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Torino e Piemonte fra
locale e globale
Politiche di rete e ancoraggi territoriali
Tre percorsi per la ricerca
a cura di
Silvia Bighi, Giancarlo Cotella
e Francesca Silvia Rota
n. 32/2010
Indice
1.
Territori fra locale e globale: tre percorsi per la ricerca
di Silvia Bighi, Giancarlo Cotella e Francesca S. Rota
2.
1
Ancoraggio e radicamento nell’accoppiamento tra reti sovralocali
e sistemi territoriali
di Cristiana Cabodi, Angela de Candia, Alessia Toldo e Francesca S. Rota
5
2.1. Cinque filoni teorici nella letteratura sulle reti
2.2. Aperture teoriche e indicazioni metodologiche
2.2.1. Aperture teoriche
2.2.2. Indicazioni metodologiche
2.2.3. Ricadute per l’analisi di Torino e del Piemonte
2.3. L’ancoraggio e il radicamento territoriale delle reti
2.3.1. Ancoraggio e radicamento territoriale sono sinonimi?
2.3.2. L’attivazione di nodi locali da parte di una rete sovralocale
2.3.3. La costruzione locale di una rete sovralocale
2.3.4. Dinamiche di rete: ciclo di vita, attivazione delle risorse e sinergie
2.3.5. Alcune riflessioni conclusive circa la relazione tra ancoraggio e radicamento
2.4. Indicazioni per la ricerca
2.5. Riferimenti bibliografici
3.
La Governance territoriale nel dibattito scientifico. Spunti di
riflessioni e prime indicazioni operative
di Giancarlo Cotella e Nadia Tecco
3.1. Esplorando le diverse dimensioni della governance territoriale
3.1.1. Che cos’è la governance
3.1.2. La governance come coordinamento verticale
3.1.3. La governance come coordinamento orizzontale
3.1.4. La governance come coordinamento territoriale
3.1.5. Buona governance e partecipazione
3.2. La governance territoriale comunitaria
31
3.3. La governance ambientale
3.4. I tranelli della governance
3.5. Alcune riflessioni operative: valutare le capacità di governance
3.5.1. Operazionalizzare la governance: quali fattori chiave?
3.5.2. Il progetto ESPON 2.3.2: misurare la governance
3.5.3. Verso un quadro di analisi per la governance territoriale
3.6. Riferimenti bibliografici
4.
Coesione territoriale e multiscalarità
di Silvia Bighi, Germana Chiusano, Giancarlo Cotella, Alberta de Luca
4.1.
4.2.
4.3.
5.
59
La coesione territoriale
4.1.1. Nel dibattito europeo
4.1.2. Nei programmi e nelle strategie delle Organizzazioni internazionali
4.1.3. Come valore in sé
La coesione territoriale a scale territoriali differenti: obiettivi e
strumenti
4.2.1. Il livello europeo: convergenza, competitività e disparità territoriali
4.2.2. Il livello locale: territorio coeso, disparità nel tessuto micro-urbano, strumenti
di analisi e d’intervento
4.2.3. La valutazione delle ricadute e degli impatti territoriali delle politiche di
coesione
Riferimenti bibliografici
Considerazioni conclusive e prospettive future
di Silvia Bighi, Giancarlo Cotella e Francesca S. Rota
Cenni sugli autori
81
87
1.
Territori fra locale e globale: tre percorsi per
la ricerca
di Silvia Bighi, Giancarlo Cotella e Francesca S. Rota
Come evidenziato da un ampio dibattito internazionale, la possibilità che sistemi territoriali
– sistemi produttivi locali, città e regioni – intraprendano virtuosi processi di sviluppo
dipende in maniera rilevante dalla capacità di valorizzare le specificità locali, attraverso la
partecipazione a processi relazionali di diversa natura (flussi di persone, informazioni,
decisioni, investimenti, materiali ed energia) e livello territoriale ( tra gli altri: Capello, 2000;
Castells, 2010).
Questa partecipazione può avvenire attraverso il coinvolgimento di attori singoli o
collettivi e può assumere valenze diverse – qui ricondotte ai concetti di networking ‘attivo’
e ‘passivo’ – in funzione delle modalità attraverso cui le relazioni sono attivate e gestite,
nonché degli effetti che producono a livello territoriale. Il networking ‘attivo’ si realizza
quando i nodi del sistema territoriale alimentano processi di sviluppo locale attraverso la
partecipazione contemporanea a reti di relazione locali e globali, competitive e cooperative
(Dematteis, 2005; AIP, 2009). Al contrario, il networking ‘passivo’ identifica situazioni in
cui manca un significativo coinvolgimento (orientativo, progettuale e fattuale) degli attori
locali nell’attivazione e nella gestione delle reti alle diverse scale. La gestione delle reti, in
particolare, è riconducibile al tema della governance territoriale, intesa come insieme di azioni
di coordinamento orizzontale e multilivello, finalizzate allo sviluppo di un determinato
sistema territoriale (ESPON, 2007; Davoudi et al., 2009). Mentre in relazione alle ricadute
territoriali dei processi di networking, un aspetto di sicuro interesse riguarda la relazione tra
l’inserimento degli attori locali in reti sovralocali ed il perseguimento degli obiettivi di
competitività (EC, 2000; CEC, 2005) e coesione territoriale (CEC, 2004, 2007, 2008), che
rappresentano la dimensione discorsiva delle politiche territoriali comunitarie.
Secondo questi assunti, molte delle trasformazioni che la globalizzazione induce nei
sistemi locali possono essere interpretate nei termini di un processo di ridefinizione
transcalare delle forme e dei livelli della loro territorialità, qui intesa come l’esito del rapporto
dinamico tra le componenti sociali e il capitale materiale e immateriale, presenti in un dato
territorio (Corrado, 2007; Dematteis e Governa, 2005). L’attuale crisi sistemica
dell’economia mondiale, in particolare, tende a ridefinire in maniera considerevole il ruolo
degli attori pubblici e privati alle diverse scale.
Considerare il legame tra i processi relazionali di un dato sistema (networking) e la sua
territorialità come fenomeno transcalare consente di superare le visioni che tendono a
rinchiudere l’azione territoriale all’interno di scale predefinite dal quadro giuridicoistituzionale e dalle competenze programmatiche che ne derivano. Partendo da tale
prospettiva, il centro di ricerca EU-POLIS è interessato a sviluppare una ricerca sui
processi di networking transcalare (dal locale al globale) di Torino e del Piemonte, che non
rimanesse confinata nell’ambito della riflessione accademica, ma che fosse in grado di
1
suscitare un ampio dibattito pubblico e di offrire spunti operativi per definire politiche
territoriali di diverso livello (EU-POLIS, 2009).
Nello specifico, la ricerca prefigurata da EU-POLIS si pone i seguenti obiettivi generali:
a) ricostruzione di un quadro conoscitivo approfondito delle dinamiche e delle politiche
territoriali in atto a Torino e in Piemonte in relazione allo scenario nazionale, europeo e
globale;
b) comparazione e valutazione della portata del networking che gli attori del sistema
torinese e piemontese sviluppano reciprocamente e con gli attori esterni (organizzazioni
ed istituzioni).
Tra le ipotesi assunte, si parte dal presupposto che strategie ‘efficaci’ di networking (che
promuovono processi di sviluppo territoriale sostenibili) si basino su una buona
conoscenza delle molteplici scale territoriali a cui i sistemi territoriali competono e/o
cooperano: locale, regionale e macroregionale (Nord-ovest, Nord), nazionale,
trasfrontaliera (euro-mediterranea, comunitaria europea) e transcontinentale.
A tale scopo, la ricerca di EU-POLIS si propone di ricostruire il sistema delle reti di
relazione in cui Torino e il Piemonte sono inserite, attraverso:
a. l’esplicitazione delle differenze fra processi di networking attivo – azioni volontarie di
cooperazione con altre città e territori, che vedono il coinvolgimento di un attore
collettivo territoriale – e networking passivo – inteso come esito dell’azione di singoli attori,
sostanzialmente svincolati dal resto del sistema locale o ad esso indifferenti;
b. l’analisi delle iniziative di networking attraverso una prima ricognizione degli strumenti
utilizzati alle scale in cui Torino e il Piemonte si trovano a competere e cooperare;
c. l’approfondimento delle azioni di networking in alcuni ambiti e temi specifici.
Durante il processo di elaborazione della proposta di ricerca, il gruppo EU-POLIS ha
individuato tre percorsi di approfondimento, orientati ad esplorare altrettante dimensioni dello
sviluppo dei sistemi territoriali.
Poiché uno degli effetti più evidenti della globalizzazione consiste nell’aumentata
interazione tra luoghi e soggetti posti a grandi distanze, si individua nell’analisi delle reti un
primo passaggio fondamentale per la ricerca. La rete costituisce, infatti, un utile strumento
attraverso cui studiare, misurare e rappresentare le interazioni che i soggetti territoriali
stabiliscono alle diverse scale. Fatta eccezione per alcune infrastrutture di tipo materiale
(strade, autostrade, oleodotti ecc.), le reti non esistono nella realtà, ma sono una metafora
attraverso cui investigare le relazioni di tipo immateriale.
La rete è però anche uno strumento per l’azione, per la gestione – attraverso politiche di
rete – delle relazioni. In questo senso, essa presenta molti elementi in comune con il
concetto di governance, che viene pertanto posto al centro del secondo dei percorsi di
approfondimento presentati in questo lavoro: coniato per richiamare il ‘modo tramite il
quale il potere viene esercitato nella gestione delle risorse economiche e sociali per lo
sviluppo di una nazione’ (World Bank, 1991, p.1, nostra traduzione), il concetto di
governance si è via via allontanato dal concetto di ‘governo’ vero e proprio, essendo
progressivamente caratterizzato dal coinvolgimento di sempre più elevato numero di attori,
dalla compenetrazione di ruoli e responsabilità fra il settore pubblico e quello privato,
dall’emergere di reti ad alta capacità di autogoverno.
2
A questo riguardo è interessante considerare come, all’interno dello scenario
comunitario e, in particolare, all’interno di numerosi documenti prodotti dalla
Commissione Europea, la ‘buona governance’ sia vista come uno strumento – o un insieme
di principi – per il raggiungimento dell’obiettivo della coesione territoriale. Nella visione
comunitaria, per conseguire la coesione è infatti necessario un coordinamento tra il livello
locale e quello sovra-locale, per valutare gli impatti e le ricadute territoriali che possono
avere le diverse azioni, mantenendo sempre alta l’attenzione sulle capacità locali di autoorganizzarsi in processi di sviluppo che facciano leva sulle specificità dei luoghi (CEC,
2004). Si tratta dell’esito atteso della riduzione dei divari territoriali e del raggiungimento di
una condizione di ‘equipotenzialità’ delle opportunità di sviluppo tra le regioni europee. A
differenza dei concetti di reti e governance territoriale, che si possono collocare all’interno
di un reame più propriamente ‘operativo’, la coesione territoriale rappresenta dunque un
principio eminentemente normativo, uno specifico obiettivo delle azioni politiche e di
networking sviluppate in sede comunitaria.
Il working paper raccoglie e mette a sistema alcuni primi discorsi e approfondimenti
tematici relativi ai tre concetti appena introdotti, così come essi sono stati sviluppati
all’interno di tre gruppi di ricerca durante il periodo giugno-dicembre 2009. Obiettivo dei
diversi contributi è, partendo da una ricognizione ad ampio raggio della letteratura
scientifica internazionale e dei lavori realizzati in passato da diversi membri di Eu-polis,
quello di individuare possibili ‘aperture’ e di evidenziare le ricadute teoriche e
metodologiche che diversi approcci a tali temi possono avere nell’ambito della descritta
ricerca su Torino e il Piemonte.
Lungi da qualsiasi ambizione di esaustività nell’analisi degli argomenti trattati, i
contributi presentati all’interno di questo working paper assumono volutamente la forma di
‘work in progress’ il cui scopo è sviluppare ulteriori riflessioni all’interno del gruppo di
ricerca. In questo senso, proprio la natura intersettoriale e interattiva del processo che ne è
all’origine (con un ampio coinvolgimento dei membri di EU-POLIS, competenti su aspetti
diversi dell’analisi territoriale), e la rilevanza delle tematiche affrontate costituiscono il
valore aggiunto del presente lavoro, rendendo a nostro avviso utile lasciarne una traccia in
qualche modo ‘formalizzata’, sulla cui base alimentare futuri dibattiti e confronti.
In quest’ottica, suggerimenti e osservazioni al lavoro sono non solo benvenute, ma
fortemente caldeggiate…
Riferimenti bibliografici
AIP (2009), “Costruire reti, valorizzare la conoscenza rinnovando il Made in Italy”, Progetto
AIP Reti 2008-09, presentato il 1° dicembre, 2009.
Capello R. (2000), “The City Network Paradigm: Measuring Urban Network Externalities”,
Urban Studies, 37, No. 11, pp. 1925–1945.
Castells M. (2010), The Rise of the Network Society, With a New Preface, Volume I: The
Information Age: Economy, Society and Culture, Wiley-Blackwell, Singapore.
Corrado F. (a cura di) (2005), Le risorse territoriali nello sviluppo locale, Alinea Editrice, Firenze.
3
CEC (2004), Un nuovo partenariato per la coesione. Convergenza, competitività, cooperazione. Terza
relazione sulla coesione economica e sociale, Ufficio per le pubblicazioni ufficiali delle
Comunità Europee, Lussemburgo.
CEC (2005), Working together for growth and jobs: A new start for the Lisbon Strategy. COM 24
(05), Office for Official Publications of the European Commission, Luxembourg.
CEC (2007), Regioni in crescita, Europa in crescita. Quarta relazione sulla coesione economica e sociale,
Lussemburgo: Ufficio per le pubblicazioni ufficiali delle Comunità Europee.
CEC (2008), Libro verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza,
COM(2008) 616 definitivo, Brussels: Comunicato della Commissione al Consiglio, al
Parlamento Europeo, al Comitato delle Regioni, al Comitato Economico e Sociale
Europeo.
Dematteis G. (2005), “Quattro domande sulle risorse territoriali nello sviluppo locale”, in F.
Corrado (a cura di), Le risorse territoriali nello sviluppo locale, Alinea Editrice, Firenze, pp.
7-14.
Dematteis G., Governa F. (a cura di) (2005), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello
SLoT, Franco Angeli, Milano.
Davoudi S., Evans N., Governa F., Santangelo M. (2009), “Le dimensioni della
governance”, in Governa F., Janin Rivolin U., Santangelo M., (a cura di), La costruzione
del territorio europeo, Carocci, Roma, pp. 37-66.
EC (2000), Precidency conclusions of the Lisbon european Council, 23-24 Marzo 2000, Council
documents Nr. 100/1/100.
ESPON (2007), Governance of territorial and urban policies from EU to local level, ESPON Project
2.3.2,
Final
Report,
Luxembourg:
ESPON,
http://www.espon.eu/mmp/online/website/content/projects/243/374/file_2186/fr
-2.3.2_final_feb2007.pdf
EU-POLIS (2009), Torino e Piemonte fra locale e globale. Politiche di rete e ancoraggi territoriali.
Proposta di programma di ricerca, presentato all’attenzione della Compagnia di San
Paolo di Torino, mimeo, EU-POLIS, DITer, Politecnico e Università di Torino.
World Bank (1991), Managing Development: The Governance Dimension. A discussion paper,
Washington D.C.
4
2.
Ancoraggio e radicamento territoriale
nell’accoppiamento strutturale tra reti
sovralocali e sistemi locali
Cristiana Cabodi, Angela de Candia, Alessia Toldo e Francesca Silvia Rota ∗
2.1.
Cinque filoni teorici nella letteratura sulle reti
La letteratura sulle reti è ampia, articolata e interdisciplinare. Processi e dinamiche di rete si
studiano in economia, sociologia, geografia, management, ingegneria, ecc.
Di reti parlano Castells e Sassen per descrivere le world cities. Reti di città di varia natura
(misurate attraverso la rilevazione delle partecipazioni azionarie tra imprese, dei
collegamenti infrastrutturali, delle co-partecipazioni a progetti di ricerca, ecc.) sono oggetto
di un numero crescente di analisi empiriche e rappresentazioni cartografiche. Mark
Granovetter, per esempio, utilizza un approccio reticolare per illustrare il radicamento
sociale delle imprese. La rete è anche al centro della riflessione sui sistemi produttivi
innovativi (distretti, cluster, learning region, regional innovation system, ecc.).
Alla luce di ciò, un primo passaggio necessario per la ricerca su Torino e il Piemonte
(cfr. Introduzione) è consistito in una ricognizione della letteratura internazionale sulle reti,
finalizzata a individuare i principali filoni teorici e gli autori “attivi” in questo genere di
studi.
Per ricostruire il dibattito internazionale sulle reti si è dunque operata una rassegna di
quanto pubblicato, tra il 1999 e il 2009, nelle principali riviste di riferimento per geografi,
pianificatori ed urbanisti.
Come risultato, si sono individuati 84 articoli sulle reti ( tab. 1) maggiormente distributiti
su riviste quali Regional Studies (10 articoli), Urban Studies (10), Flux (9), Environment and
Planning A (9), Tijdschrift voor economische en sociale geografie (7), Environment and
Planning B (6).
A completamento di questa iniziale ricognizione del patrimonio bibliografico sulle reti si
sono considerati alcuni lavori che, nonostante non fossero riferibili al periodo 1999-2009 o
fossero pubblicati in forme diverse da quelle dell’articolo su rivista, sono però considerati
dei “classici” per la rilevanza delle considerazioni trattate. Tra questi, per esempio, sono
stati presi in considerazione i lavori seminali sul tema delle reti urbane, sviluppati (tra gli
∗
Il capitolo sintetizza l’esito delle considerazioni maturate collettivamente tra le autrici e altri membri di EUPOLIS (Piero Bonavero, Egidio Dansero, Giuseppe Dematteis, Vincenzo Demetrio, Cristiana Rossignolo e
Carlo Salone). La stesura dei paragrafi 2.1 e 2.4 è tuttavia da attribuirsi a Francesca S. Rota; il paragrafo 2.2 a
Angela de Candia; i paragrafi dal 2.3.1 al 2.3.3 a Alessia Toldo; i paragrafi 2.3.4 e 2.3.5 a Cristiana Cabodi.
5
altri) da Emanuel e Dematteis (1990), Kunzmann e Wegener (1992), Camagni e Salone
(1993). Mentre, tra gli scritti che approfondiscono la ‘scienza delle reti’ quale paradigma
attraverso cui spiegare i processi economici e sociali, si sono considerati The strenghts of weak
ties di Mark Granovetter (1973) e Nexus di Mark Buchanan (2003).
Questi lavori sono stati quindi classificati secondo 5 tipologie di contributi (tab. 2.1),
distinti per filone teorico, focus di analisi e tipologia di rete analizzata.
Teoria
Focus
Autori (es.)
Tipo di rete: la rete come...
Teoria delle
relazioni
sociospaziali
(Sociospatial
theory)
Modalità con cui lo
spazio è
concettualizzato,
creato, modificato
(interesse di tipo
ontologico, volto a
discutere le categorie
fondamentali della
spiegazione
economica, politica e
sociale)
Deleuze e Guattari (1987),
Smith (1996), Latour
(1999), Brenner (2005),
Marston, Jones e
Woodward (2005),
Woodward e Jones (2005),
MacLeod e Jones (2007)...
... metafora per concettualizzare,
spiegare i processi in atto (es: la
globalizzazione)
Teoria delle
città (Urban
theory)
Dinamiche urbane
(competizione e
coesione, centro e
periferia) spiegate alla
luce dei flussi e delle
relazioni tra attori
urbani
Emanuel e Dematteis
(1990), Camagni e Salone
(1993), Scott (2001),
Castells (2002), Taylor,
Catalano e Walker (2002),
Ruhthford (2005),
Derudder (2006), Cattan
(2007)...
...modalità di organizzazione del
sistema urbano mondiale (World
City Network, WCN). La rete rileva
(e/o mappa) i flussi (reali o
potenziali) tra centri urbani.
Teoria delle
reti (Network
theory)
Caratteristiche e
dinamiche delle reti
come oggetto di
indagine per se
Barabási (2002), Parrocchia
(2005)...
...insieme di nodi collegati attraverso
dei legami. La rete è descritta
attraverso le misure della Social
Network Analysis (SNA) e
rappresentata attraverso dei grafi
Teoria dello
sviluppo
(Development
Theory )
Relazioni
competitive,
collaborative e
conflittuali come
spiegazione dei livelli
diversi di sviluppo di
regioni e nazioni
(esternalità di rete)
Capello (2000), Grabher
(2006), Keeble et al.
(1999)...
...modello di
organizzazione/coordinamento degli
attori economici (altri modelli:
mercato e gerarchia). La rete illustra
dinamiche organizzative e processi
cognitivi (apprendimento,
innovazione) all’interno di sistemi
economici
Geografia
politica
(Political
economy)
Coalizioni di attori,
relazioni di potere,
governance
Cox (1998), Marlow
(1992), Soldatos (1992)...
...coalizioni di attori (governance)
informali e formali. La rete
scaturisce dalle politiche, pratiche
collaborative e di partnership.
Tabella 2.1: Classificazione dei contributi sulle reti
A questo riguardo, è utile sottolineare che molti dei lavori condotti dai ricercatori di EUPOLIS con riferimento ai casi di studio di Torino e del Piemonte possono essere ricondotti
6
a questi filoni teorici, costituendo così un prezioso bagaglio iniziale di nozioni, metodi e
dati1.
Filo comune dei lavori di EU-POLIS è l’adesione a un approccio di tipo territoriale,
attento a considerare le specificità dei luoghi. Mentre i contributi analizzati nella rassegna,
oltre che per le 5 tipologie sopra indicate, si distinguono in funzione di più approcci
teorico-metodologici, così schematizzabili:
i.
approccio “flat”. Le reti scaturiscono dall’azione di soggetti che partecipano a tutte le
scale contemporaneamente. Non ha quindi senso distinguere tra scale
gerarchicamente organizzate o introdurre forzatamente delle distinzioni,
classificazioni. Come affermano Marston, Jones e Woodward: “a flat ontology must
be rich to the extent that it is capable of accounting for socio-spatiality as it occurs
throughout the Earth without requiring prior, static conceptual categories” (2005, p.
425);
ii.
approccio “scalare”. Le reti sono analizzate adottando scale diverse di analisi (locale e
globale) in funzione della “portata” o estensione delle relazioni da queste
rappresentate/veicolate (a raggio breve o lungo). Alla base d questo approccio vi è la
considerazione che la rete esprima caratteristiche e dinamiche diverse in funzione
della scala geografica considerata;
iii.
approccio “territoriale”. Le reti differiscono non solo in funzione della scala
considerata, ma anche del territorio (o dei territori) coinvolti nella rete. In altre parole,
si ritiene che esista una mutua interazione (in termini di esternalità positive, ma anche
negative) tra la rete e i luoghi in cui essa attiva i propri nodi.
Da queste considerazioni si ricava che la letteratura sulle reti non solo non rappresenta
un corpus teorico consolidato, ma che esistono anche diverse questioni aperte e numerosi
interrogativi che richiederebbero approfondimenti empirici.
A questo proposito, concentrando l’attenzione su una selezione ridotta di contributi2,
selezionati tra quelli più significativi (per autore o tema), si sono messe a fuoco alcune
aperture teoriche e indicazioni metodologiche, da poter applicare all’analisi dei casi di
Torino e del Piemonte.
2.2.
Aperture teoriche e indicazioni metodologiche
2.2.1. Aperture teoriche
1
In particolare, si tratta di: i) riflessioni sulle relazioni socio-spaziali alcuni studi sulla posizione di Torino nel
sistema-mondo; ii) lavori condotti in collaborazione con l’Associazione Torino Internazionale di analisi della
partecipazione di Torino all’interno delle reti urbane europee; iii) studi sui flussi materiali e immateriali che, a
scale diverse, fanno capo a Torino (attraverso reti di relazioni tecnologiche, infrastrutturali e finanziarie); iv)
analisi del tessuto industriale regionale e metropolitano finalizzati a evidenziare il ruolo importante giocato da
reti di relazioni a geometria variabile; v) lavori sulla geografia politica della città, esplorata attraverso
l’approfondimento degli accordi di cooperazione decentrata, processi partecipativi di sviluppo locale,
l’organizzazione dei Giochi olimpici invernali, la redazione dei piani strategici.
2 Gli articoli individuati sono otto: Capello, 2000; Derudder, 2006; Grabher, 2006; Keeble et al., 1999;
Macleod e Jones, 2007; Marston, Jones e Woodward, 2005; Ruhthford, 2005; Taylor, Catalano e Walker,
2002.
7
Dal punto di vista teorico, si ritiene interessante la proposta veicolata dagli autori della “flat
ontology” (e sue “declinazioni”, tra cui le sopramenzionate ontologie del luogo e della
fluidità; tab. 2.1) e della “Actor Network Theory” (ANT) per una revisione critica delle
possibilità interpretative, ontologiche e analitiche della rete come strumento di indagine
geografica.
Secondo questi autori, nel contemporaneo scenario globalizzato, i concetti di rete, scala e
territorio risultano inadatti a spiegare i processi socio-economici e socio-spaziali in atto
(Marston, Jones e Woodward, 2005). Inoltre il concetto di scala presenta una serie di
problemi che non possono essere superati aggiungendolo o semplicemente integrandolo
nella teoria delle reti. Gli autori propongono addirittura di eliminare il concetto di scala,
proponendo una diversa ontologia di una portata tale da rendere il suddetto concetto
inutile e comunque capace di affrontare alcune delle implicazioni politiche di una geografia
umana senza scala.
Si tratta di una posizione molto critica nel campo della ricerca geografica, che si ritiene
necessario considerare per impostare la ricerca su Torino e il Piemonte, senza però aderirvi
“tout court”. In linea con le passate esperienze di ricerca condotte da EU-POLIS,
l’approccio scelto rimane, infatti, un approccio intrinsecamente di tipo territoriale, che
attribuisce grande valore alle categorie geografiche di scala, rete e territorio.
Un altro aspetto teorico interessante, che emerge dalla letteratura analizzata, fa
riferimento ai concetti di ancoraggio, disancoraggio e radicamento territoriale delle reti.
Nonostante non sia possibile estrapolare una chiara definizione di questi processi, in
quanto non apertamente affrontata dagli autori o declinata in maniera parziale (per
esempio, i processi di embedment descritti da Granovetter (1973 e 1985) fanno riferimento
alle sole relazioni sociali delle imprese), è tuttavia possibile individuare alcuni interrogativi
generali non ancora soddisfatti (Colletis e Pecqueur, 1999), per i quali è necessario un
ulteriore approfondimento.
Più specificatamente, ci si interroga sul significato dei concetti di ancoraggio,
disancoraggio e radicamento territoriale e sulla loro relazione (sono la stessa cosa?), sul tipo
di attori e risorse coinvolti (endogeni o esogeni?), nonché sulle ricadute di questi processi in
termini di sviluppo locale territoriale. Inoltre, dai contributi persi in considerazione, si
colgono anche alcuni spunti interessanti per indagare le differenze esistenti tra forme attive
e passive di networking (quali differenze?).
2.2.2. Indicazioni metodologiche
Tra gli aspetti di metodo proposti dalla letteratura per l’analisi empirica delle reti, alcuni
sembrano più funzionali rispetto all’obiettivo della ricostruzione (e analisi) delle relazioni
che fanno capo a Torino e al Piemonte.
Si tratta di tecniche di analisi:
I) quali-quantitativa. Si tratta di analizzare le reti sia dal punto di vista del tipo e
dell’orientamento (o verso) delle relazioni veicolate, sia dal punto di vista della loro
intensità (forza o frequenza) e della posizione relativa (gerarchia o ruolo) di ciascun
nodo nella rete. Per la parte di analisi quantitativa, si ricorre in genere alle misure
della Network Analysis (centralità, betweenness, ecc.). Per l’analisi qualitativa,
invece, vale la pena riflettere sulla diversa importanza che hanno certe relazioni – e,
quindi, l’appartenenza a certe reti –indipendentemente dalla forza o frequenza del
8
legame che ne è all’origine. In altre parole, può benissimo verificarsi il caso per cui
una relazione transitoria e temporanea, ma altamente qualificata (per esempio,
perché veicola flussi che sono rari o perché gravita su nodi particolarmente
importanti), generi benefici maggiori rispetto a una relazione più strutturata (per
esempio, fondata su una molteplicità di nodi e di connessioni) e consolidata nel
tempo, ma “banale” nel tipo di relazione veicolata. La prima, al contrario della
seconda, si connota pertanto come un asset strategico, probabilmente irrinunciabile.
II) transcalare. Nell’analizzare il coinvolgimento dei sistemi territoriali (città, regioni,
ecc.) nelle reti sovralocali è possibile adottare due punti di vista diversi e
complementari:
-
il punto di vista della rete. Dal momento che, all’origine di qualsiasi rete di
attori, vi è sempre un obiettivo o il perseguimento di qualche vantaggio atteso, i
diversi luoghi della terra assumono una rilevanza (strategicità, centralità) diversa
per la rete in funzione delle esternalità che essi producono. Queste esternalità, a
loro volta, dipendono da quello che il sistema locale offre in termini di
dotazioni, risorse e opportunità (che possono cioè risultare più o meno
funzionali/utili/strategiche rispetto agli obiettivi della rete);
-
il punto di vista del sistema locale (città, regione, ecc.) che vuole attrarre (ed
eventualmente mantenere) sul proprio territorio nodi di reti sovralocali, quale
mezzo per alimentare il proprio sviluppo (attraverso i flussi di risorse,
finanziamenti, attività, informazioni veicolati attraverso la rete), rafforzare il
proprio vantaggio competitivo, ma anche perseguire obiettivi di natura sociale e
umanitaria.
III) transettoriale. Si tratta di considerare contemporaneamente tipi diversi di reti
(finanziarie, culturali, tecnologiche, cooperative, progettuali, commerciali, ecc.) e le
loro relazioni all’interno dei sistemi territoriali. In più contributi recenti si colgono
infatti istanze per la rilevazione (e quantificazione) dell’interazione che si produce
tra reti diverse o appartenenti a scale diverse.
2.2.3.
Ricadute per l’analisi di Torino e del Piemonte
Le finalità della ricerca ipotizzata da EU-POLIS (cfr. Introduzione), le aperture teoriche e
metodologiche evidenziate dalla letteratura sulle reti (§ 2.1), nonchè i metodi e le evidenze
empiriche sui processi di networking di Torino e del Piemonte (sistematizzate negli anni
passati da EU-POLIS e altri enti di ricerca attivi nel/sul territorio: IRES Piemonte, Circolo
Eauvive e Comitato GiorgioRota, la rete delle Camere di Commercio, SiTI, Real Collegio
Carlo Alberto, Paralleli, ecc.), portano a circoscrivere due obiettivi principali per la ricerca,
articolati in sotto-obiettivi.
a) Ripensare (o quantomeno fornire nuove rappresentazioni) il posizionamento internazionale,
la spazialità e il modello di sviluppo di Torino (e del Piemonte), a partire dall’analisi:
a.1) del modo in cui reti sovralocali si ancorano, disancorano o radicano nel sistema
locale. Quali sono i fattori di attrazione? Sono fattori che connotano il sistema in
modo puntuale o collettivo? Come si modificano all’evolvere della rete e
all’evolvere del sistema locale?;
a.2) delle modalità attraverso cui gli attori (singoli o collettivi) del sistema territoriale
costruiscono reti alle diverse scale. Come avviene la costruzione di reti sovralocali
9
da parte di attori locali? Con il coinvolgimento di quali dotazioni/risorse? Con
quali ricadute per il territorio?;
a.3) delle dinamiche e sinergie di rete. Come interagiscono nodi di reti diverse, che
operano a scale diverse, quando si trovano a operare all’interno di un medesimo
sistema locale? A quali condizioni si generano sinergie positive? Come questi
processi influiscono sul capitale territoriale del sistema locale analizzato?;
a.4) della rilevanza che la rappresentazione (da parte della rete e/o del sistema locale)
delle dotazioni/risorse attraverso cui avviene la localizzazione della rete. È questo
un elemento importante nel determinare la differenza tra localizzazione,
ancoraggio e radicamento territoriale?;
a.5) delle relazioni che si sviluppano tra nodi di reti sovralocali che fanno capo al
sistema torinese (e piemontese) e che risultano “de localizzati” in medesimi luoghi.
b) Arricchire il dibattito scientifico attraverso due contributi principali:
b.1) definire in modo univoco la terminologia, verificando, in particolare, la
sovrapponibilità o meno, le similitudini e le differenze tra i concetti di ancoraggio
territoriale e radicamento territoriale delle reti;
b.2) analizzare, con un approccio quali-quantitativo, gli elementi e le caratteristiche
territoriali che generano l’ancoraggio e il radicamento territoriale delle reti;
individuare gli attori e le risorse che si attivano o si dovrebbero attivare affinché le
reti si ancorino e/o si radichino al territorio, anche al fine di distinguere il
networking attivo dal networking passivo.
Il paragrafo che segue sintetizza gli esiti degli approfondimenti realizzati con il fine di
rispondere ad alcuni degli obiettivi sopra identificati.
Più specificatamente, in questa prima fase istruttoria della ricerca, l’attenzione si è
concentrata sull’analisi: i) dei processi di ancoraggio e radicamento territoriale che
scaturiscono dall’accoppiamento strutturale tra una rete sovralocale e un sistema locale; ii)
delle dinamiche di rete, ovvero del ciclo di vita delle reti, dell’attivazione di risorse, come
esito di processi di “messa in rete” o networking; iii) delle sinergie di rete.
La finalità di questi approfondimenti è formulare alcune ipotesi iniziali che, una volta
dettagliate e sistematizzate, potranno essere verificate attraverso l’esame di una selezione di
casi dell’inserimento del sistema torinese e piemontese entro reti sovralocali (per esempio le
vicende di Motorola, dell’International Labour Office-ILO, del Salone del libro, del Salone
del gusto, di Mi-To Settembre Musica, del Festival del Cinema, ecc.).
Si rimanda invece a quanto trattato nell’ultimo paragrafo di questo capitolo (§ 2.4.) per
l’identificazione degli approfondimenti che, pure individuati come utili per il
conseguimento degli obiettivi sopra indicati, non è stato possibile sviluppare e per la cui
trattazione si rinvia, pertanto, a fasi successive della ricerca.
10
2.3.
L’ancoraggio e il radicamento territoriale delle reti
2.3.1. Ancoraggio e radicamento territoriale sono sinonimi?
Obiettivo di questo approfondimento è pervenire a una definizione il più possibile chiara e
condivisibile dei concetti di ancoraggio e radicamento territoriale delle reti, spesso utilizzati dalla
letteratura internazionale come sinonimi.
In realtà, anche da un punto di vista etimologico, ancoraggio e radicamento non
sottendono lo stesso significato.
Nella lingua italiana, per esempio, per ancoraggio si intende il “collegamento di un
elemento o struttura mobile a un punto stabile”3. Il riferimento di partenza, l’immagine a
cui il termine richiama in maniera molto esplicita, è quella dell’imbarcazione (elemento
mobile per antonomasia) che, gettando l’ancora, stabilisce un collegamento con un punto
preciso del fondale marino (evidentemente stabile), arrestando così il proprio moto.
Nel caso del radicamento, invece, il riferimento diretto è alla botanica, ossia alle piante
che, affondando le radici nel terreno, vi si radicano in forma stabile. Contrariamente alle
operazioni di ancoraggio descritte sopra, quelle dell’attecchimento presuppongono che si
crei un’interazione, uno scambio tra l’oggetto considerato e l’ambito, il contesto, l’ambiente
della sua localizzazione. La pianta, infatti, trae dal terreno le sostanze del proprio
nutrimento; mentre il terreno modifica la propria composizione chimica per effetto delle
sostanze rilasciate (ad esempio attraverso la decomposizione delle foglie e dei frutti caduti a
terra).
Nel concetto di ancoraggio è quindi intrinseco il riferimento al movimento da parte
dell’elemento che si ancora (e alla reversibilità dell’azione), cosa che non è invece presente
nel radicamento.
Una prima differenza sembra dunque essere costituita dall’opposizione
reversibile/irreversibile determinata, anche e soprattutto, dalle sinergie cumulative (§ 2.3.4.)
che si vengono a creare nel caso del radicamento e che invece mancano (o non sono
sufficienti) nel caso dell’ancoraggio.
Detto questo, ci si domanda se queste affermazioni abbiano un senso anche traslando i
due termini nella semantica dei sistemi territoriali – intesi come nodi di reti locali e globali –
e, soprattutto, se non sia possibile affinare questi concetti, pervenendo ad una definizione
più precisa e attinente.
Per rispondere a questo interrogativo si è provato a riflettere sulle situazioni di
networking riscontabili nella realtà, provando a schematizzarne (sulla base di situazioni
ricorrenti o presunte tali) le “regole” generali, sulla cui base formalizzare uno schema
metodologico di analisi.
I ragionamenti sviluppati sono stati distinti in funzione di due possibili situazioni (o
punti di vista):
- una rete sovralocale attiva un proprio nodo all’interno di un sistema locale (città,
regione) (cfr. punto a.1. dell’elenco degli obiettivi della ricerca);
- attori di un sistema locale generano una rete sovralocale.
3
Fonte: Dizionario Garzanti, www.garzanti.it.
11
2.3.2. L’attivazione di un nodo locale da parte di una rete sovralocale
Si considera qui la situazione di una rete sovralocale che localizza uno dei suoi nodi
all’interno di un sistema territoriale.
In questo caso, per quanto non si escluda la possibilità che l’attivazione del nodo sia
mediata dall’azione di soggetti locali, si tratta di un processo dalla natura e dipendenza
marcatamente esogena. È infatti la rete (sovralocale e esterna rispetto al sistema territoriale
considerato) che sceglie, in ultima istanza, se insediare o meno un proprio nodo nel sistema
territoriale. I margini di azione da parte di quest’ultimo sono invece limitati e riconducibili a
due situazioni: l’aver giocato un ruolo proattivo nell’orientare la scelta della rete (per
esempio, attraverso politiche e strategie di attrazione); l’aver subito più o meno
passivamente la decisione.
In un certo senso, la mediazione dei soggetti locali è sempre presente in processi di
questo tipo, ma il grado e le modalità del loro coinvolgimento – e da cui dipende la
distinzione tra forme attive (che vedono la partecipazione del sistema territoriale come
attore collettivo) e passive (con il coinvolgimento di singoli attori individuali) di networking
introdotta nel paragrafo 2.2.1. – tendono a produrre, nel tempo, risultati anche molto
diversi. Inoltre, è importante sottolineare che il coinvolgimento degli attori locali in questi
processi non è statico nel tempo, bensì evolve, in risposta alle sollecitazioni provenienti
dall’interno e dall’esterno del sistema stesso.
Soprattutto nelle fasi iniziali (al tempo T=0) è facile che l’attivazione (o localizzazione)
del nodo si realizzi attraverso un processo marcatamente esogeno e reversibile, qui riferito
(descritto attraverso) al concetto di ancoraggio.
L’ancoraggio in questo caso è reversibile in quanto la rete, come la nave (la metafora
nautica risulta piuttosto efficace), al variare delle condizioni iniziali (locali e sovralocali) che
ne avevano orientato la localizzazione, può decidere di levare l’ancora e salpare verso altre
destinazioni. L’ancoraggio può quindi evolvere in un dis-ancoraggio, ossia nella scelta - da
parte della rete sovralocale - di dismettere il proprio legame (o nodo) con il sistema locale.
La vicenda del centro ricerca di Motorola a Torino, in questo senso, è certamente
emblematica. Tuttavia, sarebbe anche interessante valutare se esistono casi in cui è accaduto
il contrario, ovvero casi in cui è stato il sistema locale a rifiutare l’ancoraggio della rete.
Nelle fasi successive (T=1) aumenta la probabilità che si attivino relazioni tra il sistema
locale e il nodo della rete sovralocale, rafforzandone quindi la presenza. In questo caso, il
fatto che l’ancoraggio evolva o meno in disancoraggio dipende in buona sostanza dal tipo
delle relazioni attivate, ovvero se siano in grado di attivare effetti sinergici, eventualmente
capaci di compensare l’indebolirsi nel tempo dei vantaggi iniziali della localizzazione. Per
esempio, si posso attivare relazioni che rafforzano il legame fra la rete e il nodo locale,
rendendo quest’ultimo un componente strategico della rete stessa. Oppure si possono
sviluppare nuove relazioni tra la rete e altri nodi locali. Oppure ancora si possono
intensificare la partecipazione del nodo della rete sovralocale entro il sistema degli attori
locali.
Nel caso in cui l’ancoraggio favorisca l’attivazione di relazioni con gli attori locali
sufficienti a assicurare la permanenza del nodo della rete sovralocale, si possono verificare
due situazioni:
12
-
l’ancoraggio può progressivamente evolvere in una forma di radicamento stabile, o
radicamento territoriale. Questo si realizza nel momento in cui si instaurano, tra il
soggetto esterno (la rete sovralocale) e il sistema locale, una serie di interazioni
complesse (le sinergie sopra citate), le cui caratteristiche variano in funzione del punto
di vista considerato. In questo caso, l’ancoraggio costituisce la precondizione
(necessaria ma non sufficiente) del successivo radicamento.
-
l’ancoraggio può permanere come tale, senza generare quelle relazioni e quelle
sinergie cumulative necessarie al suo radicamento. Di conseguenza, al mutare di
alcune condizioni, la rete potrebbe comunque decidere di delocalizzare il proprio
nodo.
A questo punto è importante sottolineare il fatto che, nonostante le differenze, tutte e
tre le situazioni identificate (ancoraggio, disancoraggio e radicamento) provocano sempre
una trasformazione del capitale territoriale del sistema su cui la rete localizza il proprio nodo.
In questo senso, sembra possibile affermare che in tutti e tre i casi sia rintracciabile un
processo di circolarità (§ 2.3.5; fig. 2.2). Solo che, mentre per il radicamento è più
immediato osservare quali possano essere le ricadute sul capitale territoriale (che,
accresciuto, può a sua volta costituire la presa per ulteriori ancoraggi o per la costruzione,
da parte del sistema territoriale, di altre reti), capire cosa accade in seguito dell’ancoraggio e
disancoraggio sembra più complesso e necessita di un ulteriore approfondimento. Per
esempio, dato il disancoraggio della Motorola dal sistema torinese, è possibile che
permangano altri rapporti, per quanto essi non costituiscano più una rete formalizzata?
Come è variato il capitale territoriale? Le competenze prodotte negli otto anni di
collaborazione Politecnico-Motorola resta comunque una risorsa – materiale e immateriale spendibile?
Per approfondire le ricadute territoriali dei processi di ancoraggio, disancoraggio e
radicamento è fondamentale analizzare questi tre casi in un’ottica complementare, che
consideri sia il punto di vista della rete, sia quello del sistema territoriale.
Se si analizza, infatti, l’ancoraggio (e l’eventuale disancoraggio) e il radicamento dal
punto di vista della rete sovralocale che localizza un proprio nodo all’interno di un dato
sistema locale, il radicamento interviene quando, attraverso l’interazione con gli attori
presenti localmente, si sviluppano nuove relazioni (tra il sistema locale e gli altri nodi della
rete) che non è possibile replicare in altri luoghi (attraverso altre localizzazioni) e che
“retroagiscono” a livello di rete, modificandone le caratteristiche e l’organizzazione spaziale
(aiutano la rete a crescere, espandersi, incrementare la propria centralità nello scenario o
compattarsi). In questo senso la rete beneficia di esternalità incrementali che rendono
strategica (e quindi non sostituibile se non a certe condizioni) la localizzazione in quel dato
sistema. L’identità della rete si lega a quella del sistema locale radicandola al territorio.
In quest’ottica è evidente che il radicamento della rete fa presa su dotazioni (materiali e
immateriali) strategiche e strettamente necessarie alla rete stessa. Può trattarsi sia delle
risorse che hanno generato l’ancoraggio originario (per esempio il capitale territoriale
immobile) che quindi fanno assumere fin da subito una connotazione di radicamento.
Oppure di condizioni che si sono sviluppate in seguito all’ancoraggio: ossia gli effetti
sinergici fra la rete e il capitale (per esempio nuove relazioni che rafforzano il legale fra rete
e sistema territoriale, relazioni fra la rete e altri attori del sistema locale o relazioni fra gli
stessi attori locali e altri nodi della rete sovralocale).
13
Diverso è il caso in cui l’ancoraggio e il radicamento siano analizzati dalla prospettiva
del sistema “ospite”. In questo caso, la distinzione tra i due processi dipende dal valore,
dalla rappresentazione, dalla percezione che si realizza da parte della collettività. In pratica,
dipende dal fatto che l’inserimento in quella specifica rete sia considerato o meno
all’interno dei progetti e processi di sviluppo territoriale elaborati in maniera endogena dal
territorio. Ovvero il radicamento si compie quando la società locale4, attraverso l’azione
condivisa dei soggetti territoriali, individua/riconosce nel nodo, nella dotazione, nella
risorsa attraverso cui si realizza l’ancoraggio della rete, una risorsa specifica del territorio e
concorda la sua valorizzazione (Corrado, 2005). È quindi un’azione che mette in opera una
rete di soggetti che condividono un’identità territoriale, delle forme di organizzazione, delle
istituzioni. In questo caso il territorio su cui insistono i progetti e i processi di sviluppo
territoriale non è unicamente uno spazio di localizzazione di interessi. Al contrario.
L’attivazione diretta o indiretta degli attori locali e la costruzione delle azioni avviene
insieme con, e in relazione al, territorio di riferimento.
Il radicamento territoriale della rete si configura così, dal punto di vista del sistema
locale, come una fase del processo di costruzione di territorio, che deriva dal confronto,
anche conflittuale a volte, tra attori endogeni e/o esogeni e potenzialità del territorio.
2.3.3.
La costruzione locale di una rete sovralocale
Si considera qui il caso di un sistema territoriale che costruisce reti, sia a scala locale che
sovralocale.
In questo caso, si tratta di un processo di tipo esogeno: l’attivazione della rete sovralocale è
il risultato delle decisioni intraprese da uno o più attori interni al sistema. Attivazione che,
come nel caso visto in precedenza (§ 2.3.2.), può essere riportata a due distinte situazioni, a
seconda che sia l’esito di un’azione di tipo collettivo (in questo caso si parla di networking
attivo) o individuale (networking passivo).
Dal punto di vista dell’evoluzione nel tempo del processo di costruzione della rete
sovralocale (in risposta alle sollecitazioni provenienti dall’interno e dall’esterno del sistema
stesso), si possono prefigurare differenti situazioni.
In una fase iniziale (al tempo T=0) il legame tra la rete e il sistema locale passa attraverso
un’azione di tipo prevalentemente endogeno (per iniziativa di uno o più attori locali) ed è
probabile che si risolva in un ancoraggio più o meno forte, a seconda del fatto che il
coinvolgimento degli attori locali abbia natura singola o collettiva e del valore,
dell’importanza, attribuita al nodo (e più in generale all’ancoraggio con la rete sovralocale)
quale leva di sviluppo territoriale (§ 2.5.).
Successivamente (T=1), l’ancoraggio può rimanere ancoraggio “semplice” o evolvere in:
− disancoraggio: la rete si svincola dal sistema territoriale in altre parole il nodo se ne
va altrove o la rete precedentemente creata si disgrega. Le ragioni sono molteplici e
sostanzialmente simili a quelle indicate per l’opzione a.1 (mancata attivazione di
legami sistemici).
4 Il concetto di locale viene qui inteso come un possibile “punto di osservazione” della realtà. Il locale non è
riferito quindi ad una scala territoriale precisa, ma viene, in questo caso utilizzato come livello della visione
territoriale a cui appartengono i soggetti.
14
− radicamento: le relazioni fra la rete, il nodo e il sistema locale si consolidano
secondo modalità coevolutive. Si può quindi parlare di radicamento quando
vengono messe in gioco risorse riconosciute e valorizzate sia dagli attori locali sia
dalla rete e intorno alle quali, probabilmente, si attiveranno altre reti (e/o sinergie
cumulative).
Discriminante nel determinare l’una o l’altra situazione è, nuovamente, il tipo di relazioni
(sinergie) che si instaurano tra il nodo locale, la rete e il resto del sistema territoriale (§.
2.3.2.). Non sembra invece significativo sviluppare in maniera distinta i punti di vista del
sistema locale e della rete sovralocale, in quanto quest’ultima è l’esito di una iniziativa
scaturita dagli attori locali, che risponde a logiche endogene, tutte interne al nodo locale.
Per quanto questo caso non sia stato approfondito come il precedente, si è provato a
delineare una serie di ipotesi sulla sua possibile evoluzione, attraverso l’analisi di esperienze
concrete.
In alcuni casi, come è avvenuto per il Salone dell’Automobile, nonostante la dipendenza
marcatamente endogena e il forte legame con attori e risorse locali, il radicamento può
evolvere in un disancoraggio. Può accadere che la risorsa venga in qualche modo
intercettata da una rete sovralocale, o ancora che il sistema locale si trasformi e che il
riconoscimento di quella risorsa – e quindi la sua valorizzazione – non sia permanente. In
questi casi, probabilmente, il radicamento involve prima in un fase di semplice ancoraggio,
in cui effettivamente vengono meno certe condizioni, che può diventare – per alcune
situazione - un vero e proprio disancoraggio. Così è stato per il Salone dell’Automobile, i
cui diritti sono stati acquisiti dagli organizzatori del Motorshow bolognese, che hanno
preferito puntare sulla manifestazione emiliana. Al contrario, sarebbe interessante osservare
quali sono le ragioni, in termini di costruzioni di reti locali, agganci a reti sovralocali e
riconoscimento/valorizzazione della risorse che determinano la permanenza di altre realtà,
come per esempio il Salone del Libro.
2.3.4. Dinamiche di rete: ciclo di vita, attivazione di risorse e sinergie
A completamento dei ragionamenti fin ora affrontati, in questo paragrafo si
approfondiscono tre tipi principali di dinamiche di rete, tra loro strettamente interrelati,
ovvero:
i) il ciclo di vita delle reti,
ii) l’attivazione di risorse all’interno di una rete;
iii) le sinergie tra reti.
Con riferimento al ciclo di vita delle reti e della loro evoluzione, il progetto AIP (2009),
che ha per oggetto le reti di imprese, offre alcuni spunti interessanti che possono in certa
misura offrire aperture per la nostra riflessione.
La ricerca AIP si fonda su un’interpretazione dinamica delle reti e ciò significa
“identificare i passaggi chiave della formazione delle reti e del loro cammino evolutivo
(ciclo di vita), in modo da poterne chiarire le condizioni di successo, gli ostacoli da
affrontare, le direzioni da prendere per superare i problemi che si addensano sulla strada”.
Anche lo schema metodologico che si è elaborato per individuare i passaggi chiave
dell’ancoraggio, disancoraggio e radicamento territoriale delle reti presuppone una visione
15
dinamica delle relazioni tra i nodi di reti globali, le reti di attori locali e i territori. Per questa
ragione, è parso proficuo riflettere sulle possibilità di traslare alcuni ragionamenti dalle reti
di impresa alle reti a livello urbano.
A partire dall’analisi delle reti di impresa, nella ricerca AIP, si sostiene che “il networking
è un processo generale, che interessa tutta l’economia globale, fornendo la base per la
produzione di conoscenza, la sua propagazione negli usi, la sua condivisione nei sistemi
sociali e produttivi “aperti”. La rete, per le imprese, è come il “lievito” della trasformazione
organizzativa della produzione, una soluzione che inizia un cammino che porta a superare
gli schemi di produzione e di vita esistenti, puntando ad altro”. Traslare questa immagine
nella riflessione sulle reti urbane richiede non solo di analizzare come si creano reti, le
trasformazioni che generano e a quali condizioni, ma anche di indagare le sinergie tra i nodi
delle reti presenti sul territorio.
Grazie a processi di network building ai vari livelli (locale, metropolitano, globale),
secondo la ricerca AIP, le imprese danno vita ad un reticolo5 attraverso cui creano valore.
Dal momento che questo processo di network building non è né scontato né automatico,
per comprendere quali sono le condizioni entro cui si realizza, la ricerca propone di
analizzare le fasi in cui si realizza ed in cui si costruisce la rete.
Nelle prime fasi di vita della rete “la sua struttura può essere esile, informale e su base
volontaristica”. In questa fase ciò che importa è che la rete funzioni, ossia che serva. Solo se
funziona sarà in grado di evolvere, rafforzandosi ed estendendosi e sarà in grado di
affrontare nuovi interlocutori e nuovi problemi. In questo passaggio si fa riferimento a
quanto postulato da Granovetter (1973) che ha identificato le reti attraverso una loro
caratteristica decisiva: la forza dei legami deboli. I legami deboli che possono essere
modificati e anche annullati dalle parti in causa, si rivelano forti se queste si rendono conto
che è nel loro interesse curarli, correggerli e confermarli giorno per giorno, rigenerando
attivamente le ragioni che li rendono convenienti per gli altri partner.
I soggetti dunque creano una rete perché essa svolge funzioni che ritengono vantaggiose
(per esempio possono servire a smussare eventuali conflitti, a ridurre il tasso di sospetto
sulle proprie intenzioni, a condividere rischi, ecc.), ma la rete si sviluppa e cresce anche
perché svolge funzioni che i partner singolarmente non riuscirebbero a svolgere altrettanto
efficacemente. La rete però “può anche consolidarsi in relazione a due circostanze
“strutturali”, che, in sintonia con le metafore usate dalla letteratura organizzativa, si
possono identificare con:
-
la reciproca concessione di “ostaggi”, a garanzia della futura lealtà;
-
il sostenimento, da parte di tutte le parti in causa, di costi affondati (sunk costs) che
rendono non conveniente abbandonare il rapporto”.
La rete nasce da un investimento, che deve servire a favorire la condivisione e lo scambio
della conoscenza da un nodo all’altro della rete, nonché ad elaborare progetti comuni di
innovazione e ad assumere rischi condivisi per il futuro. Per perseguire questo scopo la rete
elabora, “proprie risorse connettive il cui compito è di tenere insieme le parti, consentendo
un loro funzionamento come unità specializzate, e al tempo stesso integrate, di un sistema
unitario, che adotta standard, soluzioni, linguaggi, regole comuni”.
5 Reticolo inteso come legami tra “punte avanzate” (imprese innovative) al loro retroterra: fornitori,
professionisti, finanza, istituzioni, saperi e relazioni addensate sui territori di origine e sulle piattaforme
frequentate.
16
L’investimento in risorse connettive è minimo quando la rete prende forma e si rafforza
nel corso del tempo. Con il rafforzarsi dei legami della rete l’investimento è sempre più
orientato verso risorse connettive network specific, ossia non accessibili a chi sta “fuori” della
rete non avendo ancora fatto questo passo.
Man mano che la rete cresce, e si consolida, essa tende a sviluppare una struttura più
esplicita e governabile. Ma, “dal momento che far parte di una rete significa sempre, in
qualche misura, dipendere da altri e dunque accettare con questi un rischio condiviso si
pone il problema di chi gestisce questo rischio. Un rischio condiviso va gestito da qualche
forma organizzata di decisione collettiva, per lo meno presa coinvolgendo la maggior parte
degli interessati. Le reti hanno dunque tutte, dal più al meno, un problema di governance”.
La governance di rete implica spesso che, ad un certo punto del loro ciclo di vita, le reti si
diano una struttura “che assegna alla rete certe competenze e certe regole decisionali,
impegnative per tutti, definendo altresì gli ambiti in cui invece i singoli sono autonomi di
muoversi e di scegliere in base alle convenienze di ciascuno”. Nella governance contano
molto l’autorevolezza o la leadership che informalmente viene riconosciuta ad alcuni
membri della rete e il potere di influenza che eventualmente essi possono esercitare sugli
altri. In altri casi, conta la capacità di convinzione in base ad un progetto che è conveniente
per i diversi membri della rete, a cui si chiede di aderire.
Con riferimento al tema delle risorse, questo è stato affrontato per chiarire alcune
questioni di fondo quando ci si pone dal punto di vista dei sistemi territoriali in cui si
localizzano i nodi di una rete sovralocale.
Si fa riferimento ad un “concetto di risorsa che nasce con l’affermarsi di obiettivi di
sviluppo locale all’interno di politiche urbane e territoriali. In queste politiche lo sviluppo
locale viene inteso come valorizzazione delle risorse endogene specifiche dei diversi luoghi
attraverso l’azione di reti locali di soggetti che cooperano, negoziano e concertano tra loro
per la realizzazione di progetti di sviluppo collettivi e tendenzialmente condivisi”
(Dematteis, 2005). La risorsa allora non esiste di per sé, ma solo in quanto ritenuta tale dai
soggetti che intendono valorizzarla (Dematteis, 2005). Inoltre si considerano risorse
strategiche quelle che non possono essere utilizzate (o valorizzate) da un singolo attore
(anche un ente pubblico), ma per esserlo implicano interazioni tra più soggetti pubblici e
privati6.
Nello specifico, le risorse territoriali sono risorse immobili che si combinano con
risorse mobili. Ossia si tratta della valorizzazione di componenti fisse di un luogo (quindi
immobili) con qualcosa di mobile che, mediato da attori locali arriva all’esterno e circola
nelle reti sovralocali: idee persone tecnologie, denaro, domanda di mercato, ecc. Seguendo
questo ragionamento per attirare/ancorare nodi di reti sovralocali in un luogo non si può
agire direttamente sulle componenti fisse (risorse immobili) dei territori e neppure sui
soggetti locali auto-organizzati, ma solo sui flussi mobili, in gran parte intangibili e sulle
condizioni di contesto (anche materiali) che li attraggono o comunque permettono loro di
legarsi ai luoghi (Dematteis, 2005).
6 Questa distinzione è proposta da Dente e Balducci (1991). E' tuttavia in Lindblom (1975) citato in Balducci
(1993) che per la definizione di risorsa si fa riferimento ad una razionalità strategica, ossia che tiene conto
delle azioni e reazioni di una pluralità di attori, utilizza l'interazione come sostituto dell'analisi e adatta l'analisi
all'interazione, senza cercare direttamente le soluzioni di un problema.
17
E’ piuttosto interessante, a questo proposito, riprendere la letteratura dell’inizio degli
anni Novanta che legge, alla scala urbana, gli effetti della globalizzazione, la transizione
verso un’economia e una società knowledge intensive come incremento della competizione fra
sistemi urbani. Questo tipo di letteratura sulle risorse fa capo ad una razionalità strumentale
che presuppone la scelta dei mezzi migliori per raggiungere obiettivi dati che, in questo
caso, sono la competitività delle città nell’attrazione di nodi e reti mettendo in campo
dotazioni urbane e partnership fra attori locali. Le risorse sono considerate prese possibili
per agganciare lo sviluppo.
A partire da questo punto di vista, diversi autori tra cui Begg (1999 e 2002), Van den
Berg, Kunzmann e Wegener (1992) rilevano che il clima competitivo sempre più accesso
per attrarre attività, imprese, investimenti e persone impone alle città di migliorare l’offerta
di dotazioni in grado di richiamare popolazione, imprese e nodi di reti globali. Questi stessi
autori individuano quindi le condizioni di contesto o “prese”, che sono indispensabili
perchè una città risulti vincente nella competizione urbana a livello globale:
•
la diversificazione dell’economia urbana;
•
nodi di reti di comunicazione di livello europeo e mobilità interna efficiente;
•
la qualità dell’ambiente urbano (le grandi imprese si localizzano dove c’è un mercato
del lavoro largo e diversificato, ambiente piacevole in cui vivere e lavorare, un sistema
di formazione, scuole e università di elevato livello, un mercato immobiliare ampio e di
qualità, vita culturale ricca, un centro urbano attraente in cui sono insediate funzioni
differenti);
•
specificità locali, spirito e persone, altri termini la capacità di agire come attori
collettivi.
Casi di studio sulle regioni della Ruhr (Neuschawander e Berthe, 1992) e Barcellona (De
Forn, 1992) rilevano poi che gli elementi chiave su cui hanno fatto leva questi due contesti
territoriali per agganciare nodi di reti sovralocali sono: il dinamismo delle pubbliche
amministrazioni, la collaborazione tra pubblico e privato per sviluppare strategie e azioni, la
qualità del territorio (in termini di servizi offerti), l’accessibilità non solo fisica ma anche
intesa come possibilità di accedere a informazioni, dati e telecomunicazioni, il capitale
umano o le potenzialità delle risorse umane che è strettamente connesso sia alla formazione
di tipo formale, ma anche alle occasioni di educazione meno formali che ciascuna città sa
offrire (cultura diffusa).
Sallez e Verot (1992) sottolineano che le strategie delle città per attrarre funzioni e attività
del terziario o quaternario, ossia nodi di reti di livello globale devono concentrarsi su:
-
il controllo della crescita urbana e capacità di gestire la complessità urbana per
soddisfare sia le esigenze delle imprese che si localizzano che delle persone che in esse
lavorano;
-
l’attrazione di università e centri di ricerca legati alla base industriale delle città;
-
ruolo culturale.
Texier e Valla (1992), sottolineano inoltre che le scelte localizzative delle imprese
sottostanno ad alcuni criteri e risultano più attraenti le città che offrono:
-
un cultural equipment di buon livello (università e laboratori di ricerca);
-
offerta varia di possibili localizzazioni per rispondere ad esigenze diverse;
18
-
offerta di siti non passiva (se la città vuole controllare il suo sviluppo economico deve
stabilire partnership e local network sia per coinvolgere diversi attori).
Nella letteratura esaminata uno dei temi centrali è quello delle politiche di rete o strategie
per l’attrazione di nodi di reti, o più in generale di attività e imprese. In particolare si
evidenzia il ruolo delle amministrazioni locali che locali sono state i soggetti cardine e
hanno promosso partnership pubblico/pubblico e pubblico/privato per dar vita ad azioni
mirate e comuni per migliorare la capacità attrattiva a livello internazionale delle città
(Borja, 1992). Le forme di queste partnership non sono indagate in modo approfondito, ma
emerge (Martinos e Humpreys, 1992) che assumono configurazioni differenti e hanno
come finalità la definizione e l’implementazione di nuove strategie di sviluppo economico a
lungo termine, ridefinendo meccanismi istituzionali e amministrativi.
Per Parkinson (1992) le nuove forme di accordi istituzionali accompagnano lo sviluppo
di nuove strategie economiche che variano sia in relazione ai problemi economici e sociali
che ciascuna città deve affrontare, sia alle risorse disponibili. In particolare dipendono e
variano in relazione a:
-
forza del settore pubblico e privato;
-
le risorse umane disponibili (livelli di formazione, attitudini imprenditoriali e skills);
-
le relazioni di classe;
-
i vantaggi ambientali e localizzativi;
-
gli asset culturali;
-
l’accesso alle risorse nazionali e l’abilità dei leader urbani ad influenzare i policy maker ai
più alti livelli di governo.
Di fatto, le dotazioni urbane che la letteratura sopra descritta ritiene cruciali per l’attrazione
di nodi di reti sovralocali, sono assimilabili al capitale territoriale della città. Il capitale
territoriale di un sistema locale dato dall’insieme delle risorse territoriali costituisce quella
parte di ricchezza di cui dispongono i soggetti locali sotto forma di bene comune che può
essere investita per lo sviluppo futuro. Per essere accresciuto e non consumato
irreparabilmente il capitale territoriale va reinvestito continuamente e reinterpretato da
parte dei soggetti locali, pena la museificazione del territorio e quindi la diminuzione del
valore attuale e potenziale del capitale territoriale stesso (Dematteis, 2005).
Nella letteratura esaminata vengono individuate sia risorse passive - ossia le cose più
tangibili: patrimoni ambientali, storico-artistici, il capitale fisso di infrastrutture e impianti –
sia quelle attive - ossia le componenti intangibili: le istituzioni, le componenti culturali vive,
i beni relazionali (capitale sociale, capitale cognitivo contestuale, capacità istituzionali e
auto-organizzative). Queste ultime sono attive pur costituendo un patrimonio fisso
accumulato nel tempo, perché permettono la conservazione e l’eventuale incremento delle
risorse passive nei processi di sviluppo sostenibile. Inoltre costituiscono il tramite tra il fisso
e il mobile: sono dotazioni fisse che catturano i flussi in movimento (Dematteis, 2005).
Ciò che sfugge alla letteratura degli anni Novanta esaminata è che la risorsa territoriale
non è definibile solo come un dato del territorio, ma piuttosto come il risultato di un
processo di costruzione sociale nel quale i soggetti attribuiscono significati diversi ai valori
territoriali a seconda delle proprie finalità, dei propri progetti.
19
Le risorse territoriali possono quindi essere definite come vantaggi competitivi del
territorio perché sono localizzate e specifiche e perché nascono da processi interattivi tra i
soggetti e sono tali quando vengono impiegate in strategie collettive di attori per risolvere
un problema (Corrado, 2005). Inoltre sono ancorate al territorio e non sono trasferibili
essendo il risultato di una storia lunga, di un apprendimento collettivo. Per queste ragioni le
risorse territoriali possono essere considerate come risorse immobili, fisse in un luogo e che
non possono fuggire verso territori, paesi, regioni più attrattivi (Dematteis, 2005).
Un altro aspetto che poco emerge dalla letteratura esaminata riguarda la valorizzazione
delle risorse. La valorizzazione innovativa di una risorsa è dipende dalla capacità dei
soggetti locali di progettare e mettere in atto azioni collettive, condivise, integrate e
innovative. L’innovazione territoriale, infatti a differenza della trasformazione del territorio,
deriva proprio da forme di auto-organizzazione locale, che in tal senso non sono né
previste né prevedibili e coinvolge condizioni (risorse e fattori) che sono soggettive e
oggettive ed hanno una specificità locale anche solo nella loro combinazione (Guarrasi,
1988).
Infine, con riferimento alle sinergie tra reti, aspetti certamente interessanti riguardano il
tipo e intensità di interazioni che possono verificarsi nell’interazione fra il sistema
territoriale e la rete sovralocali e, in un secondo tempo, fra le diverse reti sovralocali che
insistono sul medesimo sistema.
In questo senso, potrebbe essere interessante domandarsi se esistano sinergie (reali o
potenziali) fra le diverse reti che connettono Torino e il Piemonte ad altri nodi; e quindi:
−
ci sono reti simili?
-
ci sono progetti in comune? I risultati di un progetto/esperienza/pratica hanno
ripercussioni su altre reti?
-
ci sono attori che giocano su più reti e in più tavoli?
-
ci sono occasioni di incontro fra queste reti, di disseminazione e capitalizzazione di
pratiche ed esperienze?
-
é possibile rintracciare risorse e/o attori ricorrenti?
Queste riflessioni potrebbero essere utili per riuscire a rispondere ad alcune delle seguenti
domande: verso quali destinazioni si indirizza l’attività di networking (?) di Torino e del
Piemonte? E, a questo riguardo, si tratta di forme di networking attivo o passivo? Quali
sono le ragioni (evento casuale, scelta indotta o spontanea, individuale o collettiva) della
presenza torinese/piemontese in luoghi anche molto distanti da Torino/Piemonte? Quali
relazioni si sviluppano tra gli attori del sistema torinese/piemontese “delocalizzati” nei
medesimi luoghi? Quanta parte di Torino e del Piemonte è trasferita all’estero attraverso le
reti? Viceversa, quanta parte di altri territori si trova oggi a Torino?
Affrontando un discorso sulle reti è necessario fare alcune puntualizzazione sulle modalità
di vita ed evoluzione delle reti stesse ma anche rispetto alle tipologie di risorse che vengono
attivate con la localizzazione, in un sistema territoriale, di un nodo appartenente ad una rete
locale o sovra locale. Uno stesso territorio, infatti, con gli stessi attori locali, può mettere in
gioco risorse diverse a seconda del partner di relazioni e delle reti di flussi in cui si viene a
trovare.
20
2.3.5.
Alcune riflessioni conclusive circa la relazione tra ancoraggio e radicamento
In via sperimentale, si può provare a riportare in un unico schema dinamico (in cui si
distingue tra un tempo iniziale o T=0 e un tempo T=1) i processi di ancoraggio,
disancoraggio e radicamento territoriale sino a qui descritti, indipendentemente dal fatto
che ci si ponga nella situazione della rete sovralocale che attiva un nodo locale (§ 2.3.2.)o
del sistema locale che attiva una rete sovralocale (§ 2.3.3.).
T=0
T=1
Ancoraggio semplice
o mediato
Radicamento territoriale
Ancoraggio territoriale
LEGENDA
Rete sovralocale
Disancoraggio
Sistema territoriale
(risorse o soggetti)
Figura 2.1: Schema delle possibili evoluzioni dell’ancoraggio
Al tempo T=0 si ha l’ancoraggio quale risultato di un’azione che può venire
indipendentemente dalla rete (esogena) o dal sistema locale (endogena). L’ancoraggio è
generato da una relazione, che può essere legata all’utilizzo di una risorsa, o ai rapporti con
un attore o ancora, più probabilmente, ad entrambe le cose.
Nello schema si distingue, però, tra due situazioni in funzione del fatto che il nodo
locale attraverso cui avviene l’ancoraggio sia inserito nel sistema territoriale che lo ospita
(ovvero intessa intense relazioni funzionali e progettuali con gli altri attori locali). In questo
modo si può distinguere tra due casi diversi: quando l’ancoraggio avviene in modo del tutto
estraneo, avulso dal sistema locale (il nodo attraverso cui avviene l’ancoraggio è isolato
rispetto al sistema locale in cui è inserito); quando l’ancoraggio è il risultato di una
mediazione operata da attori del sistema locale (si pensi al lavoro di CEIPiemonte
nell’attrarre multinazionali estere).
Al tempo T=1 l’ancoraggio può rimanere ancoraggio semplice o evolvere in:
− disancoraggio: la rete decide di rimuovere o rilocalizzare il proprio nodo da lei attivato,
oppure si verifica il caso in cui l’attore locale responsabile dell’attivazione della rete viene
meno o semplicemente cessa la propria attività di networking. In entrambi i casi, le
ragioni possono essere diverse. Per esempio, possono venire a mancare (per effetto di
un mancato interesse/coinvolgimento da parte dei contraenti della relazione o per il
21
verificarsi di impedimenti oggettivi) le condizioni necessarie per il mantenimento della
relazione. Oppure, può accadere che il sistema territoriale non riconosca nell’ancoraggio
una leva utile/strategico, trascurando di rinnovare/riprodurre le condizioni necessarie a
alimentarne lo sviluppo, contrastandone il deperimento . Le reti, come si dirà (§ 2.4.),
sono infatti soggette a processi ciclici di nascita, sviluppo e indebolimento.
− Radicamento territoriale: le relazioni fra il nodo e la rete si consolidano, attraverso
modalità anche molto diverse. La rete può attivare rapporti con altri soggetti, utilizzare
altre risorse presenti nel sistema che rafforzano i legami. Può accadere che la rete
sovralocale sfrutti le relazioni che il sistema territoriale attiva con altre reti sovralocali, o
ancora che la rete sovralocale sfrutti la formazione di nuove reti locali. Spesso, questi
processi possono essere favoriti dalla mobilitazione del sistema locale che, ritenendo il
nodo strategico, si attiva per incrementare e rinnovare le condizioni del suo
radicamento. In questo caso si realizza un rapporto coevolutivo fra la rete e il nodo.
Entrambi necessitano l’uno dell’altro per svilupparsi nella traiettoria desiderata: cioè,
entrambi i punti di vista ritengono il radicamento strategico.
Ovviamente, si tratta di una prima e molto esemplificativa schematizzazione di ciò che
avviene, in forma ben più complessa e con un numero molto più elevato di variabili, nella
realtà.
Tuttavia, da questo primo ragionamento cominciano ad emergere, da un lato, alcune prime
differenze sostanziali nei processi di ancoraggio e radicamento territoriale delle reti (tabella
3); dall’altro si sottolinea l’importanza - non solo per l’analisi della spazialità e dei modelli di
sviluppo di Torino (e del Piemonte), ma per il sistema stesso e le sue strategie attrattive - di
non limitare la prospettiva dell’analisi alla sola visione del sistema, ampliandola a quella
delle reti, concentrando l’attenzione su ciò che avviene nella fase di accoppiamento strutturale
fra questi due sistemi auto-organizzati (come evolvono, quali conflitti si sono verificati,
ecc).
Analogie e differenze tra ancoraggio e radicamento territoriale, si colgono tanto con
riferimento al tipo di attivazione dei processi, quanto alle dinamiche evolutive, al ruolo del
nodo e alle logiche sottese.
22
Processo
Ancoraggio
Attivazione
Non mediata
Mediata da attori del
sistema
(per iniziativa di un
attore locale singolo
o collettivo)
Dinamiche
evolutive
Legame reversibile con
perdita delle eventuali
esternalità
Legame reversibile
con perdita delle
eventuali esternalità
Radicamento
territoriale
Endogena, di sistema
Legame difficilmente
reversibile con le
esternalità che
rimangono
(processo cumulativo)
Nodo locale
Esito/logiche
Nella fase iniziale nodo
non strategico per il
sistema locale
Logiche inizialmente
puntuali, indipendenti
e non sinergiche
Networking passivo
Nodo strategico per
il sistema locale
Logiche condivise
ma non
propriamente
sinergiche
Networking attivo e
passivo
Nodo strategico sia per
la rete che per il sistema
locale
Processo coevolutivo
con l’attivazione di
sinergie
Networking attivo
Tabella 2.2: L’ancoraggio e il radicamento territoriale delle reti
Un punto chiave riguarda il coinvolgimento di attori singoli o collettivi nell’attivazione delle
relazioni tra nodo e sistema, in quanto da questo dipende la distinzione tra forme endogene
e esogene di ancoraggio, mentre il radicamento si suppone che sia sempre l’esito di una
relazione di origine endogena, di sistema. Con questo non si vuole certamente suggerire che
solo i processi che scaturiscono da attori locali possano risultare strategici per il sistema.
Anche l’azione di origine esogena può nel tempo seguire logiche non puntuali, sinergiche, e
avere ricadute di tipo sistemico, determinando però anche il passagio da una condizione di
ancoraggio esogeno a quella di ancoraggio mediato o persino di radicamento.
Un altro aspetto centrale riguarda il ruolo che il nodo (attraverso cui avvengono il
radicamento e l’ancoraggio) gioca nel sistema locale, nonchè le logiche sottese a questi
processi. Mentre il radicamento identifica la condizione di maggiore integrazione tra rete e
sistema, l’ancoraggio presenta sfumature diverse in funzione che il nodo rivesta o meno un
ruolo strategico e che si realizzino forme attive o passive di networking.
A questo proposito, si ipotizza una relazione di circolarità (figura 3) nell’accoppiamento
strutturale tra la rete e il sistema locale, che si esplicita soprattutto in termini di dotazioni
del capitale territoriale, di complessità e coesione della rete dei soggetti locali, di apertura
del sistema ad altre reti sovralocali.
23
T=0
T=1
T=2
KT
Legenda
Ancoraggio
Radicamento
Disancoraggio
Figura 2.2: La circolarità delle azioni
In quest’ottica, si è provato a ipotizzare un primo schema metodologico, composto da tre
griglie analitiche (rispettivamente attinenti al sistema locale, alla rete e all’accoppiamento
strutturale tra rete e sistema locale) attraverso cui analizzare - assumendo il duplice punto di
vista della rete e del sistema - i casi di ancoraggio, disancoraggio e radicamento.
Nella figura che segue (allegato 1) è illustrata la prima delle tre griglie, quella relativa al
sistema territoriale, in quanto è quella su cui ci si è focalizzati in questa prima fase di lavoro
(griglia A), mentre si rimanda ad un secondo momento l’elaborazione delle griglie riferite
alla rete e al modo in cui questa interagisce con il sistema territoriale (accoppiamento
strutturale).
La griglia A pone alcune questioni circa le modalità di ancoraggio (a T=0) e la sua
evoluzione in disancoraggio e/o radicamento (a T=1), a partire dall’analisi degli attori locali
che hanno giocato un ruolo fondamentale, della rete locale coinvolta, delle risorse su cui
l’ancoraggio ha fatto presa, della tipologia della rete sovralocali (come il sistema percepisce
la rete) e ai rapporti con essa intrattenuti. Per alcune di queste questioni si è iniziato anche a
sondare la letteratura, al fine di metterne a fuoco i nodi e comprendere quali ulteriori
approfondimenti si potrebbero sviluppare.
L’applicazione di questo schema ad un certo numero di casi dovrebbe fornire i necessari
feedback utili non solo ad affinarlo, ma anche ad ampliare e dettagliare maggiormente le
questioni.
24
Figura 2.3: Griglia analitica (A)
25
2.4. Indicazioni per la ricerca
Nell’impossibilità di approfondire in questa sede tutti gli ambiti di analisi individuati con
riferimento alle reti che si ancorano o radicano a Torino e nel Piemonte, si riportano qui
alcune questioni oggetto di riflessione successiva:
a) necessità di distinguere tra azioni di networking che fanno capo all’azione di singoli
attori del sistema locale dalle azioni che sono il risultato di una rete locale di attori. La
costruzione di relazioni esterne, per esempio, può essere promossa da singoli attori
che perseguono interessi individuali/privati, dando vita a quello che noi chiamiamo
un’azione di networking passivo (che può comunque generare esternalità a
vantaggio della rete locale) o dalla rete locale (dal sistema locale), secondo il
modello del networking attivo.
b) Necessità di ragionare sull’importanza che la rappresentazione dell’accoppiamento
strutturale (l’attribuzione di valore) da parte sia della rete esterna, sia della rete
locale ha sull’evoluzione dei processi di ancoraggio disancoraggio e radicamento
territoriale. In altre parole, la presenza in un dato sistema locale di un nodo di una
rete sovralocale può essere interpretata in modo molto diverso dalle due reti con
conseguenze rilevanti sul tipo di relazione (accoppiamento strutturale) che queste
instaurano vicendevolmente. In altri termini, il rischio di disancoraggio è minore
quando il nodo è percepito sia dal sistema locale che dalla rete come un elemento
fortemente integrato rispetto agli altri nodi. Al contrario, il rischio è maggiore
quando la percezione di entrambi concorda nel ritenere il nodo un elemento avulso,
che segue logiche individuali, rispetto alle reti in cui è inserito (locale ma anche
sovralocale).
c) Un aspetto importante dell’approccio territoriale all’analisi delle reti consiste
probabilmente nella valutazione della scala a cui si producono le esternalità di rete
(micro urbano, urbano, regionale) e nella distinzione tra esternalità positive e
negative, tra economie e diseconomie della partecipazione di un sistema locale in
reti sovralocali.
d) Il ruolo dell’intenzionalità delle azioni di networking e dei risultati conseguiti
attraverso queste azioni è importante? Spesso capita che reti molto importanti per
Torino si siano generate in modo del tutto casuale. Parimenti avviene che attraverso
la partecipazione a una rete si venga a beneficiare di esternalità inizialmente non
considerate. Importante diventa allora il ruolo di chi sa cogliere queste potenzialità
latenti e attivarle per il vantaggio reciproco della rete sovralocale e del sistema locale
(secondo un gioco a somma positiva). L’ambizione dello studio su Torino e il
Piemonte potrebbe essere quella di individuare alcune di queste
potenzialità/opportunità legate, da un lato, al convergere su Torino e il Piemonte di
nodi di più reti, dall’altro al convergere in altri luoghi di reti che si originano da
Torino e dal Piemonte.
e) Sempre nell’ottica dei risultati attesi della ricerca occorre tenere a mente che la
rilevanza della partecipazione del sistema torinese e piemontese alle reti sovralocali
non si riduce al fatto di ospitare e mantenere il più a lungo possibile sul proprio
territorio i nodi di queste reti, bensì di valorizzarne la presenza per generare
esternalità positive, che si creano nel processo di accoppiamento strutturale tra la
26
rete sovralocale e il sistema locale e che permangono anche dopo che questi nodi si
disancorano.
2.5. Riferimenti bibliografici
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29
30
3.
La Governance territoriale nel dibattito
scientifico. Spunti di riflessione e prime
indicazioni operative
Giancarlo Cotella e Nadia Tecco ∗
3.1.
Esplorando le diverse dimensioni della governance territoriale
Il modo di intendere il ruolo e la natura del governo è mutato considerevolmente durante la
seconda metà del secolo scorso (Davoudi, 2004). Come appare dal capitolo precedente, i
sistemi urbani e territoriali sono attualmente caratterizzati da un insieme di interdipendenze
tra attori, istituzioni, funzioni e modalità di organizzazione spaziale. Per concettualizzare
adeguatamente l’insieme di queste relazioni, negli ultimi due decenni è sempre più spesso
utilizzata la nozione di ‘governance’. Il contributo qui presentato delinea un possibile
percorso fra i diversi approcci a tale concetto e, in special modo, alla governance
territoriale, segnalando temi e questioni di particolare rilevanza ed esplorando possibili
avanzamenti suggeriti dalla letteratura internazionale. L’attenzione è rivolta alle diverse
dimensioni della governance territoriale, anche in vista degli ulteriori approfondimenti che
potranno essere oggetto della riflessione del gruppo EU-POLIS all’interno della ricerca
Torino e Piemonte fra locale e globale. Politiche di rete e ancoraggi territoriali (EU-POLIS, 2009).
Il contributo si articola in cinque sezioni distinte. Dopo una breve introduzione al
lavoro (§3.1.), il testo esplora alcune definizioni di governance estrapolate dalla letteratura
scientifica (§3.1.1.). Il discorso si sofferma poi su tre distinte dimensioni della governance
territoriale: il coordinamento verticale (§3.1.2.), il coordinamento orizzontale (§3.1.3.) e il
coordinamento territoriale (§3.1.4.), per poi far luce sul concetto di ‘buona governance’
(§3.1.5.). Successivamente, vengono approfonditi due temi di particolare interesse
nell’ambito della governance territoriale. In primo luogo, la governance territoriale
comunitaria viene presentata quale frutto del consolidamento di un modello di governance
multi-livello (§3.2.), esaminandone ragioni istituzionali e questioni aperte. In seconda
battuta, il testo si sofferma sul tema della governance ambientale (§3.3.), nel tentativo di
esplicitare l’importanza di tale ambito all’interno delle relazioni globale/locale. La quarta
parte del documento si concentra sui ‘lati oscuri’ della governance (§3.4.), prendendo in
esame i possibili ‘tranelli’ che si annidano in alcune interpretazioni ‘mainstream’ di tale
concetto. Infine, l’ultima parte del lavoro propone alcuni esempi intesi a valutare le
‘capacità di governance’ (§3.5.), al fine di individuare prime ricadute metodologiche
finalizzate allo studio delle realtà di Torino e del Piemonte nello scenario globale.
Data l’ampiezza della letteratura scientifica sul tema della governance, si è scelto di
esplorare tale concetto in relazione alle tematiche più propriamente territoriali partendo, in
∗
La stesura dell’intero testo è da attribuirsi a Giancarlo Cotella, ad esclusione del paragrafo 3.3, frutto delle
riflessioni di Nadia Tecco.
31
primo luogo, dai prodotti delle ricerche ai quali hanno partecipato, in anni recenti, diversi
membri del gruppo di ricerca EU-POLIS. Fra questi, particolare rilevanza hanno i progetti
di ricerca ESPON 2.3.1 Application and Effects of the ESDP in the Member States (ESPON,
2006) e ESPON 2.3.2 Governance of Territorial and Urban Policies from EU to Local Level
(ESPON, 2007). L’inquadramento del dibattito sulla governance territoriale è stato poi
arricchito dall’analisi di una serie di articoli e testi significativi, rintracciati all’interno della
recente letteratura internazionale7. La versione finale del contributo non ha l’ambizione di
costituire una ricognizione esaustiva dello stato dell’arte del dibattito sulla governance
territoriale. Mantiene piuttosto un forte carattere ‘open-end’, nella speranza che le
considerazioni presentate costituiscano una prima base di confronto al fine di individuare
possibili ricadute operative nel contesto della ricerca EU-POLIS.
3.1.1. Che cos’è la governance?
Le modalità secondo le quali città e territori sono governati e organizzati riflettono, e al
contempo rafforzano, i cambiamenti nella struttura sociale, economica e territoriale. A tal
proposito, nel 1997, la Banca Mondiale sottolineava che le enormi differenze esistenti tra le
performances di città e stati all’interno delle economia globale possono essere spiegate,
almeno in parte, dalle differenze in termini di governance. Tale concetto non è nuovo.
Alcuni ne collocano l’origine nel trattato Arthashastra, scritto dal primo ministro Indiano
verso il 400 a.C., che presenta i pilastri elementari dell’arte del governare. Un’ulteriore
interpretazione del concetto è rintracciabile nella Francia del XIV secolo, in relazione al
funzionamento degli affari di corte (Leubolt, 2007). Solo in tempi recenti l’idea di
governance ha però guadagnato popolarità in diversi ambiti accademici, per descrivere
l’evoluzione dei processi decisionali dovuta alla crisi dell’egemonia del modello Fordista e i
conseguenti cambiamenti in termini di organizzazione politica e socioeconomica. L’utilizzo
moderno del termine ha origine nello studio delle organizzazioni corporative. E’ la Banca
Mondiale a definirne per la prima volta l’ambito in senso più ampio, richiamando al ‘modo
tramite il quale il potere viene esercitato nella gestione delle risorse economiche e sociali
per lo sviluppo di una nazione’ (World Bank, 1991, p.1, nostra traduzione). Se
originariamente il significato del termine ‘governance’ è stato spesso sovrapposto al
concetto di ‘government’ (Rhodes, 1997), i due concetti si sono via via allontanati, con il
termine governance che veniva progressivamente associato ai ‘modi’ del governare, a
differenza del concetto di government focalizzato più da vicino sulle istituzioni incaricate di
tale attività (Jessop, 1998).
Secondo Stoker (1998), la governance è caratterizzata dal coinvolgimento di un elevato
numero di attori, la compenetrazione di ruoli e responsabilità fra il settore pubblico e quello
privato, l’esistenza di relazioni di potere tra le diverse organizzazioni coinvolte in azioni
collettive, l’emergere di reti ad alta capacità di autogoverno e lo sviluppo di nuovi compiti e
strumenti di governo. Per esplicitare le caratteristiche specifiche della governance, l’autore
mette in luce cinque caratteristiche principali:
•
la governance si riferisce a un complesso insieme di istituzioni e attori che si estende
sia all’interno sia al di là del concetto di government;
7
Le considerazioni presentate derivano da un’analisi approfondita di tale materiale, reinterpretato alla luce
delle riflessioni maturate nel seminario EU-POLIS del 2 dicembre 2010. A tal proposito, si ringraziano
Francesca Governa, Umberto Janin Rivolin, Marco Santangelo per la disponibilità al confronto sui temi del
presente lavoro, e tutti i membri di EU-POLIS per i preziosi stimoli forniti.
32
•
il concetto di governance implica la ridefinizione dei confini di ruoli e responsabilità
nell’occuparsi di problematiche di natura economica, sociale e territoriali;
•
i processi di governance sono influenzati dal l’insieme di relazioni di potere implicite
nelle relazioni che legano i diversi soggetti coinvolte in azioni collettive;
•
il concetto di governance riguarda il funzionamento di reti complesse di attori;
•
la governance include processi finalizzati all’ottenimento di risultati non
necessariamente legati al potere delle strutture di governo, e implica la capacità di tali
strutture di dotarsi di tecniche e strumenti innovativi per governare.
La necessità di nuove forme di governance deriva dunque dalla crescente complessità
economica e sociale. In tale ottica, le forme di governance emergenti sono interpretabili
come tentativi di occuparsi di problemi complessi in una situazione in cui le configurazioni
istituzionali esistenti non sono in grado di raggiungere i risultati desiderati. In breve,
l’incapacità di attori individuali di ottenere i propri obiettivi tramite azioni solitarie porta a
negoziare obiettivi e modalità di azione in maniera interdipendente, secondo logiche che si
allontanano dal semplice esercizio di potere sugli altri, avvicinandosi sempre più ai concetti
di ‘intercursive power’ (Stoker, 1998) o ‘network power’ (Booher e Innes, 2002).
Proprio per le ragioni descritte, il concetto di governance ha assunto un ruolo centrale
all’interno delle scienze sociali, riferendosi al complesso insieme delle relazioni che
coinvolgono nuovi attori originariamente estranei all’arena politica propriamente intesa
(Painter e Goodwin, 1995). E’ importante sottolineare come, in una prospettiva di
governance, il ruolo dello Stato non sia però considerato superfluo, quanto piuttosto
sottoposto a una profonda ristrutturazione (Le Galès, 1998). All’interno di tale processo, le
strutture statali modificano il proprio ruolo da una prospettiva di ‘comando e controllo’
verso un approccio fondato sulla capacità delle diverse organizzazioni e istituzioni di
convergere verso l’ottenimento di obiettivi comuni. Proprio l’evoluzione del ruolo dello
Stato costituisce un tema fondamentale del dibattito sulla governance. La governance,
infatti, quale nozione teorica, costituisce una interessante prospettiva per comprendere i
cambiamenti che interessano i processi del governare, ossia il passaggio da strutture di
potere coincidenti con un apparato statale organizzato in maniera gerarchica verso un
complesso ed eterogeneo insieme di relazioni finalizzate al perseguimento dell’interesse
pubblico – ‘from government to governance’ appunto (Davoudi et al., 2009).
All’interno della dicotomia fra ‘governo’ – che indica il potere gerarchico dello Stato,
organizzato in agenzie settoriali operanti attraverso procedure burocratiche tradizionali – e
‘governance’ – quale complesso insieme di relazioni che coinvolgono numerosi attori,
alcuni dei quali tradizionalmente estranei all’arena politica (Painter e Goodwin, 1995) – il
termine ‘governance’ può essere utilizzato con accezione descrittiva o normativa. Secondo
una prospettiva descrittiva, la nozione di governance metta in evidenza la proliferazione di
agenzie, interessi e sistemi regolativi (Healey et al., 2002). Da un punto di vista normativo,
invece, tale concetto è utilizzato per indicare un modello alternativo di organizzazione degli
interessi collettivi, basato sull’ ‘auto-organizzazione orizzontale tra attori reciprocamente
indipendenti’ (Jessop, 2000, p.15, nostra traduzione). Per i nuovi modelli della
pianificazione, il concetto di governance assume dunque importanza cruciale, indicando il
coordinamento delle dinamiche socioeconomiche tramite la partecipazione di una
molteplicità di attori e l’evoluzione di obiettivi e modalità di azione.
Rhodes (2000, cit. in: Davoudi et al., 2009) sottolinea come il termine ‘governance’
possa essere definito e analizzato da diversi punti di vista, e individua sette ambiti di
33
elaborazione e attuazione di azioni di governo ai quali corrispondono sette diverse, benché
interrelate, definizioni del termine (Tabella 2.1). Nel complesso, tali ambiti ridefiniscono
ruolo e contenuti dell’interesse pubblico, indebolendo di fatto la distinzione tra pubblico,
privato e società civile (Pierre, 2000). All’interno di tale cambiamento, lo Stato subisce un
profondo processo di mutamento e di ristrutturazione, in particolare per quanto riguarda la
capacità e la possibilità di governare le relazioni economiche e sociali (Jessop, 1997).
Definizioni di governance
Governance come
minimal state
Arretramento del ruolo dell’attore pubblico nella fornitura di servizi collettivi e
conseguente predominanza del mercato o di forme di quasi-mercato in tale ambito.
Corporate
governance
Nozione propria dell’ambito economico-imprenditoriale, descrive le modalità di
direzione e controllo delle organizzazioni, nel settore pubblico e in quello privato,
basate sull’efficienza dei modelli organizzativi, sullo scambio di informazioni, sulla
presa di responsabilità individuale, sulla chiara distribuzione di compiti e funzioni.
Governance come
new public
management
Assunzione di metodologie e principi di organizzazione del lavoro di tipo privatistico
nel settore pubblico, attraverso l’uso di metodi valutativi e procedure di new
institutional economics (ad es. l’introduzione di incentivi differenziati a seconda dei
risultati e la competizione di mercato nella fornitura dei servizi pubblici).
Good governance,
Concetto introdotto dalla Banca Mondiale alla fine degli anni ’80 per promuovere
obiettivi e metodologie di intervento nei paesi in via di sviluppo (Osmont, 1998).
Governance come
sistema
sociocibernetico
Riferimento a sistemi di governo caratterizzati da una molteplicità di attori
interdipendenti e dalla pluralità di procedure da utilizzare nella composizione degli
interessi in gioco (Kooiman, 1993). Specifica forma dell’esercizio di governo basata
sull’interazione fra una molteplicità di attori e sulla composizione di una molteplicità
di interessi. Riconoscimento dei limiti che il singolo incontra nel guidare e attuare le
politiche pubbliche in società sempre più complesse e frammentarie.
Governance come
new political
economy,
Modelli organizzativi che permettono il progressivo superamento delle barriere tra le
sfere che caratterizzano le dinamiche socioeconomiche (in particolare pubblico privato - società civile), favorendo il consolidamento, anche istituzionale, di forme
organizzative basate sulla reciprocità e sulla cooperazione (Jessop, 1995).
Governance
reticolare
Modalità di organizzazione dell’azione collettiva costruite attraverso la variabile
composizione di reti, viste come forma di coordinamento e di organizzazione di
soggetti e azioni. Spostamento da dispositivi hard di azione (ad es. dettati da leggi) a
dispositivi soft (negoziazione, cooperazione) (Perkmann, 1999, p.621).
Tabella 3.1: Diverse definizioni di governance. (Fonte: elaborazione propria su Davoudi et al., 2009).
Se l’esplorazione del concetto di governance si presta a numerose riflessioni e
definizioni, la caratterizzazione della ‘governance territoriale’ è faccenda altrettanto
ambigua, a seconda che l’accento sia posto sulla sovranità territoriale all’interno della quale
la governance è esercitata o sulla dimensione territoriale delle politiche prese in esame
(Janin Rivolin, 2008). Nel primo caso, il concetto è riferito alla sovranità assoluta di uno
Stato su persone e cose localizzate all’interno dei propri confini mentre, nella seconda
accezione, la governance territoriale riguarda sviluppo e regolazione del territorio e include
tutte le relazioni formali/informali, di natura verticale e orizzontale che concorrono al
perseguimento di tali obiettivi.
Anche la governance territoriale, può essere dunque osservata da diverse prospettive. In
primo luogo, essa è riferibile alla semplice applicazione dei principi generali della
governance all’ambito urbano e territoriale. Tale concetto indica però anche un processo
34
più profondo, le cui caratteristiche sono intrinseche nel proprio oggetto di riferimento, il
territorio (ESPON, 2007). Le politiche territoriali appaiono dunque quale ambito
appropriato per lo sviluppo di peculiari pratiche di governance. Lo Schema di Sviluppo dello
Spazio Europeo (SSSE. CEC, 1999) sembra muovere in tale direzione, proponendo la
coesione territoriale quale obiettivo condiviso della governance territoriale, intesa quale
mezzo principale attraverso il quale promuovere lo sviluppo delle regioni europee. Allo
stesso modo, altri documenti di matrice comunitaria (ad es: il Sustainable Urban Development
in the EU: a Framework for Action e i documenti relativi alle diverse iniziative comunitarie
promosse durante il periodo di programmazione 2000-2006) definiscono la governance
territoriale in maniera dettagliata, riferendosi a parole chiave quali cooperazione territoriale,
scambio di esperienze e know-how attraverso la creazione di reti etc., ed esplicitando la
necessità di un approccio integrato e sensibile alle dinamiche territoriali nei processi di
definizione e attuazione delle politiche. In tale ottica, coordinamento, partecipazione,
attenzione al partenariato e approcci bottom-up sono sovente presentati come strumenti
finalizzati alla promozione di nuove forme di governance territoriale. Alla luce di tali
riflessioni, il progetto ESPON 2.3.2 definisce la governance territoriale come la capacità di
attori, gruppi sociali e istituzioni di costruire consenso attorno ad una visione territoriale
condivisa (ESPON, 2007). Tale definizione fornisce però ancora scarse informazioni sui
complessi meccanismi di coordinamento fra attori, settori politici e livelli territoriali che
sono impliciti nel concetto stesso di governance, dimensioni che verranno articolate nei
paragrafi successivi.
3.1.2. La governance come coordinamento verticale
Si è accennato a come i cambiamenti socioeconomici impliciti nel processo di
globalizzazione abbiano contribuito a modificare le azioni ai diversi livelli territoriali e
moltiplicato i soggetti e i luoghi delle politiche e degli interventi. Nel complesso, tali
processi hanno avuto l’effetto di ridefinire il significato e il ruolo del livello nazionale come
spazio di relazioni socioeconomiche autocontenute e, contemporaneamente, accrescere
l’importanza dei livelli di organizzazione sovra e subnazionali. Brenner (1999) sottolinea
come l’insieme di questi aspetti possa essere riassunto, dal concetto di ‘rescaling’, cioè
riorganizzazione, riarticolazione e ridefinizione delle scale territoriali e dei corrispondenti
livelli di governo. Allo stesso tempo, diversi autori pongono l’accento sui cambiamenti delle
‘geometrie di potere’ che avvengono attraverso peculiari processi di ‘salto delle scale’ che
implicano la ridefinizione dell’ambito spaziale nel quale sono mediati i conflitti tra visioni
opposte dello sviluppo del territorio (Smith, 1993; Swyngedouw, 2000).
La descritta ridefinizione dei livelli territoriali apre problemi inediti di coordinamento
transcalare e multilivello. Partendo da tali considerazioni, Hooghe e Marks (2001)
riconoscono l’emergere di un sistema di ‘governance multilivello’, ossia un’interazione
continua tra governi a diversi livelli territoriali quale risultato di un ampio insieme di
processi di creazione istituzionale e riallocazione decisionale cha ha spostato alcune
funzioni tradizionalmente al centro dell’azione statale verso il livello sovranazionale e verso
il livello regionale/locale. L’insieme di questi processi testimoniano il cambiamento delle
dinamiche politiche e organizzative dello Stato-nazione, spesso stigmatizzato come
ridefinizione dei principi di sovranità e territorialità che hanno tradizionalmente
caratterizzato la concezione moderna dello Stato e la sua organizzazione. Le tendenze verso
il decentramento della sovranità nazionale presso altre istituzioni, dalle entità sovranazionali
fino al mercato globale dei capitali, delineano la formazione di un sistema di governo
35
imperniato sui flussi internazionali, sulla globalizzazione dei mercati e sull’introduzione
delle nuove tecnologie, ridefinendo così il ruolo di uno Stato sempre più spesso chiamato a
svolgere il ruolo di ‘mediatore’ fra dinamiche locali e globali, fra i processi di
deterritorializzazione e riterritorializzazione selettiva frutto della globalizzazione (Rhodes,
2000)8. Secondo una prospettiva neoistituzionalista, lo Stato è così messo di fronte alle
nuove sfide della gestione pubblica (riduzione della burocrazia, incremento del ruolo del
mercato) e del costruttivismo sociale (moltiplicarsi degli attori che partecipano alla
formulazione delle politiche pubbliche). Allo stesso tempo, tali processi ridefiniscono il
ruolo dell’autonomia locale, dando vita a un complesso rapporto locale-globale in cui il
livello locale esercita la propria capacità di autorappresentazione interna e di apertura verso
l’esterno per la partecipazione alla rete delle relazioni sovralocali (Stoker, 2000b).
In tale contesto, la governance è considerata una modalità di azione che si confronta
con il coordinamento tra attori e livelli territoriali diversi, con la ridefinizione del significato
e del ruolo dello Stato, con il ruolo di soggetti e istituzioni sovranazionali e con i problemi
di frammentazione socio-territoriale determinati da tali processi (Kearns e Paddison, 2000).
Considerare la governance in una prospettiva multilivello non significa però riconoscere
unicamente che le modalità di esercizio del governo e di elaborazione delle politiche
operano a diverse scale, ma richiede di cogliere le relazioni che si instaurano fra di esse
(Stoker, 2000b). Prestando attenzione alle interazioni che connettono eventi e processi ai
diversi livelli delle dinamiche sociali, nonché al modo attraverso cui esse sono ‘regolate’, lo
studio della governance si configura così non tanto come studio degli effetti dell’esercizio
del potere, quanto come interpretazione dell’esito che deriva dall’interconnessione,
mutevole e occasionale, tra le relazioni orizzontali, verticali e diagonali che legano diversi
attori e interessi fra – ed entro – diverse scale (Davoudi et al., 2009)9.
La governance multilivello non è però esente da contraddizioni e problemi (Stoker,
2000b). Spesso, infatti, le organizzazioni reticolari si comportano come meccanismi
escludenti, determinando la scarsa partecipazione di attori e interessi deboli. Infine, il ruolo
pressoché esclusivo svolto dalle interazioni formalizzate e istituzionalizzate rischia di inibire
la vitalità progettuale delle pratiche sociali. Per ovviare a questi problemi, Stoker individua
le possibilità offerte da modelli di governance basati sulla combinazione di approcci ‘topdown’ e ‘bottom-up’, al fine di garantire contemporaneamente la presenza di una leadership
politica in grado di assicurare l’attendibilità degli attori coinvolti e la valorizzazione delle
innovazioni che si dispiegano nelle interazioni sociali.
3.1.3. La governance come coordinamento orizzontale
Se la dimensione verticale costituisce il fulcro della governance multi-livello, è importante
sottolineare come i risultati delle azioni di governance siano il prodotto dell’interazione e
della negoziazione fra una molteplicità di soggetti e di interessi che entrano in relazione fra
loro con diversi fini. Distinguendo fra governabilità, government e governance, Dente
(1999, p.112) descrive quest’ultima come attività finalizzata a produrre decisioni coerenti,
8 Secondo Jessop (1994, p. 264, traduzione), ad esempio, le attuali trasformazioni dello Stato-nazione
consistono nel suo parziale svuotamento (hollowing out): ‘alcune competenze dello stato sono trasferite a un
numero crescente di entità macroregionali, plurinazionali, internazionali […], altre sono devolute a livelli
locali o regionali, altre sono sempre più spesso attuate da network di potere orizzontali – locali o regionali –
che si estendono oltre lo Stato centrale, mettendo in contatto autorità locali e regionali di nazioni diverse’.
9 Caratteristiche della governance multilivello diventano così l’indeterminatezza e la non linearità dei processi,
l’auto organizzazione delle reti e il carattere non gerarchico delle relazioni tra gli attori coinvolti.
36
sviluppare politiche efficaci, e attuare programmi condivisi, mentre con il termine
government richiama il campo delle istituzioni politiche e delle loro strutture organizzative.
L’impiego dell’uno o dell’altro termine rimanda, pertanto, a un insieme di fenomeni molto
diversi e, almeno in parte, alternativi, denotando un passaggio da una visione giuridicoformale dell’esercizio del governo a una rilevazione empirica degli attori e dei meccanismi
di interazione attraverso cui descrivere le forme conflittuali e cooperative dei processi di
costruzione delle politiche. In tale ottica, Rhodes (1997) definisce la governance quale
insieme di modelli di azione collettiva e di forme organizzative di governo, le cui
caratteristiche distintive sono (i) l’interdipendenza tra organizzazioni (che permette di
superare la classica separazione tra pubblico, privato e società o tra forme organizzative
basate sulla gerarchia, il mercato e la cooperazione/reciprocità tra soggetti interagenti); (ii)
l’interazione tra membri di una rete; (iii) la definizione di regole negoziate e condivise; (iv)
l’elevato grado di autonomia della rete nei confronti dello Stato. Nelle azioni di governance,
i risultati delle politiche non sono dunque il prodotto delle azioni ‘top down’ di un solo
soggetto, ma derivano dall’interazione e dalla negoziazione fra una molteplicità di attori e
interessi che entrano in relazione fra loro con diversi fini. Le interazioni fra gli attori
presentano le forme più diverse: competizione, cooperazione e conflitto sono sempre
presenti, spesso contemporaneamente. Nei modelli di governance, inoltre, esse sono
regolate da un’ampia gamma di modalità ‘sociali’ di coordinamento (Jessop, 1995). Le
azioni di governance sono quindi basate sulla capacità di mobilitare le caratteristiche
specifiche del capitale sociale e di far leva sulle reti degli attori locali, sottolineando non
‘solamente[…] la natura interattiva dei processi di governance, ma […] il modo in cui le reti
sociali entrano ed escono dalle istituzioni formali di governo’ e riconoscendo che ‘la
razionalità collettiva è un’attività ben più ampia e complessa di quella che può essere
“catturata” dai modelli della razionalità tecnico-strumentale e dai processi della
pianificazione razionale’ (Healey, 1997, p. 204, nostra traduzione).
Mentre nell’idea di governo è dunque centrale il ruolo dell’attore pubblico, l’idea della
governance prefigura modalità di intervento che coinvolgono un insieme complesso di
attori, basato sulla flessibilità, sulla partnership e sulla volontarietà della partecipazione.
Diversi soggetti, anche non istituzionali, hanno la possibilità di svolgere un ruolo attivo
nella definizione delle scelte e delle azioni di interesse collettivo. In una particolare area di
policy, tutti gli attori hanno bisogno degli altri in quanto ‘nessuno ha tutte le conoscenze
e/o le risorse necessarie per elaborare e attuare una politica (Rhodes, 1997, p.50, nostra
traduzione). Nella sua dimensione orizzontale, la governance si configura così quale
modalità di azione rivolta alla costruzione di tavoli di concertazione dove, più che la
gerarchia delle competenze, conta la costruzione degli interessi in gioco, delle attese e delle
intenzionalità espresse dai diversi soggetti. Questa concezione ridefinisce il ruolo e le
modalità di azione del soggetto pubblico, da un ruolo più propriamente decisionale e
regolativo verso un ruolo di ‘pilotage’ e accompagnamento delle azioni fra i soggetti
(Jessop, 1995): governance diventa così sinonimo di ‘steering’, di guida delle dinamiche e
dei processi di trasformazione (Kooiman, 1993). Il soggetto pubblico può così essere visto
come un network manager, che stimola le interazioni, rimuove i blocchi, costruisce
relazioni non gerarchiche fra i soggetti e valorizza le capacità auto-organizzative dei sistemi
sociali. Esso esplica il suo ruolo non più nella formazione di progetti settoriali, quanto
nell’animazione e nell’accompagnamento di forme di azione che emergono nell’interazione
sociale, nella composizione di conflitti e differenze, nella definizione di opzioni politiche di
fondo su cui costruire i processi partecipativi e nella gestione degli stessi.
37
3.1.4. La governance come coordinamento territoriale
Un’ulteriore dimensione della governance riguarda la definizione di forme di integrazione
verticale e orizzontale, che coinvolgano sia i diversi livelli territoriali sia le molteplici
organizzazioni governative e non. Si parla in questo caso di ‘integrazione spaziale’ o
‘coordinamento territoriale’, ad indicare il tentativo di coordinare le priorità settoriali e gli
interessi di organizzazioni e gruppi sociali nella definizione di strategie finalizzate alla
costruzione del consenso circa lo sviluppo di una visione condivisa per il futuro di un
determinato territorio. In questo caso, l’aspetto centrale per costruire azioni di governance
efficaci sta nella definizione di modelli di cooperazione e coordinamento che integrino
efficacemente le diverse responsabilità all’interno di un determinato contesto territoriale.
Già lo SSSE sosteneva come città e regioni dovessero trarre vantaggio dalla messa in
atto di strutture associative, affermando l’importanza del ‘collegamento in rete di piccole
città nelle regioni meno densamente popolate e nelle regioni a economia più debole. In tali
contesti, la messa in comune degli strumenti operativi rappresenta spesso l’unico modo per
raggiungere le soglie che consentono a ciascuna partner di disporre di attrezzature e di
servizi economici, che non potrebbe offrire da sola’ (CEC, 1999, p. 22). Al fine di
sviluppare tali sinergie funzionali sul territorio europeo, sono però necessarie non solo
infrastrutture hard, come reti efficienti di trasporto e telecomunicazioni, ma anche
infrastrutture soft e, in particolare, appropriati meccanismi di governance. La struttura
istituzionale e la natura dei meccanismi di decision making, cooperazione e divisione del
potere possono infatti influenzare significativamente le traiettorie di sviluppo di città e
regioni, favorendo il raggiungimento degli obiettivi dello SSSE (Davoudi, 2003). A tal
proposito, uno dei problemi centrali, è rappresentato dal fatto che le istituzioni di
governance spesso operano all’interno di territori delimitati da rigidi confini amministrativi.
L’approvazione di accordi di cooperazione capaci di ‘superare’ i confini amministrativi e
settoriali è perciò un elemento cruciale per l’integrazione e il coordinamento di una
molteplicità di attori, interessi, poteri, responsabilità e istituzioni. Come sottolinea Sellers
(2002, p.93, cit. in Davoudi et al., 2009), infatti, ‘in una regione urbana […], le molte
giurisdizioni locali che articolano lo spazio devono spesso coordinarsi o agire in maniera
collettiva. Per raggiungere questo obiettivo, la pianificazione urbana e territoriale è
considerata come uno dei più importanti strumenti in tutto il mondo industriale avanzato’.
Città e territori, intesi come arene in cui politici e amministratori interagiscono al fine di
organizzare le trasformazioni attraverso l’articolazione e la traduzione di filosofie politiche
in programmi di azione, sono tradizionalmente riconducibile all’idea della governance
(Davoudi, 1995, p.225) e, in tale ottica, i cambiamenti in atto contribuiscono a ridefinire in
parte la governance in maniera innovativa, riconoscendo il consolidamento, anche nelle
pratiche, di forme di partenariato, cooperazione interistituzionale, pianificazione strategica
e coordinamento intersettoriale (Healey, 1997; Le Galès, 1998). Tali innovazioni, che sono
particolarmente evidenti nel campo delle politiche urbane e territoriali, influenzano tutti gli
ambiti dell’agire pubblico e possono essere riassunte come tendenza verso una
‘territorializzazione’ dei modelli di azione, tendenza che si inserisce nella nuova centralità
assunta dal riferimento al territorio locale nelle riflessioni teoriche sui modelli di azione
collettiva e nelle pratiche di intervento nella città e nel territorio (Governa e Salone, 2004).
All’interno di questo quadro, il ruolo dei territorio muta in relazione alla trasformazione
delle relazioni delle diverse scale geografiche con il più generale sistema economico, sociale
e politico; ridefinizione che può essere descritta come il passaggio dal concetto di territorio
come spazio passivo e statico a una reinterpretazione dello stesso come contesto attivo e
dinamico, attore dei processi di sviluppo basati sull’azione collettiva dei soggetti che in esso
38
agiscono (Cox, 1997; Dematteis e Governa, 2005). Secondo tale approccio, il territorio
gioca un ruolo fondamentale quale mezzo di strutturazione e coordinamento fra attori e
interessi locali e fra questi ultimi e il livello globale. La governance diventa così capacità di
integrare e dare forma agli interessi, alle organizzazioni e ai gruppi sociali locali e, allo stesso
tempo, capacità di rappresentarli all’esterno, di sviluppare delle strategie condivise in
relazione al mercato, allo Stato, alle altre città e agli altri livelli di governo. E’ intesa, in altre
parole, come la capacità dei soggetti pubblici e privati di (1) costruire consenso
organizzativo coinvolgendo il settore privato per la definizione di obiettivi e compiti
comuni; (2) orientare il contributo di ciascun partner al raggiungimento degli obiettivi
predefiniti e (3) costruire una visione condivisa per il futuro del territorio, che coniughi i
diversi interessi settoriali.
Sulla base di tali considerazioni, è possibile seguire Bagnasco e Le Galès nel definire la
governance urbana e territoriale quale processo di coordinamento di attori, gruppi sociali e
istituzioni per il raggiungimento di fini definiti collettivamente all’interno di un ambiente
sempre più frammentato e incerto (Bagnasco e Le Galès 2000, p.26). Sottesa a questa
definizione è l’ipotesi che città e territori siano concettualizzabili come attori collettivi, al
cui interno le azioni di governance costituiscono una specifica modalità organizzativa di
una molteplicità di attori che si interfacciano per un fine comune. A partire da tali
definizioni, è possibile segnalare gli aspetti principali che configurano l’azione collettiva in
campo territoriale come azione di governance (Davoudi et al., 2009, pp. 57-58). In primo
luogo, la governance è una modalità di organizzazione collettiva fondata sulla costruzione
di coalizioni di attori orientati al raggiungimento di obiettivi definiti congiuntamente. L’idea
di governance non è connessa unicamente al ruolo delle istituzioni formali, quanto al
processo di ‘costruzione delle relazioni attraverso le quali si definisce un sufficiente grado
di consenso e di apprendimento collettivo, al fine di sviluppare il “capitale sociale,
intellettuale e politico” e promuovere il coordinamento, lo scambio di conoscenze e
competenze nell’insieme delle relazioni sociali che coesistono nei diversi luoghi’ (Healey,
1997, p. 200, nostra traduzione). La governance urbana e territoriale, a differenza della
governance nell’economia, rivolta al raggiungimento dell’efficienza economica delle
imprese, si confronta così con il problema della rappresentanza degli interessi, inserendo
fra i suoi obiettivi la dimensione propriamente sociale e politica (Bagnasco e Le Galès,
2000). Infine, le azioni di governance sono esito di un complesso gioco in cui si scambiano
risorse, si costituiscono obiettivi, si organizza il consenso. Alla definizione di tali processi
contribuiscono sia le risorse finanziarie, conoscitive e politiche degli attori, sia le regole
formali/informali di interazione fra gli stessi e il contesto in cui esse si realizzano.
3.1.5. Buona governance e partecipazione
Si è visto come il termine governance stia ad indicare un ambito estremamente complesso,
che riguarda la costruzione di relazioni trasversali tra settore pubblico, privato e società
civile, attraverso la definizione di partenariati e reti. La governance, inoltre, opera a diversi
livelli territoriali fortemente interrelati, costituendo un importante meccanismo di
coordinamento degli interessi dei diversi attori e settori politici che convergono nei processi
decisionali. Sebbene ci sia la tendenza a considerare la governance territoriale in termini di
gestione delle dinamiche urbane e territoriali, ad esempio il mantenimento di infrastrutture
e servizi, essa riguarda processi fortemente politici piuttosto che puramente tecnici e
manageriali. In tale ottica, il tentativo di individuare modelli di governance univoci e
utilizzabili in ogni azione si presta a diversi rischi. Tuttavia, in anni recenti sono state
39
sviluppate alcune definizioni operative sotto forma di linee guida, per favorire l’attuazione
di processi cosiddetti di ‘buona governance’. Il Centro per gli Insediamenti Umani delle
Nazioni Unite (UNCHS) definisce buona governance ‘la risposta efficace ed efficiente ai
problemi urbani da parte dei governi locali responsabili che lavorano in collaborazione con
la società civile’ (citato in BSHF, 2000, p.6) e ne individua quali principali caratteristiche la
sostenibilità (il bilanciamento dei bisogni sociali, economici e ambientali delle generazioni
presenti e future), la sussidiarietà (l’assegnazione di risorse e responsabilità al livello
territoriale più appropriato), l’equità (l’accesso al processo decisionale e alle necessità
fondamentali della vita urbana), la trasparenza e la responsabilità (da parte dei decisori e di
coloro i quali hanno interessi nella definizione e nella messa in atto dei processi di
sviluppo), il coinvolgimento della popolazione e della cittadinanza (cioè il riconoscimento dei singoli
cittadini come risorsa principale della città e, insieme, come oggetto e mezzo di sviluppo
sostenibile) e la sicurezza (degli individui e del loro ambiente).
Tali principi sono in parte coincidenti con quelli proposti dalla Commissione Europea
nel Libro bianco sulla governance, documento che identifica cinque principi la cui applicazione
dovrebbe concorrere alla definizione di una governance più democratica a tutti i livelli di
governo (CEC, 2001, pp.10-11):
•
apertura, ossia la necessità che le istituzioni comunitarie operino in maniera trasparente
e, insieme agli Stati membri, si impegnino a comunicare attivamente l’attività e le
decisioni dell’UE tramite un linguaggio accessibile;
•
partecipazione, principio secondo il quale qualità, rilevanza e efficacia delle politiche
dipendono dal grado di coinvolgimento della popolazione durante tutto il processo;
•
responsabilità, che rimanda all’esigenza di chiarire il ruolo dei diversi attori nel processo
legislativo ed esecutivo;
•
efficacia, ossia la necessità di predisporre e attuare le politiche al momento opportuno in
relazione a obiettivi chiari e di valutarne gli impatti futuri;
•
coerenza, che assume un’importanza crescente in relazione al maggiore numero dei
compiti e alla diversificazione delle politiche da coordinare a seguito dell’allargamento.
Il Libro bianco sottolinea come nell’applicazione dei diversi principi occorra ricorrere ad
azioni combinate, finalizzate inoltre al rafforzamento di due ulteriori principi: proporzionalità
e sussidiarietà. In breve, tali principi affermano come, dalla definizione di una politica alla sua
attuazione, sia fondamentale la scelta del livello di azione oltre che l’utilizzo di strumenti e
risorse proporzionali all’obiettivo perseguito.
E’ interessante notare come entrambi i documenti introdotti guardino al concetto di
partecipazione quale principio fondamentale della ‘buona governance’. Tali pressioni verso
processi decisionali consensuali hanno una traduzione teorica nel concetto di ‘collaborative
planning’, che Healey (1997) deriva direttamente dall’approccio Habermasiano alla
costruzione del consenso. Tuttavia, le istituzioni democratiche tradizionali hanno
incontrato numerose difficoltà ad adattarsi in maniera indolore alle sempre più ampie
forme di azione diretta. Nonostante l’ampio consenso intorno all’importanza della
partecipazione, rimane dunque aperto il problema della valutazione dell’efficacia e, in
particolare, del come distinguere tra ‘buona’ e ‘cattiva’ partecipazione. Per descrivere i
diversi livelli di partecipazione dei cittadini ai processi di pianificazione a livello locale, già
nel 1969 Arnstein utilizzava la metafora della ‘scala della partecipazione pubblica’ (Arnstein,
1969). Alla base della scala, l’autrice colloca l’assenza di partecipazione; la posizione
40
intermedia rispecchia una situazione in cui le persone ricevono informazioni e sono talvolta
consultate, mentre i gradini più alti rappresentano modelli caratterizzati da un elevato grado
di partecipazione, nei quali la cittadinanza esercita un controllo effettivo sulle scelte
politiche. La metafora di Arnstein propone una valutazione normativa dei diversi gradi di
partecipazione, favorendo la parte superiore della scala, ossia la massima partecipazione ai
processi decisionali. La necessità di operare delle scelte in tal senso porta infatti
inevitabilmente al sorgere di questioni e dispute sul livello di partecipazione desiderabile, o
politicamente e socialmente accettabile. E’ chiaro come tali questioni non possano essere
affrontare senza tenere conto del dibattito relativo allo scopo, alla natura e al valore della
partecipazione. Ogni discussione relativa alla rilevanza del tema della partecipazione
nell’ambito della pianificazione, è dunque strettamente legata alle diverse concezioni di
democrazia (Hague e McCour, 1974). A un’estremità, l’elitarismo democratico vede la
democrazia come competizione tra élite politiche per ottenere un generico supporto della
cittadinanza. Tra un’elezione e l’altra, i cittadini giocano un ruolo di minore importanza,
senza intervenire direttamente nelle scelte di governo. Si tratta di una visione tecnocratica
della democrazia, che si fonda sulle competenze professionistiche e impedisce alle altre
persone di partecipare ai processi decisionali, in quanto incompetenti e non in grado di
comprenderne a pieno le questioni in gioco. In tale modello, la partecipazione è considerata
una maniera per saggiare la volontà popolare, senza alcuna intenzione reale di modificare la
politica, e costituisce dunque un modo per legittimare decisioni potenzialmente controverse
e per ottenere maggiore consenso sulle decisioni già prese da politici e amministratori.
All’estremità opposta dello spettro, si colloca invece la democrazia partecipativa (Held, 1987),
la cui caratteristica principale è il coinvolgimento diretto dei cittadini nei processi
decisionali delle diverse istituzioni chiave. La partecipazione non è tanto considerata un
mezzo per raggiungere un fine, quanto uno dei risultati attesi, un processo di crescita degli
individui e di creazione di una società nella quale i singoli possono sviluppare il massimo
del loro potenziale. Il processo di definizione delle politiche avviene nell’interazione
continua tra Stato e cittadini, ponendo attenzione a evitare ogni distinzione tra competenti
e incompetenti, al fine di accrescere la capacità di coinvolgimento e controllo decisionale
degli individui e delle comunità.
3.2.
La governance territoriale comunitaria
Gli sviluppi dell’Unione Europea dell’ultimo ventennio hanno ravvivato il dibattito circa le
conseguenze dell’integrazione in termini di autorità degli Stati nazionali. In tale ottica,
numerosi studiosi affermano che l’integrazione abbia modificato irrimediabilmente la
governance europea, portando alla diffusione di autorità e competenze fra i diversi livelli
territoriali (Hooghe e Marks, 2001). In questo senso, l’UE costituisce un esperimento di
ingegneria istituzionale senza precedenti. Il processo di integrazione che ne è alla base è
evaso dai contorni di volta in volta attribuitigli e tuttora mantiene un forte carattere openend (Hooghe e Marks 2001, p. 35). L’ambito di interesse e la profondità dell’attività di
policy-making dell’Unione sono cresciuti esponenzialmente, con il completamento del
Mercato Unico (1993) e la nascita dell’Unione Economica e Monetaria (1999). Nonostante
ciò, il contesto comunitario continua ad essere caratterizzato da forte incertezza, con il
rifiuto della Costituzione Europea da parte di francesi e olandesi che ha messo in luce le
modalità prettamente pragmatiche alla base dell’integrazione, sottolineando nuovamente
l’assenza di una visione prospettica.
41
La contraddittorietà di un quadro caratterizzato dall’alternanza di risultati straordinari e
momenti di evidente empasse complica il dibattito circa il reale significato del processo di
integrazione e delle sue conseguenze per l’autonomia politica dei Paesi membri. In tale
ottica, numerosi autori intergovernamentalisti (Hoffmann, 1982; Taylor, 1991, 1997;
Moravcsik, 1993; Garrett, 1995), hanno descritto la governance europea alla stregua di un
sistema ‘stato-centrico’, affermando come il processo di integrazione non sia in alcun modo
incompatibile con l’autorità nazionale. In tale modello, i governi nazionali assumono il
ruolo di decisori ultimi e devolvono autorità molto limitata alle istituzioni sovranazionali,
solo al fine di ottenere risultati specifici. Il processo di integrazione è considerato un
insieme di contrattazioni fra paesi all’interno del quale nessun governo è costretto ad
integrarsi in misura maggiore di quanto desideri. Il ruolo delle istituzioni sovrannazionali è
perciò semplicemente quello di facilitare gli accordi interstatali fornendo informazioni
altrimenti difficilmente condivisibili, e l’esito politico dell’UE riflette gli interessi e il potere
dei diversi Paesi senza alcuna influenza indipendente della struttura sovrannazionale10.
L’alternativa principale al modello stato-centrico è costituita dalla governance multilivello (Scharpf, 1994, 2001; Sbragia, 1992; Hooghe e Marks, 2001), ossia ‘la dispersione di
potere decisionale attraverso molteplici livelli territoriali’ (Hooghe e Marks, 2001, p.xi,
nostra traduzione), quale risultato dei processi di ‘rescaling’ che hanno trasferito
competenze in numerosi ambiti decisionali dagli Stati alle istituzioni comunitarie e ai livelli
sub-nazionali (Brenner, 1999). Le teorie di governance multi-livello definiscono
l’integrazione europea come un processo di definizione di un sistema politico (‘a politycreating process’. Hooghe e Marks, 2001, p.2) all’interno del quale autorità e attività di
policy-making sono suddivise fra molteplici livelli di governo. Questo implica una
variazione del locus del controllo politico, in seguito alla quale la sovranità nazionale risulta
diluita all’interno di processi decisionali che coinvolgono stati nazionali e organismi
istituzionali autonomi e semi-autonomi ai diversi livelli. Tale modello non nega il ruolo dei
governi nazionali, ma afferma come questi non detengano alcun monopolio né sull’attività
politica comunitaria né sul processo di definizione degli interessi domestici, rendendo
dunque necessario considerare il ruolo indipendente degli attori sovra e subnazionali.
Nonostante le descritte divergenze di opinione, il progressivo intreccio delle sovranità
nazionali all’interno di un sistema politico multi-livello caratterizzato dall’azione di un
crescente numero di attori è innegabile. Se tale processo è evidente negli ambiti dove esiste
una qualche competenza comunitaria in autonomia o in condivisione con gli Stati membri,
in assenza di competenze legittime – ed è questo il caso del governo del territorio – è
argomento più controverso. Diversi autori hanno dimostrato come, anche all’interno di
sfere politiche al di fuori della competenza comunitaria, siano emerse strutture di
governance peculiari che contribuiscono ad una distribuzione di ruoli e responsabilità,
fermo restando la sovranità saldamente nelle mani dei governi nazionali. Sebbene non
sempre in maniera esplicita, l’attenzione alla dimensione territoriale delle politiche UE è
infatti proceduto di pari passo con l’integrazione, con la progressiva integrazione
economica che richiedeva interventi sulle crescenti disparità territoriali al fine di arginare
potenziali derive disintegrative (Williams, 1996). A dispetto dell’assenza di competenze, è
dunque innegabile che la politica comunitaria sia stata caratterizzata nei fatti da una
progressiva ingerenza nelle dinamiche spaziali. Lentamente, ma inesorabilmente, il
10 Inoltre, i governi nazionali costituiscono l’unico riferimento delle arene politiche domestiche, e sono
sottoposti a pressioni politiche localizzate esclusivamente all’interno dei confini nazionali. Alla contrattazione
dei diversi Stati in sede europea si aggiungono quindi altrettante arene nazionali autonome che ospitano i
processi di definizione degli interessi che i governi dei vari Paesi propongono al tavolo comunitario.
42
territorio ha acquisito una posizione di primo piano nell’agenda politica dell’UE, sin dai
primi trattati CEE che includevano azioni legate a trasporti, ambiente, agricoltura e reti
infrastrutturali fra le competenze comunitarie. La pubblicazione del Libro verde sull’ambiente
urbano (CEC, 1990), gli studi Europa 2000 e Europa 2000+ (CEC, 1991; CEC, 1994) e la
crescita esponenziale di ricerche e iniziative scientifiche in tale ambito sono solo alcuni dei
molti indizi di quella crescente sensibilità territoriale che ha portato alla redazione prima
dello SSSE (CEC, 1999) e, successivamente, della Territorial Agenda (MUDTCEU, 2007a).
L’importanza giocata dall’entrata in scena dell’UE quale nuovo soggetto istituzionale del
governo del territorio è innegabile. All’interno del complesso panorama della governance
multi-livello europea, l’attività di governo del territorio delle singole nazioni e le politiche
territoriali di matrice comunitaria sono infatti sottoposti a un processo continuo di muto
adattamento e coevoluzione. In tale ottica, è possibile definire la governance territoriale
comunitaria quale intersezione di contesti nazionali di governo del territorio e politiche
territoriali comunitarie all’interno del sistema di governance multilivello dell’UE (Cotella,
2009). Se la governance territoriale comunitaria è stata in passato oggetto di numerosi studi
(Nadin e Shaw, 1999; Tewdwr-Jones e Williams, 2001; Janin Rivolin e Faludi, 2005, Janin
Rivolin, 2008), continua però a lamentare la mancanza di una definizione condivisa e
univoca. Come affermato dai Ministri degli Stati membri responsabili per le politiche
territoriali ‘al momento non esiste alcun sistema strutturato di governance territoriale
comunitaria’ (MUDTCEU, 2007b, p.51, nostra traduzione). Tale situazione è imputabile
alla descritta sessanta di competenze, che fa sì che l’attuazione delle politiche territoriali
comunitarie dipenda dai vari sistemi domestici di governo del territorio, risultando così
mediata dalle priorità e dagli assetti istituzionali e operativi degli Stati membri.
Partendo da tali presupposti, Janin Rivolin (2008, 2009) sottolinea come la governance
territoriale comunitaria possa essere definita come il prodotto delle interazioni formali e
informali, verticali (fra scale di intervento) e orizzontali (fra settori di intervento, fra Stato,
mercato e società civile), che rendono possibile ed effettiva la condivisione comunitaria –
per finalità ed entro i limiti previsti dalla normativa comune – del governo del territorio
(Janin Rivolin, 2009). Se si accetta tale definizione, un inquadramento delle ragioni
istituzionali che alimentano la governance territoriale europea e delle modalità strumentali
che ne consentono l’operatività costituisce un passaggio necessario alla comprensione dei
fenomeni di sviluppo in atto alle diverse scale territoriali. Rispetto a tale operazione, Janin
Rivolin (2009, pp.80-1) esprime tre interessanti considerazioni:
•
In primo luogo, la governance territoriale comunitaria non è argomento riconosciuto
nei trattati comunitari. Questi ultimi contengono però, fin dai cambiamenti introdotti
con l’Atto Unico Europeo (1987), riferimenti espliciti e impliciti alla necessità di una
politica territoriale europea, peraltro chiaramente operativa nei fatti. A ciò va aggiunto
che, complice il complessivo ripensamento istituzionale posto in essere dal progetto
costituzionale, il Trattato di Lisbona ha introdotto formalmente nei trattati sia la
nozione di governance sia la dimensione territoriale dell’obiettivo di coesione.
•
La maturazione dei trattati non può che fondarsi su una laboriosa selezione dei
progressi condivisi anche attraverso occasioni separate di elaborazione istituzionale, in
sede comunitaria. Sotto tale profilo, è interessante osservare che la progressiva
condivisione delle nozioni di ‘governance europea’ e ‘coesione territoriale’, pur
producendosi in ambiti istituzionali distinti, ha instaurato molteplici forme di
interlocuzione reciproca fra i due concetti. Governance europea e coesione territoriale
sono dunque concetti legati a doppio filo e ciò comporta una serie di problemi, per lo
43
più connessi alla diversa efficacia dei sistemi nazionali di pianificazione e
all’obsolescenza dei principi su cui la pianificazione è generalmente fondata.
•
Nonostante l’assenza di una qualche regolazione istituzionale della governance
territoriale comunitaria, gli obiettivi condivisi al vertice delle istituzioni europee
sembrano reclamare tale modello. Cooperazione territoriale europea e sviluppo urbano
sostenibile si qualificano come obiettivi chiave di una politica di coesione che continua
a interloquire senza difficoltà con i contesti domestici di pianificazione. D’altra parte, i
principi di ‘buona governance’ sono ripetutamente richiamati come imprescindibili
nella ridefinizione della qualità della dimensione territoriale dell’azione pubblica.
In conclusione, malgrado i progressi operativi registrati nella dimensione discorsiva e
operativa, così come in alcune soluzioni estemporanee proposte e applicate in sede
comunitaria nel recente passato, si può dire che l’assenza di un coordinamento della
governance territoriale europea attraverso i trattati ponga una serie di problemi interrelati di
(Janin Rivolin, 2009, p.81): (i) efficienza del sistema complessivo di governo, poiché nessuna
interazione è istituita fra obiettivi comunitari e sistemi nazionali di pianificazione; (ii) efficacia
della politica europea di coesione poiché, in ogni caso, principi e orientamenti per il
governo del territorio sono definiti unicamente dai sistemi nazionali di pianificazione; (iii)
equità del processo di governance territoriale fra soggetti pubblici e privati operanti negli
Stati membri, poiché i sistemi di pianificazione funzionano attualmente secondo modalità
fortemente eterogenee. In tale ottica, l’inclusione della coesione territoriale nel Trattato di
Lisbona ratificato di recente apre uno spiraglio verso l’istituzionalizzazione di competenze
territoriali condivise fra UE e Stati Membri.
3.3.
La governance ambientale
Nell’ambito della discussione in merito alla governance territoriale, da una decina d’anni a
questa parte, un’attenzione crescente è stata rivolta alla sfera della governance ambientale,
con la quale s’intende quell’insieme dei processi di regolamentazione (pratiche discorsive),
dei meccanismi e delle forme organizzative (strutture socio-materiali) attraverso i quali gli
attori politici, amministrativi e della società influenzano le azioni ed i risultati in campo
ambientale (Lemos e Agrawal, 2005; Gibbs e Jonas, 1999). La necessità di parlare e di fare
ricerca sui tema della governance in ambito ambientale sembra essere nata in relazione alla
complessità, alla multiscalarità e alle implicazioni politico-sociali che caratterizzano il
‘governo’ dell’ambiente e che rendono necessario guardare ad esso attraverso l’approccio
della ‘Scienza Post-normale’, teoria che cerca per l’appunto di produrre conoscenza sotto
condizioni di normatività, disaccordo, incertezza ed urgenza (Functowicz e Ravetz, 1991)11.
Nel tentativo di chiarificare la comprensione di un concetto complesso applicato ad un
ambito anch’esso complesso, appare opportuno provare a circoscrivere l’ambito d’indagine,
provando ad esempio a focalizzarsi sulle declinazioni che esso assume alla scala globale e a
quella locale. Locale e globale, rappresentano infatti due parole chiave nella letteratura
specialistica che si occupa di questo tema. Globalizzazione e decentramento sono ad
11
Tale prospettiva si occupa di aspetti di problem-solving che sono solitamente trascurate nei resoconti
tradizionali della pratica scientifica quali l’incertezza e i giudizi di valore. Inoltre essa motiva adeguatamente le
ragioni di una partecipazione più estesa ai processi decisionali su questioni scientifiche come nel nostro caso
specifico quelle ambientali, fondandole sull’esigenza di garantirne la qualità in ambito teorico e pratico.
44
esempio due fra i temi12 rispetto ai quali Lemos e Agrawal sviluppano la loro rassegna
sull’argomento (Lemos e Agrawal, 2005). La crisi dello stato nazionale ed i limiti che esso
ha dimostrato nei confronti della gestione dell’ambiente hanno provocato una
riorganizzazione scalare per quello che riguarda l’ambito di definizione/azione delle
politiche ambientali, con una spinta verso il globale ed il locale. Il che non significa parlare
di una scelta fra due opposte direzioni, ma di due livelli che sembrano sostanziarsi e
supportarsi reciprocamente (almeno nella maggior parte dei casi, per quanto individua la
letteratura). La globalizzazione dei problemi ambientali sembrerebbe aver contribuito alla
nascita e allo sviluppo di un regimi globali tematici (clima, biodiversità, ozono…) in cui
nuove istituzioni e organizzazioni partecipano alle decisioni in ambito ambientale. In
particolare si tratta di soggetti che non appartengono alla sfera governativa (non solo
strettamente organizzazioni non governative, ma anche movimenti transnazionali, gruppi
ambientalisti). Attraverso la globalizzazione è così aumentata la profondità della
partecipazione e la diversità degli attori che modellano la governance ambientale (Heijden,
2006), processo che tuttavia non è esente da critiche13.
A sua volta il livello globale/nazionale è stato quello che ha spinto e legittimato un
maggior protagonismo dell’approccio locale alle tematiche ambientali (si pensi ad esempio
al programma delle Nazioni Unite Agenda 21). Tuttavia lo sviluppo di una strategia e di
azioni locali non è stata unicamente supportata dall’ambito internazionale/nazionale (top
down), ma nasce anche da una prospettiva di tipo bottom-up e che vede le istituzioni locali
come soggetti pro-attivi nella competizione economica mondiale. Lo sviluppo di politiche
orientate allo sviluppo sostenibile ed alla tutela/valorizzazione dell’ambiente nelle politiche
locali, va quindi considerato in relazioni alle pressioni/opportunità economiche a cui sono
sottoposti gli enti locali (Gibbs e Jonas, 1999).
Da un punto di vista più strettamente territoriale, la prospettiva offerta dalla governance
ambientale locale sembra rappresentare un’interessante opportunità per ampliare lo sguardo
sulla governance urbana e regionale unitamente al tema dello sviluppo locale. Tale
prospettiva permette di indagare come i processi di rescaling abbiano reso le politiche
ambientali più compatibili e meno conflittuali con le priorità dello sviluppo economico
locale, quale tipo di relazioni intercorrano tra la pluralità degli attori coinvolti in azioni e
politiche ambientali e i soggetti che si fanno promotori dello sviluppo locale ed ancora
come le politiche ambientali incidano e modellino le politiche di sviluppo locale.
3.4.
I tranelli della governance
Nonostante numerosi contributi si siano occupati di esplorare le diverse dimensioni della
governance, tale concetto presenta ancora diversi ‘lati oscuri’. Se tale concetto è utile a
rappresentare la trasformazione della società verso un modello caratterizzato dalla
12
Gli altri due temi sono il mercato e la transcalarità.
La maggior presenza di attori stenta infatti ad essere sinonimo di maggiore democraticità (Ford, 2003), a
causa di un modello che, pur nascendo come critica ad un regime internazione stato-centrico, continua a
perpetuarlo (a causa di motivi che vanno dalla partecipazione di stati non democratici, alla difficoltà di
partecipazione degli attori non governativi, alla mancanza di implementazione diretta degli accordi
internazionali che devono sempre passare al vaglio del legislatore nazionale). Proprio per questa ragione parte
della letteratura (Haas, 2004; Papadopolous, 2003) propone come alternativa un modello di governance
multilivello non gerarchica, capace di integrare i diversi livelli di conoscenza (scientifica, tecnologica etc.)
attraverso un sistema di comunicazione accessibile.
13
45
progressiva inclusione del settore privato e della società civile all’interno delle arene di
decisione politica, diversi autori sottolineano come tale interpretazione faccia emergere una
serie di problemi irrisolti in termini di legittimità democratica, legati alla partecipazione
all’attività politica di soggetti non eletti democraticamente. La partecipazione di tali soggetti
è fortemente condizionata dalla disponibilità di risorse e dalla rete di relazioni di potere che
permeano le arene politiche, e spesso significa l’esclusione delle necessità degli attori più
svantaggiati a favore degli interessi degli attori più ‘forti’. A tal proposito, diversi contributi
di matrice neo-gramsciana trattano lo stato come insieme di arene politiche all’interno delle
quali si concretizzano le relazioni di potere esistenti fra i diversi attori privati e le
componenti della società civile (Jessop, 1990; Poulantzas, 2001; Hirsch, 2005 cit. in
Leubolt, 2007), con il settore pubblico che perde il ruolo di garante del bene comune
sovente richiamato da numerosi contributi mainstream.
In un recente contributo, Swyngedouw (2005) sottolinea i limiti di tale governance oltre lo
stato (governance-beyond-the-state), ossia del proliferare di meccanismi istituzionali che
conferiscono un ruolo privilegiato, all’interno dei processi di decisione e implementazione
delle politiche, a un crescente numero di attori privati e a specifici settori della società civile.
In un contesto che presenta, da un lato, il percepito o reale fallimento del modello dello
Stato-nazione e, dall’altro, il proliferare di tentativi di mettere in atto modelli di buona
governance, i nuovi meccanismi istituzionali basati sul networking che coinvolgono stato,
mercato e società civile sono visti dai più come sinonimo di efficienza e valorizzazione
delle potenzialità locali, in opposizione alle ‘sclerotiche, gerarchiche e burocratiche forme
statali che hanno condotto l’attività dei governi durante il XX° secolo’ (Swyngedouw,
2005). Però, se i nuovi modelli di governance promettono di innalzare il livello di
partecipazione democratica e di contribuire all’empowerment della società civile e al
proliferare di iniziative ‘bottom-up’, allo stesso tempo essi presentano una serie di tendenze
contraddittorie. Pur apparendo organizzati orizzontalmente tramite una distribuzione equa
delle logiche di potere alla base delle relazioni fra gli attori, essi presentano configurazioni
istituzionali basati sull’inclusione di attori appartenenti alla sfera del mercato e di segmenti
della società civile che ha luogo in una sorta di ‘vuoto istituzionale’ (Hajer, 2003). ‘Non
esistono infatti norme o regole secondo le quali l’azione politica deve essere condotta e le
politiche definite. Per essere più precisi, non esistono regole accettate universalmente e
deputate alla conduzione dell’attività di policy-making’ in relazione ai nuovi modelli di
governance (Haier, 2003, p.135, nostra traduzione). I diversi modi operandi delle reti che
agiscono all’interno dei nuovi meccanismi di governance sono dunque decisamente poco
chiari (Swyngedouw, 2005). Proprio all’interno di tali configurazioni, le relazioni di potere
sono, nella maggior parte dei casi, dominate da elite economiche, politiche e socio-culturali
(Swyngedouw et al., 2002). Dunque, il proliferare dei nuovi meccanismi di governance
porta ad un ‘rescaling’ delle geometrie di potere all’interno di una costellazione di network
dal funzionamento poco trasparente, dall’organizzazione istituzionale confusa e dagli
obiettivi politici ambigui. Proprio in tali elementi risiede il carattere fallace del cosiddetto
‘Stato del pluralismo democratico’ (Swyngedouw, 2005, p.1999, nostra traduzione),
imputabile alla forte asimmetria nelle relazioni di potere che caratterizzano la governanceoltre-lo-stato.
Scendendo nel dettaglio, nel valutare i requisiti formali della democrazia pluralista
(§3.1.5.) in relazione ai meccanismi di governance-oltre-lo-stato è possibile riscontrare una
serie di effetti perversi, che costituiscono altrettanti ‘tranelli’ della governance:
•
Autorizzazione e Staus. Mentre il concetto di stake holder è teoricamente inclusivo ed
esaustivo, nella pratica le forme di governance sono necessariamente limitate in termini
46
di effettiva partecipazione. Dunque, lo status dei diversi soggetti e l’autorizzazione
degli stessi a partecipare è di primaria importanza. In particolare, l’assegnazione dei
‘diritti’ di partecipazione è un processo tutt’altro che equo e, nella maggior parte dei
casi, essi sono assegnati a coloro i quali detengono un determinato potere o status.
Inoltre, i termini della partecipazione possono variare – dalla mera consultazione al
diritto di veto – essendo anch’essi spesso legati allo status degli attori coinvolti.
•
La struttura di rappresentazione. Oltre alle decisioni volte ad autorizzare la partecipazione
di determinati attori, anche la struttura della rappresentazione assume fondamentale
importanza nei processi di governance. Mentre il modello di democrazia pluralista si
basa su forme di rappresentazione condivise, l’effettiva partecipazione degli attori
sovente soffre di una mancanza di definizione delle caratteristiche vere e proprie del
sistema di rappresentazione (Edwards, 2002). Esiste infatti uno ‘scollamento’ fra i
diversi gruppi ed individui che partecipano a meccanismi di governance e l’insieme di
coloro i quali costituiscono legittimi rappresentanti di particolari gruppi di interesse
e/o di segmenti della società civile.
•
Accountability e legittimità. In relazione all’argomento di cui sopra, i meccanismi e i legami
di trasparenza sono completamente ridisegnati nei processi di governance-oltre-lostato. Mente un sistema politico democratico è dotato di meccanismi più o meno chiari
per stabilire la legittimità della partecipazione, nel caso dei nuovi modelli di governance
tale legittimità è sovente implicita nell’appartenenza dei gruppi che partecipano a
particolari segmenti della società civile. Dato l’opaco sistema di rappresentazione, la
legittimità di tale sistema è generalmente scarsa e poco trasparente. In altre parole,
l’effettiva rappresentatività degli attori coinvolti è difficilmente verificabile e quasi
impossibile da mettere in discussione.
•
Scale di governance. Infine, la scala geografica alla quale le forme di governance-oltre-lostato agiscono, e le reazioni interne ed esterne di partecipazione/esclusione sono di
particolare significato. Smith (1993) sottolinea come, quando i processi di governance
sottointendono ‘salti di scala’, anche la coreografia degli attori coinvolti varia di
conseguenza. Come afferma Hajer (2003, p.179), la strategia dello ‘scale-jumping’ è
infatti vitale per guadagnare potere e influenza all’interno delle relazioni multi-scalari
fra le reti di governance, e processi di up-scaling e down-scaling non sono dunque
neutri, ma favoriscono o sfavoriscono l’emergere di determinati attori o gruppi di
attori e il consolidamento degli stessi all’interno dei sistemi di governance.
Alla luce di quanto detto, diversi autori sottolineano dunque i rischi dei nuovi modelli di
governance, richiamando la necessità di un approccio critico a tale argomento. La
governance implica infatti l’assunzione di decisioni circa modelli e processi di sviluppo e di
trasformazione ed utilizzo del territorio, e le descritte tendenze di ‘deregolamentazione’ e
‘ri-regolamentazione’ (Swyngedouw, 2005) e verso l’esternalizzione delle funzioni statali
hanno favorito il consolidarsi di particolari geometrie di potere caratterizzate dal
coinvolgimento di numerosi livelli, dalla diffusione dell’autorità e dell’effettivo potere
decisionale e, soprattutto, da un ridotto grado di trasparenza. In tale ottica, è utile
concludere sottolineando alcune caratteristiche della transizione nell’ambito della
regolazione socio-economica che va da un sistema di controllo diretto dallo stato a modelli
orizzontali di governance-oltre-lo-stato. In primo luogo, gli apparati statali e la loro
articolazione all’interno della società rimane importante, in quanto lo stato assume un ruolo
chiave nella formazione delle nuove regolazioni istituzionali e organizzative (Swyngedouw
et al., 2002). Tale configurazione è direttamente collegata alle condizioni e ai requisiti della
47
‘governmentality’ neoliberista, e porta a complesse forme ibride di government/governance
(Bellamy e Warleigh, 2001). I modelli di governnace non normativi e socialmente
innovativi, caratterizzati dalla mancanza di relazioni gerarchiche, dalla forte attività di
networking e da processi di inclusività selettiva devono dunque essere analizzati in maniera
critica. Mentre infatti essi promettono e nuovi modelli di partecipazione della società civile
all’azione del governare, più sovente numerosi elementi restano soggetti a dubbi e
perplessità. Infine, ed è forse questo l’elemento più preoccupante, la governance-oltre-lostato, intrecciata com’è all’interno di relazioni di potere fortemente asimmetriche e strutture
autocratiche/tecnocratiche, all’ombra di proclami e promesse di modelli sociali innovativi
organizzati orizzontalmente e di forme di empowerment per la società civile, rischia di
costituire il principale cavallo di troia per la diffusione del mercato quale principale – e
unico – modello istituzionale e di regolazione.
3.5.
Alcune riflessioni operative: valutare le capacità di governance
In conclusione, il contributo prende in esame alcuni approcci e ricerche empiriche che si
sono confrontate direttamente con la ‘valutazione’ delle capacità di governance territoriale.
In questo modo si intende fornire alcuni primi elementi di riflessione finalizzati all’
“operazionalizzazione” del concetto di governance all’interno della ricerca EU-POLIS. Se,
come specificato dal programma della ricerca, ‘la possibilità che sistemi territoriali - sistemi
produttivi locali, città e regioni - promuovano propri processi di sviluppo dipende sempre
più dalla capacità degli attori che agiscono in questi territori di inserirsi in reti di relazioni di
diverso livello(networking) per valorizzare le specificità e le potenzialità dei diversi luoghi’
(EU-POLIS, 2009, p.1) è infatti fondamentale riflettere sulle diverse dimensioni della
governance al fine di individuare tali reti e di analizzarne il funzionamento. Ciò implica lo
studio sia della capacità dei diversi attori di partecipare a reti che trascendono il livello
locale in un’ottica di governance multilivello, sia delle modalità di coordinamento di attori
di diversa natura nella promozione di sviluppo del proprio territorio.
3.5.1. Operazionalizzare la governance: quali fattori chiave?
La complessità e la frammentarietà delle società occidentali odierne sono alla base della
molteplicità dei soggetti che reclamano rappresentanza nelle attuali dinamiche sociali e
politiche le quali, a loro volta, stanno diventando, sempre più complesse e interrelate. Nel
complesso, i cambiamenti nelle strutture di governo di città e territori indotti da questi
processi riguardano (Davoudi et al., 2009):
•
il relativo declino del ruolo dello Stato nella gestione delle relazioni socioeconomiche;
•
il coinvolgimento di attori non istituzionali in funzioni istituzionali alle diverse scale;
•
il cambiamento da strutture di governo gerarchiche a forme organizzative più flessibili,
come ad esempio il partenariato e la rete (Jessop, 1995; Stoker, 1997);
•
il passaggio dalla fornitura di servizi da parte del settore pubblico alla condivisione di
ruolo e responsabilità da parte dello Stato e della società civile (Stoker, 1991);
•
l’emergere di forme locali/regionali di governance come risultato della definizione di
politiche e di istituzioni specifiche per ogni livello (Brenner, 1999).
48
I sistemi urbani e territoriali, caratterizzati da un insieme di interessi complessi,
frammentati e in competizione, richiedono forme e modalità di controllo e di gestione
altrettanto complesse, che vanno al di là delle capacità dell’autorità statale (Davoudi, 1995).
Gli attori che definiscono le politiche non appartengono più soltanto alle istituzioni formali
del governo, ma anche al settore privato e alla società civile e agiscono superando i confini
politici e amministrativi. L’insieme di questi aspetti aumenta la frammentazione e pone
diverse sfide alla definizione di modelli di governance efficaci. Ma quali sono dunque i
fattori chiave per favorire un’azione di governance? Quali sono le capacità relazionali
richieste per creare l’azione collettiva in scenari ad elevata eterogeneità, complessità e
frammentazione? Diversi studiosi hanno tentato di identificare specifici insiemi di relazioni
che permettano di valutare la performance delle azioni di governance e la capacità degli
attori di agire collettivamente. Secondo il concetto di ‘spessore istituzionale’ (institutional
thickness) di Amin e Thrift (1995), ad esempio, la natura delle relazioni istituzionali
costituisce un fattore significativo per il benessere economico e sociale locale, ed è
declinabile in cinque fattori principali: (i) un insieme di associazioni civiche; (ii) un alto
livello di interazione istituzionale; (iii) una cultura della rappresentanza collettiva in grado di
superare gli interessi individuali; (iv) un forte senso di appartenenza a un destino comune e
(v) un insieme condiviso di norme e valori culturali. Coffey e Bailly (1996) utilizzano il
concetto di milieu innovativo per descrivere la capacità di alcune aree di favorire l’innovazione
tecnologica, per comprendere fattori economici, sociali, culturali e istituzionali che
influiscono sulla costruzione di uno specifico vantaggio competitivo delle diverse città
(Governa, 1997). Innes et al. (1994, p.46, nostra traduzione), in uno studio sui processi di
sviluppo in California basati sulla costruzione del consenso, hanno ipotizzato che questa
‘raggiunge effetti di coordinamento soprattutto creando e amplificando tre tipi di capitale:
sociale, intellettuale e politico’. Gli autori usano il termine ‘capitale’ nel senso di ‘valore
condiviso che può accrescersi attraverso l’uso. Una volta creato, questo capitale resiste e
sopravvive anche se il gruppo che lo ha creato si disgrega, facilitando future aggregazioni’
(Innes et al., 1994, pp.46-7, nostra traduzione). Se alle tre dimensioni del capitale
Innessiano ne aggiungiamo una quarta – il capitale materiale – è possibile definire il capitale
intellettuale come l’insieme delle risorse conoscitive socialmente costruite, il capitale sociale
come la natura delle relazioni tra gli attori, il capitale politico come le relazioni di potere e la
capacità di mobilitare e intraprendere l’azione e il capitale materiale come l’insieme delle
risorse finanziarie e delle altre risorse tangibili locali. L’insieme dei quattro tipi di capitale
costituisce dunque la chiave per il successo di una coalizione auto-organizzata capace di
agire collettivamente e di sviluppare la capacità di raggiungere i propri obiettivi. Creare e
rafforzare nuove forme di governance e sviluppare capacità strategiche utili a catturare
nuove opportunità richiede l’utilizzazione e l’aumento di tutte e quattro le forme di capitale.
La capacità delle istituzioni di creare nuove relazioni per dare vita ad azioni collettive
diventa quindi centrale per il successo delle strategie di sviluppo nell’economia globale.
Ricorrendo ad altre classificazioni (Van den Berg et al., 1997), tale capacità organizzativa
può essere determinata da diversi fattori chiave, raggruppabili nelle seguenti categorie:
•
fattori contestuali, relativi al contesto economico e territoriale che accomuna gli attori, alla
struttura e alla qualità del quadro istituzionale;
•
fattori sostanziali, connessi alla presenza di una visione per lo sviluppo di un’area;
•
fattori processuali, ossia l’esistenza di una chiara leadership per la realizzazione dell’azione
collettiva, di network strategici pubblico/privato e di un ampio supporto degli
stakeholder politici e sociali.
49
Le condizioni che influenzano questi aspetti variano da luogo a luogo. Come sottolinea
Healey (1998, p.1531, nostra traduzione), esistono notevoli differenze nelle culture
politiche locali: ‘alcune sono ben integrate, ben connesse, ben informate e possono
mobilitare velocemente risorse utili a catturare opportunità e rafforzare le condizioni locali.
Altre sono frammentate, mancano di connessioni con le fonti del potere, della conoscenza
e delle capacità di mobilitazione e organizzazione’.
3.5.2. Il progetto ESPON 2.3.2: misurare la governance?
Al fine di valutare i processi di governance in atto, ma anche di promuovere processi di
governance virtuosi in determinati contesti, diversi autori sottolineano l’utilità di sviluppare
set di indicatori appositi, oltre che dell’impostare specifiche attività di benchmarking per
valutare i meccanismi di governance e le prestazioni di una particolare area in una
prospettiva comparativa. In tale ambito, UN-HABITAT ha sperimentato l’utilizzo di un
sistema di indicatori per l’analisi della governance urbana (UN Habitat Urban Governance
Index – UGI: A tool to measure progress in achieving good urban governance), sottolineando
l’importanza dell’utilizzo degli stessi in una serie di operazioni, fra cui la valutazione
dell’efficacia delle politiche, l’analisi della corrispondenza fra sforzi e risultati, la creazione
di piattaforme per l’inclusione della società civile e dei soggetti provati nella governance
locale e il monitoraggio dei risultati effettivamente raggiunti dai leader politici eletti.
In tale ambito, un esperimento interessante è costituito dal progetto ESPON 2.3.2
Evolution of Territorial and Urban Governance from EU to Local level (ESPON, 2007), che ha
sviluppato una serie di indicatori per valutare strutture e processi di governance sul
territorio europeo. Come sottolinea Ache, ‘misurare’ il complesso insieme dei sistemi e dei
processi che costituiscono la governance territoriale è compito proibitivo. Ciò è
confermato dai risultati del progetto di ricerca, che ha parzialmente fallito il tentativo di
fornire un’analisi degli impatti e degli effetti della governance (Ache, 2009, p.122).
Nonostante ciò, la ricerca ha permesso di fare luce su alcuni degli aspetti più tangibili della
governance, giungendo ad identificarne gli ‘ingredienti’ in modo più o meno sistematico.
Questo è stato possibile grazie all’uso di un concetto di governance fortemente operativo,
basato sull’intersezione tra le sfere di azione di Stato, mercato e società civile (Benko e
Dunford, 1991). Partendo da tale prospettiva, il progetto identifica una serie di aspetti
rilevanti che, a loro volta, permettono di identificare in prima approssimazione alcuni
potenziali indicatori. La lista preliminare di indicatori era composta di oltre di cento voci,
che sono stati successivamente suddivisi secondo diversi aspetti: 18 indicatori nell’ambito
dello Stato; 38 nell’ambito del mercato; 44 nell’ambito della società civile e 6 in relazione al
territorio, inteso quale categoria onnicomprensiva. Tali indicatori sono stati ulteriormente
qualificati in due direzioni, una rivolta alle strutture e l’altra ai processi di governance,
rendendo possibile definire una tipologia indicativa di contesti territoriali e costituendo un
primo tentativo di combinare diversi fattori per definire la governance a partire dalle
differenze riscontrabili nei diversi contesti territoriali.
Riflettendo sui risultati del progetto di ricerca ESPON 2.3.2, Biot (2009) sottolinea
come questo abbia individuato due concetti chiave per l’analisi delle azioni di governance
territoriale. Da un lato il concetto di capitale territoriale, che comprende il capitale intellettuale
(le conoscenze socialmente costruite), il capitale sociale (la natura delle relazioni fra gli
attori), il capitale politico (le relazioni di potere e la capacità di mobilitare altre risorse in
vista dell’azione), il capitale materiale(le risorse tangibili, finanziarie o di altro tipo, come ad
esempio le infrastrutture), il capitale culturale (il patrimonio materiale e immateriale) e il
50
capitale geografico (le caratteristiche naturali, i limiti e le opportunità dell’ambiente fisiconaturale); dall’altro il concetto di configurazione territoriale, in cui si combinano, secondo
equilibri variabili, le nozioni di apprendimento istituzionale, cultura politica e leadership
territoriale.
Sempre seguendo Biot (2009), è possibile constatare come l’analisi delle strutture di
governance territoriale in un determinato contesto debba mirare a fornire una risposta ad
una serie di questioni fondamentali – relazioni di potere, modalità di trattamento dei
conflitti, distribuzione delle risorse, responsabilità, coinvolgimento e partecipazione degli
attori, grado di influenza, coerenza dei processi, esiti etc. Per raggiungere questo obiettivo,
l’analisi deve partire da una ricostruzione schematica del contesto politico-istituzionale,
nonché tenere da conto le caratteristiche generali del territorio oggetto di studio e il quadro
dettagliato dei meccanismi e degli strumenti della pianificazione territoriale in atto e in
progetto. Essa deve poi proseguire attraverso cinque ambiti di indagine:
•
relazioni verticali, cioè le relazioni (di cooperazione, coordinamento, conflitto etc.) o le
non relazioni che intercorrono tra poteri pubblici di diverso livello che esercitano la
propria autorità sul territorio oggetti di indagine;
•
relazioni orizzontali, cioè le relazioni non gerarchiche tra tutti gli attori, pubblici e non,
interessati a vario titolo al territorio analizzato, che permettono di individuare la
presenza o meno di un approccio integrato alle politiche territoriali;
•
partecipazione, degli attori, pubblici e non, da valutarsi sia in relazione alla fase
decisionale sia per quel che concerne la fase attuativa;
•
innovazione, nozione con la quale si fa riferimento, in termini generali, alle pratiche, agli
strumenti e ai meccanismi con cui contribuire a migliorare la governance;
•
esiti dei processi di governance territoriale, tenendo conto del fatto che non è possibile
scindere un processo dai suoi effetti concreti.
3.5.3. Verso un quadro di analisi per la governance territoriale?
Anche l’ultima esperienza presentata deriva dalle analisi svolte nell’ambito del progetto
ESPON 2.3.2 Governance. Partendo da tale esperienza, Governa, Janin Rivolin e Santangelo.
(2009) definiscono infatti quattro aspetti utili a descrivere e valutare le azioni di governance
territoriale, dettagliando ognuno di essi attraverso specifici criteri (Tab. 3.2.). Il modello che
ne risulta conclude il presente contributo e rappresenta un primo stimolo verso la futura
applicazione operativa delle tematiche ivi trattate.
Delle quattro dimensioni che sostanziano il modello, il coordinamento verticale riguarda sia
gli attori sia le politiche, ed è un aspetto fortemente interrelato con il principio di
sussidiarietà e con i processi di decentralizzazione di poteri e competenze. Esso racchiude
inoltre la necessità di un coordinamento verticale delle politiche settoriali a impatto
territoriale. Il coordinamento verticale concerne, quindi, sia il collegamento fra i vari livelli
amministrativi, sia una più complessa attenzione alla qualità delle connessioni stabilite tra
politiche settoriali che agiscono a diversi livelli territoriali fino a renderle convergenti verso
obiettivi comuni. Il coordinamento orizzontale riguarda invece attori e politiche in riferimento al
concetto di sussidiarietà orizzontale, ossia inerente alle relazioni fra Stato, mercato e società
civile, ed è relativo al coordinamento fra attori pubblici, privati e società civile, mentre il
coordinamento orizzontale fra politiche si riferisce principalmente alla costruzione di
51
politiche intersettoriali, in grado di definire un programma coerente e una strategia
coordinata. Per quel che riguarda l’ambito relativo a coinvolgimento e partecipazione, l’attenzione
è rivolta alle differenze fra coinvolgimento degli interessi organizzati e partecipazione
diffusa. Queste differenze fanno riferimento al coinvolgimento e/o alla partecipazione
degli attori, agli obiettivi e ai modi attraverso i quali coinvolgimento e partecipazione sono
promossi. Infine, un quarto aspetto si riferisce alla territorializzazione delle azioni, considerate
come azioni collettive che riconoscono e valorizzano il capitale territoriale.
Coordinamento verticale (multi-level governance)
Coordinamento orizzontale
A1–Coordinamento verticale fra attori
B1–Coordinamento orizzontale fra attori
A11–Svuotamento dello Stato
B11–Cooperazione
istituzionalizzata/formalizzata
A12–Lo Stato guida il processo di devoluzione e
decentramento
B12–Cooperazione
istituzionalizzata
A13–trasferimento di competenze
B13–Partecipazione volontaria
A14–Trasferimento di competenze e risorse
B14–Coordinamento orientato alla gestione
A15–Interazione con il livello Europeo
B15–Coordinamento proattivo
A2–Coordinamento verticale fra politiche
B16–Coordinamento progettuale durevole nel
tempo
A21–Politiche intersettoriali
B2–Coordinamento orizzontale fra politiche
A22–Integrazione (a valle) di politiche settoriali
B21–Politiche intersettoriali
A23–Integrazione di risorse finanziarie
B22–Integrazione (a valle) di politiche settoriali
A24–Coerenza fra politiche (sussidiarietà verticale)
B23–Integrazione di risorse finanziarie
informale/non
B24–Coerenza fra politiche (sussid.orizzontale)
Coinvolgimento e partecipazione
Territorializzazione delle azioni
C1–Coinvolgimento dei portatori di interesse
D1–Territorio
C11–Tipologie degli attori coinvolti
D11–corrispondenza
competenze
C12–Livello a cui appartengono gli attori coinvolti
D12–Identificaz. con un territorio di progetto
C13–Accordi formali
D13–Territorio come bene comune
C14–Accordi informali
D2–Capitale territoriale
C2–Partecipazione diffusa
D21–Identificazione e valorizzazione delle
potenzialità del capitale territoriale
col
territorio
delle
C21– Capacità di ascolto
C22–Partecipaz. su temi marginali dei processi decisionali
C23–Partecipazione su temi centrali dei processi decisionali
Tabella 3.2: Governance territoriale: aspetti e criteri. Adattato da Governa et al., 2009.
Come accennato, i criteri che definiscono i quattro ambiti descritti sottolineano le
caratteristiche generali delle azioni di governance territoriale e permettono di valutare il
modo in cui esse sono attuate. Tuttavia, se si considerano quali obiettivi generali delle
52
azioni di governance territoriale il coordinamento e la cooperazione orizzontale e verticale,
la promozione della partecipazione e dello sviluppo territoriale, alcuni dei criteri elencati
paiono maggiormente rispondenti rispetto ad altri: alcuni (A11, A13, A23, B14, B23, C22,
D11) sono criteri base, la cui presenza è essenziale per poter parlare di governance
territoriale. Altri criteri (A22, B11, B12, B22, C14) presentano un livello di importanza
leggermente inferiore, mentre altri ancora assegnano determinati valori aggiunti alla
governance territoriale, rendendola più efficace.
Transnazionale e
transfrontaliero
D12
Regionale, reti urbane e
policentriche
C23, D12, D13, D21
Nazionale
Tutti i livelli territoriali
A12, A14, A15, A2, A24,
B12, B16, B21, B24, C11,
C12, C13
Urbano-rurale
C23, D12, D13, D21
Aree urbane funzionali e
regioni metropolitane
C23, D12, D13, D21
Interurbano
C21, C23, D12, D13,
D21
Figura 3.1: Criteri di governance territoriale per livello territoriale. (Fonte: Governa et al., 2009).
Governa, Janin Rivolin e Santangelo (2009) effettuano poi una suddivisione dei criteri
individuati in relazione alla dimensione scalare, ossia al livello territoriale più pertinente.
Anche se esistono importanti criteri di base che contribuiscono a definire la governance
territoriale a tutti i livelli, infatti, altri criteri definiscono il valore aggiunto delle azioni di
governance territoriale con particolare riferimento ad uno o più livelli specifici. A livello
intraurbano, ad esempio, sono di particolare rilevanza i criteri relativi alla partecipazione
diffusa dei cittadini (C21 e C23), a loro volta di minore importanza al livello nazionale. A
tale scala, al contrario, acquistano particolare valore i criteri relativi al ruolo dello Stato e il
processo di devoluzione, fondamentali a tutti i livelli territoriali. E’ così possibile
identificare alcuni criteri che assegnano un valore aggiunto alle azioni di governance a tutti i
livelli, mentre altri criteri caratterizzano in maniera specifica uno specifico livello spaziale.
Tale differenziazione (Fig. 3.2) mostra come, in termini generali, le azioni di governance
territoriale siano più complesse ai livelli locali e regionali, mentre al livello nazionale e
transnazionale la maggiore o minore efficacia delle azioni di governance territoriale è
principalmente connessa a dinamiche organizzative di tipo strutturale.
Il quadro interpretativo presentato suggerisce, a sintesi delle tematiche affrontate nel
contributo, come la governance territoriale all’interno del panorama comunitario sia un
fenomeno ormai diffusamente riconoscibile che sta contribuendo a ridefinire le coordinate
istituzionali e operative del governo del territorio. Nonostante la sostanza e le modalità dei
cambiamenti varino a seconda delle diverse realtà, tale ridefinizione riguarda, tutti gli Stati
membri. In tale ottica, città e territori che per primi saranno capaci di comprendere la
portata e la natura dei cambiamenti in atto e di adattarsi alle nuove ‘regole del gioco’
potranno verosimilmente trarre vantaggi sostanziali in termini di sviluppo territoriale.
53
3.6.
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58
4. Coesione territoriale e multiscalarità
Silvia Bighi, Germana Chiusano, Giancarlo Cotella, Alberta de Luca 14
4.1.
La coesione territoriale
Le politiche di coesione sono l’espressione della solidarietà tra gli Stati membri e le regioni
dell’Unione europea al fine di favorire uno sviluppo equilibrato del territorio comunitario,
riducendo i divari strutturali tra le regioni e promuovendo pari opportunità tra i cittadini.
In questa terza parte del working paper si ripercorrono le tappe principali nel dibattito
scientifico sul concetto di coesione territoriale. La dimensione territoriale integra e potenzia
il significato di coesione economica e sociale orientando le azioni europee a favore delle
regioni svantaggiate. Essa è tangibile nel sistema di ammissibilità delle aree e di
distribuzione delle risorse finanziarie.
Il contributo si propone di esplorare come il concetto di coesione territoriale definito a
livello europeo, in termini di obiettivo politico attraversi le diverse scale territoriali fino alla
sua attuazione a livello locale. Il territorio è per sua natura multiscalare, tale deve essere
anche il concetto di coesione territoriale.
Questione centrale è che cosa cambia o dovrebbe cambiare nell’implementazione dell’obiettivo di
coesione territoriale alle diverse scale territoriali?
4.1.1. Nel dibattito europeo
Non esiste alcuna definizione ufficiale di coesione territoriale. Essa è complementare agli
obiettivi di coesione economica e sociale (Faludi in Governa et al., 2009). Lo sviluppo delle
politiche territoriali è avvenuto progressivamente con il processo di integrazione europea.
Le ragioni che minano un’effettiva “istituzionalizzazione” della dimensione territoriale sono
da ricercarsi nella mancanza di competenze formali dell’Unione europea (Ue) in tale ambito
(Waterhout, 2008). Nessuno dei trattati comunitari include espliciti riferimenti al governo
del territorio (Williams, 1996).
14
Il capitolo è l’esito di considerazioni maturate collettivamente tra gli autori, la stesura dei paragrafi 4.1, 4.1.1., 4.1.3., 4.2,
4.2.2., 4.2.2.1, 4.2.3, 4.3, 4.4 è da attribuirsi a Silvia Bighi; il paragrafo 4.1.2 a Germana Chiusano, il paragrafo 4.2.1. a
Giancarlo Cotella, il paragrafo 4.2.2.2 a Alberta de Luca.
Si ringraziano inoltre per le questioni sollevate durante gli incontri e in sede di seminario (dicembre 2009) tutto il gruppo
di ricerca EU-POLIS, in particolare Michele Lancione, Alberto Vanolo, Francesca Governa, Marco Santangelo,
Umberto Janin Rivolin, Giuseppe Dematteis, Egidio Dansero e Carlo Salone.
59
Le prime riflessioni intorno al tema della coesione economica e sociale si ritrovano nel
Trattato di Roma (1957) il cui preambolo faceva riferimento all’equiparazione dei diversi
livelli di sviluppo tra le regioni. Bisogna aspettare il 1986 con l’Atto Unico perché la
coesione economica e sociale si traduca in obiettivo, istituzionalizzata come politica solo in
seguito con il Trattato sull’Unione di Maastricht del 1993 (Janin Rivolin, 2000 e 2004 ),
nell’art. 2 si stabilisce che uno degli obiettivi prioritari dell’Unione è: «[...] promuovere un
progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la
creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica
e sociale e l’instaurazione di un unione economica e monetaria».
Attualmente accanto al concetto di coesione economica e sociale è stato riconosciuto
quello di coesione territoriale, incluso nella bozza di Costituzione europea (art. 3) come
completamento degli obiettivi di coesione economica e sociale. L’iter della Costituzione è
terminato con la sua non adozione, ma il concetto di coesione territoriale è stato ripreso nel
Trattato di Lisbona (2009).
In termini di misure politiche l’obiettivo della coesione territoriale si traduce come segue:
«[l]e persone non dovrebbero trovarsi in alcuna situazione di svantaggio ascrivibile al luogo
in cui vivono o lavorano nell’Unione Europea» (CEC, 2004a). La coesione economica e
sociale, perseguita essenzialmente tramite la politica regionale dell’Unione Europea15,
inizialmente non offriva risposte soddisfacenti ai problemi delle città. Solo a partire dal
2000 le città vengono considerate all’interno degli obiettivi strategici 1 e 2; prima di questa
data le aree urbane, nonostante presentassero problemi gravi, non potevano accedere ai
fondi poiché aree non ammissibili. La città è il motore dell’economia, il centro della cultura,
ma è anche indebolita dai mutamenti economici in atto. In molte parti d’Europa la città
non è più il luogo desiderabile in cui far crescere i propri figli, in cui passare del tempo o
più in generale in cui vivere. Questa erosione del ruolo della città è forse la più grave
minaccia al modello europeo di sviluppo della società (CEC, 1997).
Uno degli elementi distintivi di un’efficace politica di coesione è la sua adattabilità ai
bisogni specifici e alle caratteristiche del territorio (Ibid., p. xxxi).
15
I Fondi Strutturali e il Fondo di coesione ammontano a poco meno del 0,4% del PIL dell’Unione Europea. Nonostante
le sue modeste dimensioni, la politica di coesione dell’Unione Europea svolge un ruolo efficace nel fronteggiare le cause
all’origine delle disparità di reddito e di occupazione, presenti nell’Unione concentrandosi nelle regioni maggiormente
bisognose di assistenza (CEC, 2004a).
60
Tabella 2 - La coesione nei documenti europei
Documenti informali
2005 - Stato e prospettive del
territorio dell’Unione
europea: verso una
maggiore coesione
territoriale europea alla
luce delle ambizioni di
Lisbona e Göteborg
Report
[1991- Europa 2000]
[1995- Europa 2000 +]
Rapporti sulla coesione
economica, sociale e territoriale
Comunicazione della
Commissione
1999- Schema di Sviluppo dello
Spazio Europeo
2005 – Libro bianco sulla coesione
economica e sociale
(proposta, non attuata)
1996 - Primo rapporto sulla coesione
economica e sociale
2005 – Politica di coesione a
sostegno della crescita e
dell’occupazione: linee guida
2001- Unità dell’Europa, solidarietà
della strategia comunitaria
dei popoli, diversità dei
per il periodo 2007-2013
territori. Secondo rapporto sulla
coesione economica e sociale
2007 - Agenda Territoriale per
2004- Un nuovo partenariato per la
coesione. Convergenza,
competitività, cooperazione.
Terza relazione sulla coesione
economica e sociale
2007 - Regioni in crescita. Europa in
crescita. Quarta relazione sulla
coesione economica e sociale
Trattati
1956 – Trattato di Roma
1986 – Atto Unico
1993 – Trattato di
Maastricht
1999 – Trattato di
Amsterdam
2009- Trattato di Lisbona
l’EU
2007- Cohesion Policy,
Commentaries and Official
Texts, Guide 2007
2008 - Libro verde sulla coesione
territoriale-fare della
diversità un punto di forza
2008- EU Cohesion Policy 19882008: Investing in Europe’s
Future, Inforegio Panorama
2009- Sixth Progress Report On
Economic And Social
Cohesion
Posizioni critiche
2001 – Spatial Impacts of
Community Policies and
Costs of Non-Coordination.
(Rapporto Robert)
2004 – An Agenda for Growing
Europe: The Sapir Report
2004 – Affrontare la sfida. Strategia
di Lisbona per la crescita e
l’occupazione. Rapporto
Kok
2009 – An agenda for reformed
cohesion policy. Indipendent
Report. The Barca Report
Fonte: elaborazione degli autori
61
4.1.2. Nei programmi e nelle strategie delle Organizzazioni
Internazionali
In questo paragrafo si analizza il concetto di coesione territoriale all’interno dei programmi
e delle strategie delle Organizzazioni Internazionali. I soggetti presi in considerazione sono:
la Banca Mondiale, l’Onu, l’OECD16 ed EuropeAid17, di cui si affrontano gli indirizzi
programmatici generali ed alcuni tra i principali documenti strategici18. Nell’analisi
documentale, dopo una prima ricerca nominale, si è operato verso un’analisi più di tipo
interpretativo al fine di indagare e verificare come il concetto di coesione territoriale venga
effettivamente evocato più nel suo significato che attraverso il solo termine. Premettendo
che le diverse Organizzazioni Internazionali hanno mandati e orientamenti molto spesso
diversi seppur con obiettivi simili il termine di coesione territoriale, versus sociale ed
economica, può essere reperito più implicitamente negli intenti e nelle strategie di alcuni
programmi di sviluppo e di cooperazione internazionale, che come obiettivo dichiarato. Da
una prima analisi nominale, infatti, il termine di coesione territoriale risulta pressoché
inutilizzato. Questo dato è presumibilmente riconducibile a due fattori19: il primo fa
riferimento al contesto e alla scala geografica in cui il concetto di coesione viene inteso
come espressione dell’unione e dell’accordo sottoscritto tra gli Stati membri e le regioni
dell’Unione Europea (Faludi, 2004); ovvero identifica un contesto territoriale preciso e
contiguo che, pur nella disomogeneità del grado di sviluppo dei paesi membri, si appoggia
ad un programma politico internazionale. Il concetto di coesione, dunque, matura e si
modella nel contesto europeo per sua natura storicamente più strutturato e identificativo di
un territorio, l’Europa, in cui le politiche di coesione sono diventate uno degli obiettivi
principali. Nelle politiche di cooperazione allo sviluppo, invece, non esiste un contesto
territoriale “madre” da cui nasce e si sviluppa un obiettivo comune; le Organizzazioni
promotrici, come la Bm o le Agenzie dell’Onu, non si legano - per loro natura - ad un
territorio identificato, ma si prefigurano come organismo trasversale che opera nel mondo
promuovendo ed appoggiando progetti rivolti soprattutto ai Pvs. Nella maggior parte dei
casi questi - indirizzati a paesi difformemente distribuiti nel Sud del Mondo e non ad un
territorio contiguo quali gli Stati membri dell’Ue - tendono a privilegiare i bisogni primari
(acqua, alfabetizzazione, sanità) e superare i gap più gravi (povertà, fame). Dunque, rispetto
alle politiche di coesione dell’Ue rivolte ad un territorio geograficamente circoscritto, nella
cooperazione allo sviluppo il soggetto promotore non è unico né geograficamente
identificabile con un’area precisa, e le sue azioni di sviluppo sono indirizzate ad un’unica
“macro area” identificabile, pur nella sua considerevole disomogeneità, con i paesi del Sud
del Mondo.
Il secondo aspetto fa riferimento agli orientamenti delle Organizzazioni internazionali
che non rispondono all’obiettivo di portare un territorio ad una sorta di stato di
“uniformità”, ben lontani quindi dal promuovere “un progresso economico e sociale […]
mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne […] e all’interno di un intero
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
speciale dell’Unione Europea a cui fa capo l’Officio di Cooperazione che si occupa
dell’accompagnamento all’aiuto e al sostegno dei Pvs attraverso progetti e finanziamenti. Gli ambiti in cui interviene
coinvolgono lo sviluppo umano e sociale, la sicurezza e i flussi migratori, infrastrutture e servizi, governance e risorse
naturali (http://ec.europa.eu/europeaid).
18 Tra questi i report annuali.
19 Discriminanti rispetto al contesto concettuale ed empirico di cui la Commissione Europea si è appropriata per definire
e rilanciare le politiche di sviluppo dell’Ue.
16
17Commissione
62
territorio” (MLPS, 2007). In tal senso diventa fondamentale il concetto di scala in cui la
cooperazione internazionale trova in quella locale o regionale la sua dimensione ottimale,
intesa come superamento - all’interno di un singolo paese - ad esempio, del divario
economico tra nord e sud. Da qui alcune considerazioni. La prima che fa riferimento ad un
uso privilegiato del termine coesione nella sua accezione “sociale”. La seconda sottolinea
che proprio quest’ultima viene spesso accompagnata a concetti molto frequenti nel mondo
della cooperazione, come: la coesione tra comunità etniche diverse, la divisone tra generi, la
disuguaglianza sociale, lo sviluppo economico e le immigrazioni, dove si accenna alla
coesione anche come obiettivo unificante nella cooperazione tra territori. Ma come viene,
dunque, interpretato il concetto di coesione nel mondo della cooperazione allo sviluppo
rispetto alle Organizzazioni Internazionali?
All’interno dell’ultima relazione annuale sulle azioni di aiuto e sostegno umanitario ai
paesi in via di sviluppo (Pvs) di EuropeAid si fa accenno alla coesione, in particolare, quella
sociale. Si parla di iniziative rivolte ad alcune aree dell’America Latina esplicitamente
orientate allo sviluppo sostenibile e alla coesione sociale. Anche in rapporto al fronte ACP20
la Commissione, nel suo rapporto, insiste seppur indirettamente sulla necessità di
promuovere crescita, commercio e sviluppo, anche a sostegno del negoziato per gli accordi
regionali di partenariato economico tra paesi dell’Africa Subsahariana e paesi del Pacifico e
dei Carabi. Questo progetto sottintende la volontà di rafforzare la collaborazione tra
territori attraverso un approccio solidaristico, di partenariato e di coerenza tra le politiche
(EuropeAid, 2009). Su questo tema le Organizzazioni dell’Onu, anche attraverso un
discorso tenuto dal Segretario generale Ban Ki-moon, hanno dichiarato che: «la cohésion
sociale est cruciale pour atteindre les Objectifs du Millénaire pour le développement, notre
vision commune pour créer un monde meilleur au XXIème siècle». Il riferimento è chiaro
ed abbraccia problematiche di livello internazionale per cui la coesione sociale diventa
“essenziale” per i Pvs, per realizzare nuovi obiettivi21 o per contrastare minacce climatiche
o ambientali. Nel rapporto della Commissione22 sui lavori della 47ª sessione, poi, il tema
dell’integrazione sociale diventa il pretesto attraverso cui promuovere ed assicurare la
coesione sociale come fattore in grado di migliorare la sicurezza dei paesi, lo sviluppo
economico e la collaborazione/stabilità delle relazioni internazionali al fine di renderle
pacifiche ed equilibrate (UN, 2009). La coesione attraverso le politiche di integrazione
sociale, come emerge da questo rapporto, assurgerebbe dunque a fattore stabilizzante, a
deterrente contro l’esclusione sociale e a favore dell’integrazione dei gruppi marginalizzati. In
quanto sinonimo di inclusione/integrazione permetterebbe di combattere la
disoccupazione, il fenomeno migratorio, la povertà e le disuguaglianze economiche nei Pvs.
In un altro documento ancora che riguarda le politiche sociali23 nelle strategie di sviluppo
internazionale a cui fa riferimento l’Onu, si rimanda alla coesione sociale come a fattore
consolidante la stabilità politica dei paesi attraverso un “consenso internazionale”, poiché la
globalizzazione potrebbe condurre inesorabilmente all’ineguaglianza sociale tra i paesi più
svantaggiati ricreando precarietà e squilibri24 (UN-DESA, 2007). La Bm, invece, il cui
mandato principale si riassume nel ridurre la povertà nel mondo, rappresenta una fonte di
appoggio tecnico-finanziario per tutti i Pvs. Come per l’Onu gli obiettivi a favore dello
Africa, Carabi e Pacifico.
Educazione, ambiente, sanità, povertà e fame (si veda il riferimento agli obiettivi del Millenium Goals).
22 Commissione dello Sviluppo Sociale.
23 In estrema sintesi vengono intese, in questo documento, come uno strumento applicato dai governi per regolare ed
integrare le istituzioni del mercato e le strutture sociali che forniscono dei servizi (sanità, istruzione, impiego, ecc.).
24 Nel testo si parla di una “globalizzazione per tutti” e non solo “per qualcuno”, di una “globalizzazione da rimodellare”
per poterla gestire (pp. 74, 75, 77).
20
21
63
sviluppo umano espressi nei vari rapporti annuali esaminati25 si concentrano su un piano di
azione che si basa «sur les valeurs fondamentales que sont la lutte contre l’exclusion, la
cohésion et la responsabilité sociale”, aspetti che rientrano nelle più generali “strategie
settoriali” (World Bank, 2005). In particolare nel rapporto annuale del 2006 la coesione
recupera la sua accezione “economica” per la quale, rivolta specificatamente all’America
Latina e ai Caraibi, si rilancia “une nouvelle stratégie d’aide pays (CAS) qui préconise
l’établissement d’un partenariat d’investissement pour appuyer une croissance économique
durable et équitable, assurer une plus grande cohésion sociale et améliorer la gouvernance”
tra i paesi (World Bank, 2006, p. 46). In altri casi la coesione sociale viene richiamata per
riportare l’attenzione alla necessità di produrre e sostenere uniformità e coerenza, ad
esempio, nei diversi programmi sanitari dei Pvs (World Bank, 2007). Nel caso dell’OECD,
infine, nel rapporto annuale sulle attività promosse dall’area Sviluppo26, la coesione sociale
rientra all’interno delle sei strategie proposte dal Development Cluster (OECD, 2009) al fine di
“improve human capital and sociale cohesion, and promote a sustainable environment”
(OECD, 2009, p. 76). Alla luce di quanto detto è importante portare all’attenzione alcune
considerazioni. Accanto al concetto di coesione27 emergono due aspetti significativi: la
solidarietà e la competitività. Rispetto al primo la politica regionale europea rappresenta uno
strumento di solidarietà finanziaria, ma anche una potente forza di coesione e integrazione
economica, dove la solidarietà è indirizzata a produrre vantaggi concreti ai cittadini e alle
regioni meno favorite. Ma la solidarietà è un aspetto altrettanto presente negli intenti della
cooperazione allo sviluppo e in molti casi rappresenta una parola chiave che, soprattutto
negli ultimi anni, si è cercato di superare per bypassare l’accezione negativa e riduttiva di
“cooperazione solidaristica”. Per quanto riguarda la competitività, infine, se per l’Ue significa
affrontare le sfide poste dall’accelerazione dei processi di ristrutturazione economica causati
dalla globalizzazione, indirizzandosi ad un territorio affinché possa diventare unitariamente
“competitivo” e “attrattivo” e offrire sul mercato migliori servizi, vantaggi, offerta (UE,
2007, p. 7); per i Pvs28, per quanto concetto in dissonanza in contesti così poveri e spesso
in conflitto, rappresenta in realtà un obiettivo implicito. In diversi casi, infatti, alcuni
progetti di cooperazione, nel tentativo di rafforzare il sistema politico-economico di paesi
destrutturati e politicamente instabili tendono a ricostruire una coesione territoriale
“locale”29 portando, ad esempio, ad uno stato di equilibrata ridistribuzione risorse, servizi e
potenzialità di un singolo paese, al fine di rendere quel contesto territoriale competitivo sul
mercato nazionale o internazionale. La competitività, dunque, sembrerebbe inscriversi in
un obiettivo circoscritto ad una scala territoriale più “locale”, e questo troverebbe anche
giustificazione nella criticità in cui versano molti dei paesi del Sud del Mondo le cui priorità,
molto prima della competizione, devono trovare risposta nell’insicurezza alimentare,
nell’accesso ai servizi minimi di base e nell’accesso all’acqua.
11
Sono stati presi in considerazioni i rapporti annuali a partire dal 2005 fino al 2009.
Quindi tra quelle che operano più direttamente nei Pvs.
27 Anche per come viene inteso e proposto nei documenti ufficiali dell’Europa (European Special Planning).
28 Si precisa che in questa ricerca si vuole fugare ogni dubbio circa la volontà di equiparare contesti strutturalmente e
storicamente incomparabili, piuttosto cercare di cogliere negli orientamenti programmatici obiettivi e strategie comuni
29 Anche se non necessariamente.
26
64
4.1.3. Come valore in sé
La definizione di “coesione territoriale” oscilla tra il ruolo “curativo”, focalizzato sulle
differenze territoriali e sui rapporti centro-periferia generati dallo sviluppo, e quello
“performativo” inteso a promuovere in modo diffuso lo sviluppo e la competitività
economica (Janin Rivolin, 2004).
Essa nasce all’interno del dibattito sul modello sociale europeo caratterizzato da
un’economia di mercato regolamentata, con un sistema complessivo di sicurezza sociale
che garantisce i cittadini rispetto alla precarietà economica e alle diseguaglianze sociali
(Davoudi, 2006).
La coesione territoriale concetto nato all’interno del discorso europeo è qui riletto
adottando il punto di vista dell’etica pubblica al fine di “attribuire valore” alle scelte
collettive, non solo come questioni puramente distributive, questioni di giustizia sociale, ma
di ciò che è giusto o legittimo fare in particolari circostanze.
Centrale in questa riflessione è la definizione delle condizioni di svantaggio che si pone
nel momento in cui si riconoscono quelle diversità che permettono di giudicare se una
disuguaglianza sia giustificata o meno. “Come viene stabilita una categoria cui attribuire
certi diritti e doveri rispetto a un’altra?” Per provare a rispondere è necessario definire lo
«spazio valutativo» al fine di passare da un concetto di eguaglianza formale (tutti gli uomini
sono eguali, quindi devono essere trattati allo stesso modo)30 che poco dice sulle modalità
di intervento pubblico se non da un punto di vista giuridico, a un concetto di eguaglianza di
fatto31, in cui si riconoscono gli uomini eguali per diritti, ma diversi come capacità e
dotazioni. Si tratta del passaggio dalla regola di giustizia ai criteri di giustizia32.
Se questa tensione verso l’eguaglianza33 diventa la guida delle scelte distributive allora si
passa a un altro concetto chiave: l’equità. Definita da Bobbio come caso anomalo34
nell’applicazione della regola di giustizia al caso concreto, l’equità diventa necessaria per
evitare una possibile disuguaglianza che si verrebbe a generare applicando in modo rigido la
«L’idea di eguaglianza viene usata nel dibattito politico sia quando si enunciano fatti o cose che suffragano asserzioni di
fatto –gli uomini sono eguali- sia quando si enunciano principi o obiettivi politici- gli uomini devono essere eguali […] I
due usi possono combinarsi in tal caso l’obiettivo è assicurare uno stato di cose in cui gli uomini siano trattati come
eguali […]. Non è per capacità, intelligenza, forza o virtù che gli uomini sono eguali, ma semplicemente per il loro
essere uomini: è la loro comune umanità a costituire la loro eguaglianza. [...] Questo principio è compatibile […] con
l’uso di trattare diversamente i poveri solo perché sono poveri: tutte cose che non possono certo accordarsi con l’idea di
eguaglianza » (Williams, 2001, pp. 23-24).
31«“[E]guaglianza di fatto” s’intende l’eguaglianza rispetto ai beni materiali, o eguaglianza economica» (Bobbio, 1995, p.
27). «Una volta determinata la natura dei beni rispetto ai quali gli uomini dovrebbero essere eguali, il problema
dell’eguaglianza non è ancora risolto: occorre anche stabilire in quali modi gli uomini entrino e rimangano in rapporto
con questi beni. […] In altre parole, i beni da distribuire saranno distribuiti secondo la formula “a ciascuno in parti
eguali” oppure secondo la formula “ a ciascuno in proporzione di …”, cioè con una formula che permetta una diversa
distribuzione secondo il diverso grado con cui ogni individuo possiede il requisito richiesto» (Ibid., p. 28).
«Il dibattito politico contemporaneo riconosce quattro tipi di eguaglianza: politica, legale, sociale ed economica. [...] È
opinione diffusa che qualsiasi tipo di eguaglianza autentica è sensibile a fattori economici» (Nagel, 2001, p. 48).
32 «L’idea della giustizia sia come regolatrice del modo diverso delle parti di rapportarsi al tutto (giustizia distributiva) sia
come equilibratrice delle parti nei rapporti fra di loro (giustizia commutativa) è inerente a ogni possibile
rappresentazione di un ordine» (Bobbio, 1985, p. 17).
33 Se si valutano posizioni anti-egualitarie, nel senso di opposizione a qualsiasi forma interventistica pubblica (distribuzione
di risorse) in nome dell’eguaglianza, allora è necessario riflettere sul rapporto tra eguaglianza e libertà, poiché
l’eguaglianza (economica del tipo sostenuto da Sen, 1992, e Dworkin, 2001) ha un costo troppo elevato in termini di
libertà (è chiaro che la validità di quest’affermazione dipende dal valore che si attribuisce alla libertà e all’eguaglianza).
34 Accanto all’equità come anomalie Bobbio definisce anche il privilegio (Bobbio, 1985, p. 12).
30
65
norma. L’equità correggere una disuguaglianza attraverso forme compensative, quindi non
viola le regole di giustizia.
La definizione della condizione di svantaggio ha un posto centrale nella prospettiva
neowelfarista, in particolare rawlsiana, e coincide con la definizione del gruppo più svantaggiato
attraverso confronti interpersonali. Le modalità attraverso cui condurre i confronti sono
difficili da stabilire poiché devono semplificare la complessità dei problemi. Rawls ritiene
che ciascuna persona abbia due dimensioni rilevanti da confrontare: 1) quella di eguale
cittadinanza;35 2) quella definita dalla distribuzione di reddito e ricchezza. La struttura
fondamentale della società dovrebbe essere valutata per quanto possibile dalla posizione di
eguale cittadinanza poiché si basa un punto di vista generale, sicuramente appropriato per
giudicare le diseguaglianze economico-sociali. Al contrario il gruppo meno favorito
potrebbe essere valutato da una particolare posizione sociale, oppure in base a reddito e
ricchezza relativi, senza alcun riferimento alla posizione sociale. «In ogni caso dovremo, in
una certa misura, aggregare le aspettative di chi sta peggio, e il modello scelto come base
per questi calcoli è in certa misura ad hoc» (Rawls, 1971 [trad. it. 1982, p. 95]).
Nella scelta di valutare reddito e ricchezza, Rawls incontra molte critiche poiché non
rappresentano l’unica dimensione dello svantaggio o dell’ineguaglianza36.
La posizione rawlsiana sostenuta attraverso il principio di differenza37 viene ripresa da David
Harvey. L’autore di Giustizia sociale e città (1973 [trad. it. 1978 a e b])38 nota come nell’analisi
geografica l’attenzione si sia spostata sul concetto di efficienza e quindi sia necessario
recuperare una nozione di giustizia sociale appropriata per affrontare le questioni territoriali
(Moroni, 1997, p. 140). Harvey dopo aver analizzato alcune modalità d’intervento pubblico
propone una «Giustizia sociale territoriale» (Harvey, 1978, p. 143) definita attraverso due
principi:
I) la distribuzione del reddito dovrebbe essere tale da: a) assicurare il soddisfacimento dei
bisogni della popolazione in ciascun territorio, b) allocare ulteriori risorse per
contribuire al superamento di particolari difficoltà causate dall’ambiente fisico e sociale;
II) i meccanismi (istituzionali, organizzativi, politici ed economici) dovrebbero essere tali
da massimizzare le prospettive dei territori meno avvantaggiati.
Come si può notare i due principi di Harvey sono la trasposizione della concezione
rawlsiana in ambito territoriale (Moroni, 1997, p. 141).
Un’ultima considerazione completa la riflessione sullo svantaggio, ed è la definizione dei
bisogni, che in linea generale avviene dall’alto raccontando le necessità primarie degli altri.
Questa autoreferenzialità porta con sé il limite di non far parlare chi vive il bisogno.
«Questa posizione è definita dai diritti e dalle libertà richieste dal principio di eguale libertà e da quello dell’equa
eguaglianza delle opportunità. Quando questi due principi sono soddisfatti, tutti sono cittadini eguali, e così ciascuno
mantiene questa posizione. Vi sono infatti argomenti che riguardano gli interessi di ciascuno, e rispetto ai quali gli
effetti distributivi risultano nulli o irrilevanti» (Rawls, 1971 [trad. it. 1982, p. 94]).
36 Kennet Arrow riflette invece sulle differenze di utilità derivanti al gruppo degli svantaggiati dalla distribuzione dei beni
primari; la domanda che si pone è la seguente: “perché non considerare che l’uguaglianza garantita dal principio di
differenza potrebbe rivelarsi eccessiva per alcuni e insufficiente per altri?” (Granaglia, 1988). Secondo Amartya Sen la
teoria rawlsiana ha avuto come esito spostare l’attenzione dalla diseguaglianza nei risultati a quella nelle opportunità (Sen,
1992)
37 Le diseguaglianze sociali ed economiche debbono essere strutturate in modo da essere volte al massimo vantaggio dei
meno favoriti. Versione definitiva del principio di differenza presentato in A Theory of Justice (1971)
38 Titolo originale dell’opera Social Justice and the city (1973).
35
66
4.2.
La coesione territoriale a scale territoriali differenti: obiettivi e
strumenti
La coesione territoriale, come visto, è la sintesi tra la finalità di riduzione dei divari e
“equipotenzialità” delle opportunità di sviluppo. Per perseguire tale obiettivo è necessario
un coordinamento tra il livello locale e quello sovra-locale, tenendo sempre alta l’attenzione
sulle capacità locali di auto-organizzarsi in processi di sviluppo.
La questione centrale che fa da sfondo alla terza parte del contributo è il rapporto tra le
scale territoriali e il concetto di coesione. Il territorio è per sua natura multiscalare e tale
deve essere anche il concetto di coesione territoriale, individuato a livello europeo, ma
implementato a livello locale, regionale, nazionale. Per ognuna delle dimensioni della
coesione territoriale il livello svolge un ruolo diverso.
La centralità della dimensione territoriale è stata ampiamente richiamata a livello
comunitario (§ 4.1.1.) ma si ritrova anche a livello nazionale nel Quadro Strategico Nazionale.
Al suo interno si indica come la programmazione regionale (periodo 2007-2013) dovrà
avere fra i suoi capisaldi la «valorizzazione delle specifiche identità e delle potenzialità
individuate nelle aree urbane, rurali e nei sistemi produttivi del lavoro» (Regione Piemonte,
2009, p. 6). Esso identifica i “territori di progetto”, aggregazioni territoriali che permettono
di disegnare profili di transizione economica.
A livello regionale invece gli scenari di sviluppo si costruiscono attraverso i “quadranti
territoriali”39. Alla base di queste interpretazioni territoriali si trova la necessità di
individuare aree (reti di città e di sistemi locali) da poter mettere “a sistema” per poter fare
massa critica all’interno di sistemi territoriali più ampi.
Nei paragrafi seguenti si analizza il rapporto tra l’obiettivo, le politiche di coesione e le
scale territoriali d’implementazione. Si prenderà in considerazione il livello europeo e quello
locale, mentre non sono stati analizzati quello nazionale e regionale.
L’individuazione dei “quadranti territoriali” è già stata proposta all’interno della ricerca Itaten (Regione Piemonte,
2009).
39
67
4.2.1. Il livello europeo: convergenza, competitività e disparità
territoriali
A dispetto dell’assenza di competenze, la politica comunitaria è stata caratterizzata da una
progressiva ingerenza nelle dinamiche spaziali. Lentamente, ma inesorabilmente, il
territorio ha acquisito una posizione di primo piano nell’agenda politica dell’UE, sin dai
primi trattati CEE che includevano azioni legate a trasporti, ambiente, agricoltura e reti
infrastrutturali fra le competenze comunitarie. La pubblicazione del Libro verde sull’ambiente
urbano (CEC, 1990), gli studi Europa 2000 e Europa 2000+ (CEC, 1991; CEC, 1994) e la
crescita esponenziale di ricerche e iniziative scientifiche in tale ambito sono solo alcuni dei
molti indizi di una crescente sensibilità territoriale che, nonostante l’inerzia di diversi stati
membri restii a cedere parte della propria sovranità territoriale, ha portato alla redazione
dello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (CEC, 1999).
Nel 1997 il Trattato di Amsterdam aveva già introdotto, per la prima volta, il concetto di
“coesione territoriale” (art. 16, ex art. 7D) in relazione ai cosiddetti Servizi di Interesse
Generale, di fatto fornendo un flebile presupposto per una politica europea di coesione
(Faludi, 2005a; Waterhout, 2008)40. Fin dalla sua introduzione, il concetto di coesione
territoriale ha catalizzato il dibattito sullo European spatial planning, consolidandosi nel
discorso ufficiale con il Secondo e il Terzo Rapporto della Commissione sulla Coesione
Economica e Sociale (rispettivamente CEC 2001 e CEC 2004 a) che contenevano sezioni
appositamente dedicate (“Coesione Territoriale: verso uno Sviluppo più Bilanciato”).
Sempre all’inizio del 2000, l’UE ha però adottato un ulteriore importante documento
destinato a definirne le future priorità politiche. Tramite la Strategia di Lisbona41 l’Unione
mirava a creare un’economia competitiva basata sulla conoscenza che favorisse la
promozione di un modello di crescita economica sostenibile attraverso maggiore
occupazione, coesione sociale e rispetto dell’ambiente. Conoscenza e innovazione sono
gradualmente divenuti le principali risorse per la promozione della competitività
economica, nell’ottica della Commissione obiettivo complementare alla coesione
territoriale. D’altro canto, la difficile convivenza dei due obiettivi, sia a livello comunitario
che nella rivisitazione degli stessi all’interno dei documenti strategici preposti alla guida
dello sviluppo di numerosi nazioni europee (Cotella, 2009; Adams et al. 2010; TewdwrJones 2010) ha dato vita a un insieme di tensioni difficilmente risolvibili (Lawton-Smith,
2003).
In seguito alle critiche riguardo all’attuazione della Strategia di Lisbona (fra tutti: Sapir et
al., 2004; CEC, 2004b), questa è stata rilanciata nel 200542 sulla base di tre principali
concetti: (1) priorità alla promozione di quelle politiche che presentano impatti maggiori in
termini di crescita e occupazione, (2) coinvolgimento dei diversi attori ai diversi livelli
territoriali e (3) chiara divisione dei compiti fra i diversi livelli territoriali. Tale riforma ha
portato all’introduzione dei Programmi Nazionali di Riforma, da redigersi nei diversi stati
membri in risposta alle Linee Guida che la Commissione ha derivato direttamente dalla
L’ambizione strategica all’interno della quale è stata elaborata la politica di coesione deriva da quanto riportato nell’Atto
Unico Europeo (art. 130A), ossia la necessità di “promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità”,
che nel Trattato di Amsterdam (art. 158, ex art. 130A) è diventata “la riduzione del divario fra i livelli di sviluppo delle
diverse regioni europee”.
41 Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000, Documento n. 100/1/00.
42 Comunicazione al Consiglio Europeo di Primavera “Lavorare Insieme per crescita e occupazione – un nuovo inizio per
la Strategia di Lisbona”. COM (2005), 2.2.2005 (CEC, 2005).
40
68
strategia di Lisbona, e che dovrebbero influenzare distribuzione e utilizzo dei Fondi
Strutturali.
Sull’onda lunga del rilancio della Strategia di Lisbona, il Consiglio Informale dei Ministri
sulle politiche regionali e coesione territoriale tenutosi in Lussemburgo nel maggio del 2005
ha pubblicato un documento dal titolo Stato e prospettive del territorio dell’Unione europea: verso
una maggiore coesione territoriale europea alla luce delle ambizioni di Lisbona e Göteborg. Il documento
si basa sui risultati di un precedente incontro a Rotterdam e sulle analisi territoriali condotte
dalla rete ESPON, e sottolinea la necessità che le politiche di sviluppo territoriale aiutino le
diverse regioni a sviluppare il proprio capitale territoriale per aumentare la competitività
europea (Faludi, 2009, p. 88). Il passaggio successivo di tale processo è stato la
presentazione della prima bozza del documento Territorial States and Perspectives of the EU
(TSP) di fronte ai principali stakeholders dei diversi Stati membri ad una conferenza
organizzata appositamente ad Amsterdam, il 28 giugno del 2006 (MUDTCEU, 2007a),
insieme a una nota sul futuro sviluppo della Territorial Agenda for the EU (MUDTCEU,
2007b). Quest’ultima è stata poi discussa in bozze successive in diversi DG-meetings
organizzati dalla presidenza tedesca e finlandese, ed infine approvata Lipsia il 24-25 maggio
del 2007, durante l’ennesimo incontro informale interministeriale.
La Territorial Agenda rappresenta il più recente documento comunitario finalizzato ad
indirizzare lo sviluppo territoriale all’interno dei diversi Stati Membri. A dire il vero, la
maggior parte della ricchezza che aveva caratterizzato il documento di background
dell’agenda – il già citato TSP, che si basava direttamente sui risultati prodotti dallo
European Spatial Planning Observation Network (ESPON) – sembra essere andata
perduta. Dalle oltre 90 pagine del TSP, l’Agenda propone una versione decisamente più
snella – 10 pagine circa – di fatto costituendo più un tentativo di affiancare lo SSSE che di
rappresentarne il degno sostituto. A tal proposito, la dicotomia coesione/competitività, che
già aveva caratterizzato il ‘risultato più fiero dello European spatial planning’ (Faludi 2001,
p. 245, nostra traduzione) così come le successive strategie e politiche territoriali
comunitarie, appare irrisolta, così come le tensioni implicite in tale complesso rapporto.
Nello stesso anno della pubblicazione della Territorial Agenda, ha preso il via il nuovo
periodo comunitario 2007-2013, coordinato tramite tre obiettivi principali43: (1) Convergenza,
che mira a promuovere condizioni favorevoli per la crescita e la convergenza degli Stati
membri e delle regioni meno sviluppati; (2) Competitività regionale e occupazione, finalizzato al
rafforzamento della competitività delle regioni nonché dell’occupazione a livello regionale e
(3) Cooperazione territoriale europea, concentrato sulla cooperazione internazionale.
Se si esclude il terzo obiettivo, che costituisce la diretta evoluzione del programma di
iniziativa comunitaria Interreg, gli obiettivi uno e due si rifanno esplicitamente al binomio
al quale abbiamo accennato. L’obiettivo della Convergenza (attuale programmazione 20072013) comprende le aree obiettivo 1 (regioni in ritardo di sviluppo) e riguarda le Regioni
con un PIL/pro-capite inferiore al 75% della media comunitaria (Ue allargata) oppure
quelle ultra periferiche, mentre l’obiettivo Competitività regionale e occupazione include le
restanti regioni, quasi ad indicare una inconciliabilità dei due principi all’interno di uno
stesso contesto territoriale. Come si è visto, la confusione che ancora domina il dibattito
comunitario in relazione al possibile simultaneo perseguimento di coesione e competitività
– o della necessità di subordinare almeno a livello temporale uno dei due obiettivi all’altro –
43
L’Unione ha affidato il 35,7% del bilancio europeo (347,410 miliardi di euro) alla cosiddetta politica di coesione
ripartendoli fra tre nuovi obiettivi: 81,54% per l'obiettivo "Convergenza"; 15,95% per l'obiettivo "Competitività e
Occupazione"; 2,52% per l’obiettivo "Cooperazione territoriale".
69
appare di difficile risoluzione. Diversi autori attribuiscono tali difficoltà all’assenza di
competenze comunitarie legittime in ambito territoriale e alla diffidenza da parte degli Stati
Membri di definire obiettivi precisi e univoci a guida dello sviluppo delle diverse regioni
europee. In tale ottica, la recente ratifica del Trattato di Lisbona che per la prima volta
introduce l’obiettivo di coesione territoriale all’interno dei trattati fra le competenze
condivise fra UE e Stati Membri, potrebbe costituire un momento importante di svolta. La
Commissione Europea sembra pronta a cogliere tale occasione, e ha anticipato la ratifica
del trattato con il lancio di un vasto dibattito sugli esatti contorni teorici e operativi del
concetto di coesione territoriale. Grazie alla pubblicazione del Libro verde sulla coesione
territoriale (CEC, 2008), quasi 400 pareri e opinioni provenienti dai vari stati membri, da
numerose regioni, da enti di ricerca e istituzioni e da privati cittadini sono infatti giunti in
sede comunitaria, a garantire ulteriore momento al dibattito su tale tema.
4.2.2. Il livello locale: territorio coeso, disparità nel tessuto microurbano, strumenti di analisi e di intervento
Un territorio coeso44 presenta uno o più dei seguenti requisiti:
− avere un ruolo pro-attivo nei processi di sviluppo economico;
− evitare eccessivi squilibri socio-economici;
− essere un luogo in cui le politiche e i progetti si integrano;
− essere connesso a reti infrastrutturali;
− essere fruibile come insieme di beni e servizi.
Questi cinque modi di essere non si escludono tra loro, anzi possono essere massimizzati
congiuntamente. La coesione territoriale richiede la partecipazione attiva di soggetti
pubblici e privati, quindi è fortemente influenzata da processi di governance multiscalare, in
cui obiettivi definiti a scala sovralocale possono essere realizzati solo se accettati da soggetti
a scala locale.
Per condurre l’analisi del livello locale sono state individuate due dimensioni valutative,
la prima prende in considerazione il rapporto tra sovra-locale e locale (relazionale). La
definizione di strategie e di orientamenti a scala superiore di quella locale individua
all’interno di un territorio urbano, ambiti di intervento (ad esempio la localizzazione di
infrastrutture e le politiche di mobilità). La seconda individua aree di criticità a livello
micro-urbano dovute a problematiche di degrado ambientale e disagio sociale (fenomeni di
marginalizzazione, isolamento e perdita di senso di appartenenza).
Il rapporto tra locale e sovra-locale è stato indagato ampiamente in termini di
networking nella prima parte del working paper, mentre in termini di politiche di coesione
è stato preso in considerazione il rapporto tra Ue e città, in particolare attraverso le
iniziative di rigenerazione urbana, mentre i livelli intermedi (Stato e Regioni), come detto,
non sono stati oggetto di analisi.
44
Ricerca Incoter-Indicatori e criteri di coesione territoriale (EU-POLIS, 2005).
70
4.2.2.1.
Le iniziative europee per la rigenerazione urbana: alcune note su svantaggio e
competitività
La riscoperta dell’importanza della città in ambito europeo è maturata con la
consapevolezza della sua centralità nello sviluppo del territorio. In molte parti d’Europa la
città non è più il luogo desiderabile in cui far crescere i propri figli, in cui passare del tempo
o più in generale in cui vivere. Questa erosione del ruolo della città è forse la più grave
minaccia al modello europeo di sviluppo della società (CEC, 1997, p. 8).
A livello europeo sono state promosse due iniziative a favore delle aree urbane in crisi: i
Progetti Pilota Urbani e il Programma Urban. Caratteristica base di questi strumenti è il
percorso di selezione che porta all’individuazione dei programmi da ammettere a
finanziamento. In Italia durante il secondo periodo di programmazione sono stati
presentati 89 programmi, ma solo 10 sono stati finanziati con fondi europei. La selezione
avviene in due tempi: prima fase (locale), individuazione ambiti di intervento, seconda fase
(ministeriale) valutazione criticità e strategie del Programma (misure). In entrambi le fasi, la
metodologia di selezione si avvale di criteri/indicatori quantificati mediante soglie o punti.
Nel dettaglio, nella prima fase, la valutazione dell’ammissibilità delle aree avviene
attraverso l’individuazione di criticità e potenzialità, quantificati attraverso criteri e
indicatori. All’interno della Comunicazione agli Stati membri concernente l’iniziativa
comunitaria Urban, è stato definito un set di criteri per selezionare le aree ammissibili
(CEC, 1994 e 2000). A livello locale, le indicazioni europee sono state recepite dagli Stati
membri all’interno di bandi ministeriali con alcune variazioni adottate in riferimento al
contesto normativo nazionale. Questi criteri nei due periodi di programmazione (19941999 e 2000-2006) hanno subito modifiche. Il numero di criteri indicati all’interno della
Comunicazione europea in seguito adottati nel bando ministeriale è aumentato
notevolmente passando da tre a nove, da Urban I a Urban II45.
La metodologia individuata (nelle politiche urbane46) è funzionale a rendere confrontabili
aree differenti ed è finalizzata alla seconda fase di selezione dei programmi.
La fase finale di selezione si avvale di criteri di valutazione stabiliti a livello ministeriale47
cui viene attribuito un punteggio così ripartito:
45
46
47
Per l’analisi delle criticità nel primo periodo di programmazione si impiegano tre fattori: a) elevato tasso di
disoccupazione; b) presenza di aree industriali dimesse; c) condizioni abitative pessime.
Nel secondo periodo di programmazione i criteri sono diventati nove: a) elevato tasso di disoccupazione di lunga
durata; b) scarsa attività economica; c) notevole povertà ed emarginazione; d) esigenza specifica di riconversione a
seguito di problemi socioeconomici locali; e) forte presenza di immigrati, gruppi etnici e minoranze, profughi; f) basso
livello di istruzione, carenze significative di specializzazione e tassi elevati di abbandono scolastico; g) elevata
criminalità; h) andamento demografico precario; i) ambiente particolarmente degradato; sono definiti da almeno
altrettanti indicatori.
Il programma Urban ha un suo retroterra nei programmi europei di lotta alla povertà, in cui si guarda a fattori sociali,
economici e ambientali contemporaneamente. Nello specifico «Il programma dell’Unione Europea per “l’integrazione
economica sociale dei gruppi meno favoriti” (Poverty 3) è centrato sulla “rivitalizzazione e ridinamizzazione” delle aree
degradate, nelle quali al degrado fisico corrisponde il concentrarsi di situazione di esclusione sociale: l’ipotesi è che in
questi casi la soluzione ai problemi abitativi e la lotta contro la povertà siano inscindibili» (Tosi, 2007, p. 49).
Si ricorda che la Comunicazione della Commissione agli Stati membri delega agli Stati la scelta delle aree attraverso i
criteri indicati nel documento, oppure integrando con altri criteri necessari per rispondere a specifiche necessità di
valutazione.
Per maggiori dettagli si rimanda ai Dossier di Valutazione intermedi e riepilogativi presentati dall’ATI / CLES srl su
mandato del MIT.
71
- 25
punti - alle priorità riferite ai fattori di criticità, così articolati:
fino a 10 punti – assi e azioni prioritarie, premiando le strategie articolate su più assi;
fino a 9 punti – fattori di criticità. I punti sono attribuiti solo a 4 criteri di criticità su 9: notevole povertà ed
emarginazione, presenza di immigrati e minoranze etniche; criminalità e degrado
ambientale. La previsione è di abbattere almeno 2 dei fattori indicati;
fino a 6 punti – aree d’intervento: periferie di città metropolitane, centri storici in declino.
- 30
punti - attribuiti sulla base delle capacità dei programmi di implementare le azioni e le iniziative
previste in relazione alla copertura finanziaria;
- 45
punti - attribuiti sulla base delle capacità dei programmi di rispondere alle esigenze espresse, così
articolati:
fino a 15 punti – fattibilità del programma;
fino a 20 punti – garanzia del raggiungimento dei risultati previsti;
fino a 10 punti – trasferibilità dei risultati.
I criteri scelti rivelano una certa attenzione all’effettiva realizzabilità dei programmi,
preoccupazione giustificata dalla mancata possibilità di posticipare la spesa negli anni. Il
Ministero, così come le Amministrazioni locali, vogliono evitare il rischio del disimpegno
automatico48 per cui devono dimostrare di realizzare progetti coerenti.
La questione svantaggio pertanto è una delle ragioni a sostegno dell’azione pubblica nelle
aree urbane in crisi accanto alla competitività. Nelle realtà urbane italiane oggetto
d’indagine si fa riferimento a una condizione di svantaggio che si manifesta attraverso le
comunità locali che non si riconoscono più come entità collettive, ma non si riscontra
alcuna sindrome estrema di esclusione territoriale. Si annovera un’eccezione: il PIC Urban
II–Torino. Nell’area di Mirafiori Nord si è verificata una corrispondenza tra zonizzazione
tipologica e sociale che si manifesta con forme di isolamento simmetriche: da un lato il
benessere nell’area del Centro Europa, dall’altro il malessere nella zona di C.so Salvemini.
Al di là di questo caso circoscritto, nelle realtà prese in esame si riscontra una situazione di
disagio sociale più diffusa e quasi impercettibile. Si tratta di forme di malessere quotidiano
legate alla bassa qualità dei servizi soprattutto in termini di accessibilità che sfuggono alle
valutazioni di tipo solo quantitativo: i “chiusi in casa”. La dotazione di servizi e la loro
accessibilità rappresentano gli indicatori più rappresentativi per definire la dimensione di
svantaggio nelle aree urbane in crisi poiché in queste zone costituiscono la principale causa
di disuguaglianza sociale. In molte realtà urbane mancano servizi adeguati (per fruibilità
soprattutto legata agli orari di apertura al pubblico e per tipologia del servizio) che
rispondano ai reali bisogni di una popolazione che è cambiata rapidamente soprattutto
nell’ultimo decennio.
Al circolo negativo che si crea all’interno di una parte della città si affianca una tensione
esterna che coinvolge l’area urbana nel suo complesso: la competitività. I valori immobiliari
delle aree urbane in crisi diminuiscono a causa della scarsa qualità della vita imputabile alle
condizioni di degrado e di disagio. Questi territori diventano economicamente interessanti
per localizzare attività a basso profilo come lo stoccaggio (PIC Urban II - Milano) che
possono contribuire a dequalificare l’area (ATI, 2007). Dall’indagine condotta sulle città
48
Regola “n+2”
72
Urban II in Italia emerge che la perdita del potere attrattivo di possibili investimenti è la
motivazione principale che giustifica l’azione pubblica a livello locale. La dimensione dello
svantaggio è quindi valutata rispetto alla competitività. Si agisce su degrado ambientale e
disagio sociale per incrementare la competitività urbana, promuovendo un’immagine di
città nuova che ha saputo ridefinirsi. Molti degli interventi proposti all’interno dei casi presi
in considerazione sono operazioni di restyling urbano.
Le città promuovono se stesse nel libero mercato assumendo il ruolo di attori in grado di
attrarre in modo autonomo investimenti finanziari. Tale approccio è ancor più tangibile
nelle città sede di grandi eventi (futuri rispetto alla candidatura per i finanziamenti Urban II
periodo di programmazione 2000-2006) come Genova sede del G8 nel 2001 e Capitale
della Cultura nel 2004, Torino sede delle Olimpiadi Invernali nel 2006, Pescara sede dei
Giochi del Mediterraneo nel 2009 e infine Milano con lo spostamento del Polo Fieristico a
ridosso dell’area Urban nel 2004. Parte degli interventi di rigenerazione urbana sono pensati
in risposta alle esigenze che l’evento porta con sé.
Le città da oggetto di politiche diventano soggetto di politiche.
A scala locale è facile notare come sin dai primi sviluppi della politica regionale europea
condotta attraverso i FS, siano proliferate - nell’alveo per esempio del programma Urban
pratiche episodiche e eccezionali.
Non è agevole stabilire quanto queste pratiche abbiano veicolato una maggiore coesione
territoriale. Ciò che è indubbio è che il rapporto tra competitività e coesione, in specifico
ambito urbano, appare tutt’altro che lineare (Mayer, 1994; Le Galès, 2006). Secondo
Fainstein (2001) e Sassen (2000), la competitività (urbana) genera spesso fenomeni di
segmentazione, esclusione sociale e diseguaglianze e, facendo riferimento al dibattito sul
modello sociale europeo, non è dimostrata la capacità di specifiche policies di raggiungere
al contempo adeguati livelli di sviluppo economico e di welfare. In questo quadro
estremamente incerto, Fainstein sottolinea che l’esistenza dei sistemi previdenziali nazionali
dimostra che è possibile salvaguardare la coesione all’interno di un contesto di
competitività globale.
4.2.2.2.
Coesione urbana e politiche per l’abitare
A scala urbana, il rapporto tra competitività e coesione appare tutt’altro che lineare (Mayer,
1994; Le Galès, 2006). Secondo Fainstein (2001) e Sassen (2000), la competitività (urbana)
genera spesso fenomeni di segmentazione, esclusione sociale e diseguaglianze. La risposta
elaborata dall’Europa, mediante la politica regionale, ha alimentato pratiche (etichettate
come programma Urban, Patti territoriali, Contratti di quartiere o Progetti integrati)
piuttosto episodiche ed eccezionali. Di fronte a un simile scenario – in cui il dibattito è
imperniato sul rapporto tra competitività e coesione e le pratiche sono difficili da
interpretare – sembra opportuno “legare” il discorso sulla coesione territoriale a quello, in
realtà non meno controverso, sulla coesione sociale e, in particolare, sul modello sociale
europeo (Davoudi, 2006).
Anche in questo caso, il dibattito è acceso e le diverse posizioni offrono interessanti
spunti di riflessione: secondo Fainstein (2001), l’esistenza dei sistemi previdenziali nazionali
garantisce la coesione all’interno di un contesto di competitività globale, mentre Giddens
(2007) suggerisce di passare dallo Stato Sociale a un “sistema di investimento sociale, con
funzioni di welfare”. L’insieme di queste suggestioni esplica effetti considerevoli nella città,
73
sia in quanto scenario dei conflitti sociali, sia in quanto attore, in virtù della devoluzione in
corso nella maggior parte dei Paesi europei.
Una delle prospettive più significative dalle quali osservare e analizzare le dinamiche che
oggi sottopongono le città a continue trasformazioni e tensioni è quella che fa riferimento
alla questione abitativa. E’ nelle maglie dell’abitare/del non poter abitare, infatti, che si può
misurare la cifra della marginalità, della negazione del “diritto alla città” à la Lefebvre
(1996), inteso cioè come diritto a partecipare alla società urbana.
Lo studio condotto sulla questione abitativa a Torino (De Luca e Lancione, 2010)
consente di mettere in evidenza alcuni caratteri della questione- casa, comuni a molte città
europee.
Il primo aspetto da rimarcare riguarda il tipo di disagio cui indirizzare gli interventi: nella
maggior parte die Paesi dell’Europa occidentale e negli orientamenti proposti dalla stessa
Unione Europea (De Luca, Governa e Lancione, 2009), si sta affermando la cosiddetta
“neo-liberal housing policy”, basata sulla privatizzazione, la deregulation e il progressivo ritiro
dell’attore pubblico, che tende a prendere in considerazione il disagio meno grave, meno
acuto. La frammentazione sociale che ne deriva spinge a chiedersi se è possibile, al
contrario, elaborare un’alternativa a questo tipo di approccio al problema-casa (Clapham,
2006). In merito, per esempio, al ritiro da parte dell’attore pubblico, l’esperienza torinese
dimostra che le politiche più efficaci sono quelle in cui tale soggetto non rinuncia al ruolo
di pilotage (come nel caso in cui il Comune si fa garante presso le banche per favorire
l’accesso alla casa da parte dei giovani).
Il secondo aspetto da sottolineare deriva dall’osservazione delle implicazioni territoriali
della questione-casa. Mentre fino ai primi anni Novanta la risposta al disagio abitativo è
avvenuta nelle aree più marginali della città a partire dalla seconda metà degli anni Novanta
la risposta si articola prevalentemente al suo interno e ciò non solo perché il disagio si
insinua in maniera più diffusa nella città ma anche perché gli interventi si fanno più
puntuali. Nell’esperienza torinese, la prima generazione di politiche abitative ha avuto luogo
nei comuni della prima corona attorno al capoluogo ed è consistita in grandi insediamenti
residenziali; le politiche abitative di seconda generazione, invece, hanno trovato spazio
all’interno delle aree centrali di Torino: si pensi ai condomini per anziani in Piazza della
Repubblica, Corso Principe Eugenio, Via Porri e Via Gessi, al portierato sociale in Via San
Massimo, all’albergo sociale in Via Ivrea. La tendenza sembra, dunque, quella di una
politica per la casa “per progetti” che rispondano a specifiche esigenze operative. Questa
modalità può essere efficace (e il successo delle esperienze che stanno avendo luogo a
Torino lo dimostra) purché elaborata all’interno di un programma più ampio che prenda in
considerazione l’insieme non solo delle politiche per la casa ma di anche di quelle per la
città.
4.2.3. La valutazione delle ricadute e degli impatti territoriali delle
politiche di coesione
È da segnalare come primo punto di riflessione (accompagnato da una certa
preoccupazione) la mancanza di un ragionamento organico sul rapporto tra obiettivi ed esiti
delle politiche di coesione, poiché tradizionalmente la valutazione è stata affrontata ‘per
fasi’ di definizione e attuazione di un programma/progetto. In particolare per quanto
riguarda queste fasi valutative, esse si articolano in: ex-ante che ha assunto rilievo soprattutto
con i programmi complessi nella fase di scelta dei progetti da inserire negli schemi
preliminari; in itinere che invece è stata sperimentata solo con alcuni programmi come i
74
PRUSST e gli Urban per cui è difficile fornire una casistica di riferimento e infine ex-post
che è sempre stata penalizzata dai tempi lunghi, per cui la riflessione sulle esperienze è
ancora troppo acerba (Ricci, 2006). Altri due aspetti generali che riguardano la valutazione
nello specifico su temi territoriali sono: i) la valutazione in genere è stata relegata a livello
del singolo programma e ii) i programmi partiti da un’idea o un progetto generale iniziale si
modificano nella fase dell’implementazione richiedendo talvolta anche la costruzione di
partenariati che durante le fasi di negoziazione ridisegnano gli obiettivi.
Le due questioni appena sollevate rendono difficoltosa la valutazione di effetti, impatti o
ricadute territoriali. Questi termini spesso utilizzati come sinonimi necessitano qui di una
sintetica definizione per coglierne le sovrapposizioni, ma soprattutto le distinzioni. Per
effetti si intendono tutte le conseguenze di un intervento, per impatti si intendono gli effetti
di un intervento sulla comunità (Palumbo cit. in Moroni, 2006).
La valutazione di effetti, impatti o ricadute territoriali delle politiche di coesione è
attualmente una questione centrale nel dibattito europeo. Si richiama in merito seppur
brevemente il recente rapporto indipendente presentato da Barca (2009), in cui si denuncia
la confusione esistente nella metodologia di valutazione tra efficienza ed equità. Nel primo
caso, l’efficienza, si valuta la qualità di una procedura, nel secondo caso, l’equità, si analizza la
distribuzione di beni e il grado di inclusione sociale.
Sullo sfondo di questa riflessione si pone la questione dell’individuazione dello spazio
valutativo e di conseguenza dei criteri di valutazione e dei passaggi applicativi. Nel caso in cui si
valuti l’equità distributiva lo spazio valutativo considera solo gli aspetti che hanno ricadute
moralmente rilevanti in termini collettivi. Il criterio valutativo verifica che la distribuzione
di vantaggi e svantaggi sociali sia giusta interrogandosi sulla legittimità delle distribuzioni
previste. I passaggi applicativi prevedono in primo luogo l’individuazione dei soggetti che
possono avanzare rivendicazioni nei confronti dell’intervento delle politiche, in secondo
luogo l’individuazione degli impatti che hanno una particolare rilevanza etica (positiva), in
terzo luogo l’individuazione delle informazioni necessarie a formulare giudizi sulle
condizioni sociali e spaziali di vita dei soggetti destinatari dell’azione, infine l’ultimo
passaggio consiste nella formulazione di un giudizio sintetico sulla base di una qualche
concezione di giustizia. Tale giudizio permetterà di orientare la scelta politica tra le diverse
opzioni previste da un intervento (Ferri et al., 2006). Il problema etico nasce nel come
l’amministrazione si pone rispetto alla società, quali criteri adotta? Come risponde alla
condizione di coerenza tra finalità istituzionali e obiettivi politici? La finalità di tale
riflessione e delle domande sollevate è di ragionare sui parametri da assumere in base ai
valori che fondano le scelte: fornire criteri per il ragionamento politico per consentire scelte
oculate. La valutazione etica deve guardare all’eticità degli obiettivi, ma anche all’eticità del
processo per raggiungerli (Ricci, 2006).
Attualmente, l’analisi sulla valutazione delle politiche di coesione territoriale comunica
risultati limitati rispetto alla portata della riflessione maturata in sede di dibattito scientifico.
Gli indicatori individuati e utilizzati per la valutazione delle politiche di coesione sono stati
riconosciuti dal citato rapporto Barca come incoerenti poiché guardano ‘solo’ alla
correttezza del processo e delle pratiche e ben poco dicono in merito al raggiungimento
degli obiettivi prefissati. Non deve sfuggire l’importanza che può avere la definizione di una
metodologia per la valutazione degli impatti (generalmente ex-post) anche nella fase iniziale
di una policy, durante le analisi di contesto (valutazione ex-ante). La valutazione è uno
straordinario metodo di apprendimento per le cabine di regia politica. Dal rapporto di
ricerca finale del progetto INCOTER si segnala come uno dei risultati più apprezzabili
75
della valutazione sia proprio costringere gli attori ad analizzare i contesti, a riflettere sulle
modalità di azione e a confrontarsi con visioni multi-scalari dei problemi (EU-POLIS,
2005).
Inoltre, nel rapporto Barca si propone anche una tecnica valutativa: il metodo controfattuale,
in cui si valuta l’effetto di un’azione sia nel caso in cui essa si verifichi, sia nel caso in cui
non si verifichi. Il metodo controfattuale è alla base dell’Analisi di Impatto, diversa dalla
definizione di Indicatori di Impatto che valutano il raggiungimento di un obiettivo (possibilità
di monitoraggio nel tempo del grado di attuazione di una politica).
In ultimo, si è visto (§ 4.2.) come il territorio sia un potente integratore di politiche
predisposte a scala differente. Il riferimento alle diverse scale definisce anche i diversi
aspetti da valutare. L’appartenenza a reti avrà effetti differenti a seconda del livello a cui
avviene il contatto e avrà bisogno di metodi di valutazioni differenti.
4.3.
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http://www.europa.eu/index_it.htm e
http://www.coe.it
www.worldbank.org
www.oecd.org
www.un.org
www.eropa.eu
http://ec.europa.eu/europeaid
80
5.
Considerazioni
future
conclusive
e
prospettive
di S. Bighi, G. Cotella e F.S. Rota
Oltre a fornire una panoramica dei lavori svolti dai membri del gruppo EU-POLIS sui temi
delle reti, della governance e della coesione territoriale e a individuare una serie di ‘aperture’
teoriche e metodologiche all’interno della relativa produzione scientifica internazionale, il
presente working paper costituisce un primo passo verso la declinazione metodologica di
tali temi all’interno della ricerca Torino e Piemonte fra locale e globale. Politiche di rete e ancoraggi
territoriali.
In particolare, l’insieme dei tre contributi che formano il WP identificano alcuni
interessanti temi trasversali di riflessione, relativi all’analisi del coinvolgimento dei sistemi
urbani e territoriali in processi di networking. Più nel dettaglio:
•
le argomentazioni sviluppate sono state l’occasione per riflettere sul significato
di concetti spesso utilizzati con declinazioni diverse all’interno del dibattito
scientifico, favorendo la condivisione di un’interpretazione comune – anche se
non univoca – degli stessi all’interno del gruppo di ricerca;
•
inoltre, le considerazioni maturate durante l’impostazione dei tre percorsi di
ricerca e, in misura maggiore, durante i momenti di confronto collettivo, hanno
permesso di riflettere sul comune tema del networking territoriale in maniera
interdisciplinare e trasversale. E’ stato così possibile individuare specificità e
punti di contatto dei concetti di rete, governance e coesione, fornendo una
prima base per la loro declinazione all’interno di un’unica metodologia di ricerca;
•
infine, il descritto esercizio ha consentito di formulare alcune considerazioni utili
ad una ulteriore problematizzazione degli obiettivi complessivi della ricerca su
Torino e il Piemonte e una più chiara definizione del quadro delle azioni
necessarie per raggiungerli.
Con riferimento all’approfondimento teorico, il contributo dedicato all’analisi
dell’interazione tra le reti sovralocali e territori (§ 2) ha enfatizzato l’aleatorietà, la
confusione, con cui spesso si ricorre ai termini di ancoraggio e radicamento territoriale delle
reti. In più, si è sottolineata l’importanza di analizzare i processi di networking assumendo il
doppio punto di vista: i) degli attori interni al sistema, che partecipano più o meno
attivamente all’insieme delle relazioni tra gli attori locali; ii) degli attori esterni, appartenenti
alle reti sovralocali. A seconda del punto di vista assunto, muta infatti il quadro delle
convenienze e dei meccanismi posti in gioco.
Passando a considerare il contributo sulla governance territoriale (§ 3), si è messa in
risalto la multi-dimensionalità implicita in tale concetto, suggerendo come l’analisi
territoriale debba tenere conto di molteplici prospettive che prendono in considerazione
diversi livelli di coordinamento. Fenomeni e azioni di natura ‘territoriale’ sono infatti
caratterizzati, da un lato, da influenze provenienti dalle diverse scale territoriali – da quella
sovranazionale a quella locale – e, dall’altro, dal contemporaneo coinvolgimento di una
81
moltitudine di attori, interessi e settori di intervento. E’ dunque soltanto tramite un’efficace
presa in considerazione della dimensione verticale e orizzontale della governance che si
possono favorire politiche virtuose di coordinamento territoriale.
Il contributo sulla coesione territoriale (§ 4), infine, ha evidenziato il carattere
controverso di questo concetto, che rischia talvolta di essere trattato alla stregua di un
‘contenitore indifferenziato’ a cui fare riferimento per legittimare scelte politiche. Quindi,
l’analisi si è concentrata sull’esplorazione del valore aggiunto che la dimensione territoriale
può fornire all’obiettivo di coesione nella sua declinazione economica e sociale. La
questione centrale che ne è emersa è il rapporto tra scale territoriali e coesione. Il concetto
di coesione territoriale nasce come obiettivo politico all’interno del dibattito comunitario
sul ‘modello sociale europeo’, ma la sua implementazione è deputata ai contesti domestici e,
dunque, al livello nazionale, regionale e locale. Sebbene la finalità di promuovere un
modello di sviluppo territoriale che possa garantire ai cittadini pari opportunità di accesso a
servizi e risorse sia condivisa, l’insieme di tensioni multi scalari implicite nel concetto di
coesione territoriale fanno sì che, a livello operativo, questa si traduca in un’insieme
eterogeneo di azioni non sempre coerente. Questa complessità induce a parlare di diverse
dimensioni territoriali della coesione, in cui le ricadute e gli impatti delle politiche sul
territorio richiedono un’analisi trasversale e multiscalare per essere individuati.
Nel tentativo di mettere a sistema gli elementi salienti emersi dai tre percorsi, una prima
serie di considerazioni che può essere qui sviluppata riguarda gli ambiti di sovrapposizione
e le relazioni che tra di questi si realizzano, nell’analizzare i processi di networking. Nella
sua forma attiva, il networking emerge infatti come esito complesso di processi che
riguardano tanto le reti, quanto la governance. Perché ci sia networking attivo occorre non
soltanto che gli attori locali siano coinvolti in relazioni che presentano determinate
caratteristiche (stabilità, transcalarità, produzione di esternalità ecc.), ma che queste ultime
siano anche oggetto di azioni esplicite di coordinamento che coinvolgono, oltre ai singoli
nodi, il sistema territoriale in senso ampio. In altre parole, è necessario che si attivino forme
di governance territoriale, che supportino e valorizzino le relazioni di networking alla scala
locale.
Meno chiaro è invece il rapporto tra coesione territoriale e processi di networking, di cui
la prima rappresenta un esito possibile, ma certamente non scontato. Le reti sono infatti
esclusive per natura. Anzi, più sono esclusive più sono vantaggiose in termini di ricadute
positive per i nodi (effetto club). Tuttavia le ricadute positive per i nodi possono anche
avere impatto di segno opposto per il territorio nel suo complesso. Ad esempio, l’emergere
di fenomeni di polarizzazione territoriale, concettualmente antitetici rispetto all’idea di
coesione, può costituire una condizione fondamentale affinché la rete continui a crescere e
a mantenere il proprio dinamismo. A sua volta, tale fenomeno può costituire un importante
fattore di crescita per il territorio e, allo stesso tempo, essere fonte di conflitti e squilibri
dannosi.
Le questioni sollevate a livello concettuale sul rapporto tra reti, governance e coesione
hanno una ricaduta diretta sulla ricerca proposta per il caso di Torino e Piemonte. In
particolare, questa ricaduta è stata articolata in una serie di elementi, di seguito raggruppati
secondo due prospettive complementari: i) politiche di rete e transcalarità; ii) metodi e
indicatori.
82
i) Politiche di rete e transcalarità.
Rispetto ai risultati attesi della ricerca elaborata da EU-POLIS, il presente working paper
ha messo in evidenza alcuni aspetti problematici della relazione tra networking, politiche di
rete e transcalarità. Sebbene l’importanza di un approccio transcalare nella ricostruzione
delle dinamiche e delle politiche territoriali in atto a Torino e in Piemonte in relazione allo
scenario nazionale, europeo e globale esca ulteriormente rafforzata, nell’applicazione del
concetto di transcalarità ai temi delle reti, della coesione territoriale e della governance
emergono alcuni nodi critici:
-
in primo luogo, occorre tenere a mente che, a differenza di reti e governance, la
coesione territoriale intesa come categoria analitica non è un concetto di natura
transcalare. Esso presenta una serie di tensioni irrisolte, che si complicano ad ogni ‘salto
di scala’. Se la coesione territoriale come concetto (nel discorso europeo) non è
transcalare, lo è invece come obiettivo di politiche (intese come fase di
implementazione) in quanto necessita di un coordinamento tra i diversi livelli
territoriali. Per essere efficace, infatti, una politica finalizzata al perseguimento della
coesione territoriale deve adattarsi ai bisogni specifici e alle caratteristiche distintive dei
territori su cui agisce, così come indicato anche dal Libro verde sulla coesione territoriale
tramite il concetto di ‘capitale territoriale’;
-
quindi, a seconda che si analizzino le reti piuttosto che i processi di governance o la
coesione territoriale che caratterizzano Torino e la sua regione, cambia l’approccio con
cui impostare l’analisi transcalare. Mentre nel caso delle reti, al variare della scala
considerata, molti dei soggetti posti al centro dell’analisi rimangono in buona sostanza
invariati (è il caso, ad esempio, dei principali enti amministrativi urbani e regionali, delle
agenzie specializzate nell’internazionalizzazione e mediazione, ecc.), nel caso delle
dinamiche di governance questo è vero solo se si adotta una prospettiva di analisi
istituzionale, ossia relativa all’architettura delle competenze dei soggetti coinvolti. Al
contrario, nel momento in cui si prende in esame il processo di definizione e
implementazione delle politiche, le relazioni di potere che legano i diversi soggetti
mutano al variare del livello territoriale coinvolto. Con riferimento alla coesione, la
questione si fa ancora più complessa, in quanto non ne esiste una definizione univoca.
A seconda della scala coinvolta esistono infatti molteplici definizioni operative, riferibili
ad altrettante interpretazioni dell’obiettivo di coesione. Inoltre, per ognuna di queste
definizioni, variano le variabili da considerare in sede di analisi;
-
in terzo luogo, alcune ambiguità emergono con riferimento alla valutazione transcalare
degli impatti delle politiche di rete e di coesione sul sistema territoriale torinese e
piemontese. Ad esempio, il fatto che i sistemi di governance e la coesione di un dato
sistema siano sempre espressione di una specifica territorialità, mentre le reti lo sono
solo quando si radicano nel territorio, pone certamente qualche problema di metodo da
tenere presente. La rete non esiste infatti nella realtà, ma si tratta di una metafora,
un’astrazione, utile a identificare e misurare delle relazioni. In questo senso non è
possibile dire che la rete è espressione di una territorialità specifica, a meno che non
riesca a farsi tramite attivo tra le istanze locali e le logiche sovralocali che hanno dato
vita alle suddette relazioni. Una seconda ambiguità è relativa alle modalità con cui
azioni a scala sovra-locale incidono sulle capacità dei territori di auto-organizzarsi in
processi di sviluppo locale. È infatti possibile che politiche di rete, implementate per
sostenere l’internazionalizzazione e la competizione del sistema di riferimento (e quindi
fondamentalmente orientate a cogliere occasioni sviluppate alla scala sovralocale), non
83
diano risposte ai reali bisogni espressi e/o percepiti dalla società locale. Ma questo
contrasta con il ruolo curativo che, insieme con quello performativo, è implicito nel
perseguimento dell’obiettivo della coesione territoriale.
ii) Metodi e indicatori
Un’esigenza che emerge nell’implementare la ricerca è infine quella di poter individuare
un sistema adeguato di strumenti di indagine e misurazione (criteri, indicatori ecc.) dei
processi di networking che coinvolgono Torino e il Piemonte. Questa esigenza si scontra
spesso però con:
-
l’assenza di metodologie consolidate e la contingente e cronica assenza di dati. Con
riferimento alle reti, notevoli progressi sono stati compiuti soprattutto nelle tecniche di
analisi e georeferenziazione delle reti di relazione: attraverso software complessi e
raffinati algoritmi, in molti casi disponibili in open source, è oggi possibile analizzare
praticamente qualsiasi tipo di rete. Ciò nondimeno, le banche date che forniscono dati
di natura relazionale, da inserire come input nei modelli di calcolo sono in genere rare
e difficilmente comparabili a livello internazionale. Inoltre, i modelli interpretativi delle
misurazioni così ottenute sono spesso eccessivamente astratti e indifferenti alla
relazione che si stabilisce tra le reti e i territori in queste coinvolti (attraverso i nodi
della rete). Nel caso della governance, in particolare, il processo di misurazione delle
capacità di governance territoriale dei diversi territori è un fenomeno che si avvale di
tentativi per lo più recenti, così come evidenziato nella sezione relativa a tale
argomento. Proprio per tale ragione, e dunque a causa della mancanza di una
metodologia consolidata, i criteri e gli indicatori identificati dai vari esercizi progettuali
(ad es. il progetto ESPON 2.3.2. Governance) assumono un carattere fortemente
sperimentale, oltre ad essere spesso incoerenti e in certi casi decisamente opinabili. In
merito al tema della coesione territoriale, la necessità di individuare indicatori è
ribadita con forza all’interno del dibattito scientifico sulle politiche comunitarie
dedicate a tale tema. Il recente Rapporto Barca (2009), nel delineare le future
prospettive per una possibile riforma della politica di coesione, denuncia l’assenza di
indicatori di efficacia e di impatto territoriale che si basino su metodi controfattuali,
ossia che valutino l’effetto di un’azione confrontando ciò che si potrebbe verificare
dopo l’azione e in sua assenza. Gli indicatori che vengono attualmente predisposti e
utilizzati per la valutazione delle politiche di coesione riguardano la correttezza del
processo e delle pratiche, ma non analizzano in alcun modo il raggiungimento degli
obiettivi prefissati. Il tema dell’individuazione di metodi di valutazione della coesione,
soprattutto per la dimensione territoriale è stato affrontato in precedenza anche
all’interno di una ricerca francese, che ha portato Graslad e Hamez alla definizione di
un “Indicatore Integrato di Coesione Territoriale” nel 2005. In ultimo, la transcalarità,
tema che grande spazio ha nella riflessione qui condotta, diventa centrale anche nella
valutazione, infatti le diverse scale territoriali cui si riferiscono le politiche di coesione
definiscono diversi aspetti da valutare. In questa direzione si collocano le indicazioni
contenute nel rapporto INCOTER curato da alcuni esponenti di EU-POLIS in cui si
sottolinea come il risultato più importante di un metodo che permetta la valutazione
qualitativa della dimensione territoriale della coesione sia guidare gli attori coinvolti nei
processi di sviluppo locale ad analizzare i contesti adottando una visione multiscalare
dei problemi e non solo circoscritta al locale. A chiusura di questa prima riflessione su
metodi e indicatori, inoltre si denuncia la quasi totale assenza di approcci di tipo
84
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dinamico nell’analisi dei processi di networking che potrebbe molto utile soprattutto
nell’analisi di reti e relazioni di tipo immateriale;
l’esistenza di processi di omologazione nelle procedure di misurazione, spesso legati
alla necessità di disporre di dati confrontabili, che però rischiano di allontanarsi dalla
possibilità di cogliere specificità degli ambiti territoriali di riferimento. A tal proposito,
vale la pena sottolineare come l’Unione europea, ad esempio, fornisca direttive
specifiche sia in tema di coesione sia nell’ambito della governance. A detta di diversi
autori, in anni recenti, tale fenomeno ha contribuito ad una progressiva convergenza di
obiettivi e modalità operative (pratiche e procedure) sia per quel che riguarda i diversi
Stati membri, sia in relazione ai vari livelli territoriali.. In tale ottica è interessante
pensare di valutare se, fino a che punto, e secondo quali modalità le realtà di Torino e
del Piemonte si adeguino o meno tale trend.
In conclusione, è interessante sottolineare come un approccio reticolare sia
indispensabile per analizzare i fenomeni di governance territoriale. Allo stesso tempo, le
azioni di governance possono favorire, attraverso l’individuazione di figure neutrali che
ricoprano il ruolo di ‘arbitro’ fra i vari interessi in gioco, la formazione e la funzionalità
delle reti. Ma se, da un lato, il concetto di rete presenta una natura fortemente descrittivoprocedurale ed è, nella sua applicazione, dotato di un’accezione ‘neutra’, d’altro canto, il
concetto di coesione territoriale rappresenta un tema di natura normativa, che
implicitamente richiama alla necessità di promuovere l’eguaglianza fra le potenzialità di
sviluppo dei diversi territori, come espressione di una valutazione politica di uno specifico
progetto di territorio. All’interno di tale contesto, se la metafora della rete si presta a
spiegare diversi tipi di relazioni, tra cui anche quelle più competitive o conflittuali, il
concetto di governance territoriale, assegnando al settore pubblico il ruolo di arbitro e
garante degli interessi in gioco, costituisce un potenziale ‘ponte’ fra reti e coesione
territoriale, introducendo quest’ultima quale obiettivo e visione condivisa nel nome del
quale sono organizzate le azioni delle prime. E’ infatti proprio all’interno della definizione
politica degli obiettivi da perseguire che la coesione territoriale emerge quale tentativo di
controbilanciare alcuni effetti connaturati della partecipazione alle reti e all’affermazione di
processi esclusivi di governance-oltre-lo-Stato.
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Cenni sugli autori
Silvia Bighi è architetto e Dottore di ricerca in Pianificazione territoriale e sviluppo locale presso il Politecnico di
Torino. Attualmente è titolare di assegno di ricerca all’interno del Progetto Alfieri, sul tema “Coesione
territoriale a Torino e in Piemonte: politiche e dinamiche in atto” e collaboratore didattico presso EUPOLIS|Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino. L’attività di ricerca si è
concentrata principalmente su due filoni: il primo relativo alla città in ambito europeo, con particolare
attenzione alle problematiche relative alla rigenerazione urbana; il secondo relativo all’Etica pubblica. Tra il
2007-2009 partecipa al progetto di ricerca promosso dallo Human Development, Capability and Poverty IRC centro di ricerca dell’Istituto Universitario Studi Superiori Pavia – IUSS sul tema “Città, benessere e
povertà: l’impatto sociale del degrado ambientale in contesti urbani”. Collabora: nel periodo 2005-2007 con la
Regione Piemonte per la valutazione finale dei PISL-Programmi Integrati di Sviluppo Locale, febbraio-aprile 2009
con il Comune di Trofarello per la preparazione del dossier di candidatura del Bando regionale Programma di
riqualificazione urbana per alloggi a canone sostenibile a cura del DITer, da luglio 2009 con il Comune di Torino per
un approfondimento sulla rete commerciale volta a trovare le sinergie con le azioni previste all’interno del
Piano Integrato di Sviluppo Urbano (PISU)-Urban III “Barriera di Milano”.
Cristiana Cabodi ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Mercato
Immobiliare presso il Politecnico di Torino. Attualmente è borsista presso il DITER, con borsa di ricerca del
Progetto Alfieri, sul tema “Reti e politiche di networking attivo di Torino e del Piemonte”. Nel 2008 ha preso
parte alla ricerca legata alla Convenzione SiTI–EU-POLIS “Benchmarking della competitività dei sistemi
urbani e territoriali del Piemonte in ambito europeo”. Tra 2005 e 2008 è stata assegnista di ricerca presso il
DITER nell’ambito di “Piani e progetti di sviluppo e riqualificazione urbana e territoriale”, volto a redigere il
quadro strutturale regionale alla base del nuovo Piano Territoriale Regionale. Ha partecipato ai programmi
nazionali Returb, ITATeN e ha collaborato a ricerche su programmi integrati urbani. Ha collaborato al
progetto di ricerca per il monitoraggio e valutazione del Programma Urban Italia “Venaria Unica”, alla ricerca
Linee guida per la valutazione di progetti e programmi complessi per il “Progetto CVT – Centri valutativi
territoriali”, Programma Interreg IIIB Medoc, è stata consulente per il Consorzio METIS del Comune di
Seregno per definire, coordinare e implementare le azioni previste dal Programma Urban. Svolge attività
didattica presso la II Facoltà di Architettura. Temi di ricerca principali sono: Nodi infrastrutturali e logistica,
Analisi territoriali, Programmi urbani integrati.
Giancarlo Cotella è Dottore di ricerca in pianificazione territoriale e sviluppo locale. Attualmente è assegnista di
ricerca e collaboratore didattico presso Eu-polis|Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e
Università di Torino. I suoi studi si collocano nell’ambito della governante territoriale, concentrandosi sulle
reciproche contaminazioni fra politiche territoriali comunitarie e contesti domestici di governo del territorio e,
in particolare, sull’impatto del processo di allargamento dell’UE in Europea Centro Orientale. In anni recenti
ha svolto attività di ricerca presso diverse strutture internazionali, fra cui l’Università di Newcastle, la Polish
Academy of Science e l’Hungarian Academy of Science, collaborando a diversi progetti di ricerca di matrice
comunitaria. Ha inoltre svolto attività didattica nell’ambito dell’Alta Scuola Politecnica e presso l’Università
Politecnica di Wroclaw. Da gennaio 2007 è membro del Comitato esecutivo dell’Assocation of European
Schools of Planning (AESOP).
Germana Chiusano laureata in Architettura presso il Politecnico di Torino e dottore di ricerca in
Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale, presso il Dipartimento Interateneo Territorio, Facoltà di
Architettura, Politecnico e Università degli Studi di Torino. E’ attualmente assegnista di ricerca presso il
Dipartimento Interateneo Territorio e svolge attività di ricerca scientifica, in particolare in Africa saheliana,
sui temi della cooperazione allo sviluppo, dello sviluppo locale e delle politiche ambientali (analisi dei processi
di co-management nelle aree protette) attraverso l’applicazione di metodi di ricerca-azione. E’ membro del
Centro di Ricerche Interdipartimentale di Studi sull’Africa Occidentale (CISAO) e svolge prolungate missioni
di ricerca sul terreno in alcuni paesi dell’Africa saheliana.
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Angela de Candia è Dottore di Ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale. Dal 2005 collabora
con il centro Eu-polis partecipando a ricerche nazionali e internazionali. In particolare ha preso parte
all’attività di monitoraggio e valutazione del programma Urban Italia “Venaria Unica” attraverso una borsa di
studio ed ha collaborato al progetto di ricerca promosso dal Centro EU-POLIS e SiTi, nel quadro della
convenzione “Benchmarking della competitività e della coesione urbana in Europa”. L’attività di formazione
e di ricerca è stata inoltre arricchita dal periodo di studio presso l’Università di Newcastle “Postgraduate
Certificate in European Spatial Planning” (2007). Dal 2009, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento
Interateneo Territorio con un progetto che si propone di investigare le potenzialità interpretative del concetto
di “regione urbana globale” nel quadro urbano e metropolitano del Piemonte. Temi di ricerca prevalenti
sono: politiche territoriali transcalari e policentrismo, sviluppo territoriale e competitività, sviluppo locale e
progettazione integrata
Alberta de Luca ha conseguito la laurea in Scienze Politiche e il dottorato di ricerca in Geografia dello
Sviluppo presso l’università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Attualmente è assegnista di ricerca presso il
Dipartimento Interateneo Territorio (DITer) del Politecnico e Università di Torino e dal 2007 collabora con il
centro EU-POLIS per le attività di ricerca. E’ docente a contratto presso la II Facoltà di Architettura del
Politecnico di Torino e la Facoltà di Economia dell’Università di Torino. Ha svolto attività di ricerca all’estero
(a Lisbona e Parigi) e ha partecipato a diversi progetti di ricerca in collaborazione con centri di ricerca
pubblici e privati. I suoi interessi di ricerca si concentrano su tematiche di sviluppo urbano e regionale.
Francesca S. Rota è Dottore di ricerca in Pianificazione territoriale e sviluppo locale. Dal 2006 è Assegnista presso
il Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico e Università di Torino, svolgendo attività di ricerca sui
temi del benchmarking territoriale, della competitività e dell’ancoraggio territoriale delle reti. Attualmente, è
titolare di una Borsa di Post Dottorato, cofinanziata dalla Regione Piemonte. Dal 2006 ricopre il ruolo di
Docente a contratto in Geografia economica presso l'Università degli Studi di Torino. Ha partecipato a diversi
progetti - locali e internazionali (Interreg) - in collaborazione con enti (Finpiemonte SpA, CEIPiemonte,
OECD), strutture universitarie e centri di ricerca (SiTI, IRES Piemonte, Comitato GiorgioRota, Corep). Temi
di ricerca prevalenti sono: benchmarking e competitività territoriale, sviluppo locale, reti di relazione,
geografia industriale, marginalità socioeconomica.
Nadia Tecco è ricercatrice presso il Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino.
Laureatasi in Scienze Internazionali e Diplomatiche ha conseguito il Dottorato di ricerca in Analisi e
Governance dello Sviluppo Sostenibile presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi sulla
sostenibilità ambientale dell’adozione delle sementi transgeniche in America Latina. Durante il dottorato ha
collaborato con il Global institute of Sustainability dell’Arizona State University. Svolge attività di ricerca
nell’ambito dell’ecologia politica, in particolare per quello che riguarda la tutela della biodiversità nelle aree
protette e nei sistemi agro-economici dei paesi in via di sviluppo.
Alessia Toldo è Dottore di Ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale. È assegnista di ricerca
presso il Dipartimento Interateneo Territorio con un progetto sulla governance dei bacini fluviali. Dal 2004
collabora con il centro EU-POLIS partecipando a ricerche nazionali e internazionali. In particolare ha preso
parte al progetto Espon 2.3.1 “Application and Effect of the ESDP in the Member States” e al Programma di
Interesse Nazionale “Sviluppo Locale: Attori, Progetti, Territorio, Territorialità”. Ha collaborato all’attività di
ricerca promossa dal Comitato Promotore della Fondazione delle Province del Nord Ovest e all’attività di
monitoraggio del programma Urban Italia “Venaria Unica”. Nell’a.a. 2008/2009 è docente a contratto per il
corso di Geografia presso la Facoltà di Architettura I del Politecnico di Torino. Temi di ricerca prevalenti
sono: Politiche territoriali transcalari e policentrismo, Sviluppo locale e progettazione integrata, Politiche di
governo dei bacini fluviali.
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DIPARTIMENTO INTERATENEO TERRITORIO
DEL POLITECNICO DI TORINO E DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO
Collana di studi e ricerche
Presentazione
La collana raccoglie i risultati di studi, ricerche, seminari, convegni, ecc. svoltisi nell’ambito o con la
collaborazione del DIT. Essa ha lo scopo di documentare i risultati dell’attività scientifica del Diparti-mento,
con particolare riferimento alle problematiche di interesse regionale e locale, e di permettere la diffusione
presso istituzioni corrispondenti, biblioteche, studiosi, studenti e persone di cultura.
La collana è pubblicata presso la Libreria Cortina s.r.l., Corso Marconi 34/A - Torino
Direzione editoriale:
C. Carozzi, G. Dematteis, L. Falco, F. Sforzi
Impostazione grafica, stampa e allestimento:
Dipartimento Interateneo Territorio, LARTU
Preparazione del testo per la stampa:
Cinzia Pagano
Volumi pubblicati nella collana:
Carla Lanza Dematteis (a cura di), Interpretare una regione. Geografia del Piemonte che cambia, 1990, Quaderno n°1
Attilia Peano, (con la collaborazione del gruppo di valutazione), Valutazione di impatto ambientale. Un caso di
applicazione, 1990, Quaderno n°2
Luigi Falco, Silvia Saccomani, Programma Pluriennale di attuazione e industria, 1991, Quaderno n°3
Carlo Carozzi, Maurizio Tiepolo, Congo Brazzaville, Bibliografia generale - Bibliographie générale, 1991, Quaderno
n°4
Daniela Santus, Percezione e realtà dei santuari piemontesi. Ricerca di geografia della religione, 1992, Quaderno n°5
Attilia Peano (a cura di), Insegnamento, ricerca e pratica in urbanistica, 1993, Quaderno n°6
Egidio Dansero, Dentro ai vuoti. Dismissione industriale e trasformazioni urbane a Torino, 1993, Quaderno n°7
Paolo Chicco, Daniela Grognardi, Torino Fiat, Centro Direzionale: 1975/1990, 1994, Quaderno n°8
Carlo Carozzi, Maurizio Tiepolo, Congo Brazzaville. Bibliografia generale. Primo aggiornamento, 1995, Quaderno
n°9
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WORKING PAPERS PUBBLICATI:
n. 1
Sergio Conti, La città e la transizione post-socialista in Europa centro-orientale, 1994
n. 2
Piero Bonavero, Egidio Dansero, La demografia delle attività produttive in Piemonte. Un’analisi territoriale,
1994
n. 3
Paolo Chicco, Silvia Saccomani, Torino: dal progetto preliminare al piano. I lavori della commissione
urbanistica del consiglio comunale, 1994
n. 4
Paolo Chicco, Umberto Janin Rivolin Yoccoz, La cultura dei centri storici. Alcune riflessioni sul caso
italiano, 1995
n. 5
Paolo Chicco, Luigi Falco, Maria Garelli, Silvia Saccomani, Un’esperienza didattica. La
riprogettazione della città pubblica, 1995
n. 6
Maurizio Tiepolo, Urban Land: a Bibliography for Developing Countries (1986-1995), 1996
n. 7
Egidio Dansero (a cura di), Le aree dismesse: un problema, una risorsa, 1996
n. 8
Paolo Giaccaria, Territorio e Vita Artificiale. Modellizzazione di un distretto industriale mediante simulazioni
fondate su agenti, 1996
n. 9
Francesco Adamo, Development models and experiences of manufacturing SMEs in Italy, 1996
n. 10
Paolo Giaccaria, Imprese, aggregati manifatturieri e sistemi del valore. Fondamenti per una nuova geografia della
regione torinese, 1997
n. 11
Cristiana Cabodi e Cristiana Rossignolo (a cura di), Le periferie urbane tra locale e globale. Itinerari
didattici e materiali dai corsi di Geografia urbana e regionale 1995-96 e 1996-97 (prof. Giuseppe Dematteis), 1998
n. 12
Egidio Dansero, Carolina Giaimo, Agata Spaziante (a cura di), Sguardi sui vuoti. Recenti ricerche del
Dipartimento Interateneo Territorio sulle aree industriali dismesse, 1998
n. 13
Egidio Dansero, Giuseppe Dematteis (a cura di), Sistemi locali e reti globali. Appunti di geografia
politica ed economica, 1999
n. 14
Cristiana Cabodi, Maria Teresa Gabardi, Michela Ottanà, Gli indicatori ambientali urbani.
(Materiali del Dottorato di ricerca in Pianificazione Territoriale e Mercato Immobiliare), 1999
n. 15
Francesca Governa (a cura di), Territorio e sviluppo locale. Teorie, metodi, esperienze, 2000
n. 16
Egidio Dansero, Francesca Governa (a cura di), Patrimoni industriali e sviluppo locale, 2001
n. 17
Alessandra Spada (a cura di), Conoscenza, regolazione, comunicazione. Le rappresentazioni del territorio tra
geografia e urbanistica. (Materiali del Dottorato di ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo locale),
2001
n. 18
Paolo Chicco, Luigi Falco (a cura di), Progettualità e vitalità delle periferie torinesi, 2001
n. 19
Hilda Ghiara, Alessandra Marin, Leonardo Visco-Gilardi, L’approccio negoziale alla pianificazione
territoriale. (Materiali del Dottorato di ricerca in Pianificazione Territoriale e Mercato Immobiliare),
2001
n. 20
Alberto Vanolo, Città, gerarchie e potere. Un discorso sociologico e geografico. (Materiali del Dottorato di
ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale), 2001
n. 21
Fiamma Bernardi, Grazia Brunetta, Agata Spaziante, La valutazione della sostenibiulità ambientale di
progetti, programmi e piani in ambito urbano, 2002
n. 22
Gastaldi, Il capitale sociale: rassegna delle concettualizzazioni, (Materiali del Dottorato di ricerca in
Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale), 2002
n. 23
Mario Artuso, Francesco Gastaldi, Alessandra Spada, Programmazione economica e regolazione degli
usi del suolo nel dibattito sugli strumenti della pianificazione locale, (Materiali del Dottorato di ricerca in
Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale), 2002
90
n. 24
Angelo Besana, Giuseppe Dematteis, Cristiano Giorda, Anna Segre, Caterina Simonetta
Imarisio, Tracce di SloT in Provincia di Torino: il caso di studio Valli di Lanzo, 2003
n. 25
Angioletta Voghera, La sostenibilità nella politica europea per l’ambiente, (Materiali del Dottorato di ricerca
in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale), 2004
n. 26
Silvia Chiara Ceretto Casigliano, Daniela Ciaffi, Federica Corrado, Luisa Debernardi, Quattro
percorsi bibliografici del XVI ciclo, (Materiali del Dottorato di ricerca in Pianificazione Territoriale e
Sviluppo Locale), 2004
n. 27
Elisa Bignante, Lo sviluppo locale in ambito rurale: una rassegna della bibliografia, (Materiali del Dottorato
di ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale), 2005
n. 28
Egidio Dansero, Marco Santangelo, Progetti, attori,Territorio, territorialità, 2006
n. 29
Paolo Giaccaria, Francesca Governa, Lo sviluppo locale in Europa, 2006
n. 30
Egidio Dansero, Cristiano Lanzano, Territorio, cultura e sviluppo in Africa. Ricerche sul campo tra
geografia, economia e antropoligia, 2007
n. 31
Cristiana Cabodi, Cristiana Rossignolo, Francesca Silvia Rota, Competizione e coesione di Torino in
Europa e nel sistema regionale, 2009
n. 32
Silvia Bighi, Giancarlo Cotella, Francesca Silvia Rota, Torino e Piemonte fra locale e globale. Politiche
di rete e ancoraggi territoriali: Tre percorsi per la ricerca, 2010
PUBBLICAZIONI FUORI SERIE:
n. 1
Grazia Brunetta, Francesca Governa (a cura di), Analisi territoriale, pianificazione urbanistica,
problematica ambientale. Tre temi per un confronto sulle ricerche dei dottorati in pianificazione territoriale e
urbanistica, 1996
I Working Paper e le Pubblicazioni Fuori Serie sono reperibili presso la sede del
Dipartimento (DITER – Politecnico e Università di Torino – Viale Mattioli, 39 – 10125
Torino, tel. 011/5647465).
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