi nelle tecniche di procreazione artificiale. La morale cattolica non accetta le tecniche artificiali in senso stretto, quelle cioè che separano il concepimento dall’atto coniugale, espressione corporea dell’amore coniugale, ma ritiene accettabile il ricorso a quei mezzi artificiali che permettono ad un atto coniugale normalmente posto di raggiungere il suo fine procreativo, definendole impropriamente artificiali”127. Nelle tecniche extracorporee, come la FIVET e la ICSI il concepimento avviene in provetta, cioè in un contesto oggettuale e non nel seno materno che non è un semplice luogo anatomico, ma è un luogo antropologico e l’incarnazione, per così dire, dell’accoglienza materna, è uno spazio interiore (inner space secondo Erikson) che si dischiude nella donna aperta alla maternità: il concepimento, pertanto, quand’anche il seme provenisse da un atto coniugale, se avviene al di fuori della donna, verrebbe ad essere forzatamente separato dall’atto coniugale che ha unito la donna e l’uomo in una sola persona coniugale. Esistono tecniche, invece, come l’inseminazione artificiale, che possono configurarsi come un aiuto e non come una sostituzione dell’atto coniugale purché il seme raccolto provenga da un atto coniugale. Credo che sia possibile proporre, almeno come cauta ipotesi di riflessione, che il condom in questo particolare contesto non lede l’integrità intenzionale dell’unione sessuale che è esplicitamente finalizzata alla procreazione e nella quale non si realizza, neppure indirettamente, una forma di contraccezione perché si cercherà di portare a compimento, mediante un aiuto lecito, la intrinseca apertura dell’atto coniugale alla trasmissione della vita. I Moralisti che chiedono, per l’integrità fisica dell’atto, l’effusio seminis in vagina propongonol’uso 127 Cfr. SGRECCIA E., Manuale di Bioetica, vol. 1. Fondamenti ed etica biomedica, Milano 20044, 625. La distinzione si trova comunemente negli Autori, come, per es.: CAPPELLO F., De Sacramentis. Vol. V. De matrimonio, Torino 1961, n. 383bis, 357-358. L’illustre Canonista afferma in questo luogo che la fecondazione artificiale improprie dicta “matrimonium consummat et impedimentum impotentiae excludit, quia habetur copula perfecta naturali modo peracta”. 190 MAURIZIO P. FAGGIONI di un condom forato perché almeno qualche goccia di seme possa entrare materialmente vagina, ma ci sembra una procedura eticamente superflua128. Nel caso in cui il seme venisse raccolto per masturbazione, l’eventuale inseminazione non può essere compresa come aiuto a un atto coniugale che, in effetti, non ha avuto luogo e che è stato sostituito dall’atto masturbatorio: l’eventuale concepimento può, perciò, essere considerato come frutto di un atto coniugale129. Il fatto che il seme raccolto per masturbazione sia raccolto in vista della procreazione non può surrogare un rapporto autenticamente coniugale, né l’intenzione procreativa che muove quella masturbazione essere equiparata antropologicamente all’apertura alla vita che è intrinseca all’atto coniugale in quanto espressione incarnata della relazione sponsale130. 128 Cfr. HEALY E. F., Medicina e morale, Roma 19583, 192; Di PIETRO M. L., SPAGNOLO A., La consulenza etica con la coppia sterile, in VIAL CORREA J., SGRECCIA E. (edd.), La dignità della procreazione umana e le tecnologie riproduttive, Città del Vaticano 2005, 216-217; PAQUIN J., DI MARINO G., Morale e medicina, Roma 1958, 318. La dottrina medievale riteneva che l’atto fosse pienamente coniugale quando avveniva la commixtio seminum (“Vir et mulier efficiuntur in carnali copula una caro per commixtionem seminum”: S. TOMMASO D’AQUINO, Scriptum super Sententiis, lib. IV, dist. 41, art. 1, q. 4, ad 2.). A ben guardare la vera commixtio seminum si realizza con la fusione dei gameti piuttosto che con la mescolanza del seme con le secrezioni vulvo-vaginali (ritenute dagli Antichi il seme femminile), così che proprio la inseminazione permetterebbe quella commixtio seminum che la natura in certi casi non riesce a realizzare. 129 Cfr. CONGR. DOTTR. FEDE, Istruzione Donum vitae, 22-2-1987, II, 6: “L’inseminazione artificiale sostitutiva dell’atto coniugale è proibita in ragione della dissociazione volontariamente operata tra i due significati dell’atto coniugale. La masturbazione, mediante la quale viene normalmente procurato lo sperma, è un altro segno di tale dissociazione; anche quando è posto in vista della procreazione, il gesto rimane privo del suo significato unitivo”. 130 Commentando il Decreto del Sant’Uffizio del 1897 (DS 3323), gli Auctores probati ravvisavano la principale ratio illiceitatis della fecondazione artificiale nella raccolta del seme attraverso la masturbazione (cfr. VEERMERSCH A., Theologia Moralis, Roma 1926, Tom. IV, Tract. III, cap. IV, 58: “S. Officium reprobavit fecondationem artificialem, quotienscumque semen infundendum praevia pollutione obtinendum est.”). C’erano, però, Autori non secondari che IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 191 Anche in questa problematica molto particolare, vediamo che il criterio etico per valutare l’atto masturbatorio sia, in ultima analisi, quello della conformità dei gesti sessuali all’intima verità dell’amore. Solo l’unione sessuale, in quanto incarnazione della comunione sponsale, esprime con autenticità l’ultima verità dell’amore e, aprendosi virtualmente alla fecondità, chiama il figlio ad essere frutto e parte di una comunione di persone. Gli atti masturbatori sono atti sessuali che non esprimono la dinamica della unione coniugale e che, quindi, configurano un linguaggio sessuale falso e ingannevole. In essi la ricerca del piacere sessuale egoistico prende il posto della ricerca della gioia fisica e spirituale che donano alle persone l’intimità della relazione e dell’amore. ammettevano la liceità della raccolta per masturbazione, non reputandola vera masturbazione ma semplice “emissio seminis” ordinata alla fecondazione della moglie (cfr. BALLERINI A. – PALMIERI, Opus Theologico-morale, Prato 1900, vol. VI, n. 1304, p. 688). 192 MAURIZIO P. FAGGIONI SUMMARIES Masturbation is a ubiquitous phenomenon and the attitude of any particular culture towards it is an indication of that society’s general understanding of sexuality. In Christian morality attention began to be focused on masturbation in the first Penitential Manuals of the VI century; however a systematic doctrinal treatment of the topic only emerged in the XI century with the Liber Gomorrhianus of St. Peter Damian, in the context of doctrine concerning the natural and unnatural use of sex. The focus on juvenile masturbation, begun in the XV century, culminated with the condemnation of onanism by medical opinion in the XVIII and XIX centuries. After the antimasturbation tide of illuminist and positivist science there has been, from the beginning of the XX century, a progressive rehabilitation of adolescent and adult masturbation. Catholic morality has taken up whatever was useful in the human sciences to acquire a better understanding of the psychic dynamisms of masturbatory behaviour, and arrive at a more correct evaluation of moral responsibility in individual cases; however it has reasserted the irreconcilability of masturbation with a personalistic and relational view of sexuality. *** El comportamento masturbatorio es un fenómeno que se da en todo lugar y la actitud hacia la masturbación es un indicador de la comprensión que una cierta cultura tiene de la sexualidad en general. En la moral cristiana el interés por la masturbación surgió con los primeros Penitenciales en el siglo VI. Pero la sistematización doctrinal de este tema se dio solamente en el siglo XI con el Liber Gomorrhianus de san Pedro Damiani, en el ámbito de la doctrina sobre el uso natural y antinatural de la sexualidad. El enfoque de la masturbación juvenil, iniciada en el siglo XV, llegará a su punto más elevado con la condena del onanismo hecha por la medicina del siglo XVII y XIX. Después de la corriente antimasturbatoria de la ciencia iluminista y positivista, desde los comienzos del siglo XX hemos asistido a una progresiva rehabilitación de la masturbación en la adolescencia y en la edad adulta. La moral católica ha asumido cuanto de útil procedía de las ciencias humanas para una mejor comprensión de las dinámicas psíquicas del comportamiento masturbatorio y para lograr una valoración más correcta de la responsabilidad moral en cada caso. Pero ha hecho hincapié en la incompatibilidad de la masturbación con una concepción personalista y relacional de la sexualidad. IL PECCATO SEGRETO. LA MASTURBAZIONE FRA STORIA E MORALE 193 *** Il comportamento masturbatorio è un fenomeno ubiquitario e l’atteggiamento verso la masturbazione è un indicatore della comprensione che una certa cultura ha della sessualità in generale. Nella morale cristiana l’interesse per la masturbazione emerse con i primi Penitenziali nel VI secolo, ma la sistemazione dottrinale di questo tema si ebbe solo nell’XI secolo con il Liber Gomorrhianus di san Pier Damiani, nell’ambito della dottrina dell’uso naturale e innaturale del sesso. La messa a fuoco della masturbazione giovanile, iniziata nel XV secolo, culminerà con la condanna dell’onanismo fatta dalla medicina dei secolo XVIII e XIX. Dopo l’ondata antimasturbatoria della scienza illuminista e positivista, dagli inizi del XX secolo abbiamo assistito ad una progressiva riabilitazione della masturbazione adolescenziale e adulta La morale cattolica ha accolto quanto di utile poteva venire dalle scienze umane per una comprensione migliore delle dinamiche psichiche del comportamento masturbatorio e per giungere ad una valutazione più corretta della responsabilità morale nei singoli casi, ma ha ribadito la inconciliabilità della masturbazione con una concezione personalistica e relazionale della sessualità. MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH Kevin E. O’Reilly* John Paul II, in his encyclical Evangelium Vitae, laments the tragedy being experienced by modern man, namely “the eclipse of the sense of God and man, typical of a social and cultural climate dominated by secularism”1. He notes a negative dynamic reciprocity between the loss of a sense of God and the loss of a sense of man. On the one hand, when there is a loss of the sense of God, there is also a tendency to lose the sense of man. Put bluntly, this tendency expresses itself in a lack of regard for man’s dignity and even his life. On the other hand, “the systematic violation of the moral law, especially in the serious matter of respect for human life and its dignity” constitutes the source of “a kind of progressive darkening of the capacity to discern God’s living and saving presence”2. John Paul II refers to this dynamic obtaining between the darkening of moral reason and the eclipse of God as a “sad vicious circle”3. In this article I propose to indicate how John Paul II’s thinking is inspired by St Thomas’s understanding of the natural inclinations before suggesting that the one of the sources of the culture of death which he deplores was arguably medieval voluntarism with its rejection of the idea that the will is teleologically ordered to the Good4. * The author is an ordinary professor of philosophy at the Milltown Institute, Dublin. * El autor es profesor ordinario de filosofía en el Milltown Institute, Dublin. 1 Evangelium Vitae 21 (hereafter referred to as EV). EV 21. 3 EV 21. 4 In this regard I emphasize that I do not wish to give the impression of oversimplifying the forces that have shaped contemporary culture. I merely wish to 2 StMor 48/1 (2010) 195-212 196 KEVIN E. O’REILLY To this end I turn first of all to a summary of John Paul II’s account of the eclipse of God and of man, witnessed by various forms of attack on human life, in contemporary civilization. 1. Evangelium Vitae and the human subject When he falls under the dynamics of the darkening of moral reason and the eclipse of God man comes to view himself as simply one organism among others, albeit one that has attained a high level of perfection. The mystery of his being is extinguished. Since he no longer grasps the transcendent character of his existence, he looks upon himself as being a mere “thing”. Put more bluntly, “Life itself becomes a mere “thing”, which man claims as his exclusive property, completely subject to his control and manipulation”5. It is no longer considered to be a gift from God, “something “sacred” entrusted to his responsibility and thus also to his loving care and “veneration”6. This attitude contrasts sharply with that revealed by man’s existential openness to his supernatural vocation whereby he recognizes “the greatness and the inestimable value of human life even in its temporal phase”7. Indeed, anyone who is “sincerely open to truth and examine one such force. For a recent acclaimed account of the sources of contemporary culture, see CHARLES TAYLOR, A Secular Age, Cambridge, Massachusetts, The Belknap Press of Harvard University Press, 2007. Taylor, when critiquing the use of the term “choice” as “an all-trumping argument in weighty contexts” states the following: “I can think of a number of reasons against the idea of forbidding by law at least, say, first-trimester abortions; including the fact that in our present society the burden of bearing the child falls almost totally on the pregnant woman; or the high likelihood that the law would be widely evaded, and the operations carried out in much more perilous conditions”. Thus, it seems, Taylor’s thinking has been informed by a dynamic whose provenance and influence he fails to trace, a dynamic which is the subject of the present article. 5 EV 22. 6 EV 22. 7 EV 2. MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 197 goodness can, by the light of reason and the hidden action of grace, come to recognize in the natural law written in the heart (cr. Rom 2: 14-15) the sacred value of human life from its very beginning until its end, and can affirm the right of every human being to have this primary good respected to the highest degree”8. The words of Gaudium et Spes, quoted by John Paul II take on a prophetic character: “Without the Creator the creature would disappear (...) But when God is forgotten the creature itself grows unintelligible”9. With the eclipse of a sense of God comes an inability to pose the question of the truest meaning of human existence, particularly in so far as this question arises at the two most crucial moments of any individual’s existence, namely birth and death. The contemplative gaze upon the meaning of these moments is substituted by attempts to programme, to control and to dominate birth and death. Thus, “Birth and death, instead of being primary experiences demanding to be “lived”, become things to be merely “possessed” or “rejected”10. Of particular concern is the contemporary cultural climate in which “broad sectors of public opinion justify certain crimes against life in the name of rights of individual freedom”11. Indeed, these crimes not only go unpunished by the State but even receive its authorization, “so that these things can be done with total freedom and indeed with the free assistance of health-care systems”12. This development at once bears witness to a grave moral decline and constitutes a significant causal factor of the same. Even certain sectors of the medical profession, in direct contradiction to their calling, are willing to carry out these crimes against individual persons. As a result of such widespread conditioning, the light of conscience has been dimmed13. 18 EV 2. Gaudium et Spes 36. 10 EV 22. 11 EV 4. 12 EV 4. 13 Writing of such conditioning, John Paul II states: “[W]e are in fact faced by an objective “conspiracy against life”, involving even international Institutions, engaged in encouraging and carrying out actual campaigns to make contracep19 198 KEVIN E. O’REILLY It consequently finds it increasingly difficult “to distinguish between good and evil in what concerns the basic value of human life”14. What has emerged is what John Paul describes as a “veritable “culture of death”15, a culture which is diametrically opposed to the “Gospel of life” which “is at the heart of Jesus’ message”16. In contrast to the “culture of death”, the “Gospel of life” is described as “the splendour of truth which enlightens consciences, the clear light which corrects the darkened gaze”17. Once any reference to God has been removed the meaning of everything else becomes “profoundly distorted”18. Playing on the similarity between the words mater and material, John Paul points out that nature is now increasingly reduced from being “mother” to being “matter”19. As such it is subjected to every kind of manipulation by science and technology without any recognition that we can discern the truth of creation and the plan of God for life. There also exists the opposite extreme, whereby some people consider it unlawful to interfere with nature, “practically “divinizing” it”20. Thus, concludes John Paul II, “By living “as if God did not exist”, man not only loses sight of the mystery of God, but also of the mystery of the world and the mystery of his own being”21. John Paul II delineates the various manifestations in contemporary culture of this tendency to lose the sense of man. Time and space do tion, sterilization and abortion widely available. Nor can it be denied that the mass media are often implicated in this conspiracy, by lending credit to that culture which present recourse to contraception, sterilization, abortion and even euthanasia as a mark of progress and a victory of freedom, while depicting as enemies freedom and progress those positions which are unreservedly pro-life” (EV 17). See also EV 58, which deals with the specific crime of abortion. 14 EV 4. 15 EV 12. 16 EV 1. 17 EV 6. 18 EV 22. 19 EV 22. 20 EV 22. 21 EV 22. MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 199 not permit a detailed account; nevertheless a brief outline is in order. Birth and death – or, more precisely, their respective threats, namely abortion and euthanasia – occupy an important place in John Paul II’s account. The ultimate end of life which affords the first principle of practical reason is no longer God but rather the various finite goods of material reality; in other words, “The eclipse of a sense of God and of man inevitably leads to a practical materialism, which breeds individualism, utilitarianism and hedonism”22. The positive value of suffering becomes incomprehensible. Re-echoing themes broached in Veritatis Splendor and Humanae Vitae, John Paul II points out how the body is reduced to pure materiality: “it is simply a complex of organs, functions and energies to be used according to the sole criteria of pleasure and efficiency”23. Conceived in this way, the body cannot be accorded “a properly personal reality”24. As such, it cannot be perceived as “a sign and place of relations with others, with God and with the world”25. An obvious victim of this reductionism is the domain of human sexuality, which is depersonalized and exploited: from “being the sign, place and language of love (...) it increasingly becomes the occasion and instrument for self-assertion and the selfish satisfaction of personal desires and instincts”26. The original import of sexuality is distorted and falsified when the unitive and procreative dimensions of the sexual act are artificially separated. The psychological ramifications of this separation are profound: procreation can become “the “enemy” to be avoided in sexual activity” while, even if it is welcomed 22 EV 23. John Paul II continues: “The values of being are replaced by those of having. The only goal which counts is the pursuit of one’s own material wellbeing. The so-called “quality of life” is interpreted primarily or exclusively as economic efficiency, inordinate consumerism, physical beauty and pleasure, to the neglect of the more profound dimensions – interpersonal, spiritual and religious – of existence”. 23 EV 23. 24 EV 23. 25 EV 23. 26 EV 23. See also Familiaris Consortio 32 which speaks of “a culture which seriously distorts or entirely misrepresents the true meaning of human sexuality”. 200 KEVIN E. O’REILLY “it is only because it expresses a desire, or indeed the intention, to have a child “at all costs”, and not because it signifies the complete acceptance of the other and therefore an openness to the richness of life which the child represents”27. Having outlined John Paul II’s exposition of the contemporary eclipse of the sense of God and of man, “with all its various and deadly consequences for life”28, I turn next to a consideration of Aquinas’s thought concerning the natural inclinations and their ordering to God, the supreme Good, since it is the dynamics of the these inclinations – or, more precisely, the dynamics of their negation – that inform John Paul II’s analysis concerning the eclipse of God and man in modernity. 2. The ordering of the natural inclinations to the good It is clear from Summa Theologiae I-II q. 94, a. 2 that Thomas considers the natural inclination to the good to be that which underpins the others – to self-preservation, to procreation and education of offspring, and to knowledge of the truth. In other words, the unfolding of these specific inclinations is at once a manifestation of the inclination to the good. “Now”, according to Thomas, “being good, conveying as it does the notion of desirability, implies being an end or goal, and this is where causality starts, for no agent acts except for some end, and except some agent acts no matter acquires form.” It is for this very reason that Thomas can call the end “the cause of causes”29. All things desire the good, not only those which have knowledge but also those which lack it30. Consequently, they are ordered to- 27 EV 23. EV 24. 29 SAINT THOMAS AQUINAS, Summa Theologiae I, q. 5, a. 2 ad 1 (hereafter referred to as ST). The translation used is that of the Fathers of the English Dominican Province, Christian Classics, Texas, 1981. 30 SAINT THOMAS AQUINAS, Quaestiones disputatae de veritate q. 22, a. 1 (hereafter referred to as DV). The translation employed is that found in THOMAS AQUINAS, Truth, translated by R. W. Mulligan, J. V. McGlynn and R. W. Schmidt, Henry Regnery Company, Chicago 1952, 3 volumes. 28 MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 201 wards effects that are in agreement with their particular ontological constitution31. Now a thing can be ordered and directed toward an end in either of two ways: firstly, by itself, as when a man directs himself to where he wishes to go; secondly, by another, as when an arrow is directed by an archer towards a determinate place. While rational beings move themselves to an end, for they have dominion over their actions through their free-will, those things that lack reason are directed to an end by virtue of their natural inclination “as being moved by another and not by themselves”32. Irrational nature can be compared to God as an instrument to the principal agent33. Thomas recognizes that the analogy of the arrow and the archer is limited, for while creatures receive their nature from God, what natural things receive from man in addition to their nature involves a certain violence. Consequently, “as the violent necessity in the movement of the arrow shows the action of the archer, so the natural necessity of things shows the government of Divine Providence”34, for God has bestowed on them their forms by which they have their inclinations. Consequently, “natural things go to their ends inasmuch as they cooperate with the one inclining and directing them through a principle implanted in them”35. In delineating his conception of the natural appetite possessed by things, Thomas thus synthesizes two perspectives. On the one hand, it is clear that what is directed or inclined to something by another is directed to whatever is intended by the one directing it – as, for example, the arrow “is directed at the same target at which the archer aims”36. It follows, therefore, that since all natural things have been directed by a certain natural inclination towards their ends by God, the prime mover, “that to which everything is naturally inclined must be what is willed or intended by God”37. God of course can have no 31 DV q. 22, a. 1. ST I-II q. 1, a. 2. 33 ST I-II q. 1, a. 2. See also I q. 22, a. 2 ad 2; and q. 103, a. 1 ad 3. 34 ST I q. 103, a. 1 ad 3. 35 DV q. 21, a. 1. 36 DV q. 21, a. 1. 37 DV q. 21, a. 1. 32 202 KEVIN E. O’REILLY other end than Himself38; since, therefore, “He is the very essence of all goodness, all other things must be naturally inclined to good”39. On the other hand, while all things are directed by God to good, each thing nevertheless inclines toward the good in accordance with a principle, which issues from the very form with which God has endowed it, “by which it tends of itself to good as if seeking good itself”40. In other words, in virtue of an innate principle, all things are said to incline toward the good of their own accord. While a full-scale of Aquinas’s treatment of human freedom and of the natural inclinations is not possible here, a few pointers are nonetheless in order41. Firstly, the will necessarily adheres to the ultimate end, namely happiness, “since the end is in practical matters what the principle is in speculative matters”42. Indeed, for Aquinas as for the patristic and medieval tradition in general, the notion of happiness was at the core of moral discussion. As Pinckaers puts it: This [happiness] (...) is the central question in St. Thomas’s architectonic plan, for the answer to it is the keystone of his moral theory: According to revelation and in line with reason itself, man’s true and 38 To the objection that God, as the last end, is not directed to an end and that He therefore does not strive for an end or good, Thomas replies: “By the same nature by which a thing tends to an end which it does not yet have, it delights in an end which it already has. Thus by the same nature the element earth moves downward and rests there. Now it is not consonant with the last end to tend to an end, but it is consonant with it to take pleasure in itself as an end. Though this cannot properly be called an appetite, still it is something belonging to the genus of appetite, and from it all appetite is derived. For from the fact that God takes pleasure in Himself, He directs other things to Himself”. DV q. 21, a. 1 ad 11. 39 DV q. 21, a. 1. 40 DV q. 21, a. 1. 41 For such a treatment, see Servais Pinckaers, The Sources of Christian Ethics, translated by Sr. Mary Noble, T&T Clark, Edinburgh 1995, 379-456. 42 ST I q. 82, a. 1. See also ST I-II q. 10, aa. 1-2; DV q. 22, a. 7; II Sent. d. 25, q. 1, a. 2. Thomas variously designates the proper end of the will as the ultimate end in general, or the good in general, or the universal and perfect good, or a complete and perfect good, or beatitude. MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 203 complete happiness lies in the loving vision of God. This is the main theme of all his moral treatises: the ultimate end – and corresponding intentionality – which draws human acts together and forms them into a dynamic unity ordered to a single end. The same finality can merge the acts of numerous individuals within communities. St. Thomas even sees in the desire for happiness the beginning of a convergence of all men toward God and a basis of solidarity with the rest of creation, even that which is insentient43. Happiness, for Thomas, is far from being antithetical to freedom. Rather, the natural inclinations to goodness, truth, happiness, and being furnish the ontological ground for the exercise of freedom. In no way do they constitute neutral raw material inferior to reason and which reason can then manipulate according to its own independent designs. Freedom, moreover, issues from human nature as psychosomatically constituted – and it cannot be emphasized sufficiently that a teleological ordering is integral to this constitution. As Matthew Levering tells us, the “complex teleological constitution” which is human nature “is the fundamental given of human creatureliness, not constructed by human rationality or freedom. Human rationality both speculatively and practically discerns the natural, unified ordering of human nature, which is constituted by bodily and spiritual inclinations and thereby always teleologically drawn”44. The ultimate end of human striving is God, Who is at once the First Efficient Cause of all that exists. The notion that human nature is always teleologically drawn in accordance with its bodily and spiritual inclinations is one that by and large fell into abeyance in modernity. To be more exact, it suffered a serious blow with the emergence of medieval voluntarism. While the medievals concerned would in no way have wanted to contribute to what John Paul II terms the culture of death, I contend that 43 SERVAIS PINCKAERS, The Sources of Christian Ethics, 222. MATTHEW LEVERING, “Natural Law and Natural Inclinations: Rhonheimer, Pinckaers, McAleer,” The Thomist 70 (2006) 178. 44 204 KEVIN E. O’REILLY their denial of teleology in human affairs effectively sowed the seeds of this development. It is therefore to the most extreme of their number, namely William of Ockham, that I now turn before reflecting on the epistemic consequences of subverting the natural inclinations. 3. Medieval voluntarism and the subversion 3. of the natural inclinations Ockham follows Scotus in rejecting any notion of final causality with regard to the will’s exercise of freedom45+46. In his treatment of freedom, Ockham remodels Scotus’s notion of “superabundant efficiency” into his own doctrine of the liberty of indifference. According to this doctrine, “the will can by virtue of its own liberty – apart from any other determination by act of habit – elicit or not elicit that act or its opposite”47. In other words, Ockham’s conception of freedom means the power of the will to choose between contraries without being determined by anything, either an external object or an habitual determination. In this regard he goes beyond Scotus who admits only that the will can, on account of its reflexivity, refrain from a positive act of willing an object. Scotus in no way allows that the will can explicitly refuse an object that is cognized as good. For Ock- 45 While Ockham sometimes speaks of the “end” that nature “intends” or “for the sake of which” it acts (e.g., Expos. Phys. II 12, 11-12, vol. IV (pp. 38384); Quodl. II 2, vol. 9 (pp. 115-16); and Quodl. IV 1(pp. 293-300), he disallows such talk as a category mistake. References, with page numbers, are to the Opera Philosophica et Theologica, Editiones Instituti Franciscani, St. Bonaventure, N.Y. 46 One could of course argue that a watershed in the history of moral thought occurred with Scotus, a position with which I agree even though this is not the universal opinion. Servais Pinckaers, The Sources of Christian Ethics, 241253, attributes this influence to Ockham. A resolution of this point is not crucial to my argument. I have chosen to offer an account of Ockham’s voluntarism as I believe it constitutes a radicalization of what one finds in Scotus’s thought and therefore serves to throw into relief the point I wish to make about the subversion of the natural inclinations. 47 Sent. IV 16 (p. 359). See Expos. Phys. II 8, 1 (pp. 319-20). MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 205 ham, the scope of the created will’s willing and “nilling”48 is circumscribed only by what can be conceived by the agent’s intellect. Even the good-in-general could be nilled by an agent on the grounds that it would fail to satisfy him, whereas particular goods would49. Indeed, even someone who has a clear vision of the Divine essence can nill God under the aspect of disadvantage50. We can nill both happiness in general and happiness in particular51. Ockham rejects the idea that the only possible explanation for the fact that we often will evils is that they appear somehow good. He believes that this approach undermines religion and ethics since imputability must necessarily presuppose our ability to will evil under the aspect of evil. In his estimation, the will of a person cannot earn merit with regard to anything in this life unless it can earn demerit with respect to the same thing. If however the will cannot will what right reason dictates to be evil, it cannot sin by a sin of commission. Here Ockham goes beyond Scotus, who argued that in order to gain full credit (blame) for an action, it suffices to have the option of choosing action or inaction. For Ockham, full credit (blame) requires being able to perform the opposite action as well. Thus, liberty of indifference means that we can will evil wittingly. Liberty of indifference reaches further for Ockham, however, for he posits that we can will evil for evil’s sake. When we have an end we will or nill it and because of that love or hatred we will or nill something else. In other words, love or hatred of an end constitutes an efficient partial cause of one’s efficaciously willing something else52. As Marilyn McCord Adams expresses the point: “Liberty of indifference implies we could have such love for evil-in-general, or such hatred for goodness-in-general, right reason, or God, as to adopt these as our reason and have them as efficient causes of our ef48 “Nilling” p means willing not-p. Ibid., (351). 50 Ibid., (505-6). 51 Ibid., (504). 52 Sent. I 1, 1, vol. I (p. 375). See Phil. Nat. II 4, 6, vol. 6 (pp. 221-22); Quodl. IV 1, vol. 9 (p. 293). 49 206 KEVIN E. O’REILLY ficaciously willing something else”53. Ockham’s radical conception of human freedom has important implications for how we conceive the role of the natural inclinations in the moral life. He places the natural inclinations, even that of happiness, outside of the kernel of the free act, arguing that we are free to choose or to reject it just as we are free in regard to our ultimate end and to our existence itself. This position contrasts sharply with that of Aquinas, according to whom we are free not in spite of but because of our natural inclinations. In Ockham’s scheme of things, however, freedom precedes the natural inclinations and dominates them; otherwise it would not be radically indeterminate and be able to choose contraries in their regard. Indeed, the lustre of freedom shines all the more clearly the more it asserts itself in opposition to the natural inclinations. If human beings are however constituted hylomorphically as psychosomatic beings, that is to say, as composites of body and soul, then acting contrary to the teleology proper to the natural inclinations must necessarily entail epistemic consequences54. What some such consequences are furnishes the subject matter of the next section. 53 MARILYN MCCORD ADAMS, Ockham on Will, Nature, and Morality, in The Cambridge Companion to Ockham, edited by Paul Vincent Spade, Cambridge University Press, Cambridge 1999, 261. 54 To argue for the hylomorphic constitution of the human person would take make far beyond the confines of this article. Clearly, however, such an understanding of the human person underpins John Paul II’s deliberations in EV. He had earlier elaborated his philosophical anthropology as KAROL WOITILA in The Acting Person, trans. by Andrzej Potocki D. Reidel, London 1979. See in particular pp. 189-258. For a contemporary philosophical account of the unitary nature of the human person, see DAVID BRAINE, The Human Person: Animal and Spirit, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1992. Braine contends that human beings are not “assemblages of parts, inner and outer”, but rather “wholes –psychophysical wholes – wholes in whose operations the mental cannot be extricated from the physical and the physical cannot be understood apart from the mental” (ibid., pp. 22-23). The work of LAWRENCE A. SHAPIRO, which draws upon a variety of sources (e.g., neuroscience, evolutionary theory, and embodied cognition), converges with the positions of Aristotle, Thomas, and Braine. Shapiro writes that “as embodied cognition research progresses, the traditional boundaries between mind and body will either continue to fade or will require extensive realignment. In short, my bet is that the mind is far more in- MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 207 4. The epistemic import of subverting the natural inclinations All created reality desires fulfilment in God. Indeed, Thomas speaks in terms of all things tending “through their movements and actions toward the divine likeness, as toward their ultimate end”55. Everything tends towards the objective of “becoming like God, inasmuch as He is good”56, each imitating the divine goodness according to its own measure. In desiring assimilation to the divine likeness, all beings in effect desire their own perfection. In this way all created being is ecstatic, imitating God Himself, of Whom Thomas writes: “[T]here can be no other ultimate end for His understanding and will than His goodness, that is, to communicate it to things”57. Indeed, as Thomas asserts elsewhere, “God, Who is most perfect in goodness and Who diffuses His goodness in the broadest possible way, must be in His diffusion the archetype for all diffusers of goodness”58. Among the “diffusers of goodness” there obtains a hierarchy: in ascending order Thomas lists them as beings that “tend only to the good proper to the individual”, beings that “tend to the good of their species”, beings that “tend to the good of the genus” and, finally, God Who “tends toward the good of being as a whole”59. As the most perfect being in created nature the human person possesses the greatest worth among creatures (dignissimum in creaturis)60 on account of his rational nature. Human beings are unique in the order of creation in combining within their nature the whole metaphysical order of ecstatic being: the inclination to self-preservation, to the procreation and education of offspring, to life in society, and to knowledge of God. carnate than most philosophers, and certainly most laypersons have appreciated” (The Mind Incarnate, MIT, Cambridge, Massachusetts 2004, 228). Shapiro might well have added that Aristotelians and, in particular, Thomists are not included among “most philosophers” in this respect. 55 SAINT THOMAS AQUINAS, Summa contra Gentiles, III 19 [5] (hereafter referred to as SCG.) 56 SCG III 20 [1]. 57 SCG III 64 [9]. 58 SCG III 24 [8]. 59 SCG III 24 [8]. 60 SAINT THOMAS AQUINAS, De potentia, 9: 3. See also I. 29: 3. 208 KEVIN E. O’REILLY In commenting on Thomas’s teaching concerning the ecstatic nature of created being, McAleer states that “Creatures are intrinsically structured to an other-directedness through which they yet attain their own proper good”; hence, they are “internally ecstatic, a consequence of their being good and so interiorly propelled to communicating that good: bonum est diffusivum sui”61. Nevertheless, although the human person is always interiorly other-directed according to the exigencies of the nature proper to him, it always lies within his power to employ what is species specific to him, namely reason, to sabotage the interiorly other-directedness of the inclinations. Of all beings, man is unique in his capacity to employ the tools of reason in order to undermine his own nature. In this case, what we might call a practical dualism thereby renders enstatic the naturally ecstatic character of the natural inclinations, that is to say, it turns them in on themselves. If we bear in mind the constitution of the human person as a psychosomatic unity the consequences of subverting the natural inclinations become clearer. When reason interferes with the natural ordination of any of these inclinations, the effects will necessarily be in accordance with the true structure of the person, namely that of a psychosomatic unity: practical reason itself will necessarily be darkened in its operation. Each of the natural inclinations is an instantiation of the general inclination towards the good – more precisely, as we have seen, toward the Ultimate Good, namely God. Other beings seek assimilation with God by satisfying their proper inclinations with appropriate goods. In their case, they cannot not seek their proper fulfillment. In the case of human beings, the natural inclinations that we share in common with other beings are assumed into the life of reason. They therefore partake in the order of rational being, just as rational being partakes in the order of animal and vegetative being. It follows, therefore, that to render any particular inclination entstatic is to weaken the ordination of the person as a unitary whole towards his Final End, namely God, the Good. 61 G. J. MCALEER, Ecstatic Morality and Sexual Politics: A Catholic and Antitotalitarian Theory of the Body, Fordham University Press, New York 2005, 15. MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 209 The idea that the light of practical reason is dimmed as a result of acting contrary to the natural inclinations receives further support from Thomas’s contention that the natural inclinations structure its very life. St Thomas employs the traditional term, synderesis, to express this idea: “Synderesis is said to be the law of our mind, because it is a habit containing the precepts of the natural law, which are the first principles of human actions”62. It is quite clear therefore that to act against the structuring principles of the mind itself is to prevent it from functioning properly. It entails a dimming of the light of the practical intellect. The degree of darkness induced bears a direct correlation to the extent to which the natural inclinations are subverted. While it is possible to act in a practically dualistic manner, with reason treating its very own flesh as a raw datum that can be manipulated at will, the consequences of such action will always be according to the manner of human being as hylomorphically constituted. When human nature is conceptualized in psychosomatic terms it is not possible to compartmentalize the different natural inclinations so that each remains independent of the influence of the others; rather, a dynamic of reciprocal compenetration must be conceived as obtaining between them. Thus, for example, to undermine the inclination to procreation and education of offspring necessarily has a negative impact on the inclination to know the truth, particularly the truth about God, and the inclination to live in society. Desmond Connell articulates this claim in the following words: Approval of contraception logically extends the blessing of moral approval to the sexual revolution, which has resulted in the chaos of broken families, co-habitation, promiscuity, uncertainty about the limits that define the nature of the family. It has helped to shape a society of widespread divorce, and encouraged such resentment against new life in the womb as to create blindness to the injustice of abortion. Addiction to sex as an absolute good in itself prompts the kind of fascination that flirts with pornography and, at times, even takes 62 ST I-II q. 94, a. 1 ad 2. 210 KEVIN E. O’REILLY the plunge that defiles the minds of the reading and viewing public through the communications and entertainment media. Clouded in a turbulent fog of invasive emotion, they become blind to spiritual reality, and, accepting a degraded dignity as normal, they lose their affinity with the things of God. The currency of the language of love is devalued and placed on a par with the language of lust63. In brief, a contraceptive mentality (one aspect of the culture of death and arguably the most fundamental) leads in the direction of atheism and conduces to the atomization of society simply because of the intimate relationship obtaining between the natural inclinations. As I have pointed out, however, it is not simply a case of the subversion of the natural inclinations leading eventually to the phenomenon of widespread atheism; the reverse dynamic is also operative, that is to say, atheism – which entails the subversion of the most basic of the inclinations, namely the inclination to the Good – must necessarily have negative consequences for the right ordering of the other inclinations, fuelling the phenomena associated with the culture of death. Conclusion In countering the contemporary culture of death, John Paul II’s thinking is informed by his grasp of Thomas’s treatment of the natural inclinations and by his metaphysics of the good. He has clearly discerned and distilled the epistemic ramifications of Thomas’s thinking for our contemporary culture. When God has been forgotten the primitive élan that undergirds and guides the natural inclinations to their fulfilment is weakened – for it is God Himself who is the Good with which they seek assimilation. Indeed, without that attraction of God which is essential to their healthy unfolding, the nat- 63 ARCHISHOP DESMOND CONNELL, “Reflections on Humanae Vitae”, Irish Theological Quarterly 64 (1999) 304. MEDIEVAL VOLUNTARISM AND THE CULTURE OF DEATH 211 ural inclinations become warped, finding expression in an attitude of disrespect for human life and its dignity. On the other had, as rightly pointed out by John Paul II, the loss of a sense of man as evidenced in attacks on human life at its beginning and end occasion a dimming of man’s consciousness of God. Expressed otherwise, we can say that the when the human person uses his rational resources to subvert the naturally ecstatic ordination of the natural inclinations towards the Good, a loss of the sense of God is to be expected. The reverse dynamic also obtains, as I have pointed out: the loss of a sense of God entails a loss of a sense of man. The darkening of moral reason and the eclipse of God therefore constitute a “sad vicious circle”64. Arising from this dynamic we witness the attempts of men to replace God as the sole judge of life and death. In the course of this article I have contrasted Aquinas’s treatment of the natural inclinations, and its implications for how we conceive human freedom, with Ockham’s assertion of the radical freedom of the will and his dismissal of the natural inclinations from the kernel of the free act. It is generally agreed that the assertion of the primacy of the will and the rejection of teleology in ethics by the medieval voluntarists influenced the emergence of ethics in modernity65. If my argument in this article is correct, it also sowed some of the seeds of what John Paul II describes as the culture of death. 64 EV 21. The words of Hannes Möhle, although applied to John Duns Scotus, are applicable to Ockham: “This close connection between an autonomously deciding will and a non-teleological ethical knowledge, as it was indeed first worked out by John Duns Scotus in this systematic synthesis, is of special significance for modern philosophy. This nexus of problems substantially finds its most subtle and innovative expression in the practical philosophy of Immanuel Kant” (H. MÖHLE, “Will und Moral. Zur Voraussetzung der Ethik des Johannes Duns Scotus und ihrer Bedeutung für die Ethik Immanuel Kants”, in LUDGER HONNEFELDER, REGA WOOD and METHCHILD DREYER (eds.), John Scotus: Metaphysics and Ethics, E. J. Brill, Leiden/NY/Köln 1996, 587. My trans. 65 212 KEVIN E. O’REILLY SUMMARIES In this article I outline how John Paul II’s thinking in Evangelium Vitae is inspired by the thought of St Thomas Aquinas before suggesting that the seeds of the culture of death which John Paul II deplores were arguably sown by the medieval voluntarists with their rejection of the idea that the will is teleologically ordered to the Good and their relegation of the natural inclinations to a level below that of sensibility. To this end I turn first of all to a summary of John Paul II’s account of the eclipse of God and of man, witnessed by various forms of attack on human life, in contemporary secular culture. Then I examine Aquinas on the natural inclinations and their ordering to the Good and show how the medieval voluntarists (taking Ockham as the main representative) rejected this account. Finally, I reflect on the epistemic import of this rejection on the basis of a conception of the human person as hylomorphically constituted. *** En este artículo intento describir a grandes trazos cómo la enseñanza de Juan Pablo II en la Evangelium Vitae se inspira en el pensamiento de San Tomás de Aquino. Muestro después que las semillas de la cultura de la muerte, deplorada por Juan Pablo II, han sido sembradas por los voluntaristas medievales al rechazar la idea de una voluntad ordenada teleológicamente al Bien y al colocar las inclinaciones naturales a un nivel inferior a la sensibilidad. Para mostrar esto presento en primer término la lectura de Juan Pablo II del eclipse de Dios y del hombre así como se manifiesta en las múltiples formas de ataque a la vida humana en la cultura secular actual. Examino después el pensamiento del Aquinate sobre las inclinaciones naturales y su subordinación al Bien para demostrar que los voluntaristas medievales (con Ockham como representante principal) rechazaron esta descripción. Mi reflexión, en fin, se centra en los presupuestos epistémicos de este rechazo a partir de una concepción hilemórfica de la persona humana. *** In questo articolo cerco di descrivere a grande linee come l’insegnamento di Giovanni Paolo II nella Evangelium Vitae trova ispirazione nel pensiero di San Tommaso d’Aquino, Poi propongo che le seme della cultura della morte deplorata da Giovanni Paolo II sono state gettate dai volontaristi medievali con il loro rifiuto dell’idea che la volontà sia ordinata teleologicamente dal Bene e con la scelta di situare le inclinazioni naturali a un livello al di sotto della sensibilità. A questo scopo, mi rivolgo per primo al resoconto di Giovanni Paolo II dell’eclisso di Dio e dell’uomo come appare dalle varie forme di assalto alla vita umana nella cultura secolare di oggi. Poi, prendo in esame il pensiero del’Aquinate sulle inclinazioni naturali e la loro ordinazione al Bene, per dimostrare come i volontaristi medievali (con Occam come rappresentante principale) hanno respinto questa descrizione. Infine, sulla base di una concezione ilomorfica della persona umana, la mia riflessione centra sul presupposto epistemico di questo rifiuto. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE Marian Machinek, MSF * Die seit mehr als zwei hundert Jahren andauernde Kontroverse zwischen, wie man zu sagen pflegt, „Wissenschaft“ und „Glauben“, wird zunehmend auch im Bereich der Bioethik sichtbar. Dieser Wissenschaftszweig, der als „die ethische Reflexion jener Sachverhalte, die den verantwortlichen Umgang des Menschen mit Leben betreffen“1 definiert wird, bildet einen weder methodologisch und thematisch, noch weltanschaulich geschlossenen und eindeutig beschriebenen Reflexionsbereich. Mit Recht wird gefragt, ob man überhaupt sinnvoll von „Bioethik“ im Singular sprechen kann, oder ob es nicht besser wäre, von vornherein die Pluralität der Ansätze und philosophischen Voraussetzungen anzunehmen. Es wird zwar auf die notwendige Objektivität hingewiesen, welche die Einheitlichkeit der bioethischen Reflexion garantieren und partikuläre, nicht objektive Ansätze als solche markieren und aussondern soll. Aber schon diese auf dem ersten Blick klare, methodische Regel muss kritisch hinterfragt werden. Denn nach welchen Kriterien sollte man diese Objektivität definieren? Schon an dieser Stelle zeigt sich die grundsätzliche Schwierigkeit, die dann bei der ethischen Beurteilung der einzelnen Prozeduren und Sachverhal- * The author is an extraordinary professor at the The Faculty of Theology, University of Warmia and Mazury in Olsztyn, Poland. * El autor es profesor extraordinario en la Facultad de Teología de la Universidad de Warmia y Mazury en Olsztyn, Polonia. 1 W. KORFF, Einführung in das Projekt Bioethik, in: W. KORFF, L. BECK, P. MI(Hrsg.), Lexikon der Bioethik, Bd. 1, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2000, S. 7. KAT StMor 48/1 (2010) 213-231 214 MARIAN MACHINEK te verstärkt auftritt. Denn hinter dem Wort objektiv verbirgt sich allzu oft nur die naturwissenschaftliche Weltsicht, die dann unberechtigterweise auf den Bereich der ethischen Reflexion übertragen wird. Hier wird deutlich, dass die für den Bereich der bioethischen Reflexion postulierte weltanschauliche Neutralität praktisch schwer eingehalten werden kann. Bei jedem Versuch, eine konkrete moralische Weisung zu formulieren, wird man von der grundlegenden ethischen Problematik eingeholt: jede Ethik gründet in der Anthropologie und die hängt wesentlich von der gesamten Weltsicht ab. Diese an die Adresse der gegenwärtigen bioethischen Reflexion gerichtete Skepsis will keineswegs deren Sinnlosigkeit suggerieren. Im Gegenteil: bioethische Reflexion ist angesichts der Herausforderungen der Gegenwart absolut notwendig. Es geht nur darum, verschiedene, auch weltanschaulich geprägte Ansätze, nicht allzu schnell auszugrenzen, unter dem Vorwand ihrer Partikularität bzw. ihres angeblichen Mangels an Objektivität. In der folgenden Abhandlung wird versucht, einen Bereich zu umreißen, dem in der bioethischen Kontroverse eine fundamentale Bedeutung beigemessen werden muss: es geht um die normative Dimension der menschlichen Leiblichkeit. Man kann im Bereich der theologischen Ethik ein zunehmendes Interesse an diesem Fragenkomplex beobachten, wobei sich die einzelnen Ansätze manchmal sehr unterschieden. Das Spektrum reicht von Neuformulierungen der naturgesetzlichen Argumentation, über die Vorschläge einer Theologie des Leibes bis hin zur Skepsis und zu Warnungen vor Biologismus und Naturalismus. Im Folgenden wird versucht, zunächst den breiten ideengeschichtlichen Hintergrund dieser Problematik stichwortartig zu skizzieren. In der Tat lässt sich die Art und Weise des Verstehens der menschlichen Leiblichkeit als eine Folge der einflussreichen anthropologischen Konzepte verstehen, deren Wurzel weit in die vergangenen Jahrhunderte zurückreichen. Der Versuch einer Banalisierung des Leibes, hängt mit einem neuen Selbstverständnis des Menschen zusammen und es lohnt sich, dieses wenigstens skizzenhaft zu analysieren. Des Weiteren werden einige Aspekte der normativen Dimension der Leiblichkeit behandelt. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 215 1. Das moderne Selbstverständnis Sollte man jene Aspekte des Selbstverständnisses des modernen Menschen nennen, die für das Thema der Leiblichkeit von Bedeutung sind, könnte man auf drei hinweisen. Zweifellos hängt das Selbstverständnis des modernen Menschen mit dem wissenschaftlichen Fortschritt zusammen. Der durchschnittliche Weltbürger identifiziert sich gewissermaßen mit der ganzen Menschheit, die heute mehr weiß und kann, die sich die Welt samt ihren Kräften in einem noch nie gekannten Maße untertan gemacht hat. Paradoxerweise wird dadurch – gewissermaßen parallel zu Versuchen, den Menschen als eine in der Welt des Animalischen vollkommen aufgehende Spezies darzustellen – die Vorrangsstellung der menschlichen Gattung und ihre Herrschaft über die anderen Lebewesen erkennbar. Die vollkommene Beherrschung der Natur, in der sich die kartesianische Vision des Menschen als maître et posesseur de la nature erfüllen sollte, scheint nur eine Frage der Zeit zu sein. Die weithin geteilte Losung lautet: was in diesem Bereich gemacht werden kann, darf, ja soll und muss gemacht werden um des Fortschritts der Wissenschaft und des Wohlstands der Menschheit willen. Was noch nicht gemacht werden kann, wird sicher, wie man zuversichtlich zu glauben scheint, in einer absehbaren Zukunft möglich. Diese Einstellung zeigt sich zunehmend im Bereich der Medizin. Die letzten Jahrzehnte waren Zeugen eines wirklich atemberaubenden medizinischen Fortschritts. Was an Wissen und Können im Bereich der Medizin erreicht wurde, verdient großen Respekt. Inwieweit das damit verbundene Fortschrittpathos berechtigt ist, bleibt eine andere Frage. Der zweite Aspekt des Selbstverständnisses des modernen Menschen, der genannt zu werden verdient, hängt mit der Deutung dieses Zuwachses an Wissen zusammen. Es geht um ein Phänomen, das als die fortschreitende Säkularisierung bezeichnet werden kann. Wesentlich ist dabei, dass es nicht nur um den Bereich des öffentlichen Lebens geht, sondern auch und vor allem um die Denkweise des modernen Menschen. Ungeschadet der religiösen Dimension der persönlichen Lebensführung, die in vielen, zunehmend nicht nur christlichen, sondern auch magischen bzw. esoterischen Facetten sichtbar wird, zeigt sich sehr oft in der Praxis als eine materialistisch-agnosti- 216 MARIAN MACHINEK sche Einstellung. Die Säkularisierung verdrängt mehr und mehr die religiöse Perspektive, die ganze Jahrhunderte hindurch die Sicht des Wesens des Menschen und die Vision des guten Lebens prägte. Nicht mehr als Geschöpf sieht sich selber der moderne Mensch, sondern als Produkt der blinden Evolution, als ein an die Spitze der Entwicklung gelangtes Wesen, in dem die bioelektrische Aktivität des Gehirns zu einem Sprung, zur Erwachung des Selbstbewusstseins, führte. Dieser Sprung wird aber nur noch quantitativ, nicht qualitativ verstanden. Der Mensch bleibt lediglich Teil des lebendigen Universums. Die Naturwissenschaften scheinen hier plausible und erschöpfende Erklärungen liefern zu können, welche die Annahme eines Schöpfers überflüssig machen, wenigstens in wesentlichen Bereichen, die den Einzelmenschen betreffen. Dazu gehört vor allem der Bereich der Gesundheit und medizinischen Pflege. Schließlich soll noch der dritte Aspekt genannt werden, die Individualisierung. Der moderne Mensch sieht sich einerseits als Weltbürger, der dank der Kommunikationsmittel am Leben des globalen Dorfes rege teilnehmen kann. Gleichzeitig aber wird sein Leben zunehmend individualistisch gesehen. Er versteht sich nicht mehr im Kontext gemeinsamer für alle Menschen personalen Natur. Seine Identität wird nicht mehr im Zusammenhang der gesellschaftlichen Gemeinschaften und Gruppen oder der Nation entwickelt, sondern als ein selbstständiges Lebensprojekt gesehen, das er kraft seiner Autonomie und Kreativität entwerfen soll. Je mehr gerät der Einzelne ins weltweite Netz von Beziehungen, Abhängigkeiten und unausweichlichen Zwängen, desto mehr versucht er seinen Selbststand und seine Selbstverfügung zu demonstrieren. Dabei scheut er sich nicht, eine Illusion der vollständigen und voraussetzungslose Verfügbarkeit über sich selbst zu entwickeln. Das Zusammenspiel dieser drei Faktoren: des Zuwachses an Wissen, der Säkularisierung und der Individualisierung müsste eigentlich – so könnte man vielleicht meinen – zu einem nüchternen Blick auf die menschliche Kondition führen, zu einer Kultur der Schlichtheit und Sachlichkeit, die von jeglichen Illusionen befreit und den Menschen in seiner Endlichkeit belässt. Die Entwicklung scheint jedoch in eine andere Richtung zu gehen. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 217 2. Der neue Glaube Auch wenn das Gegenteil deklariert wird, bleibt der mit einem ungeheueren Wissen ausgestattete, vom überflüssigen Ballast der Religion befreite und in seiner Lebensführung völlig autonome Mensch, unheilbar religiös und betrachtet entweder sich selbst als Maßstab aller Dinge oder richtet seine Heilshoffnungen auf die Instanzen, die für ihn die Verkörperung der Allmacht darstellen. Diese Rolle übernimmt zunehmend die Wissenschaft. Dabei muss betont werden, dass es sich dabei weder um die wissenschaftliche Tätigkeit als solche, noch um die Gesamtheit der Forscher und Fachleute handelt. Es geht um eine ätherische Argumentationsfigur, die in den öffentlichen bioethischen Debatten herangezogen wird, um eine naturalistische Sicht der Wirklichkeit letztgültig zu begründen. Es handelt sich im Wesentlichen um eine Abwandlung des alten Argumentes ex authoritate: scientia locuta, causa finita! Es lohnt sich, diese Entwicklung etwas näher zu betrachten. Selbstverständlich kann es hier von keiner Infragestellung der wissenschaftlichen Arbeit als solcher die Rede sein. Es bleibt immer die Gefahr, von der Wissenschaft verkürzend wie von einem geschlossenen System zu sprechen und so mehrdimensionale Prozesse zu verflachen und dadurch zu verfälschen. Trotzdem lässt sich nicht leugnen, dass man eine bedenkliche Tendenz diagnostizieren kann. Mehr und mehr beschränkt sich die Wissenschaft nicht darauf, Daten zu liefern und so das Wissen zu vergrößern. Sie beansprucht für sich auch die Aufgabe, Deutung, Sinn und moralische Maßstäbe zu liefern, eine Aufgabe, die bisher Philosophie bzw. Theologie zu erfüllen hatte. Es geht zunehmend nicht nur um die Erklärung der wissenschaftlichen Zusammenhänge – was eine legitime Aufgabe der Wissenschaft wäre – sondern um die Totaldeutung des Menschen und der Welt. Sie wird zwar anhand der empirischen Daten geliefert, aber nicht selten mit einer quasi-sakralen Dignität versehen. In Bezug auf die sich an keine ethischen Grundsätze gebunden fühlende wissenschaftliche Entwicklung, vor allem im Bereich des angewandten Wissens, wurde das Wort von der menschlichen Hybris geprägt. Eine weit verbreitete Überzeugung besagt, dass das immer mehr de- 218 MARIAN MACHINEK taillierte Wissen dem Menschen eine uneingeschränkte, beinahe demiurgische, aber doch legitime Macht verleihen kann. Die bisherige Scheu vor der Manipulation erscheint lediglich als ein Überbleibsel der aus Unwissen und Urangst geborenen Selbstbeschränkung, die überwunden werden darf. Ja, sie muss überwunden werden, wie man deklariert, sonst würde der Mensch der Selbstentfremdung schuldig. Eine Kultur, die aus dem Drang zur dauernden Selbstüberschreitung erwächst, wird als Mandat gesehen, sich aus dem Zwang der Natur zu befreien und die Evolution der menschlichen Gattung selbst in die Hand zu nehmen2. Wir können Gott die Evolution unserer Gattung nicht überlassen – deklariert einer der führenden Genetiker, der Nobelpreisträger, James Watson3. Hört man solche Deklarationen, kann man sich der Frage nicht erwähren: Ist dieses „Wir“, dass die Kräfte der menschlichen Vernunft beinahe personifiziert und auffallend an das „Wir“ Gottes aus dem Buch Genesis erinnert, mächtig genug und befugt, über das Schicksal der Menschheit entscheiden zu dürfen? Interessanterweise machen auf diese Gefahr nicht nur Philosophen und Theologen aufmerksam, sondern zur Wort melden sich auch einige Vertreter der scientific community. Man könnte hier etwa den „Vater” des ersten französischen Retortenbabys, Jacques Testart, erwähnen, der vor einer Substitution des religiösen Glaubens in Ge2 H. MARKL, Von Caesar lernen heißt forschen lernen, Frankfurter Allgemeine Zeitung vom 25. Juni 2001, S. 52. Einem starken moralischen Druck, der aus den wissenschaftlichen Errungenschaften erwächst, fühlen sich auch nicht wenige Philosophen ausgesetzt. Da, wie es Peter Sloterdijk betont, der Versuch, Menschen zu zähmen und durch Erziehung sittlich zu vervollkommnen, kläglich scheiterte, muss man ihn mit Hilfe der modernsten Biotechnologie züchten. Man sollte es wagen, selbst, wenn das bedeuten sollte, dass einige Exemplare der menschlichen Gattung für die anderen zu force majeure werden. Vgl. P. SLOTERDIJK, Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, w: DERS., Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Suhrkamp Verlag. Sonderdruck, Frankfurt/Main 2001, s. 302-337. 3 Vgl. J. WATSON, Die Ethik des Genoms. Warum wir Gott nicht mehr die Zukunft des Menschen überlassen dürfen, „Frankfurter Allgemeine Zeitung“ von 26 IX 2000, S. 55. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 219 stalt eines Fortschrittsglaubens warnt4. Testart zögert nicht, die anlässlich der Präsentation neuer biotechnologischen Entdeckungen formulierten therapeutischen Perspektiven als eine Antwort auf die beinahe religiöse Wundererwartung zu bezeichnen. Manche Heilungsversprechen werden beinahe zu Heilversprechen5. Es ist nur allzu verständlich, dass unter dieser Perspektive jegliche von Gegnern eines solchen Fortschrittsglaubens formulierte Bedenken als zutiefst unethisch bezeichnet werden. Testart verweist darauf, dass jede Kritik der Fortschrittsideologie von Protagonisten dieses wissenschaftlich drapierten Glaubens als Obskurantismus und Wissenschaftsfeindlichkeit abgelehnt wird. Gerade der Vorwurf des Obskurantismus und der Technophobie ist nach Testart ein Beweis, dass wir hier mit einem ideologischen Konflikt zu tun haben. Statt der rationalen Argumente wird eine Art Zukunftsprophetie herbeigeredet, was die mystisch-magische Dimension der Fortschrittsideologie noch unterstreicht. Die Schlussfolgerungen, die Testart aus diesem Befund zieht, verweisen freilich keineswegs in Richtung der Rehabilitierung der religiösen Dimension. Er verlangt lediglich eine neue Aufklärung, die diesmal die Wissenschaft betreffen und sie von jeglicher Mythologie, wie er sagt, befreien sollte. Die Kritik an dem im wissenschaftlichen Bereich verbreiteten „Glaubens“ diskreditiert freilich weder die Wissenschaft als solche, noch den menschlichen Drang nach Erweiterung des Wissens und Könnens. Sie wirft aber unausweichlich die berechtigte Frage nach dem Maß des menschlichen Handelns auf. Die Frage wird akut dort, wo der Drang danach, alles in den Griff zu bekommen, den Menschen selbst betrifft. 4 J. TESTART, Une foi aveugle dans le progrès scientifique, „Le monde diplomatique” 12 (2005), S. 26-27. 5 D. MIETH, Was wollen wir können? Ethik im Zeitalter der Biotechnik, Herder Verlag, Freiburg-Basel-Wien 2002, s. 95-96 220 MARIAN MACHINEK 3. Das Objekt der Manipulation: der menschliche Leib Einem kritischen Beobachter der bioethischen Diskussion muss ein vielschichtiges Phänomen auffallen, das man als „Verlust des Leibes” bezeichnen könnte. Die von einer ausgeprägten Distanz zur Leiblichkeit geprägte Denkweise wird in fast jeder bioethischen Diskussion sichtbar. Sie betrifft das Ausmaß der Eingriffe in die leiblich-seelische Integrität des Menschen, die heute nicht nur für medizinisch möglich, sondern auch für ethisch vertretbar gehalten werden. Die bloße Tatsache des Eingreifens in den Bereich des Leibes bereitet selbstverständlich keine größeren ethischen Probleme. Betrachtet man jedoch die Art und das Ausmaß der Eingriffe, kann man sich des Eindrucks nicht erwehren, dass wir es hier mit einer echten Störung des Verhältnisses des Menschen zu seiner eigenen Leiblichkeit zu tun haben. Wollte man die anthropologischen Wurzeln6 dieser Einstellung zu Leiblichkeit identifizieren, würde man einen latenten Dualismus feststellen. Mit Rudolf Spaemann lässt sich von einem „Spiritualismus der technischen Zivilisation“7 sprechen. Er gründe – so Spaemann – in einer Sicht des Menschen als „ein reiner Geist, [...] weltlose Subjektivität, die über ihren Leib wie über ein bloßes Instrument verfügen könnte”8. Konsequenterweise wird dort, wo sich die geistigen Fähigkeiten noch nicht oder nicht mehr manifestieren, von reiner entpersonalisierter Biologie gesprochen, die der Verfügung durch andere ausgesetzt ist und sein darf. Es war der Abgeordnete 6 In seiner für das „biologische Zeitalter” konzipierten philosophischen Anthropologie beklagt Christian Illies sowohl die dualistische als auch idealistische und naturalistische Ansätze und postuliert eine Konvergenzanthropologie, welche die alle Dimensionen des Menschen würdigt. Vgl. CH. ILLIES, Philosophische Anthropologie im biologischen Zeitalter. Zur Konvergenz von Moral und Natur, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2006, S. 29-49. 7 R. SPAEMANN, Kommentar, in: Die Unantastbarkeit des menschlichen Lebens. Instruktion der Kongregation für die Glaubenslehre zu ethischen Fragen der Biomedizin, Herder Verlag, Freiburg-Basel-Wien 1987, s. 90. 8 Ebd. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 221 Peter Hinze, der im deutschen Bundestag im Bezug auf die Embryonen von dem „Bisschen Biologie in der Petrischalle”9 gesprochen hat. Die Verantwortung der Politik für den wissenschaftlichen Fortschritt und das Recht zukünftiger Generationen auf Leben und Gesundheit seien gewichtiger als der Embryonenschutz. Menschliche Embryonen, aber auch unheilbar komatöse Patienten können hier nicht anders als kleine oder größere Zellklumpen gesehen werden, deren Status sich von dem jedes anderen menschlichen Gewebes nicht unterscheidet. Einem irreversibel bewusstlosen, aber noch lebendigen Menschen dürfen die Organe zur Transplantation entnommen werden, bzw. sein Leben darf beendet werden, weil wir hier, wie behauptet wird, bloß mit einem Körper zu tun haben. Konsequenterweise wird dann der Tag, an dem die sich in einem permanenten vegetativen Syndrom (PSV) befindenden Personen ihre Verletzungen erlitten haben, als ihr Todestag betrachtet10. Wie am Anfang in der materiellen Hülle, also im Körper erst nachträglich das zu sich erwacht, was den Menschen ausmacht – die Vernunft, so kann am Ende diese auch lange vor dem endgültigen Zusammenbruch aller Lebensfunktionen erlischen. Die nachkartesianische Betrachtung des menschlichen Leibes als Körper11, als eine Art lebendige Maschine, die nach den Gesetzen an- 19 Im Labyrinth der Moral. Auszüge aus der Bundestagsdebatte über die Zulässigkeit des Imports embryonaler Stammzellen, Süddeutsche Zeitung vom 31 Januar 2002, S. 6. 10 In der 2009 in Italien geführten heftigen Diskussion um die Zulässigkeit des Abbruchs der künstlichen Ernährung von Eluana Englaro hat ihr Vater erklärt, seine Tochter sei schon vor Jahren gestorben, nämlich an dem Tag, als sie irreversibel ihr Bewusstsein verlor. Was jetzt noch, seiner Meinung nach, unnötig und würdelos gepflegt würde, sei nur ihr lebendiger Körper. 11 Auch wenn man den sprachlichen Unterschied zwischen Leib und Körper nicht überstrapazieren darf und beide Termini ihre Bedeutung in bestimmten Kontexten und im Bereich der einzelnen Wissenschaftszweigen behalten (vgl. J. KÜCHENHOFF / K. WIEGERLING, Leib und Körper. Philosophie und Psychologie im Dialog, Vandenhoeck&Ruprecht, Göttingen 2008), ist ihre Verwendung in der bioethischen Diskussion dennoch symptomatisch. Vereinfachend lässt sich sagen dass vom Körper dort gesprochen wird, wo man der materiellen Kompo- 222 MARIAN MACHINEK derer belebter Körper funktioniert und mit dem, was den Menschen wirklich ausmacht, mit seiner sich in der Vernunft manifestierenden anima, nicht wesentlich verbunden ist, feiert hier ihre Renaissance. Eine distanzierte Einstellung zur Leiblichkeit ermöglichte zwar die Entwicklung der Medizin, vor allem der Chirurgie und Pharmakologie, und behält somit ihre Berechtigung in diesem bestimmten Kontext. Zunehmend wurde sie aber zu einer anthropologischen These. Nicht selten wurde die Sicht des Leibes als Maschine auf die ganze Person erweitert und in Richtung des materialistischen Monismus umgedeutet12. Wo die geistige Dimension des Menschen ausschließlich als ein Effekt der Entwicklung von Gehirnstrukturen gesehen wird, erscheint der menschliche Körper endgültig zum Komplex biologischer Strukturen zu gehören, vergleichbar mit Bausteinen, die man beinahe beliebig gestalten kann. Der Leib ist nicht mehr ein Wesenselement des Ichs, sondern wird zum Rohmaterial. Die Popularisierung einer solchen Sicht hat ihre Konsequenzen auch außerhalb der Kontroversen um Anfang und Ende des menschlichen Lebens, z.B. in der Diskussion um ethische Aspekte der plastischen (nicht regenerativen) Chirurgie oder der sexuellen Identität13. nente der Person keinen besonderen Status und keine normative Bedeutung beizumessen bereit ist. Diese Redeweise charakterisiert eine gedankliche Distanz zur materiellen Dimension des Personalen. Demgegenüber hat die Rede vom Leib ihren Ort in Ansätzen, welche die Einheit von Materiellen und Geistigen und ihre gegenseitige Abhängigkeit in der menschlichen Person betonen und die normative Dimension der Leiblichkeit annehmen. 12 Das geschah schon bei der Rezeption und Umdeutung des kartesianischen Konzeptes bei Julien Offray de La Mettrie, vor allem in seinem Werk mir dem programmatischen Titel L’homme – Machine (1747). 13 Nach einer der führenden Vertreterinnen der Gender-Theorie, Judith Butler, ist die Geschlechtzugehörigkeit kein Faktum, sondern wird erst durch eine „ritualisierte Wiederholung von Konventionen erzeugt“ (J. BUTLER, Psyche der macht. Das Subjekt der Unterwerfung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2001, S. 136). Der Körper wird somit als solcher erst konstruiert und zwar – wegen der gesellschaftlichen Vorgaben – nach einem erzwungenen, binären Code, „heterosexuellen Matrix“ (DERS., Das Unbehagen der Geschlechter, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1991, S. 21). Diese, auf einer – so Butler – un- DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 223 Es ist hier oft von einem Neu-Entwurf, Neugestaltung des Körpers die Rede. Die Ansichten, die eine radikale Autokreation des Menschen proklamieren, betrachten die menschliche Natur zwar als einen Ausgangs-, aber nicht mehr als den Bezugspunkt der ethischen Betrachtung. Die leiblich-seelische Natur der menschlichen Person bildet keine verpflichtende Vorgabe mehr. Wonach wird also der neue Mensch konstruiert? Es bleibt nur das individuelle Lebensprojekt, das allerdings nie unabhängig vom gesellschaftlichen Kontext entworfen wird. Es wird wesentlich von Vorstellungen jener Modedesigner und Gesellschaftsingenieure beeinflusst, welche die Vision des optimal Menschlichen vorgeben. Die Frage der Einstellung zum Leib wird somit nicht nur eine individualethische, sondern eine gesellschaftspolitische Frage, wobei der totalitäre Zug kaum zu übersehen ist. Das Nachbessern des Menschen, also das Vollbringen von dem, was in der Tierwelt die natürliche Selektion tut, zeigt sich einigen Protagonisten einer solchen Sicht als ein Gebot der Stunde, eine moralische Pflicht. Bemüht man sich um eine adäquate, ganzheitliche Anthropologie, welche die einzelnen Dimensionen des menschlichen Wesens nicht einander gegenüberstellt, sondern sie zu integrieren versucht, wird man einer solchen Banalisierung des Leiblichen nicht beipflichten können. An dieser Stelle muss – neben der bisher betonten ontologischen – die ethisch-normative Perspektive noch stärker betont werden. Fragt man jedoch nach der Bedeutung der Leiblichkeit für die normative Ethik, sieht man sich sofort mit verstärkt der alten Kontroverse um die normative Dimension der Natur konfrontiert. Es wird kritisch gefragt, ob nach dem laut verkündeten Ende der Metaphysik ein Verweis auf die menschliche Natur im Kontext der normativen Ethik überhaupt noch sinnvoll und legitim ist? Er zieht doch zulässigen Ontologisierung basierende Vorgabe, muss aufgebrochen werden durch das Demonstrieren andere Konfigurationen und die dadurch entstandene Geschlechter-Verwirrung (gender confussion). Dadurch, wie Butler erhofft, wird der Weg zur „Ent-Naturalisierung“ also auch zur beliebigen Gestaltung (bzw. mehrmaliger Modifizierung und Veränderung) eigener Geschlechtsidentität, jenseits jeglicher, auch biologischer Vorgaben, frei (DERS., Das Unbehagen der Geschlechter, S. 218). 224 MARIAN MACHINEK nach sich die unheilvolle Problematik, die mit dem Stichwort „naturalistischer Fehlschluss“ verbunden ist. 4. Der Vorwurf des naturalistischen Fehlschlusses In der klassischen Reflexion der Moraltheologie verdichtete sich die Überzeugung von der moralisch relevanten Dimension der menschlichen Natur (samt der Leiblichkeit) in der Argumentationsfigur des natürlichen Sittengesetzes. Danach bildet die Natur nicht nur eine notwendige Voraussetzung des sittlichen Handelns, sondern auch seine verbindliche Vorgabe. Die von der antiken Reflexion übernommene und im Lichte des christlichen Glaubens – in klassischer Weise von Augustinus und Thomas – entfaltete Vorstellung eines sich in der menschlichen Natur widerspiegelten Sittengesetzes, war Jahrhunderte hindurch eine Art „Wirbelsäule“ der Reflexion über den Menschen. Anthropologien verschiedener Prägung, aber auch religiöse Vorstellungen unterschiedlicher Kulturen, waren sich darin einig, dass durch die Natur (auch und vorwiegend die menschliche), das Göttliche durchleuchtet. Deswegen war man überzeugt, das beim Bemühen um die richtige Ordnung der Welt, aber auch um die Ordnung des menschlichen Handelns, von der Berücksichtigung der menschlichen Natur nicht abgesehen werden darf. Da dieser Vorstellung eng mit dem damaligen Wissenstand verknüpft war und in der praktischen Durchführung nicht selten unmittelbar mit biologischen Abläufen und Gesetzmäßigkeiten verbunden wurde, musste sie unter dem Druck des empirischen Wissenszuwachses weichen, bis sie schließlich für völlig inakzeptabel und mit dem modernen Weltund Menschenbild nicht kompatibel erklärt wurde. Die tiefe Skepsis gegenüber der Argumentationsfigur des natürlichen Sittengesetzes wird heute nicht selten von Moraltheologen geteilt. Wo immer bei der Begründung ethischer Normen auf die menschliche Natur verwiesen wird, sieht man sich sofort dem Vorwurf des sog. naturalistischen Fehlschlusses (naturalistic fallacy) ausgesetzt sehen. Es geht um den logisch unzulässigen Schluss, gezogen beim Versuch, auf Grund von Tatsachenbeschreibungen normative DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 225 Sollenssätze zu formulieren. Es gebe keinen logischen Übergang von der präskriptiven auf die deskriptive Ebene: was sein soll, darf nicht anhand dessen formuliert werden, was ist. Eine fehlerhafte Argumentation, die auf diese, schon von David Hume und George E. Moore kritisierte Weise vorgeht, sollte Bestandteil zahlreicher Theorien sein. Aus diesem Grund seien diese auch in der gegenwärtigen ethischen Diskussionen kaum relevant14. Es steht außer Frage, dass man in der ethischen und moraltheologischen Literatur der Vergangenheit nicht wenige Beispiele des naturalistischen Fehlschlusses finden kann. Ist aber der Vorwurf in seiner Totalität wirklich begründet? Ist der Verweis auf die Normativität der menschlichen Natur in lehramtlichen Verlautbarungen wirklich reiner „Biologismus”, der beinahe den physiozentrischen Positionen der radikalen Ökologen nahe steht?15. Gehören die sich im Leib manifestierenden Dynamismen (und somit auch die gesamte Leiblichkeit) lediglich zu den sog. vorsittlichen Gütern, die zwar für die Realisierung der Freiheit zwingend vorausgesetzt werden müssen, für die inhaltliche Bestimmung des sittlich Gesollten aber bedeutungslos sind? Schon der bloße Hinweis auf diese vorsittlichen Güter stünde sofort im Verdacht, die Grenze zur biologistischen Argumentation bereits überschritten zu haben. Würde man jedoch einen unüberbrückbaren Graben annehmen zwischen der leiblichen Dimension einerseits, und der moralische Normen formulierenden Vernunft andererseits, wäre dann nicht ein erneuter Dualismus die Folge? Es darf auch diese Frage gestellt werden: Wurde nicht all zu schnell die metaphysische Perspektive als für das ethisch-normative Nachdenken unbrauchbar und inadäquat verabschiedet? Es mag sein, dass das Instrument einer im Rahmen der naturgesetzlichen Perspektive von der Vernunft hervorgebrachten Lebens – und Gesellschaftsordnung, stumpf geworden ist, wie es Joseph Ratzinger in dem berühmten 14 Eine summarische Präsentation dieses Vorwurfs sowie eine Diskussion mit ihm findet man bei E. SCHOCKENHOFF, Grundlegung der Ethik. Ein theologischer Entwurf, Herder Verlag, Freiburg – Basel – Wien 2007, S. 333-337. 15 Vgl. D. MIETH, Was wollen wir können?, s. 425. 226 MARIAN MACHINEK Streitgespräch mit Jürgen Habermas formuliert hat16. Es scheint jedoch, dass im Zusammenhang mit den bioethischen Kontroversen der Gegenwart der Gedanke des wesentlich Menschlichen eine neue Aktualität gewonnen hat und neu belebt zu werden verdient. Freilich kann es nicht um eine Rückkehr zur neuscholastischen Naturrechtsethik gehen. Wenn hier für die Neubewertung der normativen Bedeutung der leiblichen Dimension des Menschen plädiert wird, soll das keineswegs als ein Postulat des unmittelbaren Ablesens von moralisch Gesolltem aus biologischen Strukturen missverstanden werden. Es geht eher darum, dass die menschliche Vernunft und die an sie gebundene menschliche Freiheit nie abstrakt, sondern immer schon leibgebunden, inkarniert vorkommen. In seiner Kritik des präferenzutilitaristischen Ansatzes, der in der gegenwärtigen bioethische Diskussion zunehmend an Bedeutung gewinnt, betont Eberhard Schockenhoff, dass „der Leib und das physische Leben keiner dem personalen Selbstvollzug des Menschen äußerlichen Sphäre zugehören, die in einer rein instrumenteller Beziehung zu seiner Bestimmung als moralischem Subjekt steht“17. Die menschliche Person existiert schon immer als eine leib-seelische Einheit und gerade in Bezug auf diese Einheit kann man von der Natur des Menschen reden. Allzu oft wird in der bioethischen Diskussion der Begriff der Natur lediglich mit der materiellen Dimension des Menschen, mit seinem bloß empirisch betrachteten Körper gleichgesetzt18. So ver16 Por. JOSEPH KARDINAL RATZINGER, Stellungnahme, „zur debatte” 1 (2004), S. 6. 17 E. SCHOCKENHOFF, Der vergessene Körper. Über die Einheit von Person und menschlicher Natur, „Zeitschrift für medizinische Ethik” 48 (2002), S. 279 18 In diesem Zusammenhang betonte Papst Benedikt XVI, dass die Konzentration auf die empirische Perspektive es verhindere, die moralische Signifikanz, die sich aus empirischen Tatsachen im Rahmen eines personalen Deutungshorizontes [sic!] ergibt, zu erkennen. Der Papst spricht von der im Sein enthaltenen ethischen Botschaft. Vgl. BENEDIKT XVI, Ansprache an die Teilnehmer am dem von der Päpstlichen Lateranuniversität veranstalteten internationalen Kongress über das natürliche Sittengesetz, in: http: //www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2007/february/documents/hf_ben-xvi_spe_20070212_pul_ge.html (18 II 2010). DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 227 standene „Natur“ wird ein Gegenbegriff zu „Vernunft“, als ob die beiden Dimensionen der Person getrennt werden könnten. Die Vernunft erwacht zu sich jedoch nie anders, als ins Zusammenspiel der leiblich-sinnliche Kräfte eingebunden. Keiner der leiblichen Dynamismen, sobald er vom Menschen bewusst wahrgenommen wird, bleibt nur materiell, animalisch, sondern er wird als typisch menschlich erfahren und ist so auf die Integration in das ganze der personalen Verantwortung angewiesen. Bei der recht verstandenen theologischen Sicht der Normativität der Natur geht es nicht um eine mit anderen Lebewesen gemeinsame, animalische Ebene, sondern, um das spezifisch Menschliche, dass ohne Vernunft nicht definiert werden kann. Der Gedanke der metaphysischen Wesensnatur des Menschen müsste freilich neu konzipiert werden, nicht mehr im Sinne einer statischen Seinsordnung, sondern z.B. „als ein Ensemble dynamischer Entwicklungsmöglichkeiten, die ihr innewohnen und im menschlichen Handeln aktualisiert werden sollen“19. Die Bedeutung der Vernunft und damit der sittlichen Autonomie des Menschen braucht nicht bestritten zu werden; moralische Normen werden jedoch von ihm, dem Menschen, nie einfach erfunden, sondern unter Berücksichtigung und Deutung des menschlich Natürlichen gefunden. Das sittliche Naturgesetz wäre dann nicht mehr als ein sich aus der Natur des Menschen ergebender Katalog von richtigen Handlungsweisen verstanden, sondern es würde die unerlässlichen Bedingungen des Menschseins markieren20. Die theologische Tradition 19 Por. E. SCHOCKENHOFF, Grundlegung der Ethik, S. 352. Ein interessanter Versuch, die normative Dimension der Leiblichkeit zwischen simpler Deduktion der Normen aus der Natur einerseits und dem dualistischen Parallelismus von Natur und Vernunft andererseits, zu verdeutlichen, hat David Crawford unternommen. Vgl. D. S. CRAWFORD, Natural Law and the Body: Between Deductivism and Parallelism, „Communio. International Catholic Review” 35 (2008), S. 327-353. Vgl. Auch R. Spaemann, Die Aktualität des naturrechtes, in: Ders., Philosophische Essays, Reclam, Stuttgart 1994, S. 78: „Naturrecht kann heute nicht mehr als ein Normenkatalog, eine Art Metaverfassung, aufgefaßt werden. Es ist eher eine Denkweise [...]. Ihr liegt als funda20 228 MARIAN MACHINEK hat in den grundlegenden, sich im Leib manifestierenden Dynamismen, Bedürfnissen und Impulsen nie bloß animalische Instinkte gesehen, sondern sie als richtungweisende Faktoren für die normierende Aktivität der Vernunft gedeutet. Den Ertrag der theologischen Tradition hat Papst Johannes Paul II in seiner Enzyklika Veritatis splendor auf den Punkt gebracht, in dem er feststellet, dass das sittlich Gesollte nicht ohne Berücksichtigung der – wie der Papst sagt – „vorwegnehmenden Zeichen“ formuliert werden darf, die „[der] Ausdruck und das Versprechen der Selbsthingabe in Übereinstimmung mit dem weisen Plan des Schöpfers”21 sind. Schluss Starke Auseinandersetzungen um die die ethische Vertretbarkeit der medizinischen Eingriffe in die personale Integrität des Menschen stellen erneut fundamentale anthropologische, aber auch ethische Fragen auf. Im Mittelpunkt steht dabei immer wieder die leibliche Dimension des Menschen. Je mehr der Leib auf der ontologischen Ebene ernst genommen und aufgewertet wird, desto mehr wird er relevant auf der ethischen Ebene, bei der Suche nach der Lösung moralischer Dilemmata im bereich der Bioethik. Die in manchen Äußerungen führender Wissenschaftler und Politiker durchscheinende Banalisierung der Leiblichkeit verrät meistens eine reduktionistische Anthropologie, die nicht imstande ist, die menschliche Person in ihrer leib-seelischen Identität wahr und ernst zu nehmen. Diese Situation muss als eine Herausforderung, aber auch eine Chance für die anthropologische Reflexion im Rahmen der christlichen mentale Prämisse zugrunde, dass totale, aller Natur unvermittelt sich entgegensetzende Freiheit illusionär und also selbt naturwüchsig ist. Wir können vernunftigerweise nicht annehmen, der Natur entkommen zu können. Wir können nur wählen, ob wir sie als einnerte gegenwärtig halten oder der vergessenen anheim fallen wollen”. 21 JOHANNES PAUL II, Enzyklika „Veritatis splendor” über einige grundlegende Fragen der kirchlichen Morallehre, Nr. 48. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 229 Ethik gewertet werden. Eine Perspektive, welche in der menschlichen Natur nicht nur ein Zusammenspiel von Kräften, Energien, bioelektrischen Aktivitäten und chemischen Prozessen, sondern einen verbindlichen Appell an die Freiheit des Menschen sieht, birgt ein noch längst nichtausgeschöpftes Potential in sich. Auf der einen Seite ist es der für viele moderne Menschen wichtig gewordene ökologische Gedanke, auf der anderen Seite – eine theologische, für viele an Gott glaubende Zeitgenossen grundlegende Sicht: zwei Sichtweisen, die hier divergieren können. Auch wenn auf einer so allgemeinen Ebene die konkreten ethischen Kontroversen nicht gelöst werden können, ist die grundlegende Reflexion über die menschliche Person absolut notwendig, damit wichtige, über die Zukunft bestimmende Entscheidungen nicht allzu schnell unter dem Druck der wirtschaftlichen Interessen, der politischen Einflussnahme und der wissenschaftlich anmutenden „Durchbrecherfuturologien”22 zu Ungunsten vieler Einzelnen, aber auch der ganzen menschlichen Gattung getroffen werden. 22 Vgl. D. MIETH, Was wollen wir können?, s. 95. 230 MARIAN MACHINEK SUMMARIES The meaning of the concept of corporeality often seems a controversial subject. Modern man stands in awe of the scientific progress of humanity – medical advances making a particular impression. However when such awe is intermingled with trends of desacralization and individualism it frequently leads to blind adoration of progress as such which reduces the human body to the status of a mere object. In the light of post-cartesian dualism, whose belief in progress often leans towards materialism, the human body is deprived of any importance in ethical reflection. At most it is accorded the status of some pre-moral value. The concept of the natural law (understood as a measure of behavior manifested through a nature that is both body and spirit) is being put aside in theological reflection out of fear of falling into the naturalistic fallacy. A rereading of this traditional concept in line with modern knowledge cannot be done simply by turning to Neo-Scholasticism. Nevertheless, in view of the ever-growing simplification of the idea of corporeality an understanding of its significance appears essential. *** El significado del concepto de corporeidad se revela con frecuencia un tema controvertido. El hombre moderno se siente fascinado ante el progreso científico de la humanidad. Impresionan particularmente los avances médicos. De todos modos cuando semejante fascinación se mezcla con tendencias de desacralización e individualismo conduce frecuentemente a una ciega adoración del progreso que termina por reducir el cuerpo humano a mero objeto. A la luz del dualismo poscartesiano, una convicción actual que lleva frecuentemente al materialismo, el cuerpo humano es despojado de todo significado en el ámbito de la reflexión ética. A lo sumo se le otorga algunos valores premorales. El concepto de ley natural (entendido como una pauta de conducta que se manifiesta a través de una naturaleza que es al mismo tiempo cuerpo y espíritu), está siendo acantonado en la reflexión teológica por el temor de caer en la “falacia naturalista”. Una relectura de este tradicional concepto en línea con el pensamiento moderno no puede ser realizada simplemente volviendo a la Neo-escolástica. Sin embargo para una siempre mayor simplificación de la idea de corporeidad, una comprensión de su significado parece esencial. DIE MENSCHLICHE LEIBLICHKEIT ALS GEGENSTAND BIOETHISCHER KONTROVERSE 231 *** Il significato del concetto di corporeità si rivela con frequenza una questione controversa. L’uomo moderno si sente affascinato davanti al progresso scientifico dell’umanità. Fanno impressione in particolare gli sviluppi della medicina. Tuttavia quando un simile fascino se mescola con tendenze di desacralizzazione e di individualismo conduce spesso ad una tale cieca adorazione del progresso da ridurre il corpo umano a mero oggetto. Alla luce del dualismo postcartesiano, una credenza attuale che porta di frequente al materialismo, il corpo umano è spogliato da ogni significato nell’ambito della riflessione etica. Al massimo gli si assegna alcuni valori pre-morali. Il concetto di legge naturale (inteso come una regola di condotta che si manifesta attraverso una natura che è, nel contempo, corpo e spirito) è messo da parte nella riflessione teologica per il timore di cadere nella “fallacia naturalista”. Una rilettura di questo tradizionale concetto in linea con il pensiero moderno non può essere portata a termine tornando semplicemente alla Neo-scolastica. Tuttavia per una sempre maggiore semplificazione dell’idea di corporeità, una comprensione del suo significato appare essenziale. Reviews / Recensiones / Recensioni BORRIELLO LUIGI, Esperienza mistica e Teologia mistica, (= Esperienza e fenomenologia mistica I, 10), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 290 p. La riflessione sul significato dell’esperienza e sulla sua importanza nei riguardi della verità e del bene costituisce oggi un compito prioritario anche per la ricerca teologica. Occorre infatti rispondere non solo ai tanti sospetti e interrogativi che la nostra cultura pone agli approcci che privilegiano la sola ragione, ma anche ai rischi, altrettanto forti, di assolutizzazione di ciò che è sperimentabile, a livello individuale o tecnico-scientifico. Il libro di Luigi Borriello è un contributo prezioso per questa riflessione, invitando a porre l’attenzione sulla dimensione mistica dell’esperienza, considerata non solo in se stessa, per la profondità e apertura che la contraddistinguono, ma anche nelle esigenze epistemologiche e metodologiche che essa pone alla lettura teologica. Alla base del libro c’è il rinnovato interesse per la mistica che si registra oggi a tanti livelli. Si tratta di un interesse crescente, complesso e spesso contraddittorio, che esige perciò un attento discernimento da parte della comunità cristiana: «Nell’attuale contesto socio-religioso ove è maturata una nuova spiritualità, dalle diverse sfaccettature come intendere, allora, la “mistica” cristiana? Semplicemente come una sublime conoscenza e/o esperienza interiore di Dio? O si deve piuttosto studiare a fondo questa ricerca del sacro in un discorso sistematico che potremmo chiamare “teologia mistica”? E quali sono il metodo – se ve n’è uno – la natura e lo statuto epistemologico di tale teologia? A queste e ad altre domande tenta di rispondere il presente studio, che è una proposta di teologia mistica, da approfondire ed esplorare ulteriormente» (p. 11-12). 234 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI Il cammino, che il libro invita a percorrere, è ampio e impegnativo, mettendo in rapporto momenti della storia diversi, interpretazioni e proposte non sempre coincidenti, l’ascolto rispettoso dell’esperienza dei grandi mistici e i tentativi sempre inadeguati di comunicarla. Va da sé che alcuni temi vengono solo accennati o ci si limita a un primo approfondimento. La proposta del libro però si sviluppa in maniera organica e chiara, coerentemente alla fondamentale scelta metodologica, così sintetizzata dallo stesso autore: «Il metodo, individuato come il meno equivoco per lo studio, sembra essere, a nostro avviso, quello “cristonomico”. Infatti, partendo dall’esperienza di Dio-uomo incarnato nel tempo e nello spazio, si passa da un’esperienza mistica a una teologia della mistica per approdare a una teologia mistica che ha un suo linguaggio particolare» (p. 12). Il capitolo iniziale è dedicato alla chiarificazione semantica privilegiando il rapporto con il mistero in prospettiva cristiana, attraverso il richiamo delle principali affermazioni bibliche. La visione che viene suggerita è così sintetizzata: «la mistica risulta essere l’interiorità della fede attraverso l’interiorizzazione del mistero», in maniera che «a misura che il mistero è interiorizzato, la fede in esso rinvia il mistico al di là di se stesso» (p. 32). Per un approccio capace di coglierne tutta la ricchezza, il capitolo successivo invita a ripercorre i principali metodi, orientandosi per quello «unitario o “misto” (induttivo-deduttivo)», caratterizzato da una «sorta di circolo ermeneutico: dall’esperienza soggettiva del mistico testimoniata oralmente o in altro modo, visibile e concreto (il fenomeno), quindi oggettivata, si risale alla vita mistica del Dio unitrino, insondabile e inesauribile, mai compresa entro limiti definiti» (p. 45). Su queste basi, il capitolo terzo cerca di precisare la mistica in rapporto ad «altri termini con cui è stata identificata o anche sostituita: “spiritualità”, “religiosità”, “pietà”» (p. 57). Emerge così con maggiore chiarezza il suo nucleo centrale: «un’esperienza nella fede dell’evento Cristo, che rimanda a un evento storico, a un kairós inelubile, pena la nullità di detta esperienza» (p. 79). Questa centralità della fede viene ulteriormente approfondita, nel capitolo seguente, riprendendo il rapporto libertà-grazia e sottolineando che nell’esperienza mistica la fede si dà come “sapere”: «una REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 235 conoscenza più complessa» che coinvolge «tutta la persona nella sua libertà, nella sua coscienza, nel suo amore, nel suo desiderio, in breve, nella sua sensibilità» (p. 83). Viene poi richiamata l’attenzione su due aspetti, che costituiscono le due ultime sezioni del capitolo: «dalla conoscenza che ignora all’ignoranza che sa» e «dal già al non ancora». Nei capitoli successivi, l’attenzione si sposta dall’esperienza alla riflessione sistematica sulla mistica: «Dall’esperienza mistica alla teologia della mistica» (cap. V), per arrivare alla «Teologia mistica» (cap. VI). La precisazione di quest’ultima viene cercata ripercorrendo rapidamente le principali proposte teologiche, nella consapevolezza della difficoltà di arrivare a «una descrizione e, meno ancora, una definizione di “mistica”, unica e valida per tutti, unanimemente condivisa dagli studiosi», perché ognuno «parte da una prospettiva particolare e da questa osserva, descrive, interpreta e poi spiega la “mistica” nelle sue varie componenti, compresa una scelta terminologica» (p. 140). Sulla scia di Tommaso d’Aquino e di Giovanni della Croce, viene proposta una «definizione descrittiva» come conoscenza e amore «uniti in un atto semplice di contemplazione, infusa direttamente da Dio» (p. 144), evidenziandone poi i tratti più caratteristici. Alla luce di questa visione, gli ulteriori capitoli invitano a riflettere su problematiche più specifiche, a cominciare, nel capitolo sesto, da quelle relative al linguaggio mistico, sfidato sempre dal trovarsi di fronte «alla difficoltà di esprimere l’indicibile. Per un mistico parlare significa lottare contro l’insufficienza e l’inadeguatezza dei linguaggi esistenti. Per questo, a volte, essi preferiscono il silenzio alla parola» (p. 167). Alla luce di Cristo, «mistagogo del mistero divino, in quanto trasmette l’esperienza intima tra lui e il Padre e l’esperienza della sua divinità unita sostanzialmente alla sua umanità» (p. 185), il capitolo settimo esplicita la dimensione mistagogica della mistica, sottolineandone il valore di testimonianza: «l’esperienza mistica rimanda, di per sé, alla categoria della testimonianza come forma di conoscenza e di comunicazione», dandosi come «invito ad uscire dai confini di una certa cultura» per accogliere «un orizzonte diverso, “nuovo”, capace di dare senso alla vita» (p. 198-199). In questa luce, il capitolo ottavo, si sofferma sulla «vita mistica come pienezza dell’uomo». La prospettiva è sempre quella cristologica, 236 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI sviluppata, ricollegandosi alle prospettive della Gaudium et spes. L’autore può giustamente dedicare le ultime due sezioni del capitolo alla «vocazione universale alla mistica comunione» e alla «vita mistica nel quotidiano». Non poteva mancare la trattazione di due problemi da sempre presenti sulla riflessione teologica sulla mistica: il rapporto tra santità e mistica (cap. 10) e i fenomeni straordinari (cap. 11). I dati richiamati sono significativi, sia sul piano storico sia su quello di approfondimento sistematico. Parimenti è apprezzabile l’ampio attingere da Teresa d’Avila e Giovanni della Croce (un aspetto questo costante lungo tutto il libro). Se ne cerca però una concretizzazione significativa per la nostra cultura. L’ultimo capitolo («nuovi orizzonti della teologia mistica») invita a guardare in avanti, ribadendo la tesi di fondo: «riandare alle origini della spiritualità, quale vita secondo lo Spirito, per approdare a quella vita divina in ogni uomo, significata dall’espressione “teologia mistica”. Il Dio di Gesù Cristo che parla e si rivela continua a trasformare con la forza dello Spirito la vita del credente, definendo contenuti e metodi della riflessione teologica, ma soprattutto configurando l’immagine della Chiesa nel tempo» (p. 278). Questo rapido sguardo ai contenuti del libro permette già di coglierne la ricchezza. Lo stile chiaro, la saggia scelta delle fonti, il loro costante utilizzo, la coerente e progressiva esplicitazione delle affermazioni fondamentali stimolano e aiutano il lettore ad orientarsi su problematiche non facili, ma da cui non è possibile prescindere se si vuole comprendere la profondità di grazia e di esperienza propria della vita cristiana. Dispiace che alcuni temi vengano trattati in maniera rapida. Un ulteriore sviluppo sarebbe stato auspicabile, come del resto riconosce lo stesso autore nell’introduzione, permettendo anche di rendere sempre chiaro il passaggio dal piano del vissuto a quello della teorizzazione teologica. Resta però che il libro costituisce uno strumento di riflessione e di studio valido e stimolante, non solo per chi ha a cuore le problematiche della mistica, ma anche per chi vuole approfondire la densità e la profondità dell’esperienza dell’uomo, fino ad arrivare al mistero che la permea e le dà significato ultimo. SABATINO MAJORANO, C.SS.R. REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 237 DE VIRGILIO GIUSEPPE, La teologia della solidarietà in Paolo. Contesti e forme della prassi caritativa nelle lettere ai Corinzi, (= Supplementi alla Rivista Biblica 51), EDB, Bologna 2008, 375 p. Il lavoro di Giuseppe De Virgilio affronta il tema della solidarietà in Paolo nei contesti e nelle forme rilevabili nella Prima e Seconda Lettera ai Corinzi. Nell’attività missionaria di Paolo la solidarietà si esprime nella raccolta di fondi per le Chiese della Giudea conosciuta come la “colletta”. La questione della colletta tocca un punto importante dei rapporti tra Paolo e la Chiesa di Gerusalemme, intrecciata com’è con il suo ruolo di apostolo delle genti e il suo metodo missionario. Il libro di Virgilio viene articolato in sette capitoli, preceduti da una introduzione (p. 15-21) e seguiti dalla conclusione generale (p. 315-319). Il primo capitolo (Gli ambienti della formazione paolina e le analogie con la prassi solidaristica, p. 23-57) è una indagine relativa alle forme di beneficenza e alla cultura della solidarietà nell’ambiente ebraico e greco-romano. Tale analisi mostra il quadro sintetico entro il quale colloca la formazione paolina e i presupposti da cui trae origine la prassi solidaristica. Nel capitolo secondo (Le forme di solidarietà e il primitivo ethos cristiano, p. 59-96) si passa a definire e a chiarire le possibili connessioni tra le forme di solidarietà già presenti nella cultura e nelle tradizioni precedenti e quelle attive nella comunità di Corinto e negli altri scritti di Paolo nel capitolo terzo (Riferimenti solidaristici e forme assistenziali negli altri scritti paolini, p. 97143). Il quarto capitolo (Il contesto delle forme di solidarietà: la configurazione sociale della ekklesia di Corinto, p. 145-175) approfondisce il contesto storico-religioso delle diverse forme di solidarietà evocate nelle due lettere. Nei successivi due capitoli quinto (Le “forme di solidarietà” nella Prima lettera ai Corinzi, p. 177-222) e sesto (Le “forme di solidarietà” nella Seconda lettera ai Corinzi, p. 223-280) si passa allo studio semantico-letterario dei testi presi in esame delle forme di aiuto e di sostegno testimoniate in 1-2Cor e conseguentemente la peculiarità della prospettiva teologica intesa da Paolo. Nell’ultimo settimo capitolo (Aspetti teologici della prassi solidaristica in 1-2Cor, p. 281-314) si propone una lettura complessiva e unitaria dei risultati emersi dall’analisi delle forme e dei contesti di solidarietà, mediante un’elabo- 238 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI razione teologica dei significati e degli aspetti della prassi paolina nel quadro di 1-2Cor. Nella conclusione si mette in evidenza la posizione teologica paolina al cospetto dell’intera teologia neotestamentaria. Il tema della solidarietà è proposto con insistenza nei documenti della dottrina sociale della Chiesa a partire dai documenti del concilio Vaticano II. Circa una visione complessiva della solidarietà e delle sue forme sono apparsi soprattutto verso la fine degli anni ’80, importanti interventi magisteriali (Giovani Paolo II, Sollicitudo rei socialis (1987), in occasione del ventennale dell’enciclica di Paolo VI, Populorum progressio (1967); Giovani Paolo II, Centesimus annus (1991), in occasione del centenario dell’enciclica di Leone XIII, Rereum novarum (1891). Si sono anche registrati numerosi studi, articoli e monografie sulle singole forme di solidarietà nelle Lettere ai Corinzi legati agli sviluppi della riflessione teologico-morale relativi al principio di solidarietà e di sussidiarietà (M. Toso (ed.), Solidarietà, nuovo nome della pace. Studi sull’enciclica “Sollicitudo rei socialis” di Giovanni Paolo II offerti a don Giuseppe Gemmellaro, Leumann 1988). Si deve anche sottolineare alcuni apprezzabili tentativi di applicazione della categoria di solidarietà allo studio delle forme sociali così come emergono dall’analisi biblica. In questa linea segnaliamo la proposta di B. Maggioni, “Radici e figure bibliche della solidarietà”, in RivClIt 70 (1989) 804806. Il rapporto tra solidarietà e dimensione etica nel pensiero di Paolo è stato studiato da L. Alvarez Vérdes (Caminar en el Espíritu. El pensamento ético de S. Pablo, Roma 2000) e da A. Wodka (Una teologica biblica del dove nel contesto della colletta paolina (2Cor 8-9), Roma 2000) con interessanti sviluppi per l’approfondimento della relazione tra teologia biblica e teologia morale. Nel panorama degli studi sull’epistolario paolino, pur essendo apparse numerose monografie che affrontano temi specifici legati alla categoria della solidarietà sembra necessario un lavoro sintetico di teologia biblica che riassume e rileggere in una prospettiva unitaria l’intera prassi solidaristica posta in essere nella comunità corinzia. In questa linea si inserisce molto bene il lavoro di De Virgilio, frutto del suo lavoro per la sua tesi dottorale, difesa presso l’Università Gregoriana di Roma con i relatori prof. A. Valentini e S. Brodeur. Egli che ha al suo attivo alcuni studi sulla ecclesiologia nelle lettere di Paolo, REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 239 ha già affrontato questo tema in articoli e studi monografici. Nel suo libro sulla teologia della solidarietà in Paolo ha fatto parecchi riferimenti agli diversi autori che si occupano il simile tema fino a punto che pare essere troppo dipendente dai loro contributi scientifici. De Virgilio estende il tema della solidarietà oltre campo socio-economico nel senso dell’assistenza dei poveri e delle figure sociali deboli, includendo anche la prassi dell’accoglienza e dell’ospitalità riservata ai missionari itineranti registrati nei documenti della prima Chiesa. Egli colloca la sua ricerca nell’espistolario paolino passando in rassegna le varie forme di solidarietà dall’assistenza delle vedove alla cooperazione nell’annuncio del vangelo, dalla condivisione dei beni con i poveri alla preghiera e al sostentamento morale e spirituale. Esaminando le forme della solidarietà non si limita a un singolo tema o termine di tipo associativo o caritativo, bensì lo estende ai contesti epistolari che presentano atteggiamenti e interventi associabili alla categoria di solidarietà, intesa come complesso di forme che realizzano un “spirituale e sociale” a favore di singoli cristiani e di comunità interne. Il contributo della ricerca di don Giuseppe De Virgilio si distingue per il saldo e puntuale ancoraggio del tema della solidarietà nell’epistolario paolino, in particolare nelle due lettere alla Chiesa corinzia. È un aiuto per riscoprire la personalità di Paolo, che proclama il vangelo di Gesù Cristo non solo con la parola, ma anche con una prassi di carità che risponde in modo concreto all’amore di Dio rivelato nel Suo Figlio. Si deve anche sottolineare la estesa Bibliografia che egli aggiunge alla fine del suo lavoro. Essa dà una visione molto panoramica e aiuta notevolmente a approfondire il tema della solidarietà in generale. De Virgilio ha fatto pure Indice delle citazioni bibliche che rimandano direttamente ai testi biblici interessati in questione. Un grande sforzo ha compiuto autore elaborando Indice dei nomi ai quali egli fa ricorso nel suo contributo scientifico. Tutto questo come pure le abbondanti e giustamente necessarie note ci aiutano a leggere bene e capire l’intento scientifico del Professore Giuseppe De Vigilio, dato che non esiste uno studio sistematico su questo tema specifico sulla base degli scritti paolini. GABRIEL WITASZEK, C.SS.R. 240 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI FASTIGGI ROBERT L., What the Church Teaches about Sex: God’s Plan for Human Happiness. Foreword by Janet E. Smith. Huntington, IN: Our Sunday Visitor, 2009, 174 p. The Catholic teaching on human sexuality is sometimes described in negative terms, as if there were something terribly wrong, even shameful, about the physical act of making love. In this book the author seeks to nullify this false impression by presenting the Church’s teaching in a much more positive light. As he states in the Introduction, “(t)he purpose of this book is to seek a presentation of the authentic Catholic understanding of this precious gift and its proper use” (p. 19). In this reviewer’s judgment, he achieves this goal admirably well. The book consists of an introduction and eleven chapters. In his Introduction, “The Good News about Sex,” the author maintains that God gave creation a specific order that would maximize human happiness if each person simply followed it or at least repented when having fallen short of it. These opening insights set the tone for the chapters that follow. Human sexuality goes hand in hand with human happiness. To maximize its potential, it must be treated tenderly and with a deep awareness of the terrible harm it can cause when it departs from God’s ordained order. Chapters one through four examine a number of preliminary matters regarding the Church teaching on sexuality. Chapter one takes a look at St. Augustine’s struggle with sexual temptation and the long spiritual journey that led him to recognize the correct ordering of the passions under God’s sovereign rule. Chapter two explains John Paul II’s “Theology of the Body” as a way of helping people come to understand the significance of the great gift of human sexuality and why it must be safeguarded by the marital relationship. Chapter three emphasizes the beauty, holiness, and indissolubility of marriage, while chapter four treats sins in general and more specifically those of the flesh. Chapters five through eight deal with specific issues on human sexuality, respectively those of pornography, masturbation, homosexuality, fornication and cohabitation, and marital chastity. In these REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 241 chapters, the author often provides helpful guidelines and suggestions for dealing with these pressing (and very problematic) sexual issues in a constructive and practical way. Book closes with chapters on conscience and dissent from magisterial teaching (chapter ten) and on how a person can grow in chastity (chapter eleven). It also contains two appendices (one on the essential ends of marriage; the other, on key magisterial texts) a helpful bibliography of books and related web sites, and an index. The author makes a great effort to convey the Church’s teaching on human sexuality in an accessible and easily understandable way. To this end, he begins each chapter with a story or example to illustrate the main point he wishes to make. He also documents his material very well with Scripture, the Church fathers, the Catechism of the Catholic Church, the teachings of the Magisterium, and contemporary theologians. He is not interested in abstract speculation, but seeks instead to probe the Church’s teaching in order to gain deeper insights into its meaning and convey that meaning to others in a clear and dignified manner. In doing so, he fulfills one of his most important responsibilities as a theologian, that of making the Church’s teaching come alive for today’s hearers by demonstrating its power, cohesiveness, and underlying unity. The book’s greatest strength is its ability to present the Church’s teaching on sex in a unified, synthetic whole that appeals to a wide audience without sacrificing scholarly depth and accuracy. One need only glance at the author’s footnotes to see that he has taken great pains to back up his popular prose with appropriate secondary references that reflect critical reflection on the Church’s tradition. The author’s capacity to convey scholarly depth with a sensitivity toward a wider reading audience places his work in a category under which few other works on Catholic sexual ethics fall. He is to be commended for offering his readers both substance and poetic appeal. In doing so, he conveys in the very presentation of his work a sense of the profound wisdom and beauty of the Church’s teaching on human sexuality. Every book has room for improvement and this one comes as no exception. This reviewer would have preferred if the author had included in his presentation more on a person’s psycho-sexual develop- 242 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI ment and the way it impinges on the issues treated. He also would have welcomed a greater emphasis on the relationship between sexuality and culture what the Church’s pastoral response is to varying sexual practices from one culture to the next. A chapter entirely dedicated to celibacy (rather than its relatively brief treatment at the book’s close) would have complemented the chapter on marriage and added to the arguments presented in the chapter on the theology of the body. Finally, a series of reflection or study questions at the end of each chapter would have made the book more easily used as a classroom text or as a focus for group discussion. These constructive comments in no way detract from what the author has accomplished in this book: a masterful synthesis of Catholic teaching on human sexuality presented in an appealing way to a wide reading audience. The book offers an excellent summary and defense of the Church teaching on human sexuality and would be an excellent text to use in high school and introductory college religion classes that want easy access to the Church’s teaching on such issues. It could also be useful in continuing education classes and adult discussion groups on how parents can communicate the Church’s teaching on such sensitive matters to their teenage children. This book should be read by everyone interested in going to the heart of what the Church teaches about sex. It focuses in on the essentials and offers a clear and precise presentation of the profound beauty of human sexuality and why it matters. DENNIS J. BILLY, C.SS.R. GAZIAUX ÉRIC (ed.), Responsabilité et tâches du théologien. Conférences de l’École doctorale en théologie (2004-2006), Éditions Peeters: Leuven-Paris-Walpole, MA 2009, 191 p. For decades the term ‘responsibility’ has been used in a range of contexts within moral theology. Another book on that theme as such would need to have something new to say in order to justify its existence. This collection of essays more than justifies its existence not be- REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 243 cause of what it says about ‘responsibility’ in general but because of what it says about this term in the context of the tasks of the theologian. Following the important opening piece by the editor, the book divides into two main parts: in the first, five scholars (Christian Duquoc, Paul Tihon, Jean-Louis Souletie, Denis Müller and Antonio Manzatto) explain their understanding of the “tasks” of the theologian, focusing particularly on his or her “responsibility”; in the second part, three theologians (Christoph Theobald, Eleuthère Kumbu ki Kumbu, Bénézet Bujo) focus on the relationship between revelation and inculturation. While there is a noticeable difference in focus and tone between the two parts, the underlying theological and ethical issues in both are so akin as to warrant their compilation in a single volume with this title. Given such broad thematic unity, it would seem more profitable to consider here some key ideas which recur in many of the pieces, rather than discuss each piece in its own right. Before considering these key ideas, it is important to note the context in which this whole reflection is set. The immediate context, significantly, is an academic programme (l’École doctorale en théologie) in a university (Louvain-la-Neuve). This is the second volume in a series which publishes lectures given to the doctoral students in this programme by guest professors, along with other thematically relevant material. What makes this volume worth reading is the fundamental nature of the questions it poses concerning the responsibility of theologians in fulfilling their tasks. Tasks are things to be done, activities; theologians are human beings, agents; responsibility is about the way in which theologians engage in their tasks. To reflect critically on all of this is to put theology as a discipline into question, in terms of its thematic content, its method, its institutional expressions and, last but not least, its moral quality. The tone of the whole discussion is set by Éric Gaziaux in an introductory piece which is the product of a conversation held between the permanent members of the Louvain-la-Neuve faculty on the “pourquoi?” (p. 5) of theological research and teaching. The second line of this contribution audaciously confronts the possibile “inutilité” of this discipline. The rest of the piece, however, leaves no doubt as to the author’s firm conviction concerning the importance of studying theology. While deliberating on the structure and objectives of the faculty 244 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI to which he belongs, Gaziaux treats various key questions which arise in any theology faculty (curriculum, didactic objectives, scientific methodologies, relations between the disciplines). Of interest to all who do theology, this first piece will be of particular value to those who have responsibility (!) not just for teaching but for administration. The author explicitly focuses on the tasks of theology not just in the theologian’s head (cf. comment of de Lubac, p. 31) but in the public life of contemporary society, in the university and in the church (p. 6). Against this backdrop, we may now consider some key ideas which emerge in the course of the essays. With regard to the self-understanding of theology, various scholars place an accent on theology as a form of activity, something one does and thus something for which one is responsible. If all the versions of this self-understanding presented here ultimately fall under intellectus fidei, as evoked at the outset by Gaziaux, the range of approach within this one volume is impressive. In the context of a review we can only offer some samplings: for the Dominican Duquoc, what the theologian does, as a believer in God, is “to listen to human doubt” (p. 28); for the Jesuit Tihon, the task of the theologian is to argue (argumenter, p. 45) a case for God’s reign inspired by prophets and faithful to the Gospel; for Souletie of the Institut Catholique de Paris, to do theology is to follow St. Thomas in his Respondeo dicendum (p. 61) in the sense of trying to find a response in the resources of christian faith to the questions of the day; for the Protestant theologian Müller theology is an exercise in “critical loyalty” (p. 77); for the Brasilian A. Manzatto a key task of the theologian is to denounce idolatries (p. 109). These sample ideas must suffice to give an impression of how rich a line of reflection on this key question is contained in one compact volume. Another idea which emerges almost as an outright consensus between the authors concerns the hermeneutical nature of the theological task. Affirmed by Gaziaux at the outset, this central theme is taken up by one author after another, in different perspectives and to great effect. One of the key merits of this compilation is the awareness the different authors show of the importance of a given cultural context for the performance of the task of theology. Souletie, following C. Geffré, does not hesitate to talk about two hermeneutics, REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 245 one of the christian tradition and one of the contemporary situation (p. 56) and to insist that what is in question here is nothing less than a “nouveau paradigme” (p. 57) for doing theology. A similar awareness is expressed, mutatis mutandis, by Müller. Inspired by authors such as D. Tracey and M. Foucault, he makes some hard-hitting, but balanced, observations on the links between ideology and power both in contemporary civil society and in the Protestant and Catholic Churches (p. 72, 73). The pieces by the two African scholars Kumbu ki Kumbu e Bujo in the second part of the book do not discuss the hermeneutical nature of thelogy in the abstract but in the specific context of their own continent as they wrestle with the questions of revelation and culture. The pièce de resistance, on the hermeneutical front, is perhaps that of C. Theobald. Rereading Dei Verbum in the light of intervening exegetical and cultural developments, this author suceeds in bringing out in a fresh way the huge privilege and the enormous responsibility of the theologian in so far as he or she must attend to the revelation of God not just in the Scripture but in the dynamic encounter between the Word of God and the believer (p. 137). It would be easy to extend this list with references to the other authors, but again these few examples must suffice to illustrate the emphasis on hermeneutics throughout this volume. The third and central term taken up in many of the pieces is that of the responsibility of the theologian. It is highly significant that a term generally associated with moral theology, or at least with ethical discourse, should be placed at the centre of reflections on the nature of theology as such. This is a logical consequence of focusing on theology as something which the theologian does. Theology does not become a matter of morality when it starts discussing moral issues, rather, in so far as it is a human activity, something chosen and performed, something which has effects on the doer and on others, and, last but not least, something done in the name of the living God, it is inherently moral from the outset. The focus on responsibilty in the different essays helps bring out this truth which otherwise risks remaining implicit. Several authors (e.g. Tihon, p. 39-44; Souletie, p. 58) rightly emphasise the primary responsibility as being toward God, requiring of the theologian constant listening, believing and 246 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI obeying. There is some frank discussion, particularly in Müller’s piece, of the tension which can emerge between listening to and obeying the Word of God and the attention due to the magisterium. On a similar line, various authors (Manzatto, p. 111; Bujo, p. 179) express their sense of responsibility toward the ecclesial and theological aspirations of Second Vatican Council, many of which have not been realized. On this score, Kumbu ki Kumbu insists that responsibility means not just fidelity to what the Council actually said but pursuance of lines of enquiry it opened up (pp. 149-151). The cumulative effect of reading these different reflections on the tasks of the theologian is to help the reader appreciate how difficult it is to do theology today. At the same time the honesty, wisdom, openess and vast experience of the contributors have an encouraging and upbuilding effect. The book itself is best understood as an exercise in responsibility undertaken by a group of theologians in face of cultural and ecclesial circumstances which at times impede the exercise of this marvellous ministry. MARTIN MCKEEVER, C.SS.R. GERARDI RENZO, La gioia dell’Amore. Riflessioni sull’ordo amoris per una teologia della vita cristiana, Lateran University Press, Roma 2009, 673 p. Con questo nuovo testo, d. Renzo Gerardi, docente di Teologia Morale nella Pontificia Università Lateranense e nell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, aggiunge al suo ricco curriculum bibliografico un saggio che completa e sistematizza i suoi studi sulle tematiche morali. La chiave di volta dell’intera opera di Gerardi è nel titolo: “la gioia dell’amore”con il quale fa una scelta fondamentale: annunziare che la verità morale in Cristo fa intraprendere all’uomo sentieri di gioia e di bellezza. Nell’introduzione l’autore affronta la questione del fondamento e cerca un dialogo anche con i non credenti, il Prof. Gerardi afferma REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 247 che «è proprio sul cammino dell’etica che si affaccia la possibilità del riconoscimento di Dio e della verità ultima e trascendente. È possibile un’etica della responsabilità verso gli altri anche in chi non crede: e portando fino in fondo la responsabilità etica verso gli altri ci si apre alla possibilità di riconoscere un’alterità ultima, ovvero il mistero santo di Dio, che provoca la persona ad un impegno conseguente» (p. 12). Nella reciprocità delle coscienze cioè nel riconoscere nell’essere persona la dimensione dell’alterità si apre per l’uomo la via per la morale e per riconoscere il mistero di Dio. Sulle premesse che riguardano il fondamento e che affrontano tematiche come “le conseguenze dell’ordo amoris”, “l’alleanza fra ragione ed amore”, “la ragion d’essere dell’amore”, “il progresso dell’amore”, “la vita cristiana nell’amore” (p. 9-28), il capitolo primo si preoccupa di presentare il mistero trinitario nel quale è immerso l’uomo, abbiamo così una fondazione trinitaria della morale dal quale nasce la sua esposizione sull’etica della responsabilità analizzando così le categorie fondamentali della morale (p. 29-74). Il capitolo secondo è possibile ritenerlo una novità perché nell’illustrare che la vita morale è “sequela” di Gesù Cristo diventa un commento attualissimo delle Beatitudini che devono diventare gli atteggiamenti fondamentali di un’esistenza in Cristo (p. 89). Il metodo è profondamente biblico, in dialogo con l’esegesi emerge che Cristo è il primo che ha vissuto le beatitudini ed è per questo che le propone al suo discepolo come cammino possibile per raggiungere la perfezione del Padre. In questo capitolo viene anche affrontata la tematica delle virtù da cui nasce una esposizione breve ma chiara della prudenza, giustizia, fortezza, temperanza che vengono presentate non solo come virtù umane ma anche cristiane (p. 151-173). Il terzo capitolo costituisce la riflessione sulle tre virtù teologali che costituiscono “lo specifico cristiano”; pur rischiando di cadere nella casistica l’autore coraggiosamente evidenzia gli atteggiamenti peccaminosi contro la fede, la speranza e la carità (p. 175-204). Ciò risulta utile per il discernimento della coscienza che deve rimanere sempre fedele nell’esistenza alla sua opzione fondamentale di fede-carità-speranza. È qui che viene affrontato il rapporto religione e morale, l’incontro sacramentale evidenziando la validità e la liceità. Risulta utile 248 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI per la pastorale la lettura delle pagine dedicate ai peccati contro il primo comandamento ed al Giorno del Signore (p. 234-254). Il capitolo quarto è un tentativo di affrontare le questioni ecologiche in rapporto alla Trinità (p. 276-279) e poi è una lunga riflessione sulla vita dal suo inizio fino alla fine, ed è qui che l’Autore illustra la riflessione morale sulla vita nascente, le questioni riguardanti la diagnostica prenatale, la qualità della vita, gli attentati alla vita. Emerge come la vita è un valore fondamentale che deve essere sempre difesa dall’inizio alla fine e Gerardi evidenzia che «vi è un fondazione della sacralità della vita che nasce dall’esperienza-costitutiva ed originaria – del valore incondizionato della persona e delle esigenze di riconoscimento e di rispetto che essa avanza nei confronti della libertà dell’uomo» (p. 299). Ciò significa che il rispetto della vita appartiene alla stessa dignità della persona umana oltre ad essere un valore che appartiene alla tradizione giudaico-cristiana. Nel capitolo quinto vengono affrontate tematiche di bioetica (il concetto di salute, la professione medica, la sperimentazione clinica, la questione delle cellule staminali, l’embrione, le tecniche di procreazione assistita e la loro valutazione morale, la diagnostica prenatale, il rispetto dell’integrità della persona, l’eutanasia), risulta interessante la valutazione morale che l’autore fa dei diritti dei bambini (p. 392-394). Il capitolo sesto è un’affascinante e bella illustrazione della teologia del corpo, il considerare la corporeità dono e compito ed attraverso di essa l’uomo è chiamato alla vocazione all’amore, vengono evidenziati le caratteristiche dell’amore coniugale e della famiglia cristiana quest’ultima immagine della Trinità (p. 523-530). Il capitolo settimo è un grande excursus sulle tematiche di morale sociale, aggiunge alle tradizionali voci una riflessione sul rapporto morale ed espressioni artistiche; la riflessione sulla pace è profondamente biblica e teologica, di essa viene delineata la fondazione trinitaria-ecclesiologica-antropologico/morale-escatologica (p. 642-646). Il volume è corredato da un’abbondantissima bibliografia che aiuta chi legge a voler approfondire personalmente. L’ampia riflessione teologico-morale di Gerardi si caratterizza per l’alto spessore scientifico e la consapevolezza che fare teologia morale è rispondere ad una vocazione specifica nella Chiesa per questo la REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 249 lettura del volume affascina in quanto si percepisce la passione dell’autore per la teologia morale. Il volume è validissimo seppur avremmo preferito degli excursus storici sulle diverse tematiche, oppure ulteriori approfondimenti su voci che sono attualissime nell’attuale contesto socio-culturale; manca un capitolo sul rapporto teologia morale e la Vergine Maria intesa come modello di vita cristiana. Il lettore di questo testo verrà coinvolto dalla lettura ed avrà una conoscenza aggiornatissima delle tematiche di teologia morale, per questo è consigliabile per teologi, studenti di teologia e di altre discipline, e per coloro che vogliono accostarsi alla riflessione teologicomorale nella fedeltà alla Parola di Dio ed al magistero della Chiesa. MICHELE PERCHINUNNO LÁZARO PULIDO MANUEL (ed.), Cristianismo e Islam. Génesis y actualidad, Instituto de Teología “San Pedro de Alcántara”, Cáceres 2009, 304 p. La obra en mención es fruto del “Curso de Perfeccionamiento” – “Cristianismo e Islam: génesis y actualidad” – llevado a cabo en la Universidad de Extramadura por el servicio de Asistencia Religiosa en colaboración con el Instituto Superior de Ciencias Religiosas de Ntra. Sra. de Guadalupe, de la Provincia Eclesiástica de Mérida-Badajoz. Este “Curso de perfeccionamiento” respondía al proyecto de la formación teológica y el diálogo Fe-Cultura desde una presencia institucional en el medio universitario público. Los temas desarrollados en el curso han sido ampliados en vista a esta publicación incorporando nuevos artículos y ponentes. El “Curso de perfeccionamiento”, como también la presente publicación ampliada, estaba motivado por el hecho de que el Islam y los musulmanes no son temas que pasan desapercibidos: para unos es motivo de preocupación; a otros les despierta la necesidad de un mejor conocimiento de esa religión y cultura. El Cardenal Amigo Vallejo en el Prólogo ha escrito que ‘solamente con la sinceridad, con el res- 250 REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI peto a las diferencias, es como pueden darse pasos firmes hacia un diálogo constructivo. (...) Condición imprescindible es la libertad religiosa y la lealtad a la propia identidad creyente” (p. 12). Mirando al contenido de esta obra nos atenemos a la síntesis que el Editor – M. Lázaro Pulido – hace al presentar la “Conclusiones” de esta obra: “la primera parte –‘Génesis, historia y cultura’ – gira en torno a aspectos teológicos, filosóficos, artísticos que se desarrollan en la época del nacimiento y expansión del Islam que nace en contacto con las raíces comunes al cristianismo y sintiéndose, en cierto modo, herederos, cada uno a su modo, del legado grecolatino y judío. Estos estudios intentan ayudarnos a comprender el complejo desarollo del Islam: religión, espacio geográfico, estructura política, creadora y recreadora de cultura (filosofía, pensamiento religioso, literatura, arte) atendiendo siempre a la perspectiva del diálogo con el cristianismo. La segunda parte se centra en el análisis de los elementos actuales necesarios para establecer elementos de juicio suficientes que construyan nuestra opinión sobre una construcción fecunda a partir de los elementos humanos, sociales, políticos y religiosos que responden al reto intercultural y al diálogo interreligioso” (p. 301). Queriendo explicitar un poco más el contenido de esta publicación, se deben subrayar algunos temas que revelan su riqueza como elementos esenciales para una mejor comprensión del Islam. Por ejemplo, a propósito del “origen, historia y cultura” (de la primera parte), desde la historia (la Revelación en el Corán, el triple (des)encuentro en las polémicas filosófico-teológicas, la aproximación a la literatura cristiana oriental en árabe, el acercamiento al concepto griego del amor), desde el arte, la arquitectura de los templos cristianos y musulmanes desde sus orígenes hasta finales del siglo XV’). La segunda parte, más breve, recoge tres relaciones: “el Islam en la vida de la mujer a través de los tiempos”, “el Islam en la actualidad, como es el caso de la convivencia con inmigrantes musulmanes en Extremadura (España) a partir de 1991, y la integración de la población musulmana en la sociedad española, y el ‘Islam y el Cristianismo. Notas para el diálogo”. Con esta panorámica se da al Lector de esta obra un buen aporte para “la construcción de una sociedad abierta y fraterna que sepa aunar la “identidad” y la “alteridad” del fenómeno religioso como un signo REVIEWS / RECENSIONES / RECENSIONI 251 de riqueza y de fuerza para la unidad, la dignidad y la justicia humana”. Así escribe José Moreno Losada en la Presentación del libro (p. 16). A la perspectiva de Moreno Losada se debe añadir la apreciación que hace Lázaro Pulido en las “Conclusiones”: “las instituciones europeas no han sabido comprender que favorecer el encuentro con el mundo musulmán es más sencillo desde el fomento de nuestra identidad religiosa que desde el olvido de la religión, que no deja de ser de importancia capital en la sociedad democrática laica. Es más fácil establecer un diálogo interreligioso donde se habla el mismo idioma. Y por ello es más productivo mostrar experiencias que suman modelos sociales y políticos que saben respetar la tolerancia desde la integración, que patrones reductivos que ofrecen cortadas a los fundamentalismos” (p. 294). El diálogo, que esta obra sugiere entre el Islam y el Cristianismo y que propone como un “entrar en un itinerario evangélico de encuentro y de diálogo”, tiene unos “puntos comunes al Cristianismo y al Islam’ a promover, y unas diferencias a aceptar” (p. 288). “El Magisterio de la Iglesia – escribe el Cardenal Amigo Vallejo en el Prólogo – ha dicho que el mejor camino, para el encuentro entre creyentes de ambas religiones, es el de un diálogo positivo, constante, que lleva a la realización de proyectos comunes y, sobre todo, al conocimiento recíproco” (p. 12). Lázaro Pulido, en su relación sobre ‘Cristianismo e Islam en el pensamiento medieval’, alude al “paradigma de identidad y encuentro” a partir de la figura de S. Francisco de Asís (p. 126) como un modelo para el diálogo intercultural e interreligioso en nuestro tiempo entre Cristianismo e Islam, teniendo presente que “no son siempre las culturas las que fracasan, sino las estrategias multiculturales las que no son adecuadas” (p. 133). A la obra Cristianismo e Islam: génesis y actualidad no se le puede pedir que responda a todas las inquietudes que suscita al presente la convivencia entre cristianos y musulmanes; pero sí se puede afirmar que “no hay mejor diálogo que el de la vida misma, el del trabajo, el de la escuela, el de la buena vecindad, el de la participación en tareas encaminadas al bien común”, como afirma el Cardenal Amigo Vallejo en el Prólogo. J. SILVIO BOTERO G., C.SS.R. Book Presentation / Presentación del libro Presentazione del libro JOSÉ RAFAEL PRADA RAMÍREZ PSICOLOGIA E FORMAZIONE Principi psicologici utilizzati nella formazione per il Sacerdozio e la Vita consacrata (a cura di A. Amarante e G. Witaszek) Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 2009, 303 p. Relazioni tenute in occasione della presentazione del libro Accademia Alfonsiana, 29 ottobre 2009. UN NUEVO LIBRO AL SERVICIO DE LA FORMACIÓN SACERDOTAL Y RELIGIOSA J. Silvio Botero G., C.Ss.R.* Siguiendo la tradición de la Academia Alfonsiana de presentar al público periódicamente las publicaciones de los Profesores, hacemos hoy la presentación del libro del P. J. Rafael Prada R. – Redentorista colombiano que fue Profesor en nuestra Academia hasta el inizio del curso académico del 2008. Dejó la cátedra por una razón de fuerza mayor: fue elegido superior provincial de los Redentoristas en Colombia. Comenzamos la presentación del libro Psicologia e formazione. Principi psicologici utilizzati nella formazione per il Sacerdozio e la Vita consacrata dando alguna información acerca de la vida religiosa, sacerdotal y profesional del autor: * El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana. 254 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO • 47 años de la Primera Profesión Religiosa y 41 de vida sacerdotal. • Ha ejercido diversos cargos dentro de la Comunidad Redentorista colombiana: Superior y formador en el Seminario Menor y en el Seminario Mayor. En tres ocasiones ha sido Superior Provincial. • Como Profesional de la psicología lo acreditan los titulos de Psicólogo, por la Universidad de S. Buenaventura (Bogotá), de Master en Psicología clínica por la Univ. de Sto.Tomás (Bogotá), y Doctor en Psicología, por la Pontificia Univ. Salesiana, de Roma. • Ha sido docente en la Fundación Universitaria ‘S. Alfonso’, de Bogotá y en la Academia Alfonsiana, de Roma. • Su experiencia de Formador la ha adquirido en el Centro de la C.R.C. de Bogotá, y en diversas casas de formación de Colombia, España e Italia). • Es autor de muchos artículos y libros publicados en Colombia y en Italia; entre sus libros podemos citar: Escuelas psicológicas y psicoterapéuticas, Psicología de grupos, Cómo alcanzar la felicidad, La persona homosexual, Hablemos del maligno, Sexualidad y amor, etc. Mención especial merece la ‘tesis doctoral’ defendida en la Univ. Salesiana, de Roma, en el año 2003: La madurez afectiva, el concepto de sí y la adhesión al ministerio sacerdotal. Estudio empírico con una muestra de sacerdotes italianos, colombianos y estadounidenses, según la ‘teoría de apego’. La obra que intentamos presentar Psicologia e formazione. Principi psicologici utilizzati nella formazione per il Sacerdozio e la Vita consacrata ha sido estructurada en 13 capítulos. El hilo conductor a lo largo de la obra es claro: comienza con la presentación de la situación de la formación sacerdotal y religiosa en el momento actual: ruptura o continuación en el paso de la Modernidad a la Postmodernidad. De frente a la situación el Magisterio de la Iglesia universal y latinoamericana ha estado atenta a dar orientación oportuna mediante diversos documentos doctrinales y pastorales. La formación sacerdotal y religiosa presta atención especial hoy, según el principio de la evolución gradual, a las diversas etapas del desarrollo de la persona BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 255 humana; el capítulo III se ocupa de plantear los varios períodos de la formación del canditato al Sacerdocio y a la vida religiosa. Para este acompañamiento a lo largo de la formación, las Escuelas Psicológicas ofrecen su aporte científico desde diversas perspectivas: sea desde la psicología evolucionista, sea desde las teorías comportamentales, humanistas, cognitivas, sociales, y desde la Neuropsicología. Una Escuela de Psicología a la que el P. Prada da relieve especial es la de Luis M. Rula, S. J., de la Univ. Gregoriana. Dentro del proceso formativo del candidato al sacerdocio o a la vida religiosa se dan casos particularmente difíciles, generados por la mentalidad laicista, relativista y consumista de la sociedad actual: crisis de la familia, toxicodependencia, homosexualidad y perturbaciones mentales. En esta perspectiva de la formación, la figura del formador ocupa un puesto especial: de cara a un tipo de formación que subraye la continuidad, o la reforma, o la ruptura, el P. Prada propone la imagen de un formador que ame su misión, que tenga una base segura, que sea un modelo coherente y que tenga ideas claras. Se cierra la obra con el capítulo dedicado a la necesidad de construir una generación mejor de formandos, y con la bibliografía final que ocupa 11 pp. El gran desafío que la Iglesia debe afrontar hoy de cara al sacerdocio y a la vida religiosa lo señala el P. Prada en el primer capítulo: “Il profilo del sacerdote e del religioso del futuro, incarnato nei giovani che si stanno formando, non è negativo, ma dinamicamente positivo. Utilizzo l’avverbio ‘dinamicamente’ – escribe el P. Prada – per indicare un processo d’integrazione di molti elementi provenienti da diverse scienze e da diversi modi di vedere la realtà, convergendo in un unico punto chiamato ‘Gesù-Cristo’” (p. 33). Añade el P. Prada la constatación de un hecho que es fundamental: “i giovani di oggi non sono come i loro formatori. Ci sono molte differenze” (pp. 33-34). A continuación enumera una serie de factores que hacen compleja la situación: la era del computer, del celular, del internet, de la tv. digital, una formación religiosa superficial y debíl.... Éste es el perfil del joven que se presenta como candidato al Seminario o a la Vida religiosa, y con este tipo de joven deberán trabajar los formadores. Trabajo no fácil ciertamente! 256 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO A estos factores mencionados, yo personalmente añadiría otros dos más: la presencia de una familia débil y permisiva en la sociedad actual; los padres de familia han sido cogidos por sorpresa por la onda de cambios y no encuentran recursos para responder acertadamente a la crisis generacional. Incluso la escuela primaria y la escuela media(o secundaria) recibe su impacto: muchos de los formadores en la escuela deberían llamarse ‘instructores’, pero no ‘educadores’; reducen la formación a mera instrucción, descuidando la educación de la voluntad y del corazón. El P. Prada ha colocado al final de cada uno de los capítulos, ampliamente desarrollados, un ‘allegato’ a modo de elementos prácticos que el formador y el formando podrán utilizar durante el proceso interactivo de la formación. Uno de estos ‘allegati’, inspirado en F. Lorimier, F. Sovernigo y T. M. Ilarduía, aparece con el título ‘Il progetto di vita personale’ (pp. 213-217). Este ‘proyecto de vida personal’ implica algunos presupuestos (proceso, relaciones interpersonales de calidad, discernimiento, motivaciones, actitudes, opciones, acompañamiento y otros elementos psicológicos claves). Implica también los objetivos a alcanzar; Prada sugiere un elenco de 11 objetivos; entre otros, conocerse a sí mismo, tener una imagen de sí y una auto-estima integrales y equilibradas, poseer autonomía e independencia, construirse su propia filosofía de la vida, jerarquizar necesidades y motivaciones, y establecer una prioridad en lavida (pp. 214-215). El proyecto de vida deberá tener cuenta la auto-biografía, el proceso de formación, los ideales y las metas, el tema central que deberá convertirse en prioridad. A todo esto se añade la formación de la conciencia, la base antropológica, el valor ecológico, la evaluación. Todos estos elementos deben inscribirse dentro del ‘proyecto de vida comunitario’: el uno exige el otro, y si uno de ellos llega a fallar, el camino humano y espiritual cojea (...) (p. 217). En un proyecto de vida personal y comunitario, ordenado al sacerdocio o a la vida religiosa, no puede faltar la referencia explícita a Dios centrada en la persona de Cristo. “La vocazione sacerdotale e religiosa – escribe Prada – dal punto di vista psicologico, dipende in gran parte dall’idea che si ha di Dio e dalla relazione di intimità che si vuole realizzare con Lui attraverso Ge- BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 257 sù-Cristo”. A este respecto, Prada recoge dos testimonios científicos: uno de G. Sticker quien llegó a establecer mediante una investigación hecha con 2.255 jóvenes acerca de la relación con los padres de familia y la representación de Dios. De esta investigación resultó que la imagen positiva de Dios está íntimamente unida a la relación positiva con la madre y viceversa. Otro tanto pudo demostrar el P. Prada: partiendo de una muestra con 750 sacerdotes de 3 paises (Colombia, Italia, Usa) concluyó que ‘l’attacamento sicuro alla figura materna era intimamente relazionato con l’adesione al ministero sacerdotale e con bassi livelli di ansia” (p. 152). A este propósito se podría añadir un tercer testimonio: M. Cabada C. en su obra La vigencia del amor subraya la relación entre el amor a los padres y la divinidad. A mi modo de ver, la novedad que el P. Prada plantea en esta obra, a propósito de la formación, radica en la propuesta de una auténtica actitud formativa. Para plantearla, parte del principio general de la complementariedad entre formador y formando, mediante el coloquio o diálogo formativo, que tiene en cuenta los principíos de crecimiento, centralidad de la persona, toma de conciencia, promoción global y armónica, máximo nivel de empeño o compromiso (pp. 258267). Este coloquio tiene unos momentos fundamentales, como son: acoger con bondad, prestar atención, reformular, confrontar, orientar hacia la meta. Queriendo hacer una valoración del libro del P. Prada – Psicologia e formazione – que me ha pedido presentar hoy, me permito hacer 4 afirmaciones: • Se trata de un texto pedagógico de formación sacerdotal y religiosa con fundamento tecnico-científico. El autor afirma que “non ci sono due discipline nelle quali si possono coniugare meglio gli aspetti metodologici concreti come nella psicologia e nella formazione” (p. 15). • Se trata de un texto que es fruto maduro de la investigación científica y de la experiencia formativa y pastoral. Como investigador posee el título de psicólogo, master y doctor en esta especialidad; de otra parte, cuenta con la rica experiencia de muchos años dedicados a la formación, a la docencia y al servicio de la consultoria psicológica. 258 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO • El texto que el autor nos ofrece es un buen instrumento práctico: la metodología de la reflexión es clara y bien estructurada (gráficas, esquemas, síntesis de cada capítulo). El formador encontrará en este libro un compendio actualizado y bien organizado de las perspectivas que las diversas teorías psicólogicas proponen, de las directrices del Magisterio de la Iglesia y la contribución de la experiencia pastoral y formativa. • Se trata de un texto que responde a los desafíos de la formación en el momento presente. Sólo me queda desear que el título del último capítulo de este libro –“Costruire una generazione migliore” – sea la experiencia gozosa de muchos formadores en el futuro inmediato. BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 259 EFFECTIVE RELIGIOUS FORMATION A PSYCHOLOGICAL GUIDE Stephen T. Rehrauer, C.Ss.R.* When Fr. Prada wrote me in September and asked me to present the psychological aspects of his newly published book, Psicologia e Formazione, I was hesitant to accept the invitation. I was uncertain about having to speak about a book I had not seen or read. But I was quite familiar with the many other excellent books Professor Prada had written in the area of psychology. So on the basis of his previous works, I decided to make an act of faith in his favor and I agreed to speak about the book today, remembering that he also was making an act of faith in me by extending the invitation when there are so many others who are more qualified than I. When in October I was finally able to get a copy of the new book and read it, I was not disappointed and my act of faith was more than rewarded. It is an excellent treatment on the use of psychology in religious and priestly formation. In judging a book of this type, which presents itself as a type of manual outlining the possible uses and advantages of psychology, specifically to be used by formators in carrying out their extremely difficult and important work in the Church today, I try to apply a double test. The first test I will call the test of competence and coherence. The work must accurately reflect what the psychologists are saying today, and must apply the discoveries of psychology to the area of formation in a way coherent with the underlying theoretical approaches. The author must not only summarize what a few authors say, and speculate about the utility thereof. He must do so in a way which actually respects faithfully the mind of the psychological author and the integrity of their ideas. And so I read the book the first time from the viewpoint of psychology, assessing whether the psychological material presented is accurate, correct, and coherent. I am happy to say that the book passed the test of competence and coher- * The author is an extraordinary professor at the Alphonsian Academy. 260 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO ence summa cum laude. Fr. Prada is very faithful in his presentation of what the psychologists are saying. He presents the material accurately and effectively. The second test which I apply to this type of work I will call the test of ignorance. Since the book is meant to be used by formators in doing their work, and many formation personnel have little or no background in psychology, I wanted to be sure that the presentation would make sense to those who know nothing about the psychological material presented. Many times people are named to be formators, either for religious congregations or in seminaries, without having been given the opportunity to spend a few years studying psychology, and so in my opinion the book would need to be as easily accessible to these as to professional psychologists. Thus I read the book a second time, trying to read it as one ignorant of psychology. And I am also pleased to say that the book passed the test of ignorance summa cum laude as well. It is very accessible to those who are beginners or unfamiliar with psychology. The theories are explained in very straightforward, practical, and easily understandable fashion. Combining these two different goals in a single work and arriving at an adequate balance between them is extremely difficult. Fr. Prada has done a remarkable job of doing so, for which he is to be congratulated. The book begins with a survey of the major Church documents of the Magisterium dealing with formation for both the priesthood and the religious life, in which he clearly demonstrates that not only is it permissible to make use of the discoveries and the aid of psychology in carrying out the work of formation, but that it is practically obligatory. However, psychology is not to be used as an alternative to religious formation. It is an instrument which is placed at the service of religious and priestly formation. Unfortunately, the latest document from the Congregation for Catholic Education, “Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio,” had not yet been published at the time Fr. Prada’s book went to print, and so it is not included in his initial chapters. But I took it upon myself to compare what Fr. Prada’s book does to what is indicated in this document. I was surprised to see that his work covers quite faithfully almost everything that this new Ec- BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 261 clesiastical document calls for. So in some ways we might say that it even anticipates the direction the Holy See, and might be considered in a small way to be even a prophetic work. It is in the context of the mind of the Magisterium that the content of the book itself is developed. Unlike many other works of this genre, Fr. Prada has chosen not to focus on only one branch of psychology or any one approach to the question of formation. Usually books of this type choose one approach and say everything about formation they can say from within a single paradigm. Fr. Prada instead has chosen a broader and more comprehensive treatment, which in his own words is ‘eclectic rather than a hybrid.’ In so doing, he places psychology at the service of formation rather than allowing psychology to become a paradigm for formation. All of the major branches of psychology are included in the book, from psychoanalysis to humanistic psychology to cognitive to social to neuro-physiological psychology. But each is treated with respect to what it uniquely has to offer in aiding our understanding of one or the other aspect of the formation task. Social psychology is used to deepen our appreciation for the relationship between formator and candidate; psychoanalytical theory is used to deepen our understanding of psycho-sexual development; and if I may be permitted a small chuckle, neurophysiology is even used to remind us of an often forgotten or overlooked fact that both formator and candidates actually have a brain. The book presents us with the information about psychology that we need and will find useful, without boring us with long detailed and complicated explanations of theoretical questions. In adopting this approach, the work becomes a true handbook, because as the formator reads from chapter to chapter, considering each of the differing psychological paradigms treated, and what each has to offer us, we become more cognizant of how complicated a reality formation for both priesthood and religious life is; how many different tasks the formation process entails and how each of these must be properly integrated into a whole. The model of formation presented is an integrated and holistic model. And I was delighted to see that moral formation is included as one of the many identified major formation tasks to be accomplished. This aspect is often not 262 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO specifically included in official ratios for programs of formation, including that of our own Congregation. The work also provides clear criteria for carrying out the formation task. These better enable a formator to know how to do his or her job effectively. Every chapter has a grey sidebar of one or two pages which summarizes the main psychological contribution and provides us with clear practical information about how to apply the psychology to a formation task, demonstrating the special attention both author and editors paid to the didactic quality of the work. In keeping with the perspective set out in Magisterial teaching and well established in psychology itself, Professor Prada reminds us that no two individuals are on the same page in their developmental processes. Each candidate and each formator is an individual with dignity, whose dignity as a human person must be respected in the formation processes and in any application of psychological theory. Thus he describes a stage oriented process for religious formation through which specific growth tasks should be addressed or accomplished before moving to a later stage. He then shows how one psychological paradigm or another can aid the formator and candidate in understanding how to grow beyond where they are at any given moment. The presentation also highlights the need to tailor the formation process not to a generic group where all are presumed to be at the same place. Rather the formator must take the candidate as she is and provide her the formation she needs in order to better understand the vocational call, what it requires of her as an individual, and what needs to be done in order to respond to the vocational call in a responsible fashion. Another aspect which makes this work stand out from other books about formation is Fr. Prada’s recognition that the finality of formation for sacramental priesthood is not the same as the finality of formation for religious life. These are two different realities, with two different ends. This means that the actual processes of formation, and what psychology has to offer in service of these processes, will be somewhat different for each, though at times these do overlap. And so he treats each separately, in a way which those of us who have actually been involved in doing formation of religious priest candidates can understand and appreciate. BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 263 The work is strongly geared to the needs of both sides of the formation equation. Rather than focusing exclusively on the candidate, discussing the candidate’s needs, growth, responsibilities, etc., the needs and obligations of the formator are also addressed. In this way the book respects the deeper aspect of what happens between these two people as a dynamic process which is highly interpersonal and spiritual. The formator discovers in reading the work that formation is not only something required of the candidate. The formator must grow as well, and in forming a continuing formation occurs in the person of the one who directs the formation of others. Personal issues with which formators often struggle are discussed and indications of how to deal with them are offered: how to balance the authority of being a superior with the love relationship of being a confrere; how to provide affirmation of the other in a way which encourages growth, while challenging the other in a way which corrects faults; how to help the other accept limitations while being painfully aware of one’s own weaknesses. In this way, the book reminds those involved in formation that theirs is not a job to be done, so much as an authentic ministry through which those placed in their charge not only experience growth as human persons, but also deepen a relationship with God which will equip them for more effective proclamation of God’s good news to others. And in the process of exercising this ministry the formators as well experience challenges that are a call from God to grow themselves in faith and grace. Personally I found the final section, highlighting concrete problems that formators are likely to face in dealing with candidates, to be extremely helpful and interesting. Here the theory becomes reality in a way which demonstrates the real utility of psychology in helping us actually do formation in tangible concrete ways. His evaluation of Fr. Rulla’s program at the Gregorian University does the same for theory, as he shows how the many elements of psychology treated in the various chapters can realistically be integrated into a practical program of formation for both candidates to priesthood and religious life, and those who form them. In summary, the work is clear, concise, comprehensive and complete but in a very readable fashion. It strikes a remarkable balance 264 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO between theory and practice. There is much in this book which will appeal to those just beginning to do formation ministry, and to those who have been engaged in this ministry for many years. While it is an extremely useful book for aiding those who are charged with religious and priestly formation in carrying out their ministry, it will also be of great help to those working as spiritual directors and pastors. Above all else, from the perspective of one interested in both psychology and theology, it does much to overcome the suspicion that some in the Church have today concerning the empirical sciences. We see a concrete example in this work of how both faith and reason can and should peacefully coexist in a mutually complementary fashion, a point so powerfully emphasized by Fides et Ratio. Psicologia e Formazione shows us how when psychological science is placed at the service of religious formation, it becomes a powerful tool for helping young men and women, born into the current generation, to become more effective ministers and leaders for the future good of our Church and God’s people. Congratulations to Fr. Prada for having produced a work which is a real contribution to the ministry of religious and priestly formation. Congratulations to the editorial board of EDACALF for the decision to publish this book as part of the ministry of the Accademia. Congratulations to the rest of us for having available to us a book like this. BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 265 PSICOLOGIA E FORMAZIONE José Rafael Prada Ramírez, C.Ss.R. Lo scorso 30 Ottobre 2008 è stato presentato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, nella Sala Stampa della Santa Sede, un documento sul ruolo delle competenze psicologiche nella formazione presbiterale, con il titolo Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio. Questo mio libro vuole essere un tentativo di concretizzare il servizio che la Psicologia può prestare nella formazione tanto dei candidati al Presbiterato, quanto di quelli che cercano la Vita Consacrata. Nel prologo del libro presento i quattro fondamenti della mia esposizione: 1. Credo nel mistero della persona umana, di Dio e di colui che è chiamato alla vocazione sacerdotale e religiosa. La psicologia si avvicina, ma non cerca di spiegare o decifrare il mistero. 2. Sono sostenitore acerrimo, come aiuto per i sacerdoti e religiosi, di una formazione razionale, nella quale gli elementi delle scienze umane, specialmente della psicologia nel mio caso, hanno un posto, in pieno diritto, per offrire i loro punti di vista. Non si può avere paura della scienza; la paura è cattiva consigliere. 3. Sono incline a credere che la formazione della coscienza sia il vero cammino di qualsiasi metodo pedagogico, religioso o morale che pretenda di aiutare l’essere umano. 4. Do la mia vita perché credo nell’amore e nella capacità di godere della bellezza di Dio, della creazione e dell’altro. Senza godere della bellezza in questa triplice dimensione non c’è vera felicità e auto-realizzazione. In questa presentazione vorrei offrire un esempio psicologico di ognuna di queste mie scelte e proposizioni: • Il mistero della persona. La Psicologia aiuta, ma non spiega né determina l’aspetto religioso e vocazionale della persona. Lo psicologo non appartiene all’equipe dei formatori, è soltanto 266 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO uno specialista da consultare, ma che non decide. Sarebbe un pessimo aiuto, se il formatore gli confidasse la decisione di chi ha vocazione o meno, di chi passa al noviziato e di chi deve essere ammesso agli ordini sacri. • La formazione razionale. Tante volte il vescovo o il superiore religioso si dimenticano del saggio principio che “la grazia si costruisce sulla natura” e lasciano andare avanti un ragazzo o una ragazza che non si trova affatto in un processo formativo positivo, con la scusa che i voti perpetui o l’ordinazione sacerdotale daranno la grazia di Dio e che quel candidato o candidata saranno dei buoni sacerdoti o religiose nel futuro. Niente più di sbagliato. Essi non conoscono, o si dimenticano di uno dei principi fondamentali della psicologia, vale a dire il “rafforzamento”, che è un’arma potentissima per incrementare la probabilità di qualsiasi condotta. Per i sacerdoti e per i religiosi non c’è, forse, un rafforzamento più grande nella loro vita che l’ordinazione sacerdotale o i voti perpetui. Se il candidato, però, prima di questi impegni, comincia ad andare psicologicamente e spiritualmente in discesa... l’ordinazione o i voti aumentano questa cattiva discesa, e non la risposta onesta davanti al Signore e alla loro coscienza. Già il Vangelo di Luca (11, 24 ss.) afferma che uno spirito immondo esce dall’uomo e non trovando riposo dice: “Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui entrano e vi alloggiano, e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della prima”. • La formazione della coscienza. La psicologia dinamica insegna che le persone che si controllano da se stesse (locus di controllo interno) hanno più esito nel raggiungere gli ideali, le mete, gli obbiettivi, che le persone che si controllano perché gli altri li controllano (locus di controllo esterno). Dunque, nel processo di formazione sacerdotale o religiosa i nostri sforzi devono essere orientati alla formazione della coscienza che, come dice il Vaticano II nella Gaudium et Spes n. 16, è “il nucleo più intimo e il sacrario della persona”, il luogo più segreto nel quale s’incontrano Dio e l’essere umano. L’Accademia Alfonsiana è una fa- BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 267 coltà specializzata nel tema di formazione della coscienza, argomento tanto amato da sant’Alfonso e dai Redentoristi. • Capacità di amare e di godere della bellezza di Dio, della creazione e dell’altro. Questa capacità di amare nel sacerdote e nel religioso deve essere sublimata. Ma la sublimazione, nelle parole di Sigmund Freud, non si dà, se prima non si è data la rinuncia totale “all’oggetto sessuale amato”. In altre parole, non esiste la sublimazione parziale: o tutto o niente. Ecco perché la castità tante volte non è il risultato pieno e integrato dell’innamorarsi di Dio, e tramite Lui, vederLo/sentirLo nella bellezza dei fratelli o della natura. Non bisogna dimenticare: chi non ha dato tutto, non ha dato niente. Vorrei finire queste mie parole da psicologo con la frase dello psichiatra italiano Vittorino Andreoli, conosciuto internazionalmente, il quale, non essendo credente ma sì rispettoso del sacro, ha scritto nel suo libro Preti, pubblicato nel 2009, il seguente pensiero: “La Chiesa vuole che i suoi sacerdoti siano santi, io da psichiatra vorrei che fossero sereni e, almeno alcune volte, felici”. Io, da psicologo e prete, aggiungerei: “la maggior parte delle volte felici”. Ecco perché ho scritto questo libro. Grazie tante alle Autorità dell’Accademia Alfonsiana, alla Commissione di EDACALF e alla Commissione delle Attività Culturali, alla signora Stella Padelli che ha fatto la traduzione in italiano con tanto amore; ai miei compagni professori, in modo speciale a Silvio Botero e Stephen Rehrauer, e ai miei allievi. Grazie al Signore che mi ha permesso di scrivere per i suoi sacerdoti e religiosi. 268 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO CARLO LORENZO ROSSETTI LA CIVILTÀ DELL’AMORE E IL SENSO DELLA STORIA Liberazione cristiana fraternità-utopia Rubbetino Editore, Soveria Mannelli 2009, 141p. Réal Tremblay, C.Ss.R.* Vi sono libri le cui piccole dimensioni sono inversamente proporzionali al loro contenuto. Il libro di Carlo Lorenzo Rossetti (R.) è di questo tipo per l’importanza dell’argomento trattato, la profondità e l’originalità degli approcci proposti, l’erudizione, la chiarezza della struttura dell’insieme e dell’esposizione. Non insisto su siffatte qualità che fanno di questo libro un’opera da leggere, da studiare penna alla mano, per fissare subito la mia attenzione su un dato dell’opera (altri dati saranno probabilmente messi in rilievo dai miei colleghi qui presenti) la cui importanza, in sé, è accentuata dalla congiuntura attuale dei rapporti tra Chiesa e mondo. Si tratta in questo caso del ruolo svolto dalla Chiesa nell’umanizzazione della società civile o, più semplicemente, dell’impatto storico-sociale del Vangelo di Gesù. All’inizio della mia esposizione, vorrei trascrivere un passaggio che mi sembra particolarmente rappresentativo della visione dell’autore sull’argomento. Dopo averne esplicitato il contenuto che farà già intravedere qualcosa dell’ampiezza del pensiero dell’autore, rischierò una domanda, domanda di natura tale, mi sembra, da far progredire ancora il pensiero. Dunque, cito: La liberazione cristiana, proponendo una “sovra-fraternità” conferma e corrobora la semplice fratellanza universale. La Chiesa ha la missione di “salare”, “illuminare” (cf. Mt 5, 17) questa verità iscritta * Professore ordinario dell’Accademia Alfonsiana. BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 269 nella natura umana. Non certo dissolvendo la fratellanza cristiana nella fratellanza universale – ovvero riducendo con indebita equazione la prima alla seconda – ma piuttosto facendo brillare la luce propria della Koinonia ecclesiale. Quanto più la Chiesa sarà comunità di fratelli in Cristo, tanto più il mondo riconoscerà la fratellanza universale. Quanto più i cristiani testimonieranno della vittoria di Cristo sulla morte, della vita eterna, della paternità adottiva di Dio, tanto più la società si aprirà alla speranza umana, all’apprezzamento della vita, al riconoscimento dell’esistenza di Dio. Così come il vangelo del Dio fatto uomo perché l’uomo diventi Dio ha fermentato al punto di indicare il valore sacro della persona umana, così il vangelo della comunione fraterna nello Spirito Santo deve fermentare in modo da rivelare la creaturale ed universale fratellanza1. Per R., la “liberazione cristiana” si definisce in termini di fraternità. In quale senso? Vi è, “iscritta nella natura umana”, una “fratellanza universale” fondata sul Dio creatore. Oltre a questa, vi è una “fratellanza soprannaturale e trans-politica” che si ricollega al dono divino della filiazione adottiva derivato dal mistero pasquale e che prende corpo nella Chiesa. In base alla sua consistenza, questa “fratellanza” in forma ecclesiae viene vista rivelare e confermare la “fratellanza universale”. L’autore utilizza in questo caso l’immagine del “sale della terra” mutuata da Mt 5, 17. Egli è attento, in questo contesto, a salvaguardare il carattere proprio delle due “fratellanze” in questione. Non vi è riduzione della seconda alla prima, né della prima alla seconda. La condizione di possibilità dell’aiuto che la seconda (“fratellanza soprannaturale”) può a portare alla prima (“fratellanza universale”) è il rispetto della sua consistenza. L’autore passa in seguito al piano esistenziale. Enuncia il principio seguente: più la Chiesa sarà una comunità di fratelli in Cristo, più il mondo o la società riconoscerà la “fratellanza universale”. Precisa ancora il suo pensiero: “quanto più i cristiani testimonieranno della vittoria di Cristo sulla morte, della vita eterna, della paternità adottiva di 1 O. c., 49. 270 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO Dio, tanto più la società si aprirà alla speranza, all’apprezzamento della vita, al riconoscimento dell’esistenza di Dio”. Notiamo qui la corrispondenza dal più al meno: la vittoria cristica sulla morte corrisponde alla speranza; l’esistenza della vita eterna corrisponde al valore della vita umana; il Dio Padre adottivo corrisponde al riconoscimento dell’esistenza di Dio. L’autore precisa ancora una volta il suo pensiero discendendo, si potrebbe dire, fino al fondamento ultimo dei rapporti così concepiti tra la Chiesa e il mondo o la società civile: come l’incarnazione del Figlio di Dio, origine della divinizzazione dell’uomo, ha favorito il riconoscimento del valore intangibile della persona, così il Vangelo della comunione nello Spirito fermenterà in maniera tale da svelare la grandezza della “fratellanza universale”. Tale modo di far uscire il cristianesimo dal particolare o dalla sacrestia, come si direbbe oggi; questo modo di metterlo in legame con il mondo con lo scopo di una promozione di quest’ultimo nel senso indicato sopra e nel rispetto reciproco delle due realtà in questione, mi sembra assai giustificato e andare nella linea del Magistero più recente della Chiesa. Più ancora. Questo modo di collegare la Chiesa al mondo a livello di ciò che è più essenziale all’una e all’altra realtà mi sembra originale e di grande portata per il dialogo, non solamente con il mondo, ma anche con le altre grandi religioni, visto che si radicano anch’esse nel Dio creatore origine della “fratellanza universale”2. E ciò mi conduce a porre la domanda annunciata all’inizio di questa presentazione. Il percorso seguito da R. è il percorso classico dei due ordini (la natura e il soprannaturale) applicato ai rapporti mondo-Chiesa. Ma questo percorso non potrebbe essere approfondito in modo da far meglio risaltare il legame, l’armonia esistente tra i due ordini? Nella prospettiva della teologia cattolica, questo legame è continuamente affermato. Il soprannaturale presuppone la natura, il che implica l’esistenza, come si sa, dell’analogia entis appassionatamente negata da Karl Barth (1886†1968), per esempio, a vantaggio dell’analo- 2 Cf. su questo punto la seconda parte dell’opera. BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 271 gia relationis. Ma questa presupposizione non appare alla fin dei conti meno organica di quanto sembri a prima vista? Per questo non bisognerebbe concepire una cristologia centrata certamente sul mistero pasquale (come fa R.), ma, proprio in ragione di ciò, una cristologia che abbracci, inglobi anche la protologia? Nella linea dei grandi testi della tradizione paolina delle Lettere ai Colossesi e agli Efesini, non bisognerebbe percepire Cristo all’opera all’inizio della creazione (“tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” Col 1, 16)? Il fatto di concepire il Cristo pasquale come all’opera all’inizio della creazione non toglie nulla alla consistenza della “fratellanza” originaria di cui parla R. Ciò piuttosto la conferma, ne precisa i contorni ed evita di lasciar apparire il soprannaturale – fatta salva naturalmente la libertà sovrana dell’amore di Dio a nostro riguardo – come una specie di sovrastruttura aggiunta più o meno organicamente alla natura. Vorrei ora illustrare brevemente queste affermazioni. Il Cristo pasquale creatore conferma la “fratellanza” originaria. Come “primogenito fra molti fratelli” (cf. Rm 8, 29), il Cristo creatore che assiste il Padre nell’opera della creazione istituisce una fraternità fra gli uomini. In che modo? Essendo solidale, mediante la sua incarnazione, con tutti gli uomini ovvero portandoli tutti in sé – “mediante la sua incarnazione, afferma il Vaticano II, il Figlio di Dio si è unito in qualche modo ad ogni uomo” (Gaudium et spes, 22, 2) –, il Cristo segna l’umanità uscita da lui con dei tratti comuni che rinviano o ricollegano i suoi membri gli uni agli altri come i componenti di una stessa famiglia. Il Cristo pasquale creatore precisa i contorni della “fratellanza” originaria. Essendo comunione con il Padre a seguito del suo sacrificio purificatore, egli segna gli uomini con un’apertura, uno slancio verso Dio i cui tratti non sono solo dell’ordine dell’Infinito, ma dell’ordine della paternità e della filiazione. Si potrebbe parlare in questo caso di una “predisposizione” alla filiazione iscritta già, per così dire, nel DNA del cuore umano. Certo, questi tratti non hanno ancora la consistenza della filiazione e della fraternità ottenute mediante la fede e il battesimo cristiano, ma vi è come un profilo, uno schizzo, un abbozzo di ciò che avverrà. Si potrebbe così definire questa “predisposizione” in termini di persona, ma “persona” compresa non sola- 272 BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO mente come apertura infinita, ma anche come aspirazione più o meno viva – secondo i contesti culturali, religiosi ecc. – a un Dio Padre e ad una umanità-fraternità. Il Cristo pasquale creatore evita che il soprannaturale sia un rivestimento della natura. La presenza del Cristo pasquale alla creazione non solo attiva in un senso più consistente la tensione, lo slancio dell’uomo verso l’Altro e gli altri, ma prepara organicamente l’avvenimento della rivelazione della paternità divina e della filiazione adottiva. In questo modo, il coronamento divino dell’humanum non riposa su una struttura preesistente inadatta, o più o meno commisurata alle dimensioni del divinum, con la conseguenza di far apparire quest’ultimo come un’aggiunta, un artificio, alla creazione. Esso si ricollega a degli addentellati che conferiscono all’edificio la sua armonia nella sua unità. Notiamo che gli “addentellati” qui in questione non vengono a condizionare o a determinare la libertà sovrana di Dio. Esse sono tali perché hanno le loro radici nell’amore eterno di Dio, che, da tutta l’eternità, ha deciso di creare l’uomo per filializzarlo in Figlio (cf. Ef 1, 4). Questa cristologia che abbraccia o ingloba la protologia a partire dall’escatologia non indebolisce né contraddice il disegno di R. di vedere la società civile e la civiltà che ne emerge bonificata, insaporita, per restare nella logica dell’immagine evangelica del sale utilizzata dal nostro autore, mediante la “fratellanza cristiana” vissuta nella Chiesa; essa piuttosto la consolida e la rafforza. Parlavo sopra di una domanda di natura tale da far progredire il pensiero. Alla luce di ciò che è appena detto, la propongo ora formulandola in questi termini: non bisognerebbe arricchire la cristologia di questo piccolo libro, che ne è già pieno fino all’orlo, in modo che Cristo sia compreso nella maniera seguente: colui che, mediante la resurrezione tra i morti, è per sempre, è anche, mediante questa stessa risurrezione, da sempre; colui che di questo modo post-esiste in Dio, in Dio pre-esiste e crea con lui l’universo. Insomma, si tratta qui di una cristologia dove “la verità escatologica rinvia alla verità protologica” (B. Sesboüé). Concludendo, vorrei segnalare che il “più” o l’arricchimento che rappresenta il tipo di “fraternità universale” presentata sopra non BOOK PRESENTATION / PRESENTACIÓN DEL LIBRO / PRESENTAZIONE DEL LIBRO 273 modifica sostanzialmente la consistenza della fraternità che viene dalla sola ragione, anche se i suoi fondamenti provengono dalla fede. Senza negare l’importanza di questi fondamenti, non è innanzitutto di essi che si tratta nei rapporti tra Chiesa e mondo o nel dialogo interreligioso, ma del carattere razionale di ciò che ne se deduce. Realizzazione editoriale SERVIZI INTEGRATI PER LA GRAFICA, LA STAMPA E L’EDITORIA [email protected] Stampa Tipografia Mancini s.a.s. - 2010