Arte, contemporaneità, storia. La concezione del tempo

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Arte, contemporaneità, storia. La concezione del tempo
Arte, contemporaneità, storia.
NOTES
LA CITTà SENZA NOME.
SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
22 OTTOBRE
I SESSIONE_LEGGERE LA CITTà
La concezione del tempo rappresenta, oggi, una sfida e
una necessità. Una sfida perché tutto ci suggerisce che
stiamo vivendo all’interno di un sistema che si colloca
definitivamente al di fuori della storia. E una necessità
in quanto, per tutti coloro che sono esclusi dal sistema
globale, la questione della fine della storia significa la
perdita di ogni speranza ed è quindi portatrice di violenza.
Nell’interrogarsi su quale potrebbe essere la concezione
del tempo nel contesto della globalizzazione economica e
tecnologica, può essere utile effettuare un incursione per
trattare la questione dell’arte e dell’estetica. L’arte e, più
diffusamente, la creazione artistica o letteraria, sollevano
in effetti il problema della contemporaneità. Sotto diversi
aspetti, esse testimoniano il nostro rapporto con il tempo
e, più precisamente, il nostro rapporto simultaneo con il
passato e con futuro che, quando è condiviso, definisce
una forma di contemporaneità. Per rispondere alla
domanda ‘che cosa significa oggi essere artista o creativo?’
è necessario porsi diversi interrogativi, tutti di natura
antropologica e, in particolare, cercare di rispondere alle
tre seguenti domande seguenti:
1) Che cosa significa ‘appartenere al proprio tempo’?
2) Cosa significa oggi ‘il nostro tempo’?
3) Dove si trovano i punti di contatto tra la nostra epoca e
la creazione artistica o letteraria?
"Muji City" prodotto da MUJI
Michel Leiris nel suo saggio Le ruban au cou d’Olympia
propone due osservazioni contrastanti. Da una parte,
sottolinea che nella vita può arrivare un momento in
cui si può avere l’impressione di non appartenere più
pienamente all’epoca in cui tuttavia continuiamo a vivere.
Questa sensazione può essere particolarmente frustrante
per il creativo - scrittore o artista che sia - il quale constata
di non avere più niente da dire sulla sua epoca perché
quest’ultima non ha più niente da dirgli. Ma Michel
Leiris fa anche notare come sia sempre difficile definire o
individuare le caratteristiche specifiche dell’epoca in cui
viviamo. Guardando indietro, verso il passato, possiamo
invece percepire più chiaramente gli elementi che pongono
in collegamento un artista o un autore con il suo tempo.
In pittura, il dettaglio sembra essere uno degli elementi
in grado di segnalare la pertinenza di un artista rispetto al
suo tempo e, non di meno, la sua presenza o, se vogliamo,
il suo sopravvivere nella storia dell’arte. Il ‘dettaglio’ può
quindi apparire in retrospettiva come un promettente
segno di pertinenza storica. Il nastro di raso nero intorno
al collo di Olympia, quel misero collare, quel piccolo lusso
nella povertà, evoca a distanza l’interesse e l’attenzione
di Manet nei confronti della gente del popolo e, più in
generale, verso la città e la rivoluzione industriale: un
interesse assente nel resto dell’arte dell’epoca e, ancor
di più, nella nobile arte del ritratto. Ma Manet era un
artista inquieto, deluso di non veder riconosciuto dai suoi
contemporanei il proprio valore. Dovrà passare del tempo
prima che sia riconosciuto il suo essere in piena sintonia
con l’epoca, la sua ‘pertinenza’, e che la sua ‘presenza’
venga consacrata agli occhi dei posteri. In conclusione,
deve essere motivo di speranza per l’artista o l’autore
contemporaneo il fatto che egli possa ritrovare in alcune
opere del passato tracce di pertinenza storica e che risulti
sensibile alla loro presenza (queste gli parlano ancora).
La contemporaneità non è l’attualità.
Il paradosso è che quindi un’opera è veramente
contemporanea soltanto quando è sia originaria
(dell’epoca) che originale, quando non si accontenta di
riprodurre l’esistente. Sono coloro che innovano, e che
eventualmente sorprendono o disorientano, quelli che
poi in retrospettiva risulteranno appartenere pienamente
al loro tempo. C’è bisogno del passato e del futuro per
essere contemporanei. In altri termini, l’arte si misura
sulla capacità che ha di stabilire relazioni, ovvero sulla sua
capacità simbolica. Senza audience, senza pubblico, l’arte
è una prova di solitudine assoluta. L’arte ha l’obbligo di
essere sociale. Questa capacità simbolica si afferma ancor
più quando riesce a sopravvivere al tempo e rimane attuale
anche quando la domanda di cui è oggetto si evolve o
cambia. Se prescindiamo dalle leggi del mercato dell’arte
- dobbiamo ammetterlo, cosa oggi alquanto difficile
- si arriva alla conclusione che la legge della domanda
e dell’offerta nell’arte tende quasi ribaltarsi: l’offerta
dell’artista è in forma di domanda (mi comprendete?) e la
domanda del pubblico è in forma di invito (ha qualcosa da
dirci?).
In sintesi, oggi come ieri, l’opera si misura facendo
riferimento a tre parametri:
a) Il suo essere inscritta in una storia specifica, la storia
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Marc Augé.
La trasformazione del paesaggiourbano:
dalla storia alla globalizzazione.
Marc Augé è un etnologo e antropologo francese. Attraverso
la teorizzazione di una antropologia della Surmodernità ha
focalizzato alcuni aspetti prioritari della società contemporanea
metropolitana, quali il paradossale incremento della solitudine
nonostante l'evoluzione dei mezzi di comunicazione; lo strano
percorso relazionale dell'‘io’ e dell'‘altro’ immersi in un contesto
europeo di fine millennio; il ‘nonluogo’, ovvero quello spazio
utilizzato per usi molteplici, anonimo e stereotipato, privo
di storicità e frequentato da gruppi di persone freneticamente
in transito. Il risultato di questa analisi è stato un apparente
insuperabile gap fra il linguaggio e l'esperienza. È stato direttore
della École des hautes études en sciences sociales (EHESS)
a Parigi dove insegna Antropologia.
che sancisce la natura definitiva della formula che associa
economia di mercato e democrazia rappresentativa. La fine
dei grandi racconti era messo in relazione, da un parte, con
la scomparsa delle cosmogonie particolaristiche (ovvero,
proprie di un determinato gruppo) per effetto della
modernità del XVIII secolo e, dall’altra, con la scomparsa
dei miti escatologici universalistici e delle visioni sul futuro
dell’umanità con la comparsa della condizione postmoderna, figlia delle disillusioni del XX secolo.
La capacità simbolica dell’opera è la sua attitudine a
stabilire un legame (intellettuale, affettivo e sociale) con
coloro che la scorgono. Essa definisce la presenza di
un’opera.
In quanto al nostro tempo, il tempo in cui abbiamo
l’impressione di vivere oggi, si tratta di un tempo
accelerato che ci obbliga a confrontarsi con altri tre
paradossi che si aggiungono a quelli individuati finora.
Il terzo paradosso, estensione del secondo, è che la nuova
ideologia del presente è quella di un mondo che, se
potessimo prescindere per un momento dalle apparenti
evidenze diffuse dall’attuale sistema politico e tecnologico,
ci apparirebbe per quello che è: un mondo in piena
eruzione storica. Il progresso scientifico non ha mai
seguito un ritmo tanto veloce. L’idea che oggi possiamo
farci dell’universo, ma anche dell’uomo, è destinata in
pochi anni a subire cambiamenti radicali. D’altro canto,
è la prima volta nel corso della storia che ci troviamo ad
affrontare quelle che sono le sfide di una storia planetaria
comune in via di realizzazione. Infine, con l’urbanizzazione
del mondo stiamo vivendo un cambiamento paragonabile,
secondo il demografo Hervé Le Bras, a quello del
passaggio dal nomadismo all’agricoltura.
Se i punti di contatto tra la creazione artistica e il tempo
in cui viviamo sono oggi così difficili da individuare,
è proprio a causa di un tempo talmente accelerato da
diventare inafferrabile, del monopolio del linguaggio
spaziale su quello temporale; la supremazia del codice (che
prescrive comportamenti) sul simbolico (che stabilisce
relazioni) ha delle ripercussioni dirette sulle condizioni
della creazione. Il mondo circostante e l’epoca in cui vive
si mostrano all’artista attraverso forme mediatizzate immagini, avvenimenti, messaggi - le quali, già di per sé,
rappresentano gli effetti, gli aspetti e i principi del sistema
globale. Questo sistema è l’ideologia di se stesso; contiene
in sé le proprie istruzioni d’uso; diventa letteralmente
lo ‘schermo’ della realtà che sostituisce, o meglio, della
quale prende il posto. Il disagio e lo smarrimento degli
artisti di fronte a questa situazione sono anche i nostri o,
piuttosto, tendono ad amplificarli a tal punto che, anziché
porci il problema della loro pertinenza rispetto ai tempi,
ci interroghiamo sulla natura e il significato della loro
presenza: cosa hanno da dirci?
Per questo talvolta possiamo avere l’impressione che gli
architetti siano i grandi artisti del nostro tempo. Essi
sposano la propria epoca, elaborandone le immagini e i
simboli. I più celebri erigono in ogni angolo del pianeta
delle ‘singolarità’, nella doppia accezione del termine:
opere singolari perché segnate e contrassegnate da uno
stile personale, e opere concepite, al di là della loro
giustificazione locale, come curiosità planetarie in grado di
attirare flussi turistici da tutto il mondo. Il colore globale
ha preso il posto del colore locale.
Il paesaggio surmoderno è un paesaggio essenzialmente
urbano, ma bisogna aggiungere che l’urbanizzazione
trasforma la città urbanizzando il pianeta. L’estensione
del tessuto urbano è un fenomeno che corrisponde alla
moltiplicazione degli spazi di circolazione, di consumo e
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Il primo paradosso, già evocato precedentemente, è di
ordine spazio-temporale. La misurazione del tempo e dello
spazio cambia. La Terra non è che un punto infinitesimale
rispetto al quale misuriamo in anni-luce la distanza dalle
stelle, ma i cambiamenti sulla Terra sono tali che per
misurarli avremo bisogno di intervalli brevi.
Il secondo paradosso è la comparsa di un nuovo spaziotempo che oggi sembra consacrare la perennità del
presente, come se l’accelerazione del tempo fosse tale
da impedire di percepire il suo trascorrere. Da qui, la
pregnanza dello spazio nel tempo. La contrapposizione di
globale e locale appartiene alla geografia e alla strategia.
Riprendiamo brevemente le caratteristiche della nuova
dimensione spazio-temporale in cui sembra essere inscritta
la vita economica e politica del pianeta:
a)Il riferimento a una dimensione di scala planetaria
è naturalmente all’opera nelle rappresentazioni della
globalizzazione economica e tecnologica, ma anche nella
coscienza ecologica e nella coscienza sociale di chi con
preoccupazione assiste alla crescita del divario tra i più
ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri. Uniformità e
disuguaglianza camminano dello stesso passo.
b)La circolazione di immagini e messaggi intorno
al globo e in ogni angolo del pianeta rappresenta
quella che possiamo definire ‘cosmotecnologia’.
Contemporaneamente si assiste alla diffusione sul pianeta
di spazi del codice. Questi spazi della comunicazione,
della circolazione e del consumo, questi ‘non-luoghi’ - per
riprendere un concetto avanzato nel 1992 - sono riservati
a degli utenti individuali e non prevedono la creazione
di particolari relazioni sociali durevoli. In questi nonluoghi coabitano provvisoriamente delle individualità, dei
passeggeri, dei passanti.
c)A questo sistema che scompone la Terra in caselle senza
però avvolgerla, corrisponde una teoria sulla fine della
storia formulata da Fukuyama, che in un certo senso è
stata anticipata da Lyotard quando ha evocato la fine dei
‘grandi racconti’. La fine della storia non è la fine degli
avvenimenti, ma è l’affermazione di una posizione generale
di comunicazione. Questa moltiplicazione ha a sua volta
degli effetti sullo spazio urbano e sullo sguardo che lo
riconosce come paesaggio.
Le grandi città si definiscono innanzitutto per la loro
capacità di importare o esportare uomini, prodotti,
immagini e messaggi. Da un punto di vista spaziale, la
loro importanza si misura sulla qualità e l’ampiezza della
rete autostradale e ferroviaria che le collega ai rispettivi
aeroporti. La loro relazione con l’esteriore si inscrive nel
paesaggio nel momento in cui i cosiddetti centri ‘storici’
costituiscono sempre più un oggetto d’attrazione per i
turisti del mondo intero.
Allo stesso tempo, le opere più significative
dell’architettura mondiale sembrano alludere a una
società planetaria ancora assente. Rappresentano
luccicanti frammenti di un’utopia esplosa, di una società
della trasparenza che ancora non esiste affatto. In un
certo senso, alimentano le illusioni dell’ideologia del
presente, sono espressione del trionfo del sistema nei
nodi cruciali della rete planetaria. Allo stesso tempo,
configurano qualcosa che appartiene all’ordine dell’utopia
e dell’allusione designando, e disegnando, un tempo che
non è ancora arrivato, che forse non arriverà mai, ma che
rimane nell’ordine del possibile.
In questo senso, il rapporto con il tempo espresso dalla
grande architettura urbana contemporanea riproduce
capovolgendolo il rapporto con il tempo espresso dallo
spettacolo delle rovine. Le rovine contengono troppa storia
per esprimere una storia. Ciò che esse ci mostrano non è la
storia. Al contrario quello che percepiamo è l’impossibilità
di immaginare tutto quello che rappresentavano agli occhi
di coloro che le vedevano prima che queste diventassero
delle rovine. Le rovine ci fanno percepire il tempo della
storia, ma il tempo, il tempo puro.
Quando contempliamo le piramidi maya nella foresta
tropicale del Messico o del Guatemala, oppure i templi di
Angkor che emergono dalla foresta cambogiana, abbiamo
sotto gli occhi uno spettacolo inedito che non ci mostra
alcuna storia: rovine si innalzano sulle rovine per ritornare
alla natura appena vengono abbandonate dagli uomini.
Quello che proviamo di fronte allo spettacolo delle rovine
è l’impossibilità di percepire e comprendere la storia,
una storia concreta, datata e vissuta. Poiché anche questa
impossibilità è percepibile. La percezione estetica del
tempo puro è percezione di un’assenza, di una mancanza.
Questa coscienza della mancanza è relativa all’appercezione
estetica dell’opera originale. Per questo le copie
riconosciute come tali deludono: mancano di mancanza.
E sappiamo bene che se oggi un pittore dipingesse
come Rubens o come qualsiasi altro grande classico
non desterebbe l’interesse di nessuno poiché le opere di
Rubens, come quelle dei più grandi classici, sono percepite
tuttora come presenti e pertinenti.
Ma ciò che è vero del passato è probabilmente vero anche
del futuro. Il tempo puro è indifferentemente passato
(sebbene non si tratti della storia) o futuro (sebbene
sia estraneo alla prospettiva o alla pianificazione). La
percezione del tempo puro, è la percezione presente di
una mancanza che struttura il presente orientandolo verso
il passato o l’avvenire. una percezione che sorge sia di
fronte allo spettacolo dell’Acropoli che al museo di Bilbao.
L’Acropoli e il museo di Bilbao posseggono un’esistenza
allusiva, una forte presenza che mostra un’indefinibile
pertinenza.
Oggi gli artisti e gli scrittori sono probabilmente
condannati a ricercare la bellezza dei non-luoghi, a
scoprirla opponendo resistenza alle prove evidenti
dell’attualità. Vi si dedicano ritrovando il carattere
enigmatico degli oggetti, delle cose private di ogni esegesi
o istruzione d’uso; mettendo in scena e assumendo
per oggetto i media (che vorrebbero presentarsi come
mediazioni) e rifiutando il simulacro e la mimesi.
L’ermetismo dell’arte, oggi, consiste nel prendere per
oggetto le evidenze del contesto per destrutturarle. Del
resto è sempre stato così, ma oggi l’arte si scontra con
l’invadenza delle immagini, con la confusione tra realtà
e fiction, con avvenimenti mediatizzati e definiti dalla
loro mediatizzazione, con il regime dell’evidenza e con
il liberalismo che recupera l’arte per farne un prodotto
di mercato, assegnarla alla residenza museale o, più
semplicemente, ignorarla. Il processo di accelerazione della
storia rende ancor più difficile valutarne la pertinenza e la
presenza rispetto ai modelli del passato e alle aspettative
del futuro.
L’arte contemporanea subisce costantemente la minaccia di
essere fagocitata dal consumo planetario. L’organizzazione
della vita artistica attraverso le fondazioni, le biennali
e i forum, configura un mercato dell’arte che ha tutte
le sembianze del mercato liberale globale. Per contro,
una simile situazione rende evidente la necessità di
un’arte distaccata che non si lasci assorbire dalla cultura
dominante (Dubuffet, nel suo pamphlet Asphyxiante
Culture, edito dalle Editions de Minuit, agli inizi degli
anni Ottanta aveva scritto che il primo dovere dell’artista
era di sfuggire alla cultura). Ma è altrettanto chiaro
quanto sia difficile perseguire questa auspicabile ‘presa di
distanza’. Yves Michaud, ne’ L’art à l’état gazeux, afferma
che l’estetica ha preso il posto dell’arte, che la grande arte
è morta, che l’arte contemporanea è un’esperienza legata
al mondialismo alla stregua del turismo di massa, che non
esistono più opere, aura e contemplazione, ma soltanto
delle mode. Le attitudini e gli atteggiamenti avrebbero
preso il posto delle opere: eventi, incontri, perfomance
e installazioni non sarebbe altro che una reduplicazione
del contesto. in altre parole, il contenuto dell’arte
consisterebbe nel contesto. L’arte pur avendo mantenuto
una certa pertinenza (rispetto all’epoca), avrebbe perso
ogni presenza, ogni capacità simbolica, rifuggendo le
evidenze dell’immagine soltanto attraverso una nuova
forma di ermetismo.
Si tratta di una posizione indubbiamente troppo severa
o troppo pessimistica; tuttavia ha il merito di evidenziare
quanto, nell’arte come altrove, il contesto ha subito un
tale sconvolgimento che oggi è necessario ripensare con
urgenza le condizioni della pertinenza, ristabilendo il
legame tra storia interna e storia esterna, tra storia della
disciplina e storia del contesto.
In altre parole si tratta, per gli artisti, ma anche per gli
osservatori della società e per i politici, di ritrovare il senso
del tempo, al di là della coscienza storica, per costruire
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Marc MARI.
ENZO
Augé.
LA trasformazione
La
FRAMMENTAZIONE del
DELLA
paesaggiourbano:
CULTURA.
dalla storia alla globalizzazione.
‘interna’, foss’anche a titolo rivoluzionario.
b) Il suo articolarsi rispetto al proprio tempo, la sua
esistenza in rapporto alla storia ‘esterna’, contestuale,
sebbene questa non si manifesti che a distanza.
Questi due primi parametri definiscono la ‘pertinenza’
di un’opera, pertinenza si rispetto alla sua epoca che alla
storia dell’arte.
c) La sua capacità simbolica, nonostante questa possa
manifestarsi in ritardo.
La trasformazione del paesaggio urbano:
dalla storia alla globalizzazione.
Il paesaggio, in particolar modo il paesaggio urbano,
riflette senza dubbio la natura del mondo attuale. La città
è cambiata. Del resto la scenario urbano è sempre stato
territorio di decostruzione e ricostruzione. Nelle città
europee i monumenti storici si sono accumulati nel corso
dei secoli, dando luogo a una stratificazione irregolare e
complessa. Nel periodo storico in cui l’Europa si accingeva
a colonizzare il mondo intero, il modello urbano tipico del
Vecchio Continente è stato esportato in tutto il mondo: le
città coloniali sono state edificate come replica della città
europea. Fino al XX secolo, quest’ultima si è sviluppata
per accumulazione e sovrapposizione di storia, stili e genti.
Basti pensare alla Parigi moderna descritta da Baudelaire:
una distesa di differenti architetture, testimonianza del
succedersi di periodi storici che si confondevano e
ritrovavano unità nel paesaggio sotto i suoi occhi. In
quell’epoca la capitale francese, come molte altre città
europee, viveva una vera e propria rivoluzione del tessuto
urbano. “La Parigi di un tempo non esiste più” constatava
il poeta che osservava con sguardo critico, altre volte
romantico, la modernità di una città dove le ciminiere
fumanti delle fabbriche e gli antichi campanili delle chiese
condividevano lo stesso cielo. La possibilità di poter
percepire accumulazione e sovrapposizione presuppone
però una certa distanza. è proprio dalle alture del cimitero
di Père-Lachaise che, nell’ultime pagine del Papà Goriot di
Balzac, Rastignac contempla la città di Parigi gettando il
suo sguardo tra la colonna di Place Vendôme e la cupola
della Chiesa degli Invalidi. Il panorama è quello di un
mondo aggrovigliato, di un labirinto tortuoso adagiato
sulla Senna. Ma la visibile stratificazione di periodi storici
diversi, la coesistenza di più stili, la coabitazione di antico
e nuovo - che per molto tempo ha rappresentato un vero e
proprio paradigma urbano - non caratterizza più il
paesaggio contemporaneo. La sensazione è che quel genere
di modernità non sia più proponibile. Solo in rarissimi casi
possiamo osservare paesaggi urbani che continuano a
evocare la modernità della Parigi di Baudelaire. È venuto
meno quel gusto per l’accumulazione che nel corso
dell’Ottocento, tra l’altro, aveva segnato la diffusione dei
musei anche se con l’intenzione di catalogare e classificare
distintamente periodi storici e generi. Oggi i musei si sono
trasformati e suscitano più curiosità come monumenti che
per il patrimonio custodito al loro interno. La
moltiplicazione degli spazi di circolazione e di
comunicazione ha prodotto i suoi effetti non solo sullo
spazio urbano, ma anche sul modo di guardare al
paesaggio. Il patrimonio artistico, culturale e naturalistico
si presenta come un oggetto di consumo più o meno
decontestualizzato, o come un oggetto il cui vero contesto
è il mondo della circolazione planetaria o surmodernità.
La surmodernità non si contrappone alla modernità, ma
ne è al contrario un prolungamento: è l’accelerazione e la
complicazione degli effetti della modernità per come era
stata concepita nel XVIII e nel XIX secolo. Il paesaggio
surmoderno è un paesaggio essenzialmente urbano,
risultato dell’accelerazione della storia, della contrazione
dello spazio, dell’individualismo consumistico. E
l’urbanizzazione ha trasformato la città urbanizzando il
pianet. La tendenza è quella di isolare i quartieri storici
nella loro purezza, facendone degli autentici musei a cielo
aperto, luogo di visita per i turisti; mentre la parte vitale
della città è dislocata all’esterno. Abitiamo sempre più un
mondo di giustapposizioni anziché di coniugazioni.
Abbiamo perso lo spirito di quella modernità che, senza
soluzione di continuità, si ricongiungeva alla storia
attraverso l’accumulazione. L’esplosione della città ha
trasformato ogni brano urbano in una sorta di periferia.
L’architetto e urbanista Bernard Huet fa risalire una certa
forma di contrapposizione tra architettura e città al
Movimento Moderno impegnato a fronteggiare la crisi
degli alloggi urbani tra le due guerre mondiali. Le Unité
d’habitation progettate da Le Corbusier avevano
inaugurato il concetto di appartamento come cellula-base
per la gestione razionale degli alloggi di massa nella società
industriale. Un processo che andava in direzione della
monumentalizzazione dell’alloggio, rivestito di tutti gli
attributi dell’opera d’arte. Huet fa però notare che la
singolarizzazione delle unità abitative comporta un rischio:
l’architettura diventa il risultato del ripiegamento del
progettista su se stesso, pura espressione della sua
individualità artistica, a discapito di qualsiasi riferimento
al contesto e alla storia. Così le attuali periferie urbane
evocano un museo disordinato, messa in scena di
singolarità autonome che si impongono laddove si dissolve
la città storica. Ebbene nel mondo surmoderno sottoposto
alla triplice accelerazione della conoscenza, della tecnologia
e del mercato aumenta il divario tra la rappresentazione di
una modernità senza frontiere in cui beni, persone,
immagini e messaggi circolano liberamente e la realtà
effettiva di un pianeta diviso, frammentato. Una realtà in
cui le divisioni che l’ideologia del sistema si ripromette di
eliminare, di fatto, sono l’elemento fondante del sistema
stesso. Ogni giorno, all’immagine del mondo-città - o
della meta-città virtuale, secondo la definizione di Paul
Virilio- che descrive l’intero pianeta come un’unica grande
rete di circolazione e comunicazione, si contrappone la
dura realtà delle città del mondo dove si manifestano e si
scontrano le differenze e le disuguaglianze. Il processo di
urbanizzazione si traduce principalmente in due fenomeni:
da un lato la crescita dei grandi centri urbani già esistenti,
dall’altro la comparsa e l’estensione lungo le vie di
comunicazione, i fiumi e le coste marittime di quelli che il
demografo Hervé Le Bras ha chiamato ‘filamenti urbani’.
La diffusione di filamenti urbani che saldano tra di loro le
città esistenti lungo le vie di circolazione, i fiumi o le coste
marittime disegnano un tessuto tanto interconnesso da
configurarsi come una grande meta-città virtuale. Il diffuso
‘collegamento virtuale’ di tutti i grandi centri urbani
trasforma il mondo intero in una sconfinata città (le
monde-ville). Come se le aree più urbanizzate del pianeta
non fossero altro che frammenti di un unico mondo-città.
Ma, a sua volta, ogni città tende a diventare essa stessa un
‘mondo’ (la ville-monde) abitato da gente proveniente da
ogni angolo del pianeta e pervaso da un flusso incessante
di informazioni che esalta le interrelazioni di distanza e
rende marginali le relazioni di prossimità immediata. È
dunque altrettanto vero che ogni grande città è un mondo:
le differenze culturali, sociali, religiose ed economiche
ospitate fanno di ogni singolo centro urbano una sintesi e
una ricapitolazione del contesto globale. E anche se tentati
dall’affascinante spettacolo della globalizzazione tendiamo
a dimenticarlo, la discriminazione abita ancora un tessuto
urbano lacerato e diviso da frontiere e barriere. Quando
parliamo di città parliamo anche di quartieri difficili, di
ghetti, di povertà e di sottosviluppo. Oggigiorno una
grande metropoli racchiude anche tutte le differenze e le
disuguaglianze che caratterizzano il mondo intero. Così
come nelle città del Terzo Mondo possiamo trovare
quartieri di affari collegati alla rete mondiale, anche nelle
più grandi città del mondo occidentale possiamo ritrovare
tracce di sottosviluppo. Il concetto di città-mondo
contiene già in sé i presupposti per smascherare l’illusione
di una città diffusa senza muri, separazioni e barriere.
L’esperienza quotidiana sia su scala individuale che locale
ci conferma come in realtà il mondo globale è quello delle
limitazioni, delle discontinuità e dei divieti. Quando,
invece, l’estetica dominante è estetica delle distanze che si
preoccupa di cancellare rotture e difformità: le foto
scattate dal satellite, le riprese aeree ci abituano a
un’immagine globale delle cose. Autostrade, treni ad alta
velocità, collegamenti aerei intercontinentali: tutto ciò
restituisce l’immagine di un mondo globale, come ci
piacerebbe che fosse. Stiamo anche assistendo alle prime
forme di turismo spaziale e alla visione del pianeta Terra
come paesaggio visto dall’alto a centinaia di chilometri di
distanza.
Nell’antropologia architettata dalla società dei consumi
l’essere umano è già dipendente dalle protesi che lo
investono: bisogna consumare per esistere e il culmine
dell’esistenza è riuscire a passare dall’altra parte dello
schermo, farsi immagine. La telerealtà, come anche la
creazione di siti personali sulla Rete, traducono la necessità
di questo passaggio all’immagine, senza dimenticare
ciò che potremmo chiamare la ‘pregnanza della fiction’,
un fenomeno non nuovo (al largo di Marsiglia si può
visitare la segreta del conte di Montecristo, protagonista
del romanzo di Alexandre Dumas ), ma che oggi è
generalizzato e trae origine dalle immagini viste sullo
schermo anziché dalle elaborazioni dell’immaginazione.
Oggi non solo i turisti cercano di ritrovare a New York i
luoghi di serie televisive americane come Sex & the City,
ma accanto a Eurodisney è sorta una vera e propria città
che somiglia molto a quella fictional dell’immaginario
Disney e chi vi abita si ritiene molto fortunato di poter
vivere in questa città da sogno. Di fronte all’immagine
della città-mondo si può avere l’impressione che la
città in quanto tale non esista più. Indubbiamente i
cambiamenti che hanno interessato l’organizzazione del
lavoro, la precarietà (il lato oscuro della mobilità) e i nuovi
media impongono un’immagine in cui le tradizionali
opposizioni città/campagna e urbano/non-urbano perdono
di significato. Il mondo-città e la città-mondo appaiono
intrecciati l'uno all'altra, ma in modo contraddittorio:
il mondo-città rappresenta l'ideale e l'ideologia del
sistema della globalizzazione, mentre nella città-mondo si
esprimono le contraddizioni e le tensioni storiche generate
dal sistema.
La contrapposizione tra mondo-città e città-mondo riflette
il sistema della storia e, per certi versi, ne è la traduzione
spaziale o paesaggistica concreta. La preminenza del
sistema sulla storia e del globale sul locale ha conseguenze
nell’ambito dell’estetica, dell’arte, dell’architettura. Ogni
contesto locale, oggi, è anche contesto globale; proprio per
questo, paradossalmente, l’architettura urbana rappresenta
la massima espressione del sistema e rischia di esserne
l’espressione più caricaturale (come quando a Time
Square adotta l’estetica dei parchi di divertimento, o come
quando a Disneyland mette in scena il regno della fiction).
Se l’architettura dà letteralmente forma alle illusioni
dell’ideologia presente, esprimendo un’estetica della
trasparenza, del riflesso e dell’altezza che è derivazione
diretta dell’estetica della distanza, allora, nel tener in vita
un simile immaginario e nel segnare la vittoria del sistema
presso i nodi principali della rete planetaria, l’architettura
urbana assume una dimensione essenzialmente
utopica. Gli esempi più significativi dell’architettura
contemporanea sembrano alludere a una società planetaria
ancora inesistente, ma alla quale vorremmo credere.
Quindi su scala planetaria si parla di altri mondi, iniziamo
ad assumere coscienza incerta grazie alla nostra capacità
di immaginare. Gli urbanisti, come gli architetti un
po’ come gli artisti, gli scrittori, sono condannati oggi
forse a ricercare la bellezza dei non luoghi resistendo alle
apparenti evidenze dell’attualità.
I non-luoghi empirici che compongono il paesaggio
dominante del nostro nuovo mondo (aeroporti,
ipermercati, stazioni ferroviarie, etc.) sono stati
immaginati dai più grandi architetti come spazi comuni,
se non propriamente pubblici, in grado trasmettere a tutti
coloro che li attraversano in qualità di utenti, di passanti o
di clienti che né il tempo né la bellezza sono assenti dalla
loro storia. La città è sempre più il luogo di questa attesa e
di questa speranza. Il nostro sguardo, educato dal cinema e
della televisione, si posa su paesaggi assolutamente utopici.
Mentre cerchiamo di gestire la nostra vita nella conquista
del domani, continuano ad essere proiettate intorno a
noi immagini di metropoli sfolgoranti di luci, sequenze
cinematografiche di grattacieli ripresi dall’elicottero.
Ma nella dimensione spaziale si riproduce la crudeltà
dell’esperienza temporale: la storia non finisce mai,
mentre la vita individuale è breve. La dimensione utopica
e sognata che caratterizza il paesaggio surmoderno come
promessa di un unità e bellezza, anche se non dovesse
essere disillusa dalle contraddizioni della storia non potrà
comunque vedersi realizzata nell’arco della esistenza del
singolo. È lo spettacolo di una città in trasformazione,
come accadeva nel XIX secolo quando tutti i poveri del
mondo rurale si precipitarono verso la città, i dannati
di oggi preferiscono rischiare la morte per fuggire nelle
grandi metropoli. E per quanto fallace o promettente sia,
la luce della città brilla ancora.
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ENZO MARI.
LA FRAMMENTAZIONE DELLA CULTURA.
22 OTTOBRE
I SESSIONE_LEGGERE LA CITTà
NOTES
LA CITTà SENZA NOME.
SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
una contemporaneità reale. Nel bene e nel male, arte,
società e storia sono solidali. Le contraddizioni della
grande architettura urbana e lo spettacolo della città
contemporanea ne sono la dimostrazione.