estratto - Laurana Editore

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estratto - Laurana Editore
RIMMEL
narrativa italiana
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direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica e interni:
Studio Grafico Ceccherini, Milano
utili consigli:
Giulio Mozzi
ISBN 978-88-96999-83-7
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2013 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano
www.laurana.it - [email protected]
Flavio Villani
l’ordine di Babele
LAURANA
EDITORE
L’ordine di Babele, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, non è
un romanzo storico, e ciò nonostante l’abbondanza di fatti di valore storico ivi contenuti. Tale genere di ricostruzione si basa sempre su un’interpretazione del tutto personale delle fonti utilizzate, a maggior ragione
in un contesto privo di velleità storiografiche come questo. La relazione
fra Storia, con la esse maiuscola, e storie individuali è quanto mai complessa: sono convinto che i romanzi possano esplorare tale relazione con
grande efficacia. I fatti qui riportati sono stati per me un affascinante fondale contro il quale muovere i personaggi di questa narrazione. Su di essi
e sulle loro relazioni si accentra buona parte del mio interesse di scrittore e di uomo.
F. V.
A mia madre.
Ecco, essi sono un popolo solo e hanno tutti
un medesimo accento: questo è il principio
dell’opera loro. Niente ormai impedirà loro
di condurre a termine tutto quello che hanno
in mente di fare. Orsù dunque, scendiamo e
confondiamo quivi il loro accento, in modo
che l’uno non comprenda l’accento del suo vicino.
Così il Signore li disperse sulla faccia
di tutta la terra ed essi cessarono di
costruire la città alla quale fu dato perciò
il nome di Babele, perché là il Signore
aveva confuso l’accento di tutta la terra e di là
il Signore li aveva dispersi sulla faccia di tutta la terra.
Genesi 11, 6-9
Parte prima
I. Alfa e Omega
/1/
Saigon-Cholon, 10 febbraio 1948
Intorno alle 2 del pomeriggio
Il Capitano lo sa che Bay Vien non è un tipo qualunque.
L’ha sempre saputo. Per questo sa anche come trattarlo.
Che lo chiamino “Mostro”, per lui è un dettaglio. Niente
di più. Basta non farci caso, non considerarlo un problema,
al più una insignificante sfumatura. Loro, in fondo, fanno
affari, il resto non conta.
Il Capitano lo sa che Bay Vien è uno con cui è meglio
non avere problemi, ma comunque nel suo bordello si sente
al sicuro. Nessuna minaccia incombente. Rischi zero.
Anche se in certi settori lavorativi non si può mai dire, e le
sorprese sono appena dietro l’angolo, neppure il mostro è
tanto pazzo, di certo neppure lui s’azzarderebbe ad alzargli
un dito contro. Anzi, lui, il Capitano, considerato lo stato
delle cose nella colonia, ora è la sua unica speranza.
Comunemente si parla di “ancora di salvezza”, ma forse
qui sarebbe più opportuno usare un’altra metafora: le ancore, a volte, si utilizzano per zavorrare i corpi che si vuole
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far sparire. E là fuori, in mezzo alle acque limacciose di
Rung Sat, di corpi ce ne deve essere un gran bel numero.
Il Capitano i corpi preferisce studiarli. Molto più che
affondarli nel fango o farli a pezzi. Un vezzo, fra i tanti.
Raro in questi luoghi e di questi tempi. Di solito corpi giovani. Adolescenti. Possibilmente dalla pelle ambrata.
Possibilmente senza difetti, di quelli visibili a occhio nudo,
almeno. Maschi o femmine, poco importa.
Il Capitano pensa al lato estetico di ogni questione. Il
brutto l’annoia. Sarà per questo che non gli piace guardarsi allo specchio e le teorie sul bello sono la sua passione.
L’errore del Capitano, se un errore c’è, è di cercarlo lì, il
bello.
Il Capitano: forse, in un’altra vita, sarebbe potuto essere
un dandy. Inoffensivo. Elegante, gran parlatore.
Non in questa, però. In questa no.
Il Capitano per Bay Vien è disposto a fare un’eccezione.
Si tratta d’altro. È chiaro. Interessi più elevati. E quell’uomo, il Mostro, come soggetto di studio è di sicuro interesse. Antropologicamente parlando, s’intende.
Il suo corpo parla. Enorme è l’aggettivo più adeguato.
Di una enormità mostruosa, ma non flaccida: energica, con
tutta quell’energia che s’immagina sopita nella penombra
del pomeriggio, in un sonno-non sonno, pronta a liberarsi,
improvvisa, devastante. Con il collo possente potrebbe reggere, senza difficoltà, il peso di un toro. Ed è con le sue
mani, morbide e perfettamente curate (d’altra parte passa
buona parte delle sue giornate dalla manicure), che ama
finire i prigionieri. I pochi che gliel’hanno visto fare, e sono
tornati vivi per raccontarlo, descrivono la scena rabbrividendo nonostante il caldo soffocante. Quando succede il
rito è sempre uguale: nello scantinato della sua villa in puro
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stile palladiano, costruita sulla parte declive e più asciutta
della palude di Rung. Laggiù, ai margini della palude, quella villa potrebbe benissimo essere un’immagine allucinatoria, con i suoi loggiati classici, ariosi e deserti, le ampie
finestre, le linee armoniche, i rapporti perfetti, e il marmo
di Carrara bianco e screziato nel sole accecante del mezzogiorno, ma poi evanescente, tutto quel bianco marmoreo,
spettrale contro il cielo livido del crepuscolo tropicale. L’ha
progettata un architetto italiano sbarcato da uno dei tanti
bastimenti dall’Europa in perfetta tenuta coloniale: abito di
lino bianco fresco di stireria e il casco a guscio di tartaruga
ben calcato sulla testa; scappò subito dopo l’inizio dei lavori, terrorizzato dal clima, dagli insetti, dagli uomini, e non
fece a tempo a vedere il risultato finale.
La stanza nello scantinato è priva di finestre, il pavimento e i muri sono di cemento ancora grezzo, una lampadina
pende dal soffitto. Il condannato è adagiato su di una sedia
posta al centro della stanza, nudo, di solito pressoché privo
di coscienza, le braccia e il capo abbandonati, penzoloni. Il
Mostro entra, si avvicina lentamente, pachidermico ma leggero, con alcuni passi di danza. Gli occhi invisibili dietro
alle lenti scure da vista montate su pesanti occhiali neri che
porta sempre sul naso, giorno e notte. Si abbassa sul prigioniero, ne abbraccia il corpo disarticolato e lo solleva. Non
sembra che questa azione gli costi alcuna fatica, come se
quel corpo, privato della sua reale sostanza, sia ridotto a un
nulla privo di peso. Lo tiene sollevato con un solo braccio
intorno al torace mentre con la mano libera ne accarezza il
capo dolcemente, gli bacia il viso coperto di sangue, poi,
con delicatezza, fa scivolare entrambe le mani alla base
della testa. Rimane così, per qualche secondo, a guardare
dritto in faccia la sua vittima, con le mani grandi, morbide,
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profumate, perfettamente curate, salde ai lati del collo, proprio nel punto esatto dove si congiunge alla base della testa.
Gli sorride, avvicina la bocca all’orecchio come se dovesse raccontare una facezia a un amico, mormora qualche
parola che nessuno mai riesce a cogliere. Qualche volta la
vittima ascolta e socchiude gli occhi. Annuisce. Un movimento impercettibile della testa. In quel momento il contatto con quelle mani deve essere piacevole, tanto che la vittima appare quasi rappacificata. Poi, quando lui decide che è
arrivato il momento, imprime al collo un movimento di
rotazione di quasi centottanta gradi, progressivamente più
veloce e senza interruzioni. Il rumore è secco quando il
collo, a fine corsa, si spezza e il corpo si affloscia come una
marionetta fra le sue braccia. Dicono che si tratti di una sua
particolare forma di misericordia, parola che in realtà non
fa affatto parte del suo vocabolario. Ma dopo che i suoi
uomini hanno concluso il loro lavoro sul corpo del disgraziato di turno, il collo spezzato è una vera e propria benedizione.
Quando s’incontrano, quel 10 febbraio, intorno alle due
di un pomeriggio già incredibilmente afoso, nel bordello
più elegante e meglio fornito di Cholon, Bay Vien è in
difficoltà.
“Devi allearti con noi”, dice il Capitano, “vi stanno
braccando. Hai già perso Rung Sat con la tua bella villa.
Dove cazzo vuoi rintanarti?”
“Lo sai il problema”, fa Bay Vien muovendo appena le
labbra, senza scomporsi.
“Hai scelta?”
Bay Vien, il Mostro, l’uomo che ama finire i prigionieri
rompendogli il collo con un solo rapido movimento delle
sue forti mani, socchiude gli occhi, incerto. Al Capitano
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ricorda uno di quei rospi, grandi e forti, appostati nell’acqua bassa e torbida della palude in attesa di preda. Nessuno
vorrebbe stargli intorno in quelle ore. Nessuno sano di
mente, perlomeno, o che non abbia un ottimo motivo per
stargli intorno, proprio in quel momento. In sostanza: nessuno che non ne abbia un tornaconto.
“Cosa vuoi che faccia?”, dice il Mostro con calma, le mani
con le grossa dita incrociate, appoggiate mollemente sull’addome prominente.
“Tu e i tuoi uomini mi date una mano a fare piazza pulita. Ne ho piene le palle dei comunisti. Al nord avanzano, e
le cose si stanno facendo piuttosto confuse. Da Parigi fanno
pressione, vogliono risposte, e io invece non voglio i loro
emissari a ficcare il naso nei miei affari”.
“I miei affari”.
“I nostri affari. Voglio sperare che la tua fosse solo una
piccola svista. Sai quanto sono permaloso”.
“Non è cambiato nulla. La tua parte l’hai sempre avuta.
Capitano. Non è vero?”
“Si gestiscono. Al solito”.
“Vuoi dire che io li gestisco e tu incassi”.
“Fatti una scopata, Bay Vien. Rilassa, sai? E qui offre la
ditta. Sono le migliori. Puoi anche farti una vergine, se ti
va, o un ragazzino, se hai gusti più esotici”.
“Lo so. È roba mia”.
“Davvero?”
“Sei tu l’ospite qua dentro, Capitano. Ricorda”.
“Ospite? Vedi, Bay Vien: su questa cosa ho un’idea del
tutto opposta. E poi, oggi, è meglio che tutto fili liscio
come l’olio. Non mi piacciono i conti in sospeso”.
Bay Vien solleva la mano destra con un movimento lento
e non casuale. Un uomo, il suo consigliere, un cinese picco15
lo e dall’aria da contabile, spunta all’improvviso da dietro
uno dei pesanti tendaggi che schermano la stanza dalla luce
del sole. Mentre scosta la tenda una lama di luce attraversa
per un attimo il viso di Bay Vien. Minuscole particelle di polvere fluttuano, lente, nell’aria. L’ometto, il contabile, si
abbassa con riverenza fino all’altezza della bocca di Bay
Vien. Lui dice qualcosa. L’ometto annuisce un paio di volte,
poi si raddrizza e, rivolgendosi al Capitano con la voce stridula di chi è abituato a dare ordini per conto di qualcun altro,
dice: “Bay Vien ha detto: l’alleanza si può fare. Gli uomini
del Binh Xuyen si uniranno agli agenti del Bureau per stanare i comunisti e farli a pezzi. Ma gli agenti del Bureau
dovranno rendersi invisibili. Non siamo collaborazionisti. La
nostra milizia è nazionalista. Ci libereremo della feccia rossa
e presidieremo le strade, apertamente. Voi ci supporterete
senza mai farvi vedere. Prendere o lasciare”.
“Prendere o lasciare?”
“Ti ripuliamo Saigon dai comunisti”.
“Va bene. Il resto?”, dice il Capitano, scuotendo la testa
in attesa del resto.
“Il resto lo sai”.
“Non basta, Bay Vien. Mi pare che facciate buoni affari
con le lotterie e tutto questo”, fa il Capitano indicando con
un ampio gesto della mano i muri del bordello, “ma te l’ho
detto: non basta”.
“Parla”, dice il cinese.
“Lo sai come si dice, carpe diem. L’oppio è il futuro”, fa
il Capitano, sorridendo.
Il cinese rivolge lo sguardo a Bay Vien.
Bay Vien annuisce impercettibilmente.
Il cinese dice: “A Bay Vien va bene. Avrai la tua parte
nell’oppio”.
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“Bene”, fa il Capitano, “non ci resta che brindare”.
Il contabile tira il cordone di un campanello, nascosto
dietro la tenda. Nessun suono. Pochi secondi dopo una
delle puttane, un’adolescente mezzosangue, biondo platino, entra con teiera e tazzine e le appoggia sul tavolino fra
Bay Vien e il Capitano. Forme perfette nell’abito attillato
rosso, con un dragone ricamato in oro.
“Il rosso porta fortuna”, dice il contabile mentre versa il
tè. I due bevono a piccoli sorsi.
La puttana rimane in piedi vicino alla porta, il tronco
rispettosamente flesso in avanti.
“Ti piace? Non sembra un’americana? Magari un’attrice
del cinema. Si chiama Laila, Capitano. È tua”, dice il cinese. “In amicizia”, aggiunge indicando la ragazza sempre
immobile accanto alla porta.
Il Capitano sorride e, rivolgendosi direttamente a Bay
Vien, dice: “Va bene, grazie per il gentile omaggio, ma ne
ho vista anche un’altra, di là, sui dieci o undici anni, credo
sappiate di chi parlo. Fammele recapitare, Bay Vien. Alla
piantagione”.
Dice questo il Capitano, e senza attendere la risposta si
alza ed esce dalla stanza.
L’auto attende il Capitano davanti all’ingresso secondario
del bordello, nel vicolo sul retro.
Vincent – il suo uomo – se n’è rimasto tutto il tempo
seduto al posto di guida, nonostante il caldo, lo sguardo
fisso sul nulla, stretto fra i muri grigi di quel vicolo asfittico. Il finestrino spalancato, il braccio sinistro fuori, penzolante oltre la portiera, la Gauloises accesa fra indice e
medio. La mano grande, sproporzionata rispetto al resto del
corpo, forte e quadrata, da boxeur, chiusa a pugno. Aspira
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di tanto in tanto una boccata. Lentamente. Senza fretta.
Scuote la cenere con colpi secchi del pollice contro il moncherino di sigaretta stretto fra le dita. Subito se ne distaccano minuscole scintille che per un attimo s’innalzano, ascendono nell’aria per ricadere immediatamente nell’atmosfera
pesante d’umidità.
L’uomo ha il viso scavato. Guardandolo qualcuno
potrebbe pensare a un asceta, un uomo senza vizi, le cui
virtù sono affilate almeno tanto quanto il suo viso scavato.
Qualcun altro, invece, immagina un uomo spietato, ma
forse l’aggettivo è insufficiente per definirlo correttamente.
Sarebbe meglio: un uomo duro che può essere, quando
necessario, cattivo.
“Che figlio di puttana questo Bay Vien”, fa il Capitano
entrando nell’auto. “È convinto di essere sempre un poco
più furbo di te”.
L’uomo alla guida lascia che l’auto scivoli sulla strada
sconnessa del vicolo senza troppe scosse.
“Tutto bene?”, chiede dopo qualche secondo di marcia
in completo silenzio, lo sguardo fisso sulla strada. Intorno
solo baracche fatiscenti dai tetti di lamiera arrugginita.
“Tutto benissimo”.
“Allora?”
“Lo farà”, risponde il Capitano. “Farà il lavoro”.
“Bene”.
“Che schifo di posto”, fa il Capitano soffermando lo
sguardo su un gruppetto di bambini che corrono nudi fra
pozzanghere fangose che occupano buona parte della strada in terra battuta.
“Guarda lì”, dice indicando il gruppetto, “sì, un po’ d’ordine farà bene a tutti. S’inizia a non capirci più nulla”.
“Gli accordi?”
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“Ottimi”.
“Ottimi?”
“Per noi”.
“Bene”.
“Hai parlato con il Dottore?”
“Non di recente. Perché?”
“Voglio che si tenga pronto”.
“Per cosa?”
“Ci saranno prigionieri da interrogare”.
“Lo chiamo”.
“Cazzo, manca l’aria! Come hai fatto a resistere chiuso
qui dentro?”
“Ti ho aspettato”.
“Cristo, questa non è una risposta. Ci saranno almeno
trentacinque gradi. E l’umidità!”
“Ho fumato”.
“Sei un essere a sangue freddo”.
“E non sei contento?”
“Lo sono”.
“Sicuro?”
“Certo che lo sono, Vincent”.
“Dove ti porto?”
“Solito. Dimenticavo, Vincent: auguri. Festeggi il Tet
con tua moglie?”
“Al circolo, credo”.
“È oggi, vero? Con questo clima al capodanno non ci si
pensa proprio”.
“Non che m’interessi, ma Isabelle… sono giorni che
pulisce casa da cima a fondo”.
“Perché?”
“Qualcuno le ha detto che pulire la casa prima del Tet
spazza via la sfortuna”.
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“Cazzate da selvaggi”.
“Lo so”.
“Comunque fai bene, le mogli ogni tanto bisogna pur
accontentarle. Scoparle deve essere faticoso con questo
caldo”.
“Spesso non capisco neppure cosa vuole”.
“Fatti furbo, Vincent. Fatti furbo”.
“Con lei non mi riesce”.
“Capisco. Sai che dicono che il ’48 sarà l’anno del
topo?”
“Qui ce ne sono fin troppi, di topi”.
“Ragione di più per fare piazza pulita”.
“Già, hai proprio ragione”.
Mentre parlano la strada migliora sensibilmente, diventa più regolare, e a tratti si copre d’asfalto; le case si fanno
meno fatiscenti; di bambini cenciosi non se ne vedono più,
sostituiti da file di venditori ambulanti fermi lungo il bordo
del marciapiede; compaiono, due o tre gradini più su del
piano stradale, decine di negozietti bui, stipati di mercanzie
a poco prezzo, decorati da bandiere e insegne piene d’ideogrammi e grandi lampade rosse di carta di riso. La strada si
riempie progressivamente di centinaia di biciclette e risciò
e corpi umani. Quella massa in continuo movimento occupa la carreggiata rendendo difficile il progredire dell’auto
verso Saigon.
“Dai Vincent”, dice il Capitano, “schiaccia il clacson e
fa’ scostare questi pezzenti, non ne posso più di questa
gente, voglio tornare alla civiltà”.
Vincent annuisce e inizia a suonare: “Ci vuole altro per
smuoverli”.
“Una bomba. Quella andrebbe benissimo”.
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/2/
Parigi, 18 dicembre 1952
Intorno alle 4 del pomeriggio
In un Palazzo, diecimila chilometri a ovest di Saigon, un
tipo grassoccio, dall’aspetto bonario, grigio al punto da
risultare invisibile fra la folla che si accalca lungo le banchine della metropolitana, punta il suo dito lievemente
sudato su un microscopico dettaglio di una mappa mondiale, e pronuncia un discorso – in piedi, davanti ai suoi colleghi – con tono calmo, ma non esageratamente meditativo.
Scandisce, il tipo grassoccio e bonario, con precisione, in
una prosa accurata e immediata, ogni parola. Inizia così
[con un certo distacco, il tono è scientifico]: l’Indocina è un
crocevia strategico, da sempre indispensabile per la nostra
politica nel Sud-Est Asiatico. [ora inspira profondamente e
abbassa la voce] Oggi la situazione militare e politica di
quel teatro – strategico per i nostri interessi – non ci permette di sperare realisticamente in una risoluzione positiva
della crisi in corso. [il tono della voce si fa più alto, il suo
atteggiamento più deciso e combattivo] Dobbiamo essere
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concreti. [quasi melodrammatico] Un accordo si può trovare, ma occorre resistere, resistere almeno un altro anno o
due. Trattare. Segretamente. Non importa quali sacrifici.
Non importa chi siano i nostri interlocutori. Non importa se
dobbiamo affamare quella gente o spazzarla via con ogni
mezzo. La posta in gioco è troppo alta! Le operazioni militari e di polizia non devono essere interrotte. I nostri uomini sono pronti a tutto. [il tono si fa più serio, quasi aulico]
Ne va della dignità, ma, più di tutto, della futura grandezza
della Francia. L’umiliazione di una evacuazione senza condizioni, soprattutto sull’onda di una sconfitta militare,
sarebbe letale per la nostra immagine di grande potenza.
[alza ancora la voce, punta il dito sull’Europa] Abbiamo
vinto la guerra e pretendiamo, dico pre-ten-dia-mo che il
nostro ruolo nella comunità internazionale sia riconosciuto
senza ambiguità. [di nuovo meditativo, a tratti sognante]
Ecco, se oggi potessimo sganciare almeno un ordigno
nucleare, sarebbe un bel segnale per il resto del mondo, ma
per questo, purtroppo, siamo ancora un po’ indietro, non
sarà prima del ’60 o ’61. Data la situazione, troppo tardi.
Dice queste parole, il tipo grassoccio dal viso liscio e
bonario, e aggiunge: la nostra missione, quella che il destino ha voluto affidarci, è di arrestare l’espansione comunista nel Sud-Est Asiatico. I cinesi e i sovietici non aspettano
che il nostro disimpegno dall’Indocina. Per noi, fermarli
con ogni mezzo è un imperativo categorico. L’alleanza con
l’America è salda, ma le cose potrebbero cambiare o, forse,
stanno già cambiando, e noi dobbiamo tenere gli occhi ben
aperti.
Un brusio d’approvazione, poi tutti si alzano, s’infilano
cappelli e cappotti e si avviano verso l’uscita. Sul vocio che
ora satura la sala s’innalza il suono delle parole del tipo
grassoccio e bonario che dice: dimenticavo, cari colleghi,
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fra pochi giorni è Natale. Auguri a tutti voi e alle vostre
famiglie!
In coro, tutti rispondono: auguri!
Poi si salutano stringendosi le mani e dandosi pacche
sulle spalle.
È venerdì. Gli impiegati escono dall’ufficio e vanno ad
affollare le strade e la metropolitana.
Presto saranno nelle loro accoglienti case alla periferia
della città.
Presto le famiglie saranno riunite.
Dietro il Palazzo, oltre le finestre opache, il fiume continua
a scorrere quieto.
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/3/
Saigon, 20 novembre 1953
Il dottore, un uomo anziano e di poche parole, è piegato su
di te, stesa, con le gambe divaricate e sollevate nelle staffe
metalliche del lettino ginecologico.
Le maniche del camice, arrotolate ai gomiti, lasciano
liberi gli avambracci magri, coperti di peli bianchi. Le mani
rovistano i tuoi genitali tumefatti con movimenti bruschi,
indelicati, che imprimono al tuo corpo un movimento a
scatti, sussultorio. All’improvviso le mani si fermano: il
dottore attende un attimo, poi estrae dalla vagina uno strumento allungato e sporco di sangue.
Vi siete accordati per l’operazione (il dottore gli aborti preferisce chiamarli così) un paio di giorni prima.
Come sei entrata nello studio lui ti ha squadrata: non
passi inosservata così alta, i lunghi capelli scuri, la pelle
morbida, tesa e umida sugli zigomi, le labbra perfettamente disegnate dal rossetto carminio. Gli occhi, verdi
(un tono raro di giada), sono di una luminosità e dolcezza
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che, lo sai, lascia interdetti. Anche oggi, nonostante tutto.
I tuoi trent’anni, non c’è che dire, li porti davvero bene. E
decisamente oltre la media in quanto a bellezza: te lo
dicono continuamente. Questo pomeriggio sei deliziosa
nell’abitino di lino a fiori rossi e blu.
Il tuo accento è del sud.
Lui non ti ha mai vista prima.
Sei arrivata in ambulatorio da sola, inviata da un collega: il dottor Pierre Kastòr, uno psichiatra che conosce tuo
marito per lavoro. Gli racconti di essere una sua paziente.
Quando gli hai detto di essere incinta e l’hai pregato di darti
una mano a liberarti del bambino, lui ti ha immediatamente spedita lì. Strano. I medici, da queste parti, tendono a
tenerseli ben stretti, mica li mandano dai colleghi, pazienti
del genere. Un aborto rende.
Comunque sia, la presentazione è essenziale. Evita un
mucchio di grane.
Tu, fra l’altro, non gli hai chiesto neppure quanto dovrai
scucire, mentre di solito pare sia la prima domanda.
Giorno e ora. Tutto qui. L’ideale.
Il dottore deve pensare che sei una tipa decisa o che hai
molta fretta, o tutte e due le cose insieme.
“Data dell’ultima mestruazione?”
“Ventisette settembre”.
“Ora la visito. Si può spogliare lì dietro”, dice il dottore indicando il paravento di alluminio e tela bianca
nell’angolo meno luminoso della stanza, accanto alla
porta.
Ti sei tolta scarpe e mutandine, poi hai sollevato l’abito
alle anche e sei uscita da dietro il paravento. Senza guardarti in giro ti sei sdraiata sul lettino e hai sollevato le gambe
appoggiandole sulle staffe di metallo. Hai rabbrividito,
nonostante il caldo.
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Mentre il dottore ti visita fissi il soffitto sporco, stringi
forte i pugni e speri che finisca più in fretta possibile.
Alla fine della visita vi accomodate alla scrivania. Lui
conferma la gravidanza.
“Otto settimane circa. Dovrebbe essere per i primi di
luglio”, dice guardandoti fisso.
Tu annuisci: hai la sensazione che gli occhi sprofondino
e che il viso si sia liquefatto all’improvviso, nel caldo
insopportabile del pomeriggio. Allora abbassi lo sguardo
sulla borsetta ed estrai un fazzolettino di cotone bianco su
cui sono ricamate le tue iniziali: I. S. Lo apri. Con un movimento leggero tamponi il sudore sulla fronte e intorno alle
labbra. Le labbra rosse devono essere ancora più evidenti
nel pallore del viso.
“Sarà meglio che mercoledì l’accompagni qualcuno”,
dice il dottore.
“No”, rispondi tu secca, “sarò da sola”, prosegui mentre
noti il viso grigio-bluastro del vecchio dottore, mal rasato e
con lunghi peli ispidi all’angolo destro della mandibola.
“Come vuole. Ma sarebbe meglio”.
“Arrivederci”, dici stringendogli la mano e, pensando al
nulla, lanci un’ultima occhiata al viso grigio-bluastro del
dottore.
Occhi indecifrabili, ma la mano è gelata, questo pensa il
dottore mentre esci dallo studio senza guardarti indietro.
Lui si solleva dalla scomoda posizione piegata emettendo un
sospiro, getta lo strumento in una bacinella di metallo e si
dirige al lavandino. Non ti sei mossa neppure allo sgradevole frastuono metallico dello strumento contro la bacinella.
Il dottore si sfila i guanti in lattice e li butta nel cesto
pieno di compresse di garza usate, sporche di sangue. Con
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il gomito spinge la leva del rubinetto. L’acqua inizia a scorrergli sulle mani che sfrega energicamente con il sapone
per qualche secondo. Poi si gira verso di te, ancora a gambe
larghe sul lettino: “Ecco fatto, signora. Tutto bene”, dice il
dottore mentre si asciuga le mani in un panno pulito.
Non si aspetta, naturalmente, che lo ringrazi o che dica
qualcosa di sensato proprio in quel momento. Per quanto
l’anestesia sia leggera, il minimo indispensabile per stordire un po’, è ancora presto per pretendere una reazione logica. Rabbrividendo vomiterai, e allora inizierai a tornare in
te. Ma anche allora non avrai voglia di parlare con lui,
come, del resto, con chiunque altro.
Ti rivestirai, pallida come uno straccio, mettendoti fra le
cosce le compresse di cotone idrofilo che lui ti avrà allungato.
È allegro il dottore, il più anziano medico francese di
Saigon: dopo la partenza dell’ultimo medico condotto, si
ritrova una clientela privata che non ha mai neppure osato
sognare nei quarant’anni di professione che gli pesano sulle
spalle.
Meglio così. Non c’è neppure da pensarci.
Comunque molto meglio che nella cucina di una praticona, senza anestesia e con un ferro da calza, che è più
quelle che ammazza che quelle che libera della colpa.
È abile il dottore in queste faccende, anche se oggi pensa di
essere stato un tantino troppo frettoloso. Troppi clienti tutti
insieme. Non ce la si fa. Comunque: quarant’anni di onorata attività vorranno pur dire qualcosa. Nessun problema con
la legge. Uteri ne ha perforati pochi. Procede con attenzione. Di solito non lascia indebiti rimasugli. Ma si sa: le cose
succedono.
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Qualche volta le cose vanno proprio al contrario di come
si vorrebbe.
E se si tratta di una poveraccia è un conto, ma se è la
moglie adultera di qualche ricco possidente o di un burocrate dell’amministrazione coloniale, allora sì che possono
esserci guai. E pure seri.
Anche la sospensione della licenza e la galera: è la
legge. Dicono.
Bisogna andarci piano in questo dannato paese: il clima è
così umido che le ferite imputridiscono a dispetto di ogni
precauzione. Una follia. L’incubo di ogni medico. Ne
sanno qualcosa i chirurghi militari. La penicillina a volte
non basta a salvare dalla setticemia, e loro amputano anche
per ferite banali. Spiacevole. Molto spiacevole quando succede proprio a te.
“Appena se la sente si può rivestire. Le girerà la testa”,
dice, “è per via di tutto questo sangue. Cerchi di non esporsi al caldo, se ne stia a letto in un luogo fresco e beva tanta
acqua. Avrà ancora parecchie perdite, ma niente di più di
una mestruazione abbondante e prolungata. Quindi non si
preoccupi, vedrà che in pochi giorni tutto ciò sarà un brutto ricordo”.
Ti alzi lentamente dal lettino. Muovi le gambe a fatica. Ti
gira la testa e, come ti metti seduta, violenti conati di vomito ti fanno piegare in due. Riesci a vestirti a fatica. Non vi
dovete dire altro voi due. La busta con i soldi gliel’hai
allungata prima. Pagamento anticipato. Non si sa mai.
Lui t’accompagna alla porta.
Vi stringete la mano.
Lui crede che non ti rivedrà più.
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Tu sai che non lo rivedrai più.
Ambedue sapete che ti ricorderai di lui. Per sempre.
Arrivi a casa pallida e provata, ma tuo marito non si accorge di nulla.
“Oggi non si respira tesoro. Non ti senti bene? Questa
sera sono al circolo”. Tu annuisci, ma non dici nulla.
Mentre lui si prepara per la serata, ti chiudi in bagno.
Il sangue scorre caldo e copioso fra le cosce.
Ora credi di essere in pace.
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/4/
Nei pressi della base aerea di Tan Son Nhut
29 aprile 1975
Intorno alle 3 del pomeriggio
Whomp… whomp… whomp… whomp…
Le pale degli Huey battono sopra le teste del gruppetto
di uomini affranti.
Whomp… whomp… whomp… whomp…
Battono, e il ritmo è regolare, sempre uguale, sopra le
loro teste. Inconfondibile, anche da molto, molto lontano.
Whomp… whomp… whomp… whomp…
Le palme si piegano e sbattono, risucchiate nel vortice
dei rotori.
Lentamente.
Sbattono lentamente. Almeno, così gli sembra dopo che
l’infermiere gli ha conficcato l’ago nella coscia e iniettato
la morfina: quello ha strappato la copertura con i denti e
gliel’ha piantato con un colpo secco, senza neppure aprirgli i pantaloni. Un colpo secco e via, da sopra la tela bagna30
ta, nella coscia. Nessuna sensazione particolare. Nulla. Non
ha sentito nulla.
Il liquido è penetrato, lento, nel sottocute, faticosamente fino ai capillari. La pressione si sta azzerando, ha detto
una voce, e anche altre parole. Altre parole. Ora lui non le
ricorda le esatte parole, ma le ha sentite, di questo è sicuro,
qualche istante prima. E il senso era questo: se la pressione
arteriosa scende ancora un po’, sei morto. Ci vogliono
liquidi, litri di plasma o almeno di soluzione fisiologica,
per mantenere la pressione ai livelli minimi accettabili perché gli organi interni siano perfusi e ossigenati a sufficienza, e non è neanche detto che funzioni. Una volta innescato, lo shock diventa irreversibile, qualunque cosa ci si
possa inventare, e qui di cose da inventarsi ce ne sono proprio poche. Tutto smette di funzionare. Tutto. E contemporaneamente. I reni. Il fegato. Tutto. Come una centrale elettrica che va in blocco, all’improvviso non funziona più
nulla. Collassa tutto.
Il liquido trasparente fuoriesce dalla punta dell’ago e si
distribuisce lentamente, dal circolo fino ai terminali nervosi. Solo allora c’è un po’ di pace, e tutto inizia a muoversi
al rallentatore. La pressione però scende ancora, e la morfina non aiuta. Il dolore però diminuisce, sì, un po’.
Whomp… whomp… whomp… whomp…
Foglie, cartacce, bende insanguinate (sangue nero,
secco), brandelli di uniformi strappate per tamponare ferite
che buttano fiumi di sangue da medici accecati dal fumo.
Tutto. Tutto viene – lentamente – risucchiato nel vortice
bollente dell’aria.
Lui, dalla sua posizione sdraiata, supino, vede le cose
così: spicchi di cielo, bianco, fra le stoppie intrecciate del
tetto della capanna, vanno e vengono con il freddo baluginare del sole. Filtrano, a tratti, immagini distanti, assurde,
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incontrollabili. Uomini intorno a lui, affannati, sudati,
coperti di sangue. Il suo sangue.
Parlano e parlano – qual è il tuo nome? ragazzo! ascolta! non ti distrarre! – e piangono insieme a lui, ma non si
muovono, non muovono un cazzo di muscolo. Se ne stanno lì, immobili, a guardarlo. Sembra una specie di fotografia sbiadita.
Lui invece preferisce seguire gli enormi insetti che girano, oscuri, instancabili, girano sopra di loro, neri come l’inferno. Ampie virate, cerchi, traiettorie imprevedibili s’intersecano, e poi di nuovo fermi, in attesa.
Esce dal corpo: immagina: il punto di vista è dall’alto:
(ancora quel rumore, whomp… whomp… whomp… il ritmo
dei rotori) sotto, brulicare di uomini impazziti.
Alcuni di loro fra poco saranno morti.
Whomp… whomp… whomp… whomp…
Ora tutto è sospeso sopra la sua testa, immobile.
Non c’è dolore.
Silenzio.
Lo sguardo appannato: quanto può durare tutto questo?
È il crepuscolo. All’improvviso. Nero, tutt’intorno.
La platea di un cinema. Il profumo. Il profumo di te.
Oddio.
Oddio mio.
Esplora la carne tenera come esplori i mille interstizi fra
le stoppie intrecciate.
Tieniti in vita così.
Respira piano.
Piano!
Conta le stoppie.
Non fa male.
È la morfina.
Il liquido pallido.
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L’iniezione nella coscia.
Morfina.
Stai sveglio!
Ripeti con me: mor-fi-na.
Cazzo! Stai sveglio!
Whomp… whomp… whomp… whomp…
È così la fine?
…la fine?
…la fine?
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II. Babel
Bagdad
30 marzo 1975
Ore 14:23
Il nastro dell’audiocassetta gira nei meccanismi del mangianastri con un leggerissimo cigolio, una specie di lamento, lontano, tuttavia acuto e fastidioso. Si sovrappone alla
voce umana registrata come un prurito. Un prurito che
induce a grattarsi fino a farsi sanguinare. Anche il più equilibrato – sano di mente, si dovrebbe dire – può impazzire
per il prurito, finendo per grattarsi con qualsiasi mezzo, le
unghie, un ferro da calza, un bastone, qualsiasi oggetto
capiti a tiro. È un supplizio. Il supplizio degli scabbiosi.
Grattarsi è inutile. Il prurito non passa, anzi sembra poter
aumentare all’infinito. Il prurito fa così. Si sovrappone alla
vita come quel cigolio acutissimo si sovrappone alla voce
registrata.
Un fatto della vita, si direbbe.
Non avrebbe dovuto farci troppo caso. Tutto lì.
La voce è quella di un uomo anziano, morbida, calda, a
tratti impostata. Ricercate oscillazioni del diaframma in
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risonanza con le vibrazioni delle corde vocali. Una voce
d’attore. È evidente che quella voce sia alla ricerca di un
effetto. Un effetto che faccia riaffiorare un’emozione
affondata da qualche parte nella pancia dell’interlocutore. Un’emozione affondata nella pancia di chi ora lo sta
ascoltando.
Chi ascolta è una ragazza. Si chiama Emmanuelle, come
la protagonista di un film che va per la maggiore in questi
giorni. Non è un film sfacciatamente porno, ma contiene
scene di sesso piuttosto esplicite che la gente vede volentieri.
Come l’attrice protagonista del film (che, per chi non lo
sapesse, si chiama Sylvia Kristel) anche lei è alta, magra, e
porta i capelli castani tagliati corti.
Gli occhi, di un duro colore indefinibile, fra il grigio e
l’azzurro, li ha probabilmente ereditati dal padre, un uomo
che lei non conosce. A parte gli occhi (quelli di sua madre
sono verdi, con l’iride screziata da microscopiche pagliuzze dorate che danno allo sguardo una brillantezza e una dolcezza eccezionali), tutto il resto è di origine materna.
Dicono che siano gocce d’acqua, madre e figlia, quasi
gemelle se non fosse per la differenza d’età. A volte,
comunque, le scambiano per sorelle, e sua madre, quando
ciò avviene, è felice.
Emmanuelle è nata il 14 luglio del ’54 a Parigi, una decina di giorni in ritardo sulla data presunta del parto (era attesa il 4 luglio, altra data storica, guarda caso…), lievemente
sottopeso, ma tutto sommato in buona salute, nonostante, a
quanto pare, la gravidanza non sia stata delle più facili.
Una bambina gracile, pallida e introversa. Giocava per
ore da sola, silenziosa e riflessiva, attenta però a qualsiasi
cosa le girasse intorno. A un certo punto la bambina è
diventata un’adolescente e ha iniziato a farsi e a fare un
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sacco di domande. Forse si è stufata di osservare in silenzio. Inquieta e volitiva, ecco com’è diventata Emmanuelle.
Una donna che ambisce a cambiare il mondo con le proprie
mani, e per questo è disposta, se non a tutto, a parecchio,
purché non significhi compromesso.
Fottutamente esigente, anche: con se stessa e con gli
altri. Forse non è un caso che abbia lasciato tutti i ragazzi
(non pochi) che ha avuto fino ad allora. Meno uno, sembra.
Ma quella è un’altra storia.
Quando qualcuno, dopo l’ennesimo colpo di testa, le ha
fatto notare che le cose nella realtà non girano mai nel
verso giusto (o comunque nel verso che ci piacerebbe), e
che se si vuole vivere in pace con se stessi bisogna prenderne atto, ha risposto che per lei va bene così dato che la mancanza di un padre nei primissimi mesi o anni di vita vorrà
pur significare qualcosa.
Ora quindi questa sconosciuta ha esattamente vent’anni,
due in meno dell’attrice Sylvia Kristel che è olandese, mentre lei dal passaporto risulta cittadina italiana. Ma che c’è di
più francese della presa della Bastiglia?
Per il mondo, comunque, come la gran parte dei suoi
abitanti, rimane una straniera e nessuno può immaginare
cosa ci faccia lì e perché ascolti la voce prodotta dal nastro
magnetico di un’audiocassetta inserita in un mangianastri
direttamente importato dall’Europa.
È arrivata in hotel, nel centro di Bagdad, non più di tre
ore fa. Milano, poi, via Roma Fiumicino, Istanbul, l’aeroporto intitolato ad Atatürk, padre della Turchia laica e
moderna.
Lì è rimasta in attesa un paio d’ore, nell’aeroporto brulicante, nuova porta verso l’Oriente, in compagnia di uomi37
ni baffuti e donne in minigonna, più occidentali delle occidentali.
Il DC9 della Turkish Airlines, volo TK 218, è atterrato
in perfetto orario, alle 11 e 23, ora locale. Hanno atteso
l’autorizzazione allo sbarco per quasi due ore. Impiantati
sul piazzale arroventato, sotto il sole del mezzogiorno. Il
comandante, uno scozzese di quarantadue anni, rossiccio
e amante dello scotch (Glenlivet è la sua marca preferita),
l’ha presa con filosofia. Ha chiesto un caffè, ha sfogliato
una delle riviste di bordo e ha scambiato quattro chiacchiere con il suo secondo, un turco di Istanbul sui trentacinque, troppo nervoso per i suoi gusti, che si è lamentato tutto il tempo del Fenerbahçe, fuori dalla Coppa
Campioni agli ottavi dopo il due a zero con il Ruch
Chorzów. Il comandante invece sorride al pensiero che il
Leeds passa ai quarti: tre a zero con gli ungheresi dell’Újpesti Dósza. Sorride e basta, pochi commenti con un tono
di distaccata obiettività, mentre dentro freme d’orgoglio.
Non vuole infierire sul suo secondo, già abbastanza provato dalla sconfitta della sua squadra del cuore. E poi ha
l’impressione che oltre a essere troppo nervoso sia anche
un tipo permaloso, come spesso accade agli uomini di
quella zona del mondo. L’ha sperimentato a sue spese, e
non ci vuole ricascare. Quelli ci tengono alla dignità, ed
essere derisi, qualunque sia l’argomento, li frustra al di là
di ogni possibile sopportazione.
Nessuna motivazione particolare dalla torre di controllo
per quell’attesa infinita. I passeggeri iniziano a innervosirsi,
e il comandante cerca di rassicurare tutti quanti con la sua
voce tranquilla e distaccata, trasmessa nella carlinga attraverso gli altoparlanti, mentre le hostess offrono da bere.
Loro non sono preoccupati. Succede. Ci vuole il suo
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tempo. E da quelle parti di tempo pare che ne abbiano fin
troppo.
Hanno continuato a parlare dei goal, di Joe Jordan e
della sua dentiera.
Lo chiamano jaws, Joe Jordan, centravanti del Leeds,
come il film di Spielberg appena uscito, quello sullo squalo. Lo squalo. La hostess, una bionda sorridente, dice che
non farà mai più il bagno di notte nuda, nell’oceano. I piloti ridono, ma non possono non immaginarla così, nuda, correre su una spiaggia caraibica, la pelle splendente sotto l’argentea luce della notte tropicale. Quel pensiero smuove
qualcosa nelle parti basse di quei due, mentre le autorità,
quelle no, non si smuovono mica se qualche passeggero
inizia a sbraitare, sventolando il passaporto con le credenziali diplomatiche. Se ne fregano e continuano a tenerli là,
sulla piazzola di cemento incandescente ad aspettare.
Quando alla fine, per motivi all’apparenza imperscrutabili, si sono decisi, la cuffia del comandante ha iniziato a
gracchiare parole in inglese. Accento arabo. I passeggeri
possono sbarcare, il messaggio laconico. Il comandante
lancia un’occhiata al suo secondo e alla hostess, quella
bionda e sorridente che non si butterà mai più in mare nuda
di notte, e dice: “Ci deve essere qualcuno, là dietro.
Qualcuno… E loro, loro, non avranno saputo che fare”.
La hostess smette di sorridere. Rabbrividisce e dice: “Fa
troppo caldo qui”. Poi, sempre senza sorridere, si avvia ad
aprire il portellone.
L’hotel dove Emmanuelle alloggia, il Babel, è il migliore di
Bagdad, in questo periodo. È una torre di una decina di
piani, in cemento armato, che svetta su tutto ciò che le sta
intorno. Segno tangibile della faticosa modernizzazione del
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paese. È stato difficile e costoso tirarlo su, anche per le
incomprensioni fra i progettisti sovietici e le maestranze
pakistane. Mentalità diverse. Problemi di linguaggio a non
finire, alla faccia della rivoluzione mondiale. E anche questo è certo. Comunque il coso sta in piedi e non ha nemmeno troppe crepe nei muri, già un buon passo avanti rispetto
alle stamberghe di hotel della città.
Ottima la posizione in Haifa Street, sulla riva sinistra del
Tigri, nel distretto di Zuweia, a dieci minuti dal centro.
Là dentro ci si trova di tutto: faccendieri (americani,
sovietici, turchi, italiani, francesi, inglesi, pakistani, libanesi), trafficanti d’armi, boiardi di stato, eminenze grigie, puttane d’alto bordo, eunuchi, petrolieri texani (grandi bevitori), terroristi, petrolieri sauditi (del tutto astemi), agenti
segreti, politici in visita di Stato, banchieri svizzeri.
Ognuno di loro serve allo stesso scopo. Una cosa soltanto.
Lo sanno tutti.
La stanza gliel’ha prenotata un uomo che lei non ha mai
visto, ma che crede di conoscere.
Di quell’uomo gliene ha parlato sua madre. A lungo.
Con abbondanza di particolari. Per anni. Una specie di
ritornello. Un eterno ritorno sulla bocca di sua madre
che, per la cronaca, si chiama Isabelle, ha più o meno cinquant’anni, ma ora che è malata ne dimostra di più. Molti
di più. Guardandola gliene daresti una sessantina. Più o
meno.
La ragazza, Emmanuelle, di quell’uomo se n’è fatta
un’idea tutta sua. Magari non troppo realistica. È normale
quando pensi che il tizio sia tuo padre, ma non l’hai mai
visto di persona e ne possiedi una sola fotografia. Lei la
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tiene nel portafogli come si fa con le foto dei parenti più
stretti, e qualche volta si è pure domandata il perché.
Comunque, si tratta di una foto in bianco e nero, piccola e anche piuttosto sbiadita. Lei, fisicamente, se lo immagina com’è lì, in quella foto piccola e sbiadita, scattata nel
’53 o nel ’54, mese più mese meno. La data, scritta a mano
sul retro della stampa, è talmente scolorita da risultare
quasi illeggibile. Il cinque si legge ancora bene, ma il tre
potrebbe essere un quattro, e viceversa.
Nella foto ci sono tre persone, due uomini e una donna.
Sullo sfondo una costruzione a un piano, architettura tipicamente coloniale, con patio e colonnato, bianca (ma
potrebbe essere anche un altro colore chiaro), circondata
sui due lati da alte palme svettanti oltre il tetto spiovente di
lamiera ondulata: due figure, la donna (al centro) e uno dei
due uomini (a sinistra), sono vicine, le spalle si sfiorano.
Sembrano a loro agio così vicine.
A destra, separato dagli altri due, un uomo alto e magro;
la faccia, con gli zigomi alti, è dura, e ricorda quella di un
asceta. L’uomo si chiama Vincent Pollack. Al tempo di
quella foto, piccola e sbiadita, è ancora il marito della
donna al centro della fotografia. Lo è, per quanto se ne sa,
da quasi quindici anni.
È vestito con un abito grigio completo di gilet. Non
porta il cappello. Al contrario degli altri due non sembra
per niente a suo agio.
A Emmanuelle lo sguardo di Vincent ha sempre fatto
paura.
L’altro uomo si chiama Pierre Kastòr. Lo chiamano il
Dottore fin d’allora, perché dottore lo è, specializzato in psichiatria, anche se la professione negli ultimi anni non l’ha
più praticata. Si tratta dell’uomo che lei dovrebbe incontrare
oggi, a Bagdad, e che afferma di essere suo padre. È più
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basso di Vincent, quasi tarchiato, vestito di bianco, una specie di panama floscio in testa. Il viso nella foto non si distingue con chiarezza. Ma, quanto meno, ha un bel sorriso.
Sembra uno in grado di mettere a suo agio ogni interlocutore. Potrebbe essere un buon amico. È un’impressione, niente
di più. Non c’è da farci affidamento più di tanto.
Parrebbe il contrario, ma Pierre è più vecchio di Vincent.
Almeno una decina d’anni. Più o meno.
A Emmanuelle la sua faccia non ha mai fatto paura.
Ma veniamo alla donna al centro: lei è la madre di
Emmanuelle. Isabelle. Alta, bruna, nella foto doveva avere
circa trent’anni. Deliziosa in un abitino a fiori di lino.
Sua madre ora però sta morendo. In Italia. A Milano. In
una stanza al sesto piano dell’Istituto dei Tumori. Via
Venezian. Vicino all’obitorio di Piazzale Gorini. Nel quartiere che chiamano Città Studi, per l’alta concentrazione di
istituti universitari e laboratori di ricerca. Di notte un quartiere a dir poco spettrale.
Quando l’ha salutata, prima di partire, respirava peggio
del solito. I medici le hanno attaccato l’ossigeno e una
nuova flebo.
Qualche tempo prima, quando Isabelle stava ancora
bene, avevano deciso di tornare a Parigi. Insieme, come
una volta. Un viaggio di ricordi. Infanzia e dintorni.
Quando se lo sono detto sembrava una cosa bella e semplice. Anzi, semplicissima. Basta decidere e andare.
Decidere e andare. Tutto qui.
Lei ora non sa se farà a tempo a rivederla.
Il volo di ritorno, Turkish Airlines TK 219 delle 15 e 30
per Istanbul, è prenotato fra due giorni. Potrebbe essere
troppo tardi. Potrebbe essere che sua madre, quando atterrerà a Linate, non ci sia già più.
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Il tragitto dall’aeroporto, solo una quindicina di chilometri
dal centro città, l’ha effettuato a bordo di una Mercedes
280, 185 cavalli, nera, solo per lei. Mai successo. Vetri
oscurati: tu vedi fuori ma nessuno può vedere all’interno. I
vetri oscurati sono utili anche per ripararsi dal riverbero
quasi insopportabile del sole del primo pomeriggio. Non è
abituata a lussi del genere. I suoi genitori ci pensano bene
anche solo per prendere un taxi. Preferiscono i mezzi pubblici, dicono. Anche se non sono taccagni ai soldi ci stanno
attenti. Molto attenti.
Qualcuno l’aspettava all’uscita dalla dogana. Un tipo
con un cartello con il suo nome impresso a caratteri cubitali: si è fatto capire a segni e l’ha accompagnata, portandole
la valigia, fino all’auto. Lì l’ha salutata con cordialità e se
n’è andato.
L’autista, un tipo baffuto, Ray Ban a specchio, abito
nero con cravatta sottile grigio scuro cangiante, non ha
aperto bocca. Ha guidato e basta. Fisso sul nastro nero
d’asfalto semiliquefatto, circondato da una pianura desolata e sabbiosa fino alle prime baracche della periferia. Poi
tutto s’è animato, bambini e uomini e donne velate, animali da cortile che razzolano in mezzo alla strada, bancarelle,
pezzi di carne rosso scuro coperti di mosche, nere masse
fameliche in movimento continuo.
Nessun odore o suono all’interno dell’auto.
Tutto è attutito. Lontano.
Fa un caldo impensabile. Ne ha avuto un piccolo saggio
scontrandosi con un muro di calore (l’aria è letteralmente
infuocata) appena messo un piede fuori dal terminal dell’aeroporto. Come sopravvivono, anzi come vivono, là
fuori?
Nell’auto invece fa fresco.
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Quando è arrivata alla reception del Babel l’hanno
accolta con sorrisi e inchini, come se fosse una vecchia
cliente. Lei però lì non c’è mai stata ed è rimasta sulle sue,
frastornata da tutto quell’agitarsi.
Ha consegnato il passaporto, poi ha chiesto del dottor
Pierre, l’uomo per cui ha fatto il lungo viaggio lasciando
Isabelle, sua madre, morente, a Milano.
Il portiere si è profuso in altri salamelecchi e le ha fatto
un lungo e incomprensibile discorso, un misto d’inglese,
francese, arabo e chissà quale altra lingua gli sia passata per
la testa in quel momento.
Emmanuelle è sorpresa da come la trattano: deferente,
riferito al portiere, è forse l’aggettivo più adatto. Il dottor
Pierre da quelle parti deve essere un tipo importante.
Per quanto ne sa, è amico del presidente Ahmad
Hassan al-Bakr, al potere, con un colpo di stato, dal 30
luglio del ’68 . Pochi mesi (guarda caso) dopo l’arrivo del
dottor Pierre in Iraq.
Forse è perfino consigliere del Presidente, quindi un
uomo potente di questi tempi, a Bagdad. Il Dottore. Si può
dire che il Dottore è uno che fa invidia a molti. Oppure
paura. O chissà quale altro sentimento. In quel posto qualcuno l’avrà anche amato. Probabile. Il suo sorriso è accattivante, ed è riuscito a farsi degli amici ovunque sia andato.
Il portiere ha scosso il capo, ha sorriso di nuovo e, con
un fare un po’ troppo ammiccante, le ha consegnato in
sequenza i seguenti oggetti: primo, la chiave della stanza;
secondo, una grande busta gialla, sigillata con ceralacca;
terzo, un pacco avvolto in pesante carta marrone, delle
dimensioni di una scatola da scarpe.
Terminata la consegna l’uomo le ha detto: tenth floor,
room ten-twenty-two. Ultimo piano. Poi ha fatto un brusco
cenno al facchino che se n’era rimasto immobile e presso44
ché invisibile dietro a una colonna, per tutto quel tempo, in
attesa di istruzioni.
Emmanuelle è entrata nella stanza 1022, dietro al facchino. Lui ha appoggiato l’unica piccola valigia (che contiene
tre magliette, un paio di pantaloni lunghi kaki, sei mutandine e reggiseno coordinati, un beauty case, un paio di scarpe di tela, una camicia da notte corta di cotone bianco) sull’apposito sostegno. Poi si è avviato alla porta, ma prima di
chiudersela alle spalle si è fermato. Anche lui ha sorriso. Lo
stesso sorriso del portiere: misterioso e un po’ troppo
ammiccante, che la inquieta. Lei allora gli ha allungato
qualche moneta italiana di cui ha cercato, senza riuscirci, di
calcolare mentalmente il valore nella valuta locale. Per
come il facchino ha sorriso qualcosa devono pur valere.
L’uomo se n’è andato con un inchino eccessivo e fin troppo servile.
Lei ha chiuso a chiave, poi si è seduta davanti all’ampia
vetrata con vista sulla città. Il Tigri, ampio e giallo, scorre
quieto dieci piani sotto di lei.
Il sole è ancora a picco. Tutto sembra coperto da uno
strato di polvere ocra. Il riverbero la infastidisce, senza
occhiali da sole. Si domanda se sia la polvere del deserto.
Non si è neppure spogliata: si è solo seduta davanti alla
vetrata, vicino al tavolino da gioco, dove ha appoggiato la
busta e la scatola, alla sua destra.
S’è messa comoda, ha fatto saltare le scarpe e disteso le
gambe; poi ha allungato una mano sulla busta gialla e l’ha
aperta usando le dita. Dalla busta gialla ha estratto alcune
audiocassette e un’altra busta, più piccola, che contiene
documenti e forse qualche fotografia. Le audiocassette
sono numerate. Su ognuna un’etichetta bianca con i numeri dall’uno al quattro, scritti a pennarello.
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Poi ha strappato la carta marrone dalla scatola che sembra una scatola da scarpe ma non lo è. L’ha aperta con cautela: non contiene nulla di pericoloso: solo un mangianastri
Philips, modello 2200, in produzione da un paio d’anni e
molto apprezzato perché funziona anche a batterie, è incredibilmente leggero e l’altoparlante è di ottima qualità. L’ha
tirato fuori dalla scatola e collegato alla presa della corrente. Poi ha inserito la prima cassetta nell’apposita fessura e
ha schiacciato il tasto play.
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