arte fiamminga - diversamente social

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arte fiamminga - diversamente social
ARTE FIAMMINGA
Premessa
L’arte europea, agli inizi del XV secolo, parla in maniera univoca un unico linguaggio artistico:
quello dell’arte tardo gotica. Ma fermenti di novità sono chiaramente all’orizzonte, e si concentrano
soprattutto in due aree geografiche precise: la Toscana e le Fiandre. In Toscana, come è noto, si
sviluppò quell’arte che noi oggi definiamo «rinascimentale» e la cui analisi affronteremo nei
prossimi capitoli. Nelle Fiandre (termine con cui, spesso, genericamente indichiamo una vasta area
geografica che comprende buona parte dell’attuale Belgio e Olanda) si sviluppò negli stessi anni
un’arte, che oggi chiamiamo «fiamminga», destinata anch’essa a conoscere un’ampia fortuna e ad
influenzare profondamente il resto dell’arte europea successiva.
In sintesi, come si era verificato un secolo prima, abbiamo un’arte di tradizione, che egemonizza il
panorama artistico, e due nuove proposte che si sviluppano tra l’Italia e i paesi transalpini. Agli inizi
del Trecento a monopolizzare la scena era stata l’arte bizantina, con la sua quasi millenaria
tradizione che aveva attraversato tutto il medioevo, mentre due nuovi stili sorgevano a ringiovanire
la visione estetica: l’arte italiana (quella di Giotto, dei Pisano, di Cavallini, dei Lorenzetti e così
via), e quella gotica.
Agli inizi del Quattrocento la situazione è quasi analoga, solo che questa volta l’arte che
monopolizza la scena è quella gotica, mentre le nuove proposte stilistiche vengono dall’arte
fiamminga e da quella rinascimentale. Nel corso del Quattrocento sarà sempre più l’arte italiana
rinascimentale a diffondersi in Europa e, alla fine del secolo, sarà proprio il Rinascimento ad
imporsi come nuovo linguaggio artistico europeo.
Le differenze tra arte rinascimentale e fiamminga sono molte, come poi vedremo, ma è da
evidenziarne una immediatamente: mentre l’arte rinascimentale rivoluzionò un po’ tutte le arti
(architettura, pittura, scultura e le arti una volta definite minori) le novità dell’arte fiamminga
riguardarono esclusivamente la pittura. Un’altra differenza sostanziale è che l’arte rinascimentale
ebbe una portata molto più rivoluzionaria, in quanto impostò una nuova visione artistica
autenticamente moderna, e per questo ebbe alla fine ragione di altri stili artistici, mentre l’arte
fiamminga in fondo va vista soprattutto come un’evoluzione dell’arte tardo gotica, evoluzione tesa a
conquistare un maggior naturalismo, ma che sostanzialmente non metteva in crisi un’arte che era
ancora espressione di un mondo basato su principi e valori propri del medioevo europeo.
Molteplici sono stati i protagonisti dell’arte fiamminga. Tra di essi il più noto è sicuramente Jan
Van Eyck, e che dalla tradizione storiografica era indicato come l’inventore di questo nuovo
movimento artistico. Oggi le nostre conoscenze ci permettono di affermare che, in realtà, a far
nascere il nuovo stile contribuì in maniera determinante un altro artista, la cui personalità appare
non sempre ben definita: Robert Campin. Questo è il nome che attualmente viene riconosciuto
all’artista più noto con il nome convenzionale di Maestro di Flémalle. Oltre questi due artisti, l’arte
fiamminga conobbe straordinari interpreti per tutto il XV secolo: Petrus Christus, Roger Van der
Weyden, Hans Memling, Giusto di Gand e Hugo Van der Goes, solo per citare i più noti. Da
segnalare che questi ultimi due pittori, e Roger Van der Weyden, furono attivi anche in Italia,
producendo influenze notevoli sullo stesso sviluppo dell’arte rinascimentale. Ma le influenze non
furono a senso unico. Anzi, il contatto con l’arte italiana determinò una svolta radicale nell’arte
fiamminga nel passaggio dal XV al XVI secolo, restandone segnata da un gusto classico di chiara
impronta italianizzante. Ne restarono immuni solo due artisti tra i più originali, dell’intera scuola
fiamminga: Hieronymus Bosch (attivo tra fine Quattrocento e primi anni del Cinquecento) e Pieter
Brueghel (attivo alla metà del Cinquecento). La loro visione fantastica e inquietante, a volte
grottesca a volte popolaresca, parlavano una lingua pittorica assolutamente originale che,
recuperando filoni più popolareschi della tradizione nordica e tedesca, giunse a risultati
completamenti diversi rispetto alla tradizione stessa inaugurata dalla tradizione fiamminga dei primi
decenni del XV secolo.
La pittura ad olio
Secondo la tradizione, i pittori fiamminghi, e in particolare Jan Van Eyck, furono gli inventori della
pittura ad olio. In realtà la tecnica di utilizzare oli essenziali quali veicolanti era già nota
nell’antichità, ed era limitatamente utilizzata anche nel medioevo. Quale sia stata, in questo campo,
la reale novità introdotta dai pittori fiamminghi è uno dei problemi ancora aperti della storia
artistica di quegli anni. Possiamo però ritenere che la vera rivoluzione che essi apportarono non fu
tanto nella composizione dei colori, quanto nella tecnica di stesura: con i pittori fiamminghi si elevò
a sommo grado la tecnica della velatura.
Quando si stende un colore su una superficie, in realtà non si fa altro che porre una pellicola su un
piano che, generalmente, in partenza è bianco. Questa pellicola, alla fine, copre la superficie bianca,
dandole il colore che l’artista intende rappresentare. La differenza tra le tecniche pittoriche è che
alcune, già alla prima pennellata, danno una pellicola interamente coprente, altre danno invece una
pellicola semi-trasparente. In questo secondo caso, la pennellata viene chiamata appunto «velatura».
Con le velature il pittore ha delle possibilità in più: può trovare molti più gradi di sfumature e può
ottenere una maggiore gamma cromatica. Ciò perché sovrapponendo più velature può gradualmente
giungere al tono che preferisce, mentre sovrapponendo velature di colore diverso può ottenere
infinite gamme di colori intermedi. Per esempio, se stendo una velatura di rosso, in partenza ho
sulla tela solo un rosa pallido: man mano che aggiungo altre velature ottengo gradualmente la
tonalità di rosso che mi serve in quella zona del quadro, senza alcun rischio di imprecisione,
ottenendo il tono che preferisco. Inoltre, se sovrappongo ad alcune velature di rosso, altre velature
di giallo, posso man mano ottenere sulla tela una tonalità arancio che, magari, partendo direttamente
dai pigmenti non sarei riuscito ad ottenere. Si comprende che, con la tecnica delle velature, un
pittore può ottenere una quantità di colori e di toni infiniti, ampliando le sue potenzialità di
rappresentare in maniera esatta il reale aspetto delle cose. L’unico «inconveniente», se così
possiamo definirlo, è che una pittura condotta per velature è molto lenta e laboriosa. Per completare
un quadro, soprattutto se di grandi dimensioni, occorrono a volte anni. Per fare una buona velatura
la pittura ad olio è fondamentale. Non solo: i colori ad olio risultano generalmente più brillanti e
luminosi dei colori a tempera, dando alla superficie finale del quadro un aspetto più intenso e
vivace.
Lo stile fiammingo
La pittura ad olio, con la tecnica delle velature, è stato uno dei punti di forza della pittura
fiamminga, ma non è stato l’unico. Alla novità tecnica, si sono aggiunte altre novità più
propriamente stilistiche: in particolare la precisione del dettaglio e la rappresentazione della luce.
Sul primo punto la pittura fiamminga non differisce molto da quella tardo gotica. Come
quest’ultima, anche l’arte fiamminga è una pittura estremamente analitica: ogni singolo dettaglio
viene analizzato e rappresentato compiutamente. Nella pittura fiamminga, anche grazie all’uso dei
colori ad olio e delle velature, la rappresentazione del dettaglio è ancora più esasperata fino al limite
delle possibilità tecniche.
Ma lì dove la pittura fiamminga ottiene i risultati più spettacolari ed interessanti, è sulla
rappresentazione della luce. Si può dire che ora, per la prima volta, la luce fa il suo vero ingresso
nell’arte pittorica. Fino a questo momento, può sembrare strano, era stata in realtà ignorata. I pittori,
nel dare il colore agli oggetti e allo spazio, si comportavano come se la luce fosse ovunque, il che
equivale a dire che era come se non ci fosse: nelle immagini la luce non proveniva da fonti
determinate, non illuminava lo spazio in maniera differenziata, non creava zone di luce e di ombra.
I pittori italiani che avevano perfezionato il chiaroscuro avevano utilizzato la luce per dare senso di
tridimensionalità ai corpi, ma in fondo era un modo astratto e molto concettuale di pensare la luce.
I pittori fiamminghi analizzarono invece la luce con un’attenzione maggiore. Si resero conto che la
luce ha sue qualità e proprietà, e che nell’illuminare gli oggetti crea immagini continuamente
variabili. Nell’arte italiana la creazione dell’immagine avveniva generalmente in questo modo:
costruisco, tramite il disegno, la forma che io «so» che hanno gli oggetti, coloro la forma con i
colori che io «so» che quegli oggetti posseggono.
I pittori fiamminghi non fanno questo processo di decostruzione concettuale della forma e di sua
ricostruzione razionale: vanno ad analizzare direttamente la percezione immediata della forma. Ed è
qui che essi si rendono conto che la luce gioca un ruolo fondamentale e imprescindibile ad una
corretta analisi dell’immagine. Per certi versi il loro è un atteggiamento molto moderno, che
anticipa percorsi analoghi che, attraverso la pittura tonale veneziana e la pittura olandese del
Seicento, giungono fino all’Impressionismo francese del XIX secolo.
L’analisi che i pittori fiamminghi effettuano sulla luce avviene grazie ad un espediente ben preciso:
la pittura d’interni. Nei loro quadri la scena rappresentata avviene sempre in uno spazio chiuso ben
delimitato: l’interno di un edificio architettonico. In uno spazio del genere la luce non può essere
diffusa, ma deve provenire necessariamente da una o più finestre. In pratica, l’ambiente viene ad
essere illuminato da una luce radente, e non uniforme, che proviene da un punto preciso. Da notare
che la scelta di rappresentare scene d’interni è stata molto comune a tutta la pittura fiamminga e
olandese anche nei secoli successivi. In situazioni del genere, la luce crea zone di maggiore
illuminazione e zone d’ombra. Non solo: il suo modo di colpire ed illuminare gli oggetti è più
intenso del normale chiaroscuro: crea zone di forte riflesso, per cui gli oggetti, qualsiasi colore
hanno, in quel punto diventano inevitabilmente bianchi.
Tutte queste caratteristiche contribuiscono a dare alla pittura fiamminga un effetto che potremmo
definire «fotografico»: in pratica riescono a dare alle immagini una sensazione di verosimiglianza
del tutto inedito.
Nella costruzione così precisa dell’immagine, i pittori fiamminghi giungono alle soglie della
prospettiva, anche se in realtà non arrivano a comprenderne appieno i meccanismi ottici e le leggi
geometriche. Tuttavia, nei loro quadri, seppure in maniera empirica, la costruzione dello spazio è
quasi sempre precisa. Lì dove a volte cadono è su un errore molto banale, e diffuso in tutta la pittura
tardo gotica coeva: non riescono a rendere congruo il punto di vista dello spazio con quello dei
personaggi. In pratica, come sempre succede, lo spazio che contiene i personaggi è in genere
rappresentato da un punto di vista «alto», mentre i personaggi, inseriti in quello spazio, sono in
genere rappresentati da un punto di vista «basso». Ciò, per le leggi della prospettiva, è impossibile:
l’immagine deve avere un solo punto di vista. Invece, nella pittura fiamminga e tardo gotica del
periodo, questa duplicità di punti di vista crea spesso degli effetti di distorsione dell’immagine
assolutamente inconfondibili, come avviene in alcune opere che sono in seguito descritte.
JAN VAN EYCK
Jan van Eyck (1390-1441) è stato sicuramente il pittore fiammingo più noto della prima metà del
Quattrocento, contribuendo in maniera determinante a far sì che questa pittura facesse scuola in
tutta Europa. La sua attività si svolse interamente nelle Fiandre, prima all’Aia, quindi a Tournai,
dove probabilmente fu in contatto con Robert Campin e Rogier Van der Weyden, infine a Bruges,
dove, nell’ultimo decennio della sua attività, produsse i suoi capolavori più noti.
La scintillante qualità cromatico-luministica dei suoi dipinti lo fanno ritenere l’inventore della
pittura ad olio, benché la sua fu una tecnica ancora lontana da quella che noi realmente definiamo
con questo nome. Tuttavia la procedura dello stendere il colore a velature trasparenti, è da
considerarsi senz’altro tipica della sua tecnica. Ciò gli consentì di ottenere quadri dal dettaglio
minuziosissimo, come mai si era fino ad allora visto. Ma ciò che più caratterizza la pittura di Jan
Van Eyck è l’attenzione alla luce e la capacità di rappresentarla nella maniera più fedele possibile.
Ciò gli consente di staccare le figure nello spazio e di dare ad ogni superficie la sua qualità tattile
più appropriata. Ne risulta un realismo fotografico che sicuramente dovette molto impressionare,
per la sua fedeltà al vero, i suoi contemporanei. Nei suoi quadri è tuttavia assente una costruzione
prospettica su basi geometriche, così come si veniva definendo in quegli anni in Italia. Ma la
costruzione dello spazio ha raramente momenti di imperfezione, grazie alla sua capacità di
un’attenta osservazione del vero. Ciò ci fa ritenere che la caratteristica di Van Eyck è proprio nella
scrupolosa e analitica osservazione della visione reale, che egli riesce poi a trasformare in empirica
rappresentazione grazie a metodi di totale controllo del dato percettivo. Ciò appare più vero
soprattutto in quei quadri, non frutto di costruzione immaginativa, ma di raffigurazione della realtà
immediatamente percepibile come avviene soprattutto nei ritratti, di cui quello dei coniugi Arnolfini
rimane sicuramente il più celebre.
RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI
Le Fiandre erano una delle aree più ricche dell’Europa di
quegli anni, grazie soprattutto ad una fiorente attività
industriale e commerciale, e non poteva non attirare gli
interessi delle grandi banche toscane che in quel periodo si
stavano espandendo in tutta Europa. Giovanni Arnolfini era
un ricco mercante di Lucca, che si trasferì a vivere a Bruges,
insieme alla moglie Giovanna Cenami.
Arnolfini era un uomo facoltoso, e poteva quindi permettersi
un’opera così importante e costosa: il suo ritratto è divenuto
una delle opere d’arte più famose di tutti i tempi. La sua fama
è legata a molti particolari, ma uno dei più curiosi e popolari
è sicuramente la presenza dello specchio convesso posto sulla
parete di fondo, e che vediamo giusto tra i due coniugi.
Attraverso questo specchio, per la prima volta un pittore
propone una rappresentazione più complessa dello spazio: in
una stessa immagine possiamo vedere la stanza da due punti
di vista, quello del pittore e quello, opposto, dei personaggi ritratti. Si ha così, potremmo dire, una
rappresentazione dello spazio a 360°. Nello specchio vediamo i due coniugi di spalle e, tra essi, si
vedono altre due figure: una delle due è ovviamente il pittore che sta eseguendo il ritratto. Pittore
che colloca la sua firma in forma insolita, scrivendo, proprio sopra lo specchio, «Johannes de eyck
fuit hic 1434»: Jan van Eyck è stato qui.
Questo specchio è un notevole saggio di bravura e di maestria: oltre alla rappresentazione dello
spazio attraverso una superficie convessa, contiene anche dieci piccoli medaglioni che raffigurano
altrettante scene della passione di Cristo. Piccolissimi quadretti, che danno la misura dell’estrema
meticolosità da miniaturisti di questi pittori, precisi anche nei dettagli più minuti.
Ma la grandezza di questo quadro è da cercarsi soprattutto nella qualità della luce. Lo spazio è
illuminato da alcune finestre collocate sulla sinistra, che danno alla stanza una illuminazione
radente. Questa luce, avendo una direzione ben precisa, illumina in maniera differenziata anche le
superfici piane ed infatti, qui, per la prima volta, vediamo un pittore che tratta con il chiaroscuro
anche una superficie piana, qual è quella della parete di fondo. Ma questa luce riesce anche a dare
qualità e giusto senso tattile ad ogni superficie che compare nel quadro: le superfici metalliche,
quelle delle stoffe, quelle del legno e così via, hanno l’aspetto reale e convincente che noi
avvertiamo proprio dal diverso modo di riflettere la luce. Qui avvertiamo una capacità di
osservazione, e di analisi della percezione ottica, assolutamente senza eguali nella ricerca artistica
di quegli anni.
La grande attenzione alla visione consente a Jan van Eyck di costruire uno spazio prospetticamente
valido, tuttavia, anche se in maniera meno accentuata, anche qui si avverte lo stesso equivoco di
tanta pittura nordica di quegli anni: la stanza è vista da un punto di vista leggermente più alto
rispetto a quello dal quale sono rappresentati i due coniugi.
Il significato del quadro è ancora oggetto di valutazioni, tuttavia appare certo che esso è inteso a
celebrare l’unione matrimoniale dei due protagonisti. Probabilmente fu realizzato proprio per
l’occasione delle nozze, e come spesso accade per opere del genere, il suo significato è un’apologia
del matrimonio. La donna ha un vestito che, nella sua strana forma, indica la fertilità della donna,
mentre il cagnolino ai suoi piedi è simbolo della sua fedeltà: due qualità fondamentali per una
donna che aspirava ad essere una buona moglie. Dalla parte dell’uomo vediamo a terra due zoccoli
di legno, nella classica foggia olandese. Essi sono in realtà simbolo di vita proba e laboriosa,
necessaria a sostenere una felice unione familiare. Probabilmente anche la scelta dei colori (il rosso
del letto, il verde della veste della donna) non erano casuali, ma avevano significati simbolici che
però oggi abbiamo completamente dimenticato.
Rimane tuttavia la perfezione di un’opera che non lascia nulla al caso, in cui tutto è determinato con
estrema precisione e che raggiunge l’effetto di un’armonia assoluta.
MADONNA DEL CANCELLIERE ROLIN
Questa tavola è una delle opere più originali realizzate da
Jan van Eyck nella sua attività. Essa rappresenta il
cancelliere della Borgogna Nicolas Rolin, inginocchiato
davanti alla Madonna con il Bambino in braccio, mentre
un piccolo angelo viene a porre una corona in testa alla
Vergine.
L’immagine è costruita partendo sempre dal classico cubo
interno di una stanza, posta in prospettiva centrale (con la
parete di fondo che giace parallela al piano del quadro).
Ma la grande novità dell’immagine è proprio lo
sfondamento della parete di fondo, sostituita da tre arcate,
oltre le quali si vede uno stupendo paesaggio. Questo è uno
dei primi esempi di vedutismo moderno, in quanto nel
medioevo fu del tutto assente la pittura di paesaggio:
bisogna risalire alle ultime pitture di età romano-ellenistica
per rintracciare esempi analoghi di vedutismo.
Qui lo sguardo del pittore coglie una profondità che è assolutamente straordinaria: oltre i tre archi
vediamo prima un giardino chiuso da un recinto merlato, e oltre vediamo una città
meravigliosamente costruita ai due lati di un fiume attraversato da un ponte a sei arcate. Oltre, si
stendono i campi coltivati, e lo sguardo, seguendo le anse del fiume, giunge fino ad alcune
montagne innevate che si sfumano in lontananza.
Inutile dire che questa veduta, pur realizzata in dimensioni molto contenute (l’intera tavola misura
appena 66x62 cm), è di un dettaglio straordinario, rappresentando finanche le persone che animano
le strade della città. Da notare, ovviamente, che in questa tavola il paesaggio è utilizzato quale
sfondo ad una storia che viene rappresentata in primo piano. Solo dal XVII secolo in poi la pittura
di paesaggio divenne un genere autonomo, prima essa ebbe sempre un ruolo di complemento, con la
funzione di arricchire i quadri nei quali i soggetti erano religiosi o storici.
In questa tavola, straordinaria è anche l’attenzione posta alla luce, che qui appare in combinazioni
più complesse rispetto al Ritratto dei coniugi Arnolfini. Gli archi, che si aprono di fronte a noi, ci
creano una situazione chiaramente di controluce. Per evitare che le figure in primo piano
rimanessero in ombra, l’artista ipotizza anche una luce frontale, la quale tuttavia non annulla
l’effetto di controluce, che possiamo ancora percepire soprattutto sul pavimento.
La prospettiva non è costruita in maniera impeccabile (si noti ad esempio la base della colonna del
loggiato) e un ulteriore elemento di ambiguità è dato dalla sproporzione tra il cancelliere Rolin e la
Madonna, con il primo che appare decisamente più grande rispetto al gruppo della Vergine con il
Bambino. Ciò, tuttavia, non pregiudica la grande qualità di questo dipinto, costruito con
impeccabile maestria.