estratto - Laurana Editore
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estratto - Laurana Editore
RIMMEL narrativa italiana 16 direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica e interni: Studio Grafico Ceccherini, Milano utili consigli: Giulio Mozzi ISBN 978-88-96999-83-7 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2013 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano www.laurana.it - [email protected] Flavio Villani l’ordine di Babele LAURANA EDITORE L’ordine di Babele, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, non è un romanzo storico, e ciò nonostante l’abbondanza di fatti di valore storico ivi contenuti. Tale genere di ricostruzione si basa sempre su un’interpretazione del tutto personale delle fonti utilizzate, a maggior ragione in un contesto privo di velleità storiografiche come questo. La relazione fra Storia, con la esse maiuscola, e storie individuali è quanto mai complessa: sono convinto che i romanzi possano esplorare tale relazione con grande efficacia. I fatti qui riportati sono stati per me un affascinante fondale contro il quale muovere i personaggi di questa narrazione. Su di essi e sulle loro relazioni si accentra buona parte del mio interesse di scrittore e di uomo. F. V. A mia madre. Ecco, essi sono un popolo solo e hanno tutti un medesimo accento: questo è il principio dell’opera loro. Niente ormai impedirà loro di condurre a termine tutto quello che hanno in mente di fare. Orsù dunque, scendiamo e confondiamo quivi il loro accento, in modo che l’uno non comprenda l’accento del suo vicino. Così il Signore li disperse sulla faccia di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città alla quale fu dato perciò il nome di Babele, perché là il Signore aveva confuso l’accento di tutta la terra e di là il Signore li aveva dispersi sulla faccia di tutta la terra. Genesi 11, 6-9 Parte prima I. Alfa e Omega /1/ Saigon-Cholon, 10 febbraio 1948 Intorno alle 2 del pomeriggio Il Capitano lo sa che Bay Vien non è un tipo qualunque. L’ha sempre saputo. Per questo sa anche come trattarlo. Che lo chiamino “Mostro”, per lui è un dettaglio. Niente di più. Basta non farci caso, non considerarlo un problema, al più una insignificante sfumatura. Loro, in fondo, fanno affari, il resto non conta. Il Capitano lo sa che Bay Vien è uno con cui è meglio non avere problemi, ma comunque nel suo bordello si sente al sicuro. Nessuna minaccia incombente. Rischi zero. Anche se in certi settori lavorativi non si può mai dire, e le sorprese sono appena dietro l’angolo, neppure il mostro è tanto pazzo, di certo neppure lui s’azzarderebbe ad alzargli un dito contro. Anzi, lui, il Capitano, considerato lo stato delle cose nella colonia, ora è la sua unica speranza. Comunemente si parla di “ancora di salvezza”, ma forse qui sarebbe più opportuno usare un’altra metafora: le ancore, a volte, si utilizzano per zavorrare i corpi che si vuole 11 far sparire. E là fuori, in mezzo alle acque limacciose di Rung Sat, di corpi ce ne deve essere un gran bel numero. Il Capitano i corpi preferisce studiarli. Molto più che affondarli nel fango o farli a pezzi. Un vezzo, fra i tanti. Raro in questi luoghi e di questi tempi. Di solito corpi giovani. Adolescenti. Possibilmente dalla pelle ambrata. Possibilmente senza difetti, di quelli visibili a occhio nudo, almeno. Maschi o femmine, poco importa. Il Capitano pensa al lato estetico di ogni questione. Il brutto l’annoia. Sarà per questo che non gli piace guardarsi allo specchio e le teorie sul bello sono la sua passione. L’errore del Capitano, se un errore c’è, è di cercarlo lì, il bello. Il Capitano: forse, in un’altra vita, sarebbe potuto essere un dandy. Inoffensivo. Elegante, gran parlatore. Non in questa, però. In questa no. Il Capitano per Bay Vien è disposto a fare un’eccezione. Si tratta d’altro. È chiaro. Interessi più elevati. E quell’uomo, il Mostro, come soggetto di studio è di sicuro interesse. Antropologicamente parlando, s’intende. Il suo corpo parla. Enorme è l’aggettivo più adeguato. Di una enormità mostruosa, ma non flaccida: energica, con tutta quell’energia che s’immagina sopita nella penombra del pomeriggio, in un sonno-non sonno, pronta a liberarsi, improvvisa, devastante. Con il collo possente potrebbe reggere, senza difficoltà, il peso di un toro. Ed è con le sue mani, morbide e perfettamente curate (d’altra parte passa buona parte delle sue giornate dalla manicure), che ama finire i prigionieri. I pochi che gliel’hanno visto fare, e sono tornati vivi per raccontarlo, descrivono la scena rabbrividendo nonostante il caldo soffocante. Quando succede il rito è sempre uguale: nello scantinato della sua villa in puro 12 stile palladiano, costruita sulla parte declive e più asciutta della palude di Rung. Laggiù, ai margini della palude, quella villa potrebbe benissimo essere un’immagine allucinatoria, con i suoi loggiati classici, ariosi e deserti, le ampie finestre, le linee armoniche, i rapporti perfetti, e il marmo di Carrara bianco e screziato nel sole accecante del mezzogiorno, ma poi evanescente, tutto quel bianco marmoreo, spettrale contro il cielo livido del crepuscolo tropicale. L’ha progettata un architetto italiano sbarcato da uno dei tanti bastimenti dall’Europa in perfetta tenuta coloniale: abito di lino bianco fresco di stireria e il casco a guscio di tartaruga ben calcato sulla testa; scappò subito dopo l’inizio dei lavori, terrorizzato dal clima, dagli insetti, dagli uomini, e non fece a tempo a vedere il risultato finale. La stanza nello scantinato è priva di finestre, il pavimento e i muri sono di cemento ancora grezzo, una lampadina pende dal soffitto. Il condannato è adagiato su di una sedia posta al centro della stanza, nudo, di solito pressoché privo di coscienza, le braccia e il capo abbandonati, penzoloni. Il Mostro entra, si avvicina lentamente, pachidermico ma leggero, con alcuni passi di danza. Gli occhi invisibili dietro alle lenti scure da vista montate su pesanti occhiali neri che porta sempre sul naso, giorno e notte. Si abbassa sul prigioniero, ne abbraccia il corpo disarticolato e lo solleva. Non sembra che questa azione gli costi alcuna fatica, come se quel corpo, privato della sua reale sostanza, sia ridotto a un nulla privo di peso. Lo tiene sollevato con un solo braccio intorno al torace mentre con la mano libera ne accarezza il capo dolcemente, gli bacia il viso coperto di sangue, poi, con delicatezza, fa scivolare entrambe le mani alla base della testa. Rimane così, per qualche secondo, a guardare dritto in faccia la sua vittima, con le mani grandi, morbide, 13 profumate, perfettamente curate, salde ai lati del collo, proprio nel punto esatto dove si congiunge alla base della testa. Gli sorride, avvicina la bocca all’orecchio come se dovesse raccontare una facezia a un amico, mormora qualche parola che nessuno mai riesce a cogliere. Qualche volta la vittima ascolta e socchiude gli occhi. Annuisce. Un movimento impercettibile della testa. In quel momento il contatto con quelle mani deve essere piacevole, tanto che la vittima appare quasi rappacificata. Poi, quando lui decide che è arrivato il momento, imprime al collo un movimento di rotazione di quasi centottanta gradi, progressivamente più veloce e senza interruzioni. Il rumore è secco quando il collo, a fine corsa, si spezza e il corpo si affloscia come una marionetta fra le sue braccia. Dicono che si tratti di una sua particolare forma di misericordia, parola che in realtà non fa affatto parte del suo vocabolario. Ma dopo che i suoi uomini hanno concluso il loro lavoro sul corpo del disgraziato di turno, il collo spezzato è una vera e propria benedizione. Quando s’incontrano, quel 10 febbraio, intorno alle due di un pomeriggio già incredibilmente afoso, nel bordello più elegante e meglio fornito di Cholon, Bay Vien è in difficoltà. “Devi allearti con noi”, dice il Capitano, “vi stanno braccando. Hai già perso Rung Sat con la tua bella villa. Dove cazzo vuoi rintanarti?” “Lo sai il problema”, fa Bay Vien muovendo appena le labbra, senza scomporsi. “Hai scelta?” Bay Vien, il Mostro, l’uomo che ama finire i prigionieri rompendogli il collo con un solo rapido movimento delle sue forti mani, socchiude gli occhi, incerto. Al Capitano 14 ricorda uno di quei rospi, grandi e forti, appostati nell’acqua bassa e torbida della palude in attesa di preda. Nessuno vorrebbe stargli intorno in quelle ore. Nessuno sano di mente, perlomeno, o che non abbia un ottimo motivo per stargli intorno, proprio in quel momento. In sostanza: nessuno che non ne abbia un tornaconto. “Cosa vuoi che faccia?”, dice il Mostro con calma, le mani con le grossa dita incrociate, appoggiate mollemente sull’addome prominente. “Tu e i tuoi uomini mi date una mano a fare piazza pulita. Ne ho piene le palle dei comunisti. Al nord avanzano, e le cose si stanno facendo piuttosto confuse. Da Parigi fanno pressione, vogliono risposte, e io invece non voglio i loro emissari a ficcare il naso nei miei affari”. “I miei affari”. “I nostri affari. Voglio sperare che la tua fosse solo una piccola svista. Sai quanto sono permaloso”. “Non è cambiato nulla. La tua parte l’hai sempre avuta. Capitano. Non è vero?” “Si gestiscono. Al solito”. “Vuoi dire che io li gestisco e tu incassi”. “Fatti una scopata, Bay Vien. Rilassa, sai? E qui offre la ditta. Sono le migliori. Puoi anche farti una vergine, se ti va, o un ragazzino, se hai gusti più esotici”. “Lo so. È roba mia”. “Davvero?” “Sei tu l’ospite qua dentro, Capitano. Ricorda”. “Ospite? Vedi, Bay Vien: su questa cosa ho un’idea del tutto opposta. E poi, oggi, è meglio che tutto fili liscio come l’olio. Non mi piacciono i conti in sospeso”. Bay Vien solleva la mano destra con un movimento lento e non casuale. Un uomo, il suo consigliere, un cinese picco15 lo e dall’aria da contabile, spunta all’improvviso da dietro uno dei pesanti tendaggi che schermano la stanza dalla luce del sole. Mentre scosta la tenda una lama di luce attraversa per un attimo il viso di Bay Vien. Minuscole particelle di polvere fluttuano, lente, nell’aria. L’ometto, il contabile, si abbassa con riverenza fino all’altezza della bocca di Bay Vien. Lui dice qualcosa. L’ometto annuisce un paio di volte, poi si raddrizza e, rivolgendosi al Capitano con la voce stridula di chi è abituato a dare ordini per conto di qualcun altro, dice: “Bay Vien ha detto: l’alleanza si può fare. Gli uomini del Binh Xuyen si uniranno agli agenti del Bureau per stanare i comunisti e farli a pezzi. Ma gli agenti del Bureau dovranno rendersi invisibili. Non siamo collaborazionisti. La nostra milizia è nazionalista. Ci libereremo della feccia rossa e presidieremo le strade, apertamente. Voi ci supporterete senza mai farvi vedere. Prendere o lasciare”. “Prendere o lasciare?” “Ti ripuliamo Saigon dai comunisti”. “Va bene. Il resto?”, dice il Capitano, scuotendo la testa in attesa del resto. “Il resto lo sai”. “Non basta, Bay Vien. Mi pare che facciate buoni affari con le lotterie e tutto questo”, fa il Capitano indicando con un ampio gesto della mano i muri del bordello, “ma te l’ho detto: non basta”. “Parla”, dice il cinese. “Lo sai come si dice, carpe diem. L’oppio è il futuro”, fa il Capitano, sorridendo. Il cinese rivolge lo sguardo a Bay Vien. Bay Vien annuisce impercettibilmente. Il cinese dice: “A Bay Vien va bene. Avrai la tua parte nell’oppio”. 16 “Bene”, fa il Capitano, “non ci resta che brindare”. Il contabile tira il cordone di un campanello, nascosto dietro la tenda. Nessun suono. Pochi secondi dopo una delle puttane, un’adolescente mezzosangue, biondo platino, entra con teiera e tazzine e le appoggia sul tavolino fra Bay Vien e il Capitano. Forme perfette nell’abito attillato rosso, con un dragone ricamato in oro. “Il rosso porta fortuna”, dice il contabile mentre versa il tè. I due bevono a piccoli sorsi. La puttana rimane in piedi vicino alla porta, il tronco rispettosamente flesso in avanti. “Ti piace? Non sembra un’americana? Magari un’attrice del cinema. Si chiama Laila, Capitano. È tua”, dice il cinese. “In amicizia”, aggiunge indicando la ragazza sempre immobile accanto alla porta. Il Capitano sorride e, rivolgendosi direttamente a Bay Vien, dice: “Va bene, grazie per il gentile omaggio, ma ne ho vista anche un’altra, di là, sui dieci o undici anni, credo sappiate di chi parlo. Fammele recapitare, Bay Vien. Alla piantagione”. Dice questo il Capitano, e senza attendere la risposta si alza ed esce dalla stanza. L’auto attende il Capitano davanti all’ingresso secondario del bordello, nel vicolo sul retro. Vincent – il suo uomo – se n’è rimasto tutto il tempo seduto al posto di guida, nonostante il caldo, lo sguardo fisso sul nulla, stretto fra i muri grigi di quel vicolo asfittico. Il finestrino spalancato, il braccio sinistro fuori, penzolante oltre la portiera, la Gauloises accesa fra indice e medio. La mano grande, sproporzionata rispetto al resto del corpo, forte e quadrata, da boxeur, chiusa a pugno. Aspira 17 di tanto in tanto una boccata. Lentamente. Senza fretta. Scuote la cenere con colpi secchi del pollice contro il moncherino di sigaretta stretto fra le dita. Subito se ne distaccano minuscole scintille che per un attimo s’innalzano, ascendono nell’aria per ricadere immediatamente nell’atmosfera pesante d’umidità. L’uomo ha il viso scavato. Guardandolo qualcuno potrebbe pensare a un asceta, un uomo senza vizi, le cui virtù sono affilate almeno tanto quanto il suo viso scavato. Qualcun altro, invece, immagina un uomo spietato, ma forse l’aggettivo è insufficiente per definirlo correttamente. Sarebbe meglio: un uomo duro che può essere, quando necessario, cattivo. “Che figlio di puttana questo Bay Vien”, fa il Capitano entrando nell’auto. “È convinto di essere sempre un poco più furbo di te”. L’uomo alla guida lascia che l’auto scivoli sulla strada sconnessa del vicolo senza troppe scosse. “Tutto bene?”, chiede dopo qualche secondo di marcia in completo silenzio, lo sguardo fisso sulla strada. Intorno solo baracche fatiscenti dai tetti di lamiera arrugginita. “Tutto benissimo”. “Allora?” “Lo farà”, risponde il Capitano. “Farà il lavoro”. “Bene”. “Che schifo di posto”, fa il Capitano soffermando lo sguardo su un gruppetto di bambini che corrono nudi fra pozzanghere fangose che occupano buona parte della strada in terra battuta. “Guarda lì”, dice indicando il gruppetto, “sì, un po’ d’ordine farà bene a tutti. S’inizia a non capirci più nulla”. “Gli accordi?” 18 “Ottimi”. “Ottimi?” “Per noi”. “Bene”. “Hai parlato con il Dottore?” “Non di recente. Perché?” “Voglio che si tenga pronto”. “Per cosa?” “Ci saranno prigionieri da interrogare”. “Lo chiamo”. “Cazzo, manca l’aria! Come hai fatto a resistere chiuso qui dentro?” “Ti ho aspettato”. “Cristo, questa non è una risposta. Ci saranno almeno trentacinque gradi. E l’umidità!” “Ho fumato”. “Sei un essere a sangue freddo”. “E non sei contento?” “Lo sono”. “Sicuro?” “Certo che lo sono, Vincent”. “Dove ti porto?” “Solito. Dimenticavo, Vincent: auguri. Festeggi il Tet con tua moglie?” “Al circolo, credo”. “È oggi, vero? Con questo clima al capodanno non ci si pensa proprio”. “Non che m’interessi, ma Isabelle… sono giorni che pulisce casa da cima a fondo”. “Perché?” “Qualcuno le ha detto che pulire la casa prima del Tet spazza via la sfortuna”. 19 “Cazzate da selvaggi”. “Lo so”. “Comunque fai bene, le mogli ogni tanto bisogna pur accontentarle. Scoparle deve essere faticoso con questo caldo”. “Spesso non capisco neppure cosa vuole”. “Fatti furbo, Vincent. Fatti furbo”. “Con lei non mi riesce”. “Capisco. Sai che dicono che il ’48 sarà l’anno del topo?” “Qui ce ne sono fin troppi, di topi”. “Ragione di più per fare piazza pulita”. “Già, hai proprio ragione”. Mentre parlano la strada migliora sensibilmente, diventa più regolare, e a tratti si copre d’asfalto; le case si fanno meno fatiscenti; di bambini cenciosi non se ne vedono più, sostituiti da file di venditori ambulanti fermi lungo il bordo del marciapiede; compaiono, due o tre gradini più su del piano stradale, decine di negozietti bui, stipati di mercanzie a poco prezzo, decorati da bandiere e insegne piene d’ideogrammi e grandi lampade rosse di carta di riso. La strada si riempie progressivamente di centinaia di biciclette e risciò e corpi umani. Quella massa in continuo movimento occupa la carreggiata rendendo difficile il progredire dell’auto verso Saigon. “Dai Vincent”, dice il Capitano, “schiaccia il clacson e fa’ scostare questi pezzenti, non ne posso più di questa gente, voglio tornare alla civiltà”. Vincent annuisce e inizia a suonare: “Ci vuole altro per smuoverli”. “Una bomba. Quella andrebbe benissimo”. 20 /2/ Parigi, 18 dicembre 1952 Intorno alle 4 del pomeriggio In un Palazzo, diecimila chilometri a ovest di Saigon, un tipo grassoccio, dall’aspetto bonario, grigio al punto da risultare invisibile fra la folla che si accalca lungo le banchine della metropolitana, punta il suo dito lievemente sudato su un microscopico dettaglio di una mappa mondiale, e pronuncia un discorso – in piedi, davanti ai suoi colleghi – con tono calmo, ma non esageratamente meditativo. Scandisce, il tipo grassoccio e bonario, con precisione, in una prosa accurata e immediata, ogni parola. Inizia così [con un certo distacco, il tono è scientifico]: l’Indocina è un crocevia strategico, da sempre indispensabile per la nostra politica nel Sud-Est Asiatico. [ora inspira profondamente e abbassa la voce] Oggi la situazione militare e politica di quel teatro – strategico per i nostri interessi – non ci permette di sperare realisticamente in una risoluzione positiva della crisi in corso. [il tono della voce si fa più alto, il suo atteggiamento più deciso e combattivo] Dobbiamo essere 21 concreti. [quasi melodrammatico] Un accordo si può trovare, ma occorre resistere, resistere almeno un altro anno o due. Trattare. Segretamente. Non importa quali sacrifici. Non importa chi siano i nostri interlocutori. Non importa se dobbiamo affamare quella gente o spazzarla via con ogni mezzo. La posta in gioco è troppo alta! Le operazioni militari e di polizia non devono essere interrotte. I nostri uomini sono pronti a tutto. [il tono si fa più serio, quasi aulico] Ne va della dignità, ma, più di tutto, della futura grandezza della Francia. L’umiliazione di una evacuazione senza condizioni, soprattutto sull’onda di una sconfitta militare, sarebbe letale per la nostra immagine di grande potenza. [alza ancora la voce, punta il dito sull’Europa] Abbiamo vinto la guerra e pretendiamo, dico pre-ten-dia-mo che il nostro ruolo nella comunità internazionale sia riconosciuto senza ambiguità. [di nuovo meditativo, a tratti sognante] Ecco, se oggi potessimo sganciare almeno un ordigno nucleare, sarebbe un bel segnale per il resto del mondo, ma per questo, purtroppo, siamo ancora un po’ indietro, non sarà prima del ’60 o ’61. Data la situazione, troppo tardi. Dice queste parole, il tipo grassoccio dal viso liscio e bonario, e aggiunge: la nostra missione, quella che il destino ha voluto affidarci, è di arrestare l’espansione comunista nel Sud-Est Asiatico. I cinesi e i sovietici non aspettano che il nostro disimpegno dall’Indocina. Per noi, fermarli con ogni mezzo è un imperativo categorico. L’alleanza con l’America è salda, ma le cose potrebbero cambiare o, forse, stanno già cambiando, e noi dobbiamo tenere gli occhi ben aperti. Un brusio d’approvazione, poi tutti si alzano, s’infilano cappelli e cappotti e si avviano verso l’uscita. Sul vocio che ora satura la sala s’innalza il suono delle parole del tipo grassoccio e bonario che dice: dimenticavo, cari colleghi, 22 fra pochi giorni è Natale. Auguri a tutti voi e alle vostre famiglie! In coro, tutti rispondono: auguri! Poi si salutano stringendosi le mani e dandosi pacche sulle spalle. È venerdì. Gli impiegati escono dall’ufficio e vanno ad affollare le strade e la metropolitana. Presto saranno nelle loro accoglienti case alla periferia della città. Presto le famiglie saranno riunite. Dietro il Palazzo, oltre le finestre opache, il fiume continua a scorrere quieto. 23 /3/ Saigon, 20 novembre 1953 Il dottore, un uomo anziano e di poche parole, è piegato su di te, stesa, con le gambe divaricate e sollevate nelle staffe metalliche del lettino ginecologico. Le maniche del camice, arrotolate ai gomiti, lasciano liberi gli avambracci magri, coperti di peli bianchi. Le mani rovistano i tuoi genitali tumefatti con movimenti bruschi, indelicati, che imprimono al tuo corpo un movimento a scatti, sussultorio. All’improvviso le mani si fermano: il dottore attende un attimo, poi estrae dalla vagina uno strumento allungato e sporco di sangue. Vi siete accordati per l’operazione (il dottore gli aborti preferisce chiamarli così) un paio di giorni prima. Come sei entrata nello studio lui ti ha squadrata: non passi inosservata così alta, i lunghi capelli scuri, la pelle morbida, tesa e umida sugli zigomi, le labbra perfettamente disegnate dal rossetto carminio. Gli occhi, verdi (un tono raro di giada), sono di una luminosità e dolcezza 24 che, lo sai, lascia interdetti. Anche oggi, nonostante tutto. I tuoi trent’anni, non c’è che dire, li porti davvero bene. E decisamente oltre la media in quanto a bellezza: te lo dicono continuamente. Questo pomeriggio sei deliziosa nell’abitino di lino a fiori rossi e blu. Il tuo accento è del sud. Lui non ti ha mai vista prima. Sei arrivata in ambulatorio da sola, inviata da un collega: il dottor Pierre Kastòr, uno psichiatra che conosce tuo marito per lavoro. Gli racconti di essere una sua paziente. Quando gli hai detto di essere incinta e l’hai pregato di darti una mano a liberarti del bambino, lui ti ha immediatamente spedita lì. Strano. I medici, da queste parti, tendono a tenerseli ben stretti, mica li mandano dai colleghi, pazienti del genere. Un aborto rende. Comunque sia, la presentazione è essenziale. Evita un mucchio di grane. Tu, fra l’altro, non gli hai chiesto neppure quanto dovrai scucire, mentre di solito pare sia la prima domanda. Giorno e ora. Tutto qui. L’ideale. Il dottore deve pensare che sei una tipa decisa o che hai molta fretta, o tutte e due le cose insieme. “Data dell’ultima mestruazione?” “Ventisette settembre”. “Ora la visito. Si può spogliare lì dietro”, dice il dottore indicando il paravento di alluminio e tela bianca nell’angolo meno luminoso della stanza, accanto alla porta. Ti sei tolta scarpe e mutandine, poi hai sollevato l’abito alle anche e sei uscita da dietro il paravento. Senza guardarti in giro ti sei sdraiata sul lettino e hai sollevato le gambe appoggiandole sulle staffe di metallo. Hai rabbrividito, nonostante il caldo. 25 Mentre il dottore ti visita fissi il soffitto sporco, stringi forte i pugni e speri che finisca più in fretta possibile. Alla fine della visita vi accomodate alla scrivania. Lui conferma la gravidanza. “Otto settimane circa. Dovrebbe essere per i primi di luglio”, dice guardandoti fisso. Tu annuisci: hai la sensazione che gli occhi sprofondino e che il viso si sia liquefatto all’improvviso, nel caldo insopportabile del pomeriggio. Allora abbassi lo sguardo sulla borsetta ed estrai un fazzolettino di cotone bianco su cui sono ricamate le tue iniziali: I. S. Lo apri. Con un movimento leggero tamponi il sudore sulla fronte e intorno alle labbra. Le labbra rosse devono essere ancora più evidenti nel pallore del viso. “Sarà meglio che mercoledì l’accompagni qualcuno”, dice il dottore. “No”, rispondi tu secca, “sarò da sola”, prosegui mentre noti il viso grigio-bluastro del vecchio dottore, mal rasato e con lunghi peli ispidi all’angolo destro della mandibola. “Come vuole. Ma sarebbe meglio”. “Arrivederci”, dici stringendogli la mano e, pensando al nulla, lanci un’ultima occhiata al viso grigio-bluastro del dottore. Occhi indecifrabili, ma la mano è gelata, questo pensa il dottore mentre esci dallo studio senza guardarti indietro. Lui si solleva dalla scomoda posizione piegata emettendo un sospiro, getta lo strumento in una bacinella di metallo e si dirige al lavandino. Non ti sei mossa neppure allo sgradevole frastuono metallico dello strumento contro la bacinella. Il dottore si sfila i guanti in lattice e li butta nel cesto pieno di compresse di garza usate, sporche di sangue. Con 26 il gomito spinge la leva del rubinetto. L’acqua inizia a scorrergli sulle mani che sfrega energicamente con il sapone per qualche secondo. Poi si gira verso di te, ancora a gambe larghe sul lettino: “Ecco fatto, signora. Tutto bene”, dice il dottore mentre si asciuga le mani in un panno pulito. Non si aspetta, naturalmente, che lo ringrazi o che dica qualcosa di sensato proprio in quel momento. Per quanto l’anestesia sia leggera, il minimo indispensabile per stordire un po’, è ancora presto per pretendere una reazione logica. Rabbrividendo vomiterai, e allora inizierai a tornare in te. Ma anche allora non avrai voglia di parlare con lui, come, del resto, con chiunque altro. Ti rivestirai, pallida come uno straccio, mettendoti fra le cosce le compresse di cotone idrofilo che lui ti avrà allungato. È allegro il dottore, il più anziano medico francese di Saigon: dopo la partenza dell’ultimo medico condotto, si ritrova una clientela privata che non ha mai neppure osato sognare nei quarant’anni di professione che gli pesano sulle spalle. Meglio così. Non c’è neppure da pensarci. Comunque molto meglio che nella cucina di una praticona, senza anestesia e con un ferro da calza, che è più quelle che ammazza che quelle che libera della colpa. È abile il dottore in queste faccende, anche se oggi pensa di essere stato un tantino troppo frettoloso. Troppi clienti tutti insieme. Non ce la si fa. Comunque: quarant’anni di onorata attività vorranno pur dire qualcosa. Nessun problema con la legge. Uteri ne ha perforati pochi. Procede con attenzione. Di solito non lascia indebiti rimasugli. Ma si sa: le cose succedono. 27 Qualche volta le cose vanno proprio al contrario di come si vorrebbe. E se si tratta di una poveraccia è un conto, ma se è la moglie adultera di qualche ricco possidente o di un burocrate dell’amministrazione coloniale, allora sì che possono esserci guai. E pure seri. Anche la sospensione della licenza e la galera: è la legge. Dicono. Bisogna andarci piano in questo dannato paese: il clima è così umido che le ferite imputridiscono a dispetto di ogni precauzione. Una follia. L’incubo di ogni medico. Ne sanno qualcosa i chirurghi militari. La penicillina a volte non basta a salvare dalla setticemia, e loro amputano anche per ferite banali. Spiacevole. Molto spiacevole quando succede proprio a te. “Appena se la sente si può rivestire. Le girerà la testa”, dice, “è per via di tutto questo sangue. Cerchi di non esporsi al caldo, se ne stia a letto in un luogo fresco e beva tanta acqua. Avrà ancora parecchie perdite, ma niente di più di una mestruazione abbondante e prolungata. Quindi non si preoccupi, vedrà che in pochi giorni tutto ciò sarà un brutto ricordo”. Ti alzi lentamente dal lettino. Muovi le gambe a fatica. Ti gira la testa e, come ti metti seduta, violenti conati di vomito ti fanno piegare in due. Riesci a vestirti a fatica. Non vi dovete dire altro voi due. La busta con i soldi gliel’hai allungata prima. Pagamento anticipato. Non si sa mai. Lui t’accompagna alla porta. Vi stringete la mano. Lui crede che non ti rivedrà più. 28 Tu sai che non lo rivedrai più. Ambedue sapete che ti ricorderai di lui. Per sempre. Arrivi a casa pallida e provata, ma tuo marito non si accorge di nulla. “Oggi non si respira tesoro. Non ti senti bene? Questa sera sono al circolo”. Tu annuisci, ma non dici nulla. Mentre lui si prepara per la serata, ti chiudi in bagno. Il sangue scorre caldo e copioso fra le cosce. Ora credi di essere in pace. 29 /4/ Nei pressi della base aerea di Tan Son Nhut 29 aprile 1975 Intorno alle 3 del pomeriggio Whomp… whomp… whomp… whomp… Le pale degli Huey battono sopra le teste del gruppetto di uomini affranti. Whomp… whomp… whomp… whomp… Battono, e il ritmo è regolare, sempre uguale, sopra le loro teste. Inconfondibile, anche da molto, molto lontano. Whomp… whomp… whomp… whomp… Le palme si piegano e sbattono, risucchiate nel vortice dei rotori. Lentamente. Sbattono lentamente. Almeno, così gli sembra dopo che l’infermiere gli ha conficcato l’ago nella coscia e iniettato la morfina: quello ha strappato la copertura con i denti e gliel’ha piantato con un colpo secco, senza neppure aprirgli i pantaloni. Un colpo secco e via, da sopra la tela bagna30 ta, nella coscia. Nessuna sensazione particolare. Nulla. Non ha sentito nulla. Il liquido è penetrato, lento, nel sottocute, faticosamente fino ai capillari. La pressione si sta azzerando, ha detto una voce, e anche altre parole. Altre parole. Ora lui non le ricorda le esatte parole, ma le ha sentite, di questo è sicuro, qualche istante prima. E il senso era questo: se la pressione arteriosa scende ancora un po’, sei morto. Ci vogliono liquidi, litri di plasma o almeno di soluzione fisiologica, per mantenere la pressione ai livelli minimi accettabili perché gli organi interni siano perfusi e ossigenati a sufficienza, e non è neanche detto che funzioni. Una volta innescato, lo shock diventa irreversibile, qualunque cosa ci si possa inventare, e qui di cose da inventarsi ce ne sono proprio poche. Tutto smette di funzionare. Tutto. E contemporaneamente. I reni. Il fegato. Tutto. Come una centrale elettrica che va in blocco, all’improvviso non funziona più nulla. Collassa tutto. Il liquido trasparente fuoriesce dalla punta dell’ago e si distribuisce lentamente, dal circolo fino ai terminali nervosi. Solo allora c’è un po’ di pace, e tutto inizia a muoversi al rallentatore. La pressione però scende ancora, e la morfina non aiuta. Il dolore però diminuisce, sì, un po’. Whomp… whomp… whomp… whomp… Foglie, cartacce, bende insanguinate (sangue nero, secco), brandelli di uniformi strappate per tamponare ferite che buttano fiumi di sangue da medici accecati dal fumo. Tutto. Tutto viene – lentamente – risucchiato nel vortice bollente dell’aria. Lui, dalla sua posizione sdraiata, supino, vede le cose così: spicchi di cielo, bianco, fra le stoppie intrecciate del tetto della capanna, vanno e vengono con il freddo baluginare del sole. Filtrano, a tratti, immagini distanti, assurde, 31 incontrollabili. Uomini intorno a lui, affannati, sudati, coperti di sangue. Il suo sangue. Parlano e parlano – qual è il tuo nome? ragazzo! ascolta! non ti distrarre! – e piangono insieme a lui, ma non si muovono, non muovono un cazzo di muscolo. Se ne stanno lì, immobili, a guardarlo. Sembra una specie di fotografia sbiadita. Lui invece preferisce seguire gli enormi insetti che girano, oscuri, instancabili, girano sopra di loro, neri come l’inferno. Ampie virate, cerchi, traiettorie imprevedibili s’intersecano, e poi di nuovo fermi, in attesa. Esce dal corpo: immagina: il punto di vista è dall’alto: (ancora quel rumore, whomp… whomp… whomp… il ritmo dei rotori) sotto, brulicare di uomini impazziti. Alcuni di loro fra poco saranno morti. Whomp… whomp… whomp… whomp… Ora tutto è sospeso sopra la sua testa, immobile. Non c’è dolore. Silenzio. Lo sguardo appannato: quanto può durare tutto questo? È il crepuscolo. All’improvviso. Nero, tutt’intorno. La platea di un cinema. Il profumo. Il profumo di te. Oddio. Oddio mio. Esplora la carne tenera come esplori i mille interstizi fra le stoppie intrecciate. Tieniti in vita così. Respira piano. Piano! Conta le stoppie. Non fa male. È la morfina. Il liquido pallido. 32 L’iniezione nella coscia. Morfina. Stai sveglio! Ripeti con me: mor-fi-na. Cazzo! Stai sveglio! Whomp… whomp… whomp… whomp… È così la fine? …la fine? …la fine? 33 II. Babel Bagdad 30 marzo 1975 Ore 14:23 Il nastro dell’audiocassetta gira nei meccanismi del mangianastri con un leggerissimo cigolio, una specie di lamento, lontano, tuttavia acuto e fastidioso. Si sovrappone alla voce umana registrata come un prurito. Un prurito che induce a grattarsi fino a farsi sanguinare. Anche il più equilibrato – sano di mente, si dovrebbe dire – può impazzire per il prurito, finendo per grattarsi con qualsiasi mezzo, le unghie, un ferro da calza, un bastone, qualsiasi oggetto capiti a tiro. È un supplizio. Il supplizio degli scabbiosi. Grattarsi è inutile. Il prurito non passa, anzi sembra poter aumentare all’infinito. Il prurito fa così. Si sovrappone alla vita come quel cigolio acutissimo si sovrappone alla voce registrata. Un fatto della vita, si direbbe. Non avrebbe dovuto farci troppo caso. Tutto lì. La voce è quella di un uomo anziano, morbida, calda, a tratti impostata. Ricercate oscillazioni del diaframma in 35 risonanza con le vibrazioni delle corde vocali. Una voce d’attore. È evidente che quella voce sia alla ricerca di un effetto. Un effetto che faccia riaffiorare un’emozione affondata da qualche parte nella pancia dell’interlocutore. Un’emozione affondata nella pancia di chi ora lo sta ascoltando. Chi ascolta è una ragazza. Si chiama Emmanuelle, come la protagonista di un film che va per la maggiore in questi giorni. Non è un film sfacciatamente porno, ma contiene scene di sesso piuttosto esplicite che la gente vede volentieri. Come l’attrice protagonista del film (che, per chi non lo sapesse, si chiama Sylvia Kristel) anche lei è alta, magra, e porta i capelli castani tagliati corti. Gli occhi, di un duro colore indefinibile, fra il grigio e l’azzurro, li ha probabilmente ereditati dal padre, un uomo che lei non conosce. A parte gli occhi (quelli di sua madre sono verdi, con l’iride screziata da microscopiche pagliuzze dorate che danno allo sguardo una brillantezza e una dolcezza eccezionali), tutto il resto è di origine materna. Dicono che siano gocce d’acqua, madre e figlia, quasi gemelle se non fosse per la differenza d’età. A volte, comunque, le scambiano per sorelle, e sua madre, quando ciò avviene, è felice. Emmanuelle è nata il 14 luglio del ’54 a Parigi, una decina di giorni in ritardo sulla data presunta del parto (era attesa il 4 luglio, altra data storica, guarda caso…), lievemente sottopeso, ma tutto sommato in buona salute, nonostante, a quanto pare, la gravidanza non sia stata delle più facili. Una bambina gracile, pallida e introversa. Giocava per ore da sola, silenziosa e riflessiva, attenta però a qualsiasi cosa le girasse intorno. A un certo punto la bambina è diventata un’adolescente e ha iniziato a farsi e a fare un 36 sacco di domande. Forse si è stufata di osservare in silenzio. Inquieta e volitiva, ecco com’è diventata Emmanuelle. Una donna che ambisce a cambiare il mondo con le proprie mani, e per questo è disposta, se non a tutto, a parecchio, purché non significhi compromesso. Fottutamente esigente, anche: con se stessa e con gli altri. Forse non è un caso che abbia lasciato tutti i ragazzi (non pochi) che ha avuto fino ad allora. Meno uno, sembra. Ma quella è un’altra storia. Quando qualcuno, dopo l’ennesimo colpo di testa, le ha fatto notare che le cose nella realtà non girano mai nel verso giusto (o comunque nel verso che ci piacerebbe), e che se si vuole vivere in pace con se stessi bisogna prenderne atto, ha risposto che per lei va bene così dato che la mancanza di un padre nei primissimi mesi o anni di vita vorrà pur significare qualcosa. Ora quindi questa sconosciuta ha esattamente vent’anni, due in meno dell’attrice Sylvia Kristel che è olandese, mentre lei dal passaporto risulta cittadina italiana. Ma che c’è di più francese della presa della Bastiglia? Per il mondo, comunque, come la gran parte dei suoi abitanti, rimane una straniera e nessuno può immaginare cosa ci faccia lì e perché ascolti la voce prodotta dal nastro magnetico di un’audiocassetta inserita in un mangianastri direttamente importato dall’Europa. È arrivata in hotel, nel centro di Bagdad, non più di tre ore fa. Milano, poi, via Roma Fiumicino, Istanbul, l’aeroporto intitolato ad Atatürk, padre della Turchia laica e moderna. Lì è rimasta in attesa un paio d’ore, nell’aeroporto brulicante, nuova porta verso l’Oriente, in compagnia di uomi37 ni baffuti e donne in minigonna, più occidentali delle occidentali. Il DC9 della Turkish Airlines, volo TK 218, è atterrato in perfetto orario, alle 11 e 23, ora locale. Hanno atteso l’autorizzazione allo sbarco per quasi due ore. Impiantati sul piazzale arroventato, sotto il sole del mezzogiorno. Il comandante, uno scozzese di quarantadue anni, rossiccio e amante dello scotch (Glenlivet è la sua marca preferita), l’ha presa con filosofia. Ha chiesto un caffè, ha sfogliato una delle riviste di bordo e ha scambiato quattro chiacchiere con il suo secondo, un turco di Istanbul sui trentacinque, troppo nervoso per i suoi gusti, che si è lamentato tutto il tempo del Fenerbahçe, fuori dalla Coppa Campioni agli ottavi dopo il due a zero con il Ruch Chorzów. Il comandante invece sorride al pensiero che il Leeds passa ai quarti: tre a zero con gli ungheresi dell’Újpesti Dósza. Sorride e basta, pochi commenti con un tono di distaccata obiettività, mentre dentro freme d’orgoglio. Non vuole infierire sul suo secondo, già abbastanza provato dalla sconfitta della sua squadra del cuore. E poi ha l’impressione che oltre a essere troppo nervoso sia anche un tipo permaloso, come spesso accade agli uomini di quella zona del mondo. L’ha sperimentato a sue spese, e non ci vuole ricascare. Quelli ci tengono alla dignità, ed essere derisi, qualunque sia l’argomento, li frustra al di là di ogni possibile sopportazione. Nessuna motivazione particolare dalla torre di controllo per quell’attesa infinita. I passeggeri iniziano a innervosirsi, e il comandante cerca di rassicurare tutti quanti con la sua voce tranquilla e distaccata, trasmessa nella carlinga attraverso gli altoparlanti, mentre le hostess offrono da bere. Loro non sono preoccupati. Succede. Ci vuole il suo 38 tempo. E da quelle parti di tempo pare che ne abbiano fin troppo. Hanno continuato a parlare dei goal, di Joe Jordan e della sua dentiera. Lo chiamano jaws, Joe Jordan, centravanti del Leeds, come il film di Spielberg appena uscito, quello sullo squalo. Lo squalo. La hostess, una bionda sorridente, dice che non farà mai più il bagno di notte nuda, nell’oceano. I piloti ridono, ma non possono non immaginarla così, nuda, correre su una spiaggia caraibica, la pelle splendente sotto l’argentea luce della notte tropicale. Quel pensiero smuove qualcosa nelle parti basse di quei due, mentre le autorità, quelle no, non si smuovono mica se qualche passeggero inizia a sbraitare, sventolando il passaporto con le credenziali diplomatiche. Se ne fregano e continuano a tenerli là, sulla piazzola di cemento incandescente ad aspettare. Quando alla fine, per motivi all’apparenza imperscrutabili, si sono decisi, la cuffia del comandante ha iniziato a gracchiare parole in inglese. Accento arabo. I passeggeri possono sbarcare, il messaggio laconico. Il comandante lancia un’occhiata al suo secondo e alla hostess, quella bionda e sorridente che non si butterà mai più in mare nuda di notte, e dice: “Ci deve essere qualcuno, là dietro. Qualcuno… E loro, loro, non avranno saputo che fare”. La hostess smette di sorridere. Rabbrividisce e dice: “Fa troppo caldo qui”. Poi, sempre senza sorridere, si avvia ad aprire il portellone. L’hotel dove Emmanuelle alloggia, il Babel, è il migliore di Bagdad, in questo periodo. È una torre di una decina di piani, in cemento armato, che svetta su tutto ciò che le sta intorno. Segno tangibile della faticosa modernizzazione del 39 paese. È stato difficile e costoso tirarlo su, anche per le incomprensioni fra i progettisti sovietici e le maestranze pakistane. Mentalità diverse. Problemi di linguaggio a non finire, alla faccia della rivoluzione mondiale. E anche questo è certo. Comunque il coso sta in piedi e non ha nemmeno troppe crepe nei muri, già un buon passo avanti rispetto alle stamberghe di hotel della città. Ottima la posizione in Haifa Street, sulla riva sinistra del Tigri, nel distretto di Zuweia, a dieci minuti dal centro. Là dentro ci si trova di tutto: faccendieri (americani, sovietici, turchi, italiani, francesi, inglesi, pakistani, libanesi), trafficanti d’armi, boiardi di stato, eminenze grigie, puttane d’alto bordo, eunuchi, petrolieri texani (grandi bevitori), terroristi, petrolieri sauditi (del tutto astemi), agenti segreti, politici in visita di Stato, banchieri svizzeri. Ognuno di loro serve allo stesso scopo. Una cosa soltanto. Lo sanno tutti. La stanza gliel’ha prenotata un uomo che lei non ha mai visto, ma che crede di conoscere. Di quell’uomo gliene ha parlato sua madre. A lungo. Con abbondanza di particolari. Per anni. Una specie di ritornello. Un eterno ritorno sulla bocca di sua madre che, per la cronaca, si chiama Isabelle, ha più o meno cinquant’anni, ma ora che è malata ne dimostra di più. Molti di più. Guardandola gliene daresti una sessantina. Più o meno. La ragazza, Emmanuelle, di quell’uomo se n’è fatta un’idea tutta sua. Magari non troppo realistica. È normale quando pensi che il tizio sia tuo padre, ma non l’hai mai visto di persona e ne possiedi una sola fotografia. Lei la 40 tiene nel portafogli come si fa con le foto dei parenti più stretti, e qualche volta si è pure domandata il perché. Comunque, si tratta di una foto in bianco e nero, piccola e anche piuttosto sbiadita. Lei, fisicamente, se lo immagina com’è lì, in quella foto piccola e sbiadita, scattata nel ’53 o nel ’54, mese più mese meno. La data, scritta a mano sul retro della stampa, è talmente scolorita da risultare quasi illeggibile. Il cinque si legge ancora bene, ma il tre potrebbe essere un quattro, e viceversa. Nella foto ci sono tre persone, due uomini e una donna. Sullo sfondo una costruzione a un piano, architettura tipicamente coloniale, con patio e colonnato, bianca (ma potrebbe essere anche un altro colore chiaro), circondata sui due lati da alte palme svettanti oltre il tetto spiovente di lamiera ondulata: due figure, la donna (al centro) e uno dei due uomini (a sinistra), sono vicine, le spalle si sfiorano. Sembrano a loro agio così vicine. A destra, separato dagli altri due, un uomo alto e magro; la faccia, con gli zigomi alti, è dura, e ricorda quella di un asceta. L’uomo si chiama Vincent Pollack. Al tempo di quella foto, piccola e sbiadita, è ancora il marito della donna al centro della fotografia. Lo è, per quanto se ne sa, da quasi quindici anni. È vestito con un abito grigio completo di gilet. Non porta il cappello. Al contrario degli altri due non sembra per niente a suo agio. A Emmanuelle lo sguardo di Vincent ha sempre fatto paura. L’altro uomo si chiama Pierre Kastòr. Lo chiamano il Dottore fin d’allora, perché dottore lo è, specializzato in psichiatria, anche se la professione negli ultimi anni non l’ha più praticata. Si tratta dell’uomo che lei dovrebbe incontrare oggi, a Bagdad, e che afferma di essere suo padre. È più 41 basso di Vincent, quasi tarchiato, vestito di bianco, una specie di panama floscio in testa. Il viso nella foto non si distingue con chiarezza. Ma, quanto meno, ha un bel sorriso. Sembra uno in grado di mettere a suo agio ogni interlocutore. Potrebbe essere un buon amico. È un’impressione, niente di più. Non c’è da farci affidamento più di tanto. Parrebbe il contrario, ma Pierre è più vecchio di Vincent. Almeno una decina d’anni. Più o meno. A Emmanuelle la sua faccia non ha mai fatto paura. Ma veniamo alla donna al centro: lei è la madre di Emmanuelle. Isabelle. Alta, bruna, nella foto doveva avere circa trent’anni. Deliziosa in un abitino a fiori di lino. Sua madre ora però sta morendo. In Italia. A Milano. In una stanza al sesto piano dell’Istituto dei Tumori. Via Venezian. Vicino all’obitorio di Piazzale Gorini. Nel quartiere che chiamano Città Studi, per l’alta concentrazione di istituti universitari e laboratori di ricerca. Di notte un quartiere a dir poco spettrale. Quando l’ha salutata, prima di partire, respirava peggio del solito. I medici le hanno attaccato l’ossigeno e una nuova flebo. Qualche tempo prima, quando Isabelle stava ancora bene, avevano deciso di tornare a Parigi. Insieme, come una volta. Un viaggio di ricordi. Infanzia e dintorni. Quando se lo sono detto sembrava una cosa bella e semplice. Anzi, semplicissima. Basta decidere e andare. Decidere e andare. Tutto qui. Lei ora non sa se farà a tempo a rivederla. Il volo di ritorno, Turkish Airlines TK 219 delle 15 e 30 per Istanbul, è prenotato fra due giorni. Potrebbe essere troppo tardi. Potrebbe essere che sua madre, quando atterrerà a Linate, non ci sia già più. 42 Il tragitto dall’aeroporto, solo una quindicina di chilometri dal centro città, l’ha effettuato a bordo di una Mercedes 280, 185 cavalli, nera, solo per lei. Mai successo. Vetri oscurati: tu vedi fuori ma nessuno può vedere all’interno. I vetri oscurati sono utili anche per ripararsi dal riverbero quasi insopportabile del sole del primo pomeriggio. Non è abituata a lussi del genere. I suoi genitori ci pensano bene anche solo per prendere un taxi. Preferiscono i mezzi pubblici, dicono. Anche se non sono taccagni ai soldi ci stanno attenti. Molto attenti. Qualcuno l’aspettava all’uscita dalla dogana. Un tipo con un cartello con il suo nome impresso a caratteri cubitali: si è fatto capire a segni e l’ha accompagnata, portandole la valigia, fino all’auto. Lì l’ha salutata con cordialità e se n’è andato. L’autista, un tipo baffuto, Ray Ban a specchio, abito nero con cravatta sottile grigio scuro cangiante, non ha aperto bocca. Ha guidato e basta. Fisso sul nastro nero d’asfalto semiliquefatto, circondato da una pianura desolata e sabbiosa fino alle prime baracche della periferia. Poi tutto s’è animato, bambini e uomini e donne velate, animali da cortile che razzolano in mezzo alla strada, bancarelle, pezzi di carne rosso scuro coperti di mosche, nere masse fameliche in movimento continuo. Nessun odore o suono all’interno dell’auto. Tutto è attutito. Lontano. Fa un caldo impensabile. Ne ha avuto un piccolo saggio scontrandosi con un muro di calore (l’aria è letteralmente infuocata) appena messo un piede fuori dal terminal dell’aeroporto. Come sopravvivono, anzi come vivono, là fuori? Nell’auto invece fa fresco. 43 Quando è arrivata alla reception del Babel l’hanno accolta con sorrisi e inchini, come se fosse una vecchia cliente. Lei però lì non c’è mai stata ed è rimasta sulle sue, frastornata da tutto quell’agitarsi. Ha consegnato il passaporto, poi ha chiesto del dottor Pierre, l’uomo per cui ha fatto il lungo viaggio lasciando Isabelle, sua madre, morente, a Milano. Il portiere si è profuso in altri salamelecchi e le ha fatto un lungo e incomprensibile discorso, un misto d’inglese, francese, arabo e chissà quale altra lingua gli sia passata per la testa in quel momento. Emmanuelle è sorpresa da come la trattano: deferente, riferito al portiere, è forse l’aggettivo più adatto. Il dottor Pierre da quelle parti deve essere un tipo importante. Per quanto ne sa, è amico del presidente Ahmad Hassan al-Bakr, al potere, con un colpo di stato, dal 30 luglio del ’68 . Pochi mesi (guarda caso) dopo l’arrivo del dottor Pierre in Iraq. Forse è perfino consigliere del Presidente, quindi un uomo potente di questi tempi, a Bagdad. Il Dottore. Si può dire che il Dottore è uno che fa invidia a molti. Oppure paura. O chissà quale altro sentimento. In quel posto qualcuno l’avrà anche amato. Probabile. Il suo sorriso è accattivante, ed è riuscito a farsi degli amici ovunque sia andato. Il portiere ha scosso il capo, ha sorriso di nuovo e, con un fare un po’ troppo ammiccante, le ha consegnato in sequenza i seguenti oggetti: primo, la chiave della stanza; secondo, una grande busta gialla, sigillata con ceralacca; terzo, un pacco avvolto in pesante carta marrone, delle dimensioni di una scatola da scarpe. Terminata la consegna l’uomo le ha detto: tenth floor, room ten-twenty-two. Ultimo piano. Poi ha fatto un brusco cenno al facchino che se n’era rimasto immobile e presso44 ché invisibile dietro a una colonna, per tutto quel tempo, in attesa di istruzioni. Emmanuelle è entrata nella stanza 1022, dietro al facchino. Lui ha appoggiato l’unica piccola valigia (che contiene tre magliette, un paio di pantaloni lunghi kaki, sei mutandine e reggiseno coordinati, un beauty case, un paio di scarpe di tela, una camicia da notte corta di cotone bianco) sull’apposito sostegno. Poi si è avviato alla porta, ma prima di chiudersela alle spalle si è fermato. Anche lui ha sorriso. Lo stesso sorriso del portiere: misterioso e un po’ troppo ammiccante, che la inquieta. Lei allora gli ha allungato qualche moneta italiana di cui ha cercato, senza riuscirci, di calcolare mentalmente il valore nella valuta locale. Per come il facchino ha sorriso qualcosa devono pur valere. L’uomo se n’è andato con un inchino eccessivo e fin troppo servile. Lei ha chiuso a chiave, poi si è seduta davanti all’ampia vetrata con vista sulla città. Il Tigri, ampio e giallo, scorre quieto dieci piani sotto di lei. Il sole è ancora a picco. Tutto sembra coperto da uno strato di polvere ocra. Il riverbero la infastidisce, senza occhiali da sole. Si domanda se sia la polvere del deserto. Non si è neppure spogliata: si è solo seduta davanti alla vetrata, vicino al tavolino da gioco, dove ha appoggiato la busta e la scatola, alla sua destra. S’è messa comoda, ha fatto saltare le scarpe e disteso le gambe; poi ha allungato una mano sulla busta gialla e l’ha aperta usando le dita. Dalla busta gialla ha estratto alcune audiocassette e un’altra busta, più piccola, che contiene documenti e forse qualche fotografia. Le audiocassette sono numerate. Su ognuna un’etichetta bianca con i numeri dall’uno al quattro, scritti a pennarello. 45 Poi ha strappato la carta marrone dalla scatola che sembra una scatola da scarpe ma non lo è. L’ha aperta con cautela: non contiene nulla di pericoloso: solo un mangianastri Philips, modello 2200, in produzione da un paio d’anni e molto apprezzato perché funziona anche a batterie, è incredibilmente leggero e l’altoparlante è di ottima qualità. L’ha tirato fuori dalla scatola e collegato alla presa della corrente. Poi ha inserito la prima cassetta nell’apposita fessura e ha schiacciato il tasto play. 46