4. Il tofet e il sacrificio punico dei bambini

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4. Il tofet e il sacrificio punico dei bambini
Il santuario detto “tofet” e la questione del sacrificio punico dei bambini
Estate del 217 a.C.; presso Annibale che in Toscana preparava la battaglia sul
Trasimeno giunsero senatori da Cartagine, portatori di tristi notizie. Era usanza
della nazione fondata dalla principessa Didone, esule da Tiro, implorare col
sangue il favore divino e porre sugli altari accesi - orribile a dirsi - bambini ancora
piccoli. Ogni anno l’urna del sorteggio rinnovava penosi eventi, imitando i sacrifici
offerti a Diana nelle terre di Toante, mitico re dei Tauri. E ora Annone, da sempre
nemico di Annibale, reclamava al destino e alla sorte, secondo l’usanza, il figlio del
condottiero. Ma prevaleva la paura di Annibale in armi: la figura del padre, che
tornava furioso a Cartagine, s’ergeva possente dinanzi agli occhi di tutti.
Intensificava i timori la sposa di Annibale, Imilce: con le gote ferite e la chioma
lacera, la donna riempiva la città di lugubri grida; e chiamava lo sposo, perché tornasse a
impedire quell’orrendo sacrificio; e s’offriva come vittima sostitutiva, per soddisfare i voti
comuni. Tutto questo induceva alla cautela i senatori inviati ad Annibale, esitanti fra il timore
degli dèi e quello del condottiero; essi lasciarono dunque al padre la scelta, se ricusare la sorte
od obbedire ai precetti del culto. E Annibale così replicò: “Quale ricompensa degna di te dovrò
trovare, Cartagine, madre mia? Sarò in armi notte e giorno, e farò sì che da qui vengano ai tuoi
templi numerose vittime della stirpe di Quirino. Ma sia risparmiato il mio ragazzo, erede delle
mie imprese e della guerra. E voi, dèi della patria, i cui templi sono onorati col sangue, voi che
gioite di tributi che atterriscono le madri, volgete qui propizi i vostri sguardi: altari e sacrifici
più grandi mi accingo ad allestire per voi. Tu Magone prendi posizione sulla cima del monte
che sta di fronte; tu Coaspe avvicinati alle colline di sinistra, e tu Sicheo, avanzando al riparo,
conduci gli uomini verso le gole e le forre. Io perlustrerò rapido le rive del Trasimeno e
cercherò le primizie della guerra destinate agli dèi. Non è una vittoria da poco quella che il dio
m’assicura con chiare promesse; voi, messaggeri, vi assisterete e riferirete in patria”.
Così parlò Annibale, secondo lo scrittore latino Silio Italico che racconta l’episodio nei
Punica, cioè nell’epopea da lui composta nel I secolo d.C. per celebrare la gloria di Roma. Gli
avvenimenti delle guerre puniche sono trattati dal poeta con grande libertà, in un’esposizione
volutamente romanzata. E nei versi 763-829 del IV libro, più sopra compendiati, Silio
apertamente fantastica su un figlio nato ad Annibale sotto le mura di Sagunto assediata e
inviato dal generale a Cartagine, con sua madre, prima della spedizione in Italia; e favoleggia
sul sacrilegio di un condottiero che rifiuta d’offrire suo figlio per il sacrificio prescritto e in
cambio promette ben altri eccidi nella battaglia imminente; e immagina il panico d’una madre
che scongiura d’abbandonare quel selvaggio rito di morte.
Sacrificio annuale, scrive Silio Italico, di fanciulli tirati a sorte. Sono, questi, particolari
inediti nelle letterature greca e latina, che pure contengono varie notizie sull’abitudine
cartaginese di sacrificare vittime umane e particolarmente fanciulli, secondo un costume
ereditato dalla madrepatria. Con riferimento alle guerre puniche, ad esempio, lo aveva
asserito il poeta latino Quinto Ennio nel II sec. a.C., scrivendo negli Annali (fr. 221): “I
Cartaginesi sono soliti sacrificare agli dèi i loro bambini”. E solo un paio d’anni prima di Silio
Italico, lo aveva riferito anche Q. Curzio Rufo, raccontando in latino gli avvenimenti relativi
all’assedio di Tiro, nel 332 a.C. Allora, secondo questo autore (IV 3,23), per fronteggiare
l’assedio di Alessandro Magno “alcuni suggerirono di riprendere un sacrificio che io non so
credere bene accetto agli dèi e che era stato abbandonato da secoli, ormai: l’immolazione a
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Saturno di un fanciullo di famiglia libera. Tale sacrilegio, più che sacrificio, tramandato dai
fondatori, si dice che sia stato praticato dai Cartaginesi fino alla distruzione della loro città; e
se non si fossero opposti gli anziani per consiglio dei quali si faceva ogni cosa, una crudele
superstizione avrebbe trionfato sui sentimenti di umanità”. Con probabile riferimento al
medesimo assedio di Tiro, aveva dato notizia del costume fenicio, già verso il 310 a.C., il greco
Clitarco, in un’opera della quale sono rimasti solo frammenti, citati da scrittori posteriori. In
uno di questi frammenti, riferito da uno scolio alla Repubblica di Platone (§ 337 A) per
spiegare l’espressione “riso sardonico”, si legge infatti che secondo Clitarco, “i Fenici e
soprattutto i Cartaginesi che venerano Kronos quando desiderano ottenere qualcosa d’assai
rilevante, fanno voto di offrire in sacrificio al dio uno dei loro figli se ottengono quanto
vogliono. V’è presso di loro una statua bronzea di Kronos, in piedi, che stende le mani, con le
palme rivolte verso l’alto, sopra un braciere di bronzo, che brucia il fanciullo. Quando le
fiamme avvolgono il corpo, s’irrigidiscono le membra della vittima e il suo viso sembra tirato
come quello di chi ride, finché, in un ultimo spasmo, il bimbo cade nel braciere. Perciò questo
riso ghignante è detto sardonico, perché essi muoiono ridendo”. A Roma, alla fine dell’età
repubblicana, Clitarco era un autore di moda, seppur considerato un romanziere,
immeritevole di credito. Alla fine del I sec. d.C., Diodoro Siculo riprese comunque il tema del
sacrificio e della statua bronzea, descrivendo l’assedio di Cartagine nel 310 a.C. da parte di
Agatocle di Siracusa. “Attribuendo agli dèi la catastrofe che li aveva colpiti, scrive Diodoro (XX
14,1-7), i Cartaginesi si diedero a suppliche di ogni genere. (…) Si rimproverarono anche
d’essersi reso ostile il dio Kronos, perché avendo anticamente l’uso di sacrificargli i migliori
dei loro figli, più recentemente avevano destinato al sacrificio fanciulli comprati e nutriti a tale
scopo. Furono fatte indagini e si scoprì che alcuni di quelli sacrificati avevano sostituito le vere
vittime. Riflettendo su questo fatto e vedendo il nemico accampato ormai davanti alle mura
della città, furono tutti presi da un timore superstizioso, per aver abbandonato le onoranze
tradizionali alle divinità. Nello zelo di porre rimedio alla propria negligenza, essi procedettero
a un sacrificio pubblico di duecento fanciulli, scelti tra le famiglie più illustri. E altri ancora,
per timore, s’offrirono volontariamente al sacrificio, in numero non inferiore a trecento. V’era
presso di loro una statua di bronzo raffigurante Kronos, con le mani tese, le palme in alto e
inclinate verso terra così che il fanciullo postovi sopra cadeva giù, in una voragine di fuoco”.
Per i Greci e per i Romani l’immolazione di vittime umane era un costume aborrito,
rifiutato dagli dèi. Entrambi i popoli lo consideravano inattuale, cioè praticato dagli antenati
con esiti nefasti e perciò abbandonato (sia pure con qualche eccezione); oppure lo ritenevano
ancora attuale ma solo presso i popoli che vivevano ai confini della (loro) civiltà. Vi sono
dunque varie testimonianze sul sacrificio umano attuato dai Barbari, in testi nei quali il dato
storico si mescola spesso all’immaginazione mitica o alla finzione letteraria: come quello dei
prigionieri in uso tra i Galli, quello degli stranieri tra i Tauri della Scizia, e quello dei bambini,
appunto, tra i Cartaginesi.
Ben si comprende, pertanto, che Silio Italico abbia voluto esaltare la grandezza di Roma
rispetto alla barbarie punica, colorendo di toni orridi la scena della richiesta di sacrificare il
figlio di Annibale. Ma è pure evidente che si tratta qui della rielaborazione poetica di un tema
narrativo, cioè d’una narrazione polemica, non descrittiva; sicché nessuno storico moderno dà
oggi credito alle notizie su quel fanciullo di pochi anni destinato al sacrificio tramite sorteggio,
su quel freddo rifiuto del generale, su quelle grida scomposte della sposa e madre sgomenta
Imilce.
Questi, comunque, sono i dati offerti dalla documentazione letteraria antica, ripetutamente
e con altri utilizzati nella storiografia su Cartagine per stabilire che i Cartaginesi praticarono
senz’altro l’immolazione di bambini, secondo un rito ereditato dai Fenici della madrepatria, i
quali, per contro, l’avrebbero presto abbandonato. Dell’origine orientale di quel rito davano
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prova anche i libri della Bibbia ebraica, che parlano a più riprese del rito di far passare per il
fuoco i propri figli da parte degli Israeliti idolatri alla fine del VII sec. a.C., in (onore di) molek
(Moloch in traduzione greca), in un luogo detto tofet, giusto fuori Gerusalemme, nella valle di
Ben Hinnom (cf. ad esempio 2 Re 23,10; Geremia 7,31-32 e anche Levitico 18,21 e 20,2-4;
Deuteronomio 12,31 e 18,10; Geremia 19,11-14 e 32,35; Isaia 30,33).
E questo, fino agli anni ’20 del Novecento, era lo stato delle conoscenze, riassunto da
Stéphane Gsell per ricostruire su base letteraria i sacrifici umani cartaginesi, celebrati
pubblicamente nell’interesse di tutti. In quegli stessi anni, intanto, riaffioravano a Cartagine
migliaia di stele e di urne del santuario di Tanit (o Tinnit) e di Baal Hammon, che dovevano
poi tornare alla luce anche negli scavi di altri centri punici del Mediterraneo centrale e più
precisamente in Tunisia (a Sousse/Hadrumetum e altrove), in Algeria (a Constantine), in
Sicilia (a Mozia), in Sardegna (a Sulcis, Tharros, Monte Sirai e precedentemente anche a Nora),
rivelando un tipo di luogo sacro tanto ricorrente quanto peculiare nel mondo fenicio
d’Occidente. Le urne contenevano infatti per la gran parte ossa di bambini in tenera età,
oppure di animali, per lo più agnelli di pochi mesi; molte stele, inoltre, recavano iscrizioni
dedicatorie, lasciate dai fedeli in memoria di un voto fatto perché gli dèi “hanno ascoltato (o:
“ascoltino”) la loro voce”. Così, presto questo tipo di santuario venne collegato ai dati letterari
classici sul sacrificio di fanciulli e a quelli biblici sul rito di passaggio nel fuoco. Nel giro di
qualche decennio si adottò inoltre per questo tipo di area sacra, con le stele votive e le urne
cinerarie, la definizione biblica di tofet, che viene utilizzata ancora oggi.
Gli dèi “che terrorizzano le madri”, secondo l’espressione posta sulle labbra di Annibale da
Silio Italico, erano dunque individuabili con precisione, perché i loro nomi erano nelle
iscrizioni sulle stele dei tofet: si trattava di Baal Hammon (l’equivalente punico del greco
Kronos e del latino Saturno) e della dea sua compagna, Tanit; e pochi studiosi restarono in
dubbio che l’archeologia avesse realmente rivelato l’area sacra destinata dai Cartaginesi al
sacrificio sistematico di vittime infantili. Sulle stele di Cartagine e degli altri tofet, inoltre, gli
epigrafisti cominciarono a leggere non solo il nome dei dedicanti e dei divini destinatari della
pietra eretta in ricordo della cerimonia compiuta, ma anche il nome di un rito, verosimilmente
un sacrificio, che ripeteva, nella grafia punica senza indicazione delle vocali, le consonanti del
biblico molek, riferito al tofet: MLK, variamente e ulteriormente precisato. Su una stele arcaica
di Cartagine (CIS I 5685) si legge ad esempio: “Stele di un MLK BcL che ha dato Magon figlio di
Hanno a Baal Hammon”. Così venne stabilita anche la fine del biblico Moloch: quel termine,
sostenne già nel 1935 Otto Eißfeldt, non indica una divinità, bensì un sacrificio. Anche la
Bibbia, insomma, parlerebbe di un olocausto di fanciulli “nel (rito) molk” e non “in onore di
Moloch”. Una formula, in particolare, sembrò chiara e significativa: MLK’MR, che si trova
trascritta in latino come molchomor, morc(h)omor e mochomor, su alcune stele dall’Algeria e
bene s’interpreta come “(sacrificio) molk di un agnello”, offerto da coppie di genitori, come
voto per la salute (compromessa) di un figlio.
Nell’ipotesi avanzata, dunque, il tofet era il luogo in cui i Punici sacrificavano i loro figli nel
fuoco, prima di seppellirne i resti e di erigere una stele a memoria del rito. Il ritrovamento di
urne contenenti soltanto resti di animali sembrò documentare anche l’abbandono, col tempo,
del sacrificio umano e la sua sostituzione con l’offerta di un agnello. Per alcuni studiosi si
trattava del sacrificio sistematico del primogenito di ogni famiglia; per altri di una cerimonia
per assicurare la fecondità femminile o quella delle coltivazioni, il benessere della collettività
o dei suoi capi. Qualcuno ha anche ipotizzato che i resti umani rinvenuti nei tofet siano i
risultati di un metodo di controllo delle nascite, giustificato da una forte pressione
demografica; si tratterebbe insomma d’infanticidi, mascherati dalla ritualizzazione dell’atto
per ridurre i costi psicologici dell’uccisione di un figlio.
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Nello sviluppo degli studi punici, tuttavia, la realtà dei tofet si è dimostrata assai più
complessa di quanto non dicano queste ricostruzioni omologanti. Vi sono, senza dubbio
elementi ricorrenti e caratterizzanti. Si tratta sempre di santuari a cielo aperto, qualificati
dalla presenza di deposizioni d’urne cinerarie e di pietre votive, in un complesso sacrale che
prevede anche spazi coperti, pozzi, altari, cappelle. Si tratta inoltre di santuari “cittadini”, cioè
sorti in funzione di una comunità urbana già ben organizzata. Altra caratteristica è la
delimitazione dell’area, racchiusa da muri o da particolari configurazioni del terreno e
normalmente situata alla periferia dell’abitato; in mancanza di spazio per nuove deposizioni
non si allargava la superficie del tofet ma si gettava terreno di riporto sul livello precedente,
predisponendo il suolo per le nuove deposizioni.
Eppure, si può parlare del tofet come luogo dei sacrifici umani solo trascurando molti
elementi discordanti con tale definizione, pure testimoniati dalla documentazione.
Emerge in primo luogo, sul piano archeologico, la necessità di prestare interesse alla
sequenza e tipologia delle deposizioni, che attestano mutamenti nel tempo delle funzioni
dell’area sacra e dei riti ivi compiuti. Negli strati più antichi, ad esempio, si trovano urne ma
non stele; e queste, in seguito, non sempre sono in connessione con le urne (dunque
potrebbero indicare anche un rito indipendente dalla deposizione di resti incinerati). Le
analisi del contenuto delle urne, dai tofet della Tunisia, della Sicilia e della Sardegna, hanno
inoltre mostrato che già in epoca antica, e contestualmente alla deposizione di urne con resti
umani, si deponevano vasi con resti di animali o ancora urne con resti umani e animali,
insieme. A Cartagine, ad esempio, su 80 urne di epoca arcaica (VII-VI sec. a.C.), 50 contengono
resti di bambini, 24 resti di animali, 6 incinerazioni miste; a Mozia, tra il VII e il VI sec., la
percentuale d’incinerazioni di animali è perfino prevalente rispetto alle deposizioni infantili.
L’ipotesi che i Cartaginesi avessero col tempo sostituito il sacrificio di un bambino con quello
di un animale si è dunque rivelata errata. Vi sono poi urne con soli resti umani, di uno o più
individui, urne con soli resti di uno o più animali, deposizioni con resti umani e animali nella
stessa urna, di uno o più individui; vi sono stele che accompagnano urne ma anche stele senza
urna e urne senza stele. Pare insomma evidente che vi fosse una decina di modalità diverse di
deposizione, cui corrispondevano probabilmente, anche nella stessa epoca, comportamenti
rituali altrettanto differenti. Le urne con i resti incinerati, inoltre, sono collocate sul terreno in
modo analogo alle sepolture delle necropoli, dove mancano (significativamente?)
considerevoli tumulazioni infantili. Si osserva pure la presenza di ceramica miniaturistica,
maschere, statuette, amuleti: oggetti forse correlati alla sistemazione funeraria dei campi
d’urne e comunque indicativi della frequentazione dei tofet per offerte e rituali di vario tipo.
Dagli scavi (in particolare a Mozia e a Tharros) sono emersi anche resti di animali incombusti
(bovini, equini, ecc.), con segni di macellazione: prova di banchetti sacrificali e di cerimonie
diverse da quelle che si concludevano con la deposizione delle urne, testimoniate anche dalle
scene cultuali raffigurate su tante stele. Ogni tofet, infine, sembra aver attraversato fasi
diverse d’utilizzazione, con periodi nei quali vi furono molte deposizioni e altri d’abbandono o
d’uso limitato.
Anche dall’epigrafia si evidenziano varietà e sviluppo cronologici e areali: le formule più
antiche hanno al primo posto il nome dell’oggetto fatto, donato o offerto, seguito dal nome del
soggetto, dal verbo e dalla dedica al dio; all’ultimo posto il motivo dell’offerta, cioè la
constatazione o richiesta di grazia ricevuta. Nel corso del tempo, il nome del dio passa al
primo posto (così già nel VI secolo a Mozia); segue il nome dell’oggetto dedicato e poi il nome
dell’offerente. L’offerta non sempre è segnalata dal termine MLK e dalle sue specificazioni; più
spesso vi sono formule più vaghe (“dono/dedica di...”) o s’indica la stele stessa come dono. Nel
complesso, emergono elementi per sostenere che la deposizione di ogni stele non fosse
necessariamente connessa all’uccisione di un essere umano. Anche sui destinatari c’è qualche
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osservazione da fare: Tanit non sempre compare accanto a Baal Hammon, e a Cartagine dal V
secolo prende il primo posto nelle dediche; per entrambi, inoltre, la documentazione
evidenzia aspetti di divinità benevole, protettrici della famiglia e della discendenza. Un esame
comparativo delle dediche rivela infine l’esistenza di voti compiuti contestualmente da più
persone, e talora individualmente “a favore” di qualcuno, verosimilmente un figlio vivente,
menzionato col proprio nome.
Anche l’accostamento dei dati letterari classici all’archeologia dei tofet non sembra
pienamente giustificato. Le allusioni al sacrificio punico dei fanciulli sono piuttosto numerose,
ma anche ripetitive; nessun autore greco o latino parla di un’area consacrata a tale rito né di
un luogo destinato a raccogliere i resti delle vittime; pochissime sono inoltre le fonti
contemporanee al periodo di attività dei tofet, che erano sotto gli occhi di qualunque visitatore
straniero. Le fonti classiche, inoltre, parlano del sacrificio di vittime umane (adulti, prigionieri,
fanciulli delle famiglie più in vista) solitamente in situazioni eccezionali (guerre, carestie,
pestilenze) e nell’interesse della collettività; la realtà delle urne e delle stele votive evoca
invece una pratica religiosa che riguarda personalmente e ordinariamente una pluralità di
dedicanti, d’ogni ceto sociale e per scopi individuali. Gli autori classici, insomma, testimoniano
la presenza del sacrificio umano nella religione punica ma offrono una visione ampiamente
diversa dalla tipologia dei riti celebrati nei tofet.
Le analisi osteologiche hanno anche dimostrato che i bambini erano già morti al momento
dell’esposizione al fuoco, e pertanto non cadevano tra le fiamme dalle braccia di una statua
bronzea. Quelli incinerati nei vasi, poi, per la stragrande maggioranza sono resti di neonati,
deceduti dopo la nascita o nei primi mesi di vita; si è pure ipotizzata la presenza di feti e di
bambini nati morti. Ciò rende improbabile che tutti i bambini nelle urne dei tofet siano
individui uccisi, e rinvia piuttosto ai tassi di mortalità precoce, che è lecito supporre alta tra i
Cartaginesi come presso tutti gli altri popoli dell’antichità.
Per l’insieme di queste considerazioni, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso ha
cominciato a farsi strada una definizione più articolata dei tofet punici, che ha riaperto il
dibattito sulla validità dell’interpretazione sacrificale dei resti umani conservati nelle urne e
sulla correttezza nell’uso del termine tofet (che resta enigmatico e comunque estraneo
all’epigrafia punica). Un numero sempre maggiore di studiosi interpreta oggi il tofet come un
santuario polivalente, certo peculiare ma non necessariamente legato al sacrificio umano. Un
santuario centrato piuttosto sui pericoli della gravidanza e della prima infanzia: qui si
seppellivano i bambini che morivano in tenera età, perché
debilitati o prematuri, che proprio per questo venivano
sepolti in aree particolari e con riti specifici, consacrati alle
divinità preposte a vegliare su questa fase della vita: Baal
Hammon, dio ancestrale, e Tanit, chiamata a intercedere
presso di lui. E’ anche possibile che in taluni casi potesse
trattarsi di individui infermi o deformi, in certo senso
“riconsegnati” alle divinità perché sostituiti da figli sani o
in vista dell’ottenimento di una prole senza difetti. Nei tofet
si andava anche a ringraziare gli dèi con un ex-voto o per
pronunciare un voto nella speranza dell’aiuto divino, per
sacrificare (e verosimilmente consumare in un banchetto)
animali, per depositare offerte incruente, per versare
libagioni, bruciare aromi o per altre cerimonie, delle quali
restano tracce archeologiche, epigrafiche e iconografiche.
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Al centro dei riti compiuti nei tofet doveva esserci una particolare ideologia per i bambini
incinerati e deposti in quelle urne e per le divinità destinatarie dei riti ricordati nelle
iscrizioni; un’ideologia che suggeriva parimenti di conservare allo stesso modo i resti di
animali sottoposti al medesimo rituale concernente gli infanti. Che poi gli animali incinerati
nelle urne siano da considerare come “vicari” degli esseri umani non sembrano esservi dubbi;
ma è discutibile dedurre che i bambini, per i quali quegli animali furono offerti, fossero
prioritariamente destinati al sacrificio. Più verosimile è l’ipotesi che si trattasse di neonati in
pericolo di vita, “salvati” dalla morte per un intervento divino, auspicato e favorito
dall’immolazione di quegli agnelli.
Certo, i dati restano insufficienti per dirimere ogni problema. Di fatto, ci si trova in un
momento delicato e agitato degli studi, con le ipotesi che si confrontano e si affinano alla luce
delle diverse e contrastanti obiezioni. Le indagini contemporanee tengono conto delle diverse
ipotesi e si concentrano sui vari aspetti della questione. Si sviluppano gli studi sulle sepolture
infantili in aree diverse dal tofet e sull’incidenza della mortalità infantile nel Mediterraneo
antico. Si analizza il reale valore documentale delle testimonianze greche e latine e si procede
al recupero storiografico degli scavi più antichi, negli archivi inediti e nei primi materiali editi.
Si valuta a fondo l’evidenza archeologica ed epigrafica d’usi rituali molteplici e differenziati
nel tempo e nello spazio. Si verifica, infine, l’ideologia del molk e del passaggio nel fuoco, come
specifica consacrazione riservata a quanti non riuscivano a realizzarsi come individui, per
cause di morte naturale, come vogliono molti studiosi, o per deliberata e sacrificale uccisione,
come altri continuano a ritenere. (Testo di Sergio Ribichini, riadattato dal saggio in lingua
tedesca pubblicato con il titolo Tophet und das Punische kinderopfer in S. Peters e altri,
Hannibal ad portas. Macht und Reichtum Karthagos, Karlsruhe: Konrad Theiss, 2004, pp. 247261).
Indirizzo di riferimento generale
Dr. Sergio Ribichini
Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico
CNR – Area della Ricerca di Roma 1
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