L`ambiguo volto della dimenticanza. Una rilettura della dimenticanza

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L`ambiguo volto della dimenticanza. Una rilettura della dimenticanza
PIO COLONNELLO
L’ambiguo volto della dimenticanza.
Una rilettura della dimenticanza tra colpa e innocenza
Osservazioni preliminari. È noto che i temi della colpa, del dolore, della dimenticanza e del silenzio di Dio hanno alimentato nella riflessione contemporanea, come un rigoglioso fiume sotterraneo, le problematiche comprese tra la filosofia dell’esistenza e il pensiero ermeneutico. Risulta pertanto
indispensabile e prioritaria una scelta tematica e insieme metodologica:
porre la questione del nesso colpa/dimenticanza o, meglio, della dimenticanza/oblio1 come il volto taciturno, e in ombra, della colpa, non significa
porre nel contempo la questione del male o del negativo. Si tratta, beninteso, di una particolare lettura dell’idea di dimenticanza.
Va rilevato nondimeno che nella tradizione intellettuale dell’Occidente
è stata data della dimenticanza anche una valutazione fortemente positiva.
Anzi, vi è stato chi, come Nietzsche, ha tessuto una vera e propria apologia
dell’arte dell’oblio. Nel tardo Ottocento, com’è noto, in un’epoca di raffinata cultura storica, il giovane filosofo, nella seconda delle sue Considerazioni inattuali, condanna vigorosamente l’eccesso di filologismo e di storicismo, che grava come un macigno da cui occorre liberarsi. Il suo bersaglio
polemico è, in particolare, la storiografia antiquaria, nella quale riconosce
solo «il ripugnante spettacolo di una cieca furia collezionistica, di una raccolta incessante di tutto ciò che una volta è esistito. L’uomo si rinchiude
nel tanfo»2. La storiografia critica, invece, trascina il passato «davanti al tribunale, lo inquisisce meticolosamente e alla fine lo condanna»3. La ‘dimenticanza attiva’ appare così «una forma di vigorosa salute», un farmaco o un
viatico per un’esistenza felice, tanto da fare esclamare: «Beati quelli che
Il termine oblio, proprio dell’uso linguistico letterario, deriva dalla forma verbale tardo latina oblitare, mentre il vocabolo dimenticare, di uso comune nel linguaggio parlato, sta
letteralmente a designare il “perdere dalla mente”: il prefisso negativo “di-” posto dinanzi
alla radice “mente” – nel significato di “memoria” – bene illustra il vanificarsi di ciò che si
teneva “a mente”.
2 F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1983, p. 27.
3 Ivi, p. 28.
1
Bollettino Filosofico 26 (2010): 90-109
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/97888548467397
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dimenticano»4. Resta da chiedersi se poi possiamo davvero dimenticare.
Memoria e oblio appaiono come le due facce di una medesima divinità, allo
stesso tempo melanconica e felice, propizia e nefasta. Tutto ciò che riteniamo dimenticato continua forse a lavorare nella sfera dell’inconscio, per
poi tornare a riaffiorare da una cavità cupa, evanescente, come suggerisce
la teoria freudiana della rimozione. D’altra parte, non vi è forse una forza
d’urto, che resiste comunque all’oblio, proprio come la famosa Biblioteca di
Babele, di borghesiana memoria5, quella biblioteca dai magazzini infiniti,
contenente tutti i libri, anche quelli immaginabili nel futuro? Sappiamo anche che nel racconto di Jorge Luis Borges, per quanto vadano distrutte le
opere inutili, e dunque milioni di libri, tuttavia non viene prodotto alcun
cambiamento significativo: la Biblioteca di Babele resiste, pur sempre, all’oblio. Non a caso, lo scrittore argentino ha incisivamente osservato che
l’«oblio è una forma della memoria, il suo luogo sotterraneo»6.
Mi propongo ora di rileggere la questione della dimenticanza come volto in ombra della colpa, a partire da un’ipotesi ermeneutica: essa concerne
Cf. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 2010,
cap. VII, p. 126, nota 217.
5 Cf. J.L. BORGES, La biblioteca de Babel, in Obras completas, I, Emecé Editores, Buenos
Aires 1996, pp. 465-471; tr. it. in Tutte le opere, I, a cura di D. Porzio, pp. 680-689.
6 La letteratura critica sull’oblio, e sul nesso memoria/oblio, è senza dubbio assai vasta.
Mi limito qui a segnalare alcune opere guida: M. SIMONDON, La mémoire et l’oubli dans la pensée grecque jusqu’à la fin du V siècle avant J.C., Les Belles Lettres, Paris 1982; F. RIGOTTI,
Schleier und Fluß – Metaphern des Vergessens, in Metaphernanalyse, a cura di M.B. Buchholz,
Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1993; tr. it. “Il velo e il fiume. Riflessioni sulle metafore dell’oblio”, Iride. Filosofia e discussione pubblica 8 (1995), pp. 131-151; A. HAVERKAMP,
R. LACKMANN, Memoria: Vergessen und Erinnern, Fink, München 1993; H. WEINRICH, Lethe.
Kunst und Kritik des Vergessens, Beck, München 1997; tr. it. Lete. Arte e critica dell’oblio, il
Mulino, Bologna 2010; F.A. YATES, The Art of Memory, Routledge and Kegan Paul, London
1966; tr. it. L’arte della memoria, Einaudi, Torino 1972; H. BLUM, Die anti-ke Mnemotechnik,
Olms, Hildesheim 1969; Y.H. YERUSHALMI, G. VATTIMO, N. LORAUX (eds.), Usage de
l’oubli. Colloque de Royaumont, Seuil, Paris 1988; tr. it. Usi dell’oblio, Pratiche, Parma 1990;
A. ASSMANN, D. HARTH (eds.), Mnemosyne. Formen und Funktionen der kulturellen Erinnerung,
Fischer, Frankfurt 1991; J. LE GOFF, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1977; P. RICOEUR,
Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen, Wallstein, Göttingen 1998; tr. it.
Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna 2004; ID., La mémoire,
l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris 2000; tr. it. La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003; M. HALBWACHS, La mémoire collective, PUF, Paris 1968; tr. it. La memoria collettiva,
Unicopli, Milano 2001; T. TODOROV, Les abus de la mémoire, Atléa, Paris 1995; tr. it. Gli
abusi della memoria, Ipermedium Libri, Napoli 2001; N. PETHES, J. RUCHATZ, Gedächtnis und
Erinnerung. Ein interdisziplinäres Lexicon, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Reinbek 2001; tr. it.
Dizionario della memoria e del ricordo, Bruno Mondadori, Milano 2002.
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essenzialmente la scelta di un particolare ambito tematico, riguardante le
origini della nostra tradizione intellettuale e la distinzione di due paradigmi
basilari, o meglio di due snodi problematici in cui possono confluire i numerosi sentieri della Schuldfrage: il primo tipo fondamentale della colpa è
quello sviluppato nel mondo greco, soprattutto nell’ambito della poesia,
del mondo mitopoietico e del sapere tragico, più che della speculazione filosofica; il secondo tipo è quello sviluppato in ambito ebraico-cristiano o
meglio dapprima sorto nel seno dell’ebraismo e successivamente rielaborato dal cristianesimo7. Si tratta, certo, di uno schema generalissimo, che
diramandosi in un percorso tragico, dove la sofferenza alimenta la colpa e
in una direzione alimentata dalla fede, dove è la colpa l’origine del dolore,
non pretende, peraltro, di fornire una griglia comprensiva delle epifanie
particolari della colpevolezza. All’interno di un orizzonte così ampio, il
volto taciturno della colpa – la dimenticanza – assume una facies ambivalente, un aspetto gianico: da un lato, la dimenticanza può condurre al pentimento e questo al perdono8; il perdono infine alla speranza; d’altro canto,
la dimenticanza può restare ancorata al passato, alla cupezza del “già stato”.
La dimenticanza colpevole nel mondo ebraico-cristiano. Potremmo iniziare da un
primo paradigma della dimenticanza, quello elaborato dal mondo ebraicocristiano, ripercorrendone i sentieri a partire dalla stessa humus vitale di tale mondo, e dunque dall’orizzonte del sacro che, attraversando la bimillenaria storia intellettuale dell’Occidente, nella nostra età post-moderna si
dispiega nelle opposte dimensioni di empietà e di fede, di sacrilegio e di
adorazione, di profanazione e di innocenza.
Nell’Antico Testamento, la dimenticanza dei consigli paterni si configura come un atteggiamento colpevole, come in Tob 6,16 o in Ez 16,59Nel sapere tragico dei Greci, di contro alla frattura del limite, provocata dalla hybris,
si oppone sempre Nemesi, la vendetta sovrumana che annienta il superbo e il malvagio.
Inoltre, nella tragedia greca, la colpa non riguarda solo l’agire individuale, ma la totalità in
generale, il cielo e la terra, i divini e i mortali: essa fa parte del ciclo alterno di vita e morte,
di caduta e rinascita, al punto che si può configurare, come nel caso di Edipo, come “colpa
incolpevole”. Il volto cupo della colpa tragica mette in scena una colpa senza redenzione.
Proprio questo è uno degli snodi di maggiore distanza dall’idea ebraico-cristiana di colpa.
In assenza di redenzione, non è offerta nemmeno alcuna soteriologia nell’infinito.
8 Cf. E. KÄSEMANN, Gottes Gerichtigkeit bei Paulus, in Exegetische Versuche und Besinnungen,
vol. 2, Vandenoeck and Ruprecht, Göttingen 1970; tr. it. Saggi esegetici, Marietti, Genova
1985.
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639. Talora o spesso, l’uomo dimentica i benefici ricevuti10, tanto da inorgoglirsi e da levare il capo, macchiandosi così di hybris. Al contrario, il ricordo implica avvenimenti passati in cui si era stati in relazione con l’altro; il
richiamo di questi avvenimenti ha l’effetto di rinnovare la relazione. Tale è
appunto il caso tra Dio e il suo popolo, laddove la memoria si riferisce ad
incontri passati, nei quali si è stabilita l’alleanza. Ricordando questi fatti
primordiali, si rafforza l’alleanza; ciò porta a vivere l’“oggi” con l’intensità
di presenza che deriva dall’alleanza. Il ricordo qui è tanto più idoneo, in
quanto si tratta di avvenimenti privilegiati che decidevano del futuro e lo
contenevano in anticipo. Soltanto il fedele ricordo del passato può assicurare il buon orientamento del futuro: «Dio disse ancora a Mosè: «Così dirai ai figli d’Israele: “Il Signore (Javhé), Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe mi ha inviato a voi: questo è il mio
nome per sempre, e questo il mio ricordo di generazione in generazione”»11.
Nei tempi di miseria, proprio chi ha sperimentato erramenti ed esilio,
chiede a Dio di ricordarsi dell’uomo. L’animo, sconsolato, dimora sulle
soglie del silenzio e le cetre dei poeti tacciono, appese alle fronde dei salici,
per voto propiziatorio, alla fine della schiavitù ebraica. Allora i luoghi e gli
oggetti diventano cifra del terribile e nefasto diventa l’oblio di Gerusalemme, fino al punto che tale dimenticanza conduce alla paralisi e al divenire
muti. Alle fronde dei salici: la natura è ora rappresentata solo come sfondo
all’immane tragedia della deportazione, nella speranza che l’orizzonte di
cupezza e di raccapriccio possa dissolversi in una nuova alba. Ora l’uomo
chiede a Dio di ricordarsi dell’uomo:
Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo / al ricordo di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre. / Là ci chiedevano parole di canto/coloro che ci avevano deportati, / canzoni di gioia, i nostri oppressori: / «Cantateci i canti di Sion!» / Come cantare i canti del Signore
/ in terra straniera? / Se ti dimentico, Gerusalemme, / si paralizzi la mia
«Dice il Signore Dio: Io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua
giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna. Allora ti ricorderai della tua condotta […].
Io ratificherò la mia alleanza con te e tu saprai che o sono il Signore, perché te ne ricordi e
ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello
che hai fatto. Parola del Signore Dio» (Ez 16,59-63).
10 «Il tuo cuore non si inorgoglisca così da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto
uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù» (Dt 8,14, c.m.).
11 Es 3,15.
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destra; / mi si attacchi la lingua al palato, / se lascio cadere il tuo ricordo,
/ se non metto Gerusalemme/ al di sopra di ogni gioia. / Ricordati, Signore, dei figli di Edom, / che nel giorno di Gerusalemme / dicevano:
«Distruggete, distruggete / anche le sue fondamenta!» / Figlia di Babilonia
devastatrice, / beato chi ti renderà quanto ci hai fatto!/ Beato chi afferrerà
i tuoi piccoli/ e li sbatterà contro la pietra!12
Allora, solo l’obbedienza ai comandamenti diviene l’espressione autentica
di quel ricordo che consiste nel «custodire le vie di Jahvé» e nel rifuggire
dall’«antica via degli empi»13. Tuttavia, spesso la memoria dell’uomo si rivela debole14, mentre Dio non dimentica né la sua parola, né il suo nome15:
Gli Israeliti si ribellarono contro di me nel deserto: essi non camminarono
secondo i miei decreti, disprezzarono le mie leggi, che bisogna osservare
perché l’uomo viva, e violarono sempre i miei sabati. Allora io decisi di riversare su di loro il mio sdegno nel deserto e di sterminarli. Ma agii diversamente per il mio nome, perché non fosse profanato agli occhi delle genti
di fronte alle quali io li avevo fatti uscire. Avevo giurato su di loro nel deserto che non li avrei più condotti nella terra che io avevo loro assegnato,
terra stillante latte e miele, la più bella fra tutte le terre, perché avevano
disprezzato i miei comandamenti, non avevano seguito i miei statuti e avevano profanato i miei sabati; mentre il loro cuore si era attaccato ai loro
Sal 136.
Sal 119; Sap 6,18; Is 26,8. Sul tema della «via degli empi», cf. R. GIRARD, La route
antique des hommes pervers, Grasset, Paris 1985; tr. it. L’antica via degli empi, Adelphi, Milano
1994. La tesi portante del volume di Girard è espressa anche nei lavori: La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972; tr. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980; Des choses cachés
depuis la foundation du monde, Grasset, Paris 1978, tr. it. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983. Cf. anche J. FESTUGIÈRE, La Sainteté, PUF, Paris
1949.
14 Nonostante che il Deuteronomio metta in guardia (Deut 4,9; 8,11; 9,7): «Guardati
dal dimenticare Jahvé tuo Dio… ricordati…», il popolo dimentica il suo Dio ed ecco il
suo peccato: «Dopo la morte di Gedeone gli Israeliti tornarono a prostituirsi ai Baal e presero Baal-Berit come loro dio. Gli Israeliti non si ricordarono del Signore loro Dio che li
aveva liberati dalle mani di tutti i loro nemici all’intorno e non dimostrarono gratitudine
alla casa di Ierub-Baal, cioè di Gedeone, per tutto il bene che egli aveva fatto a Israele»
(Giud 8,33-35; Ger 2,13; Os 2,15. Per un approfondimento di questi temi, cf. H.M. KALLEN, The book of Job as a Greek tragedy restored, Kessinger, New York 1918; S. WEIL, Attente
de Dieu, Fayard, Paris 1966; tr. it. Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, pp. 87 e sgg; A.J.
HESCHEL, A Passion for Truth, Farrar, Straus and Giroux, New York 1973; tr. it. Passione di
verità, Rusconi, Milano 1977, pp. 267 e sgg.; P. RICOEUR, Finitude et culpabilité, Aubier,
Paris 1960; Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970.
15 Ger 1,12.
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idoli. Tuttavia il mio occhio ebbe pietà di loro e non li distrussi, non li
sterminai tutti nel deserto16.
Dio, a sua volta, secondo la logica dell’amore, sembra dimenticare la
sposa infedele, ma proprio questa sventura dovrebbe farla ritornare:
Accusate vostra madre, accusatela, / perché essa non è più mia moglie / e
io non sono più suo marito! / Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni / e i segni del suo adulterio dal suo petto; altrimenti la spoglierò
tutta nuda / e la renderò come quando nacque / e la ridurrò a un deserto,
come una terra arida, / e la farò morire di sete. / I suoi figli non li amerò,
/ perché sono figli di prostituzione. / La loro madre si è prostituita, / la
loro genitrice si è coperta di vergogna. / Essa ha detto: «Seguirò i miei
amanti, / che mi danno il mio pane e la mia acqua,/ la mia lana e il mio lino, il mio olio e le mie bevande». / Perciò ecco, ti sbarrerò la strada di
spine / e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri. /
Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, / li cercherà senza trovarli.
/ Allora dirà: «Ritornerò al mio marito di prima / perché ero più felice di
ora17.
Il povero, tuttavia, in apparenza dimenticato da Dio, deve sapere che è comunque presente al suo amore18, perché la prova ravviva la memoria19, e
ciò per prepararla al nuovo evento. Di fatto, ogni miseria dovrebbe ravvivare nell’uomo il ricordo di Dio. A riguardo, la predicazione profetica è
un lungo ‘richiamo’, destinato a rimettere il cuore dell’uomo in uno stato
di ‘ricettività’ e di accoglienza, condizione in cui Dio può realizzare la sua
Pasqua20. Il pentimento, oltre che ricordo delle colpe, è appello alla meEz 20,13-17.
Os 2,4-9; Mi 3,4; Ger 14,9.
18 Is 66,2. «Il povero non sarà dimenticato, la speranza degli afflitti non resterà delusa»
(Sal 9,19).
19 1 Mac 2,51; Bar 4,27.
20 2 Cron 15,2 e sgg; Os 2,9; 5,15; Ger 13,22-27: «Ascoltate dunque ciò che dice il Signore: “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? / In che cosa ti ho stancato?” / Rispondimi. /
Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto, ti ho riscattato dalla casa di schiavitù / e ho
mandato davanti a te Mosé, Aronne e Maria? / Popolo mio, ricorda le trame di Balak re di
Moab, / e quello che gli rispose Balaam, figlio di Beor. / Ricordati di quello che è avvenuto da Sittim a Galgala, / per riconoscere i benefici del Signore»; Mi 6,3 e sgg.: «Se dirai in cuor tuo: “Perché mi capita tutto ciò?”. / Per l’enormità delle tue iniquità / sono
stati strappati i lembi della tua veste, / il tuo corpo ha subito violenza. / Cambia forse un
Etiope la sua pelle / o un leopardo la sua picchiettatura? / Allo stesso modo, potrete fare il
bene anche voi abituati a fare il male? / Perciò vi disperderò come paglia / portata via dal
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moria di Dio21, e, nel perdono, Dio, la cui memoria è quella dell’amore, si
ricorda dell’alleanza.
Affinché l’uomo potesse ricordare per sempre l’alleanza con Dio, rafforzata dall’incarnazione e passione di Cristo, la religione cristiana si è convertita prontamente, come già quella ebraica, in una religione della memoria. Al centro di questo ricordo sta l’ultima cena, con l’invito fatto agli
apostoli: «Fate questo in memoria di me»22. A differenza dell’ebraismo,
tuttavia, nel cristianesimo la «vera presenza» nel sacramento tende ad
eclissare la «presenza memoriale» di Dio. Il «comando del ripetere» si manifesta, ad ogni modo, come antidoto ad una imperdonabile dimenticanza.
Così, ogni celebrazione della cena avviene nel ricordo del Cristo, nell’esternare ciò che giace nella memoria, ciò che è ricordato, perché sia di
nuovo interiorizzato e consegnato alla memoria.
La successiva concettualizzazione della dimenticanza, elaborata dal cristianesimo, ha molto insistito sull’idea chiave della dimenticanza colpevole,
come oblio della relazione con Dio. Se è certamente impossibile esaminare
la lunghissima tradizione speculativa che va dai Padri della Chiesa fino riflessione teologica del nostro tempo, nondimeno è opportuno un riferimento ad un autore che ha costituito la «testata d’angolo» per la tradizione
concettuale dell’occidente cristiano. Mi riferisco ad Agostino Aurelio, che
ha lungamente riflettuto sul tema dell’oblio nel X libro delle Confessioni e
nel X libro del De Trinitate – nei quali testi è presente una vera e propria
fenomenologia dell’oblio.
In realtà, per Agostino è tanto stretto il legame tra memoria e dimenticanza, che si serba memoria persino dell’oblio. Ma come è poi possibile
questa forma, per così dire, di presenza dell’assenza? «A quanto sembra»,
vento del deserto. / Questa è la tua sorte, / la parte che ti è destinata da me / – oracolo
del Signore – / perché mi hai dimenticato / e hai confidato nella menzogna. / Anch’io solleverò le tue vesti fino al volto, / così si vedrà la tua vergogna, / i tuoi adulteri e i tuoi richiami d’amore, / l’ignominia della tua prostituzione! / Sulle colline e per i piani ho visto
i tuoi orrori. / Guai a te, Gerusalemme, perché non ti purifichi! / Per quanto tempo ancora?». Deut 8,2 e sgg.: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto
percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi».
21 Ez 16,61 e sgg.; Neem 1,7 e sgg.
22 Cf. A. GERKEN, Theologie der Eucharistie, Kosel, München 1973; tr. it. Teologia dell’eucarestia, Jaca Book, Milano 1986; E. SCHILLENBEECKX, Die Eucharistische Gegenwart. Zur
Diskussion über die Realpräsenz, Patmos, Düsseldorf 1967; tr. it. La presenza reale, Edizioni
Paoline, Roma 1988; B. WELTE, Zum Verstãndnis der Eucharistie, in Auf der Spur des Ewigen,
Herder, Freiburg 1965, tr. it. Sulla traccia dell’eterno, Jaca Book, Milano 1976.
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egli osserva nelle Confessioni, «quando ricordiamo l’oblio, non è la cosa
stessa che si trova nella memoria, ma una sua immagine: perché la presenza
essenziale dell’oblio ce la farebbe dimenticare, e non già ricordare […].
Che cosa dovrei dire, quando sono certo di avere memoria dell’oblio? […].
La mia memoria potrebbe conservare l’immagine dell’oblio, non l’oblio
stesso, quando lo ricordo. Ma come posso sostenerlo anche questo? […].
Se l’oblio si conserva nella memoria attraverso una sua immagine e non in
se stesso, bisogna che sia stato realmente presente per lasciare questa immagine. Ma se fosse stato presente come avrebbe potuto iscrivere nella
memoria la sua immagine, lui che con la sua sola presenza cancella tutto
ciò che vi trova già segnato? Eppure ne sono certo: in un modo o nell’altro,
per incomprensibile e inesplicabile che sia, io perfino dell’oblio serbo memoria, di questa rovina dei ricordi»23. Per risolvere questi aspetti aporetici,
Agostino trascorre, per così dire, da un piano fenomenologico ad uno metafenomenologico: in realtà la cosa veramente dimenticata è, per l’io indagante, se stesso; l’oblio di sé è esattamente il paradosso derivante dall’insondabilità della mente a se stessa, che, per quanto ricordi di sé, mai
può giungere al proprio fondo, alla «cripta profonda e sconfinata»24. Questa
ricerca di sé, dell’anima che cerca se stessa, è comunque destinata a restare
inappagata, manifestandosi una ricerca senza fine. Ma ecco la conclusione
di questo lungo viaggio all’interno della propria interiorità cosciente:
l’egologia negativa della ricerca infinita di sé si rivela, alla fine, una teologia
negativa: è Dio che l’anima cerca, senza averne coscienza, quando cerca se
stessa. Appunto il legame tra memoria sui e memoria Dei non deve essere mai
oggetto di dimenticanza.
La nostra età, non più dominata dall’idea di armonia, non più incline a
comporre le lacerazioni e le scissioni dell’esperienza storica in un ordine
ideale o a conciliare l’inesauribilità degli opposti sotto rinnovate forme di
teodicea, forse può essere connotata propriamente come l’epoca della “dimenticanza” o dell’“assenza” di Dio, l’epoca del disincanto o della “demitizzazione”, soprattutto se riflettiamo che la situazione del pensiero contemporaneo si caratterizza – come è sembrato, tra altri, a Wilhelm Weischedel
SANT’AGOSTINO, Confessioni, X, 16.24-16.25.
Ivi, X, 8.15. La letteratura sull’argomento è sterminata. Per una visione d’insieme,
cf. Le Confessioni di Agostino (402-2002). Bilancio e prospettive (XXXI Incontro di studiosi
dell’antichità cristiana, Roma, 2-4 maggio 2002), Institutum Patristicum Augustinianum,
Roma 2003.
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– come un filosofare «all’ombra del nichilismo»25, almeno a partire dalla
presa d’atto, in età romantica, che la comunione immediata con il vivente
infinito è irrimediabilmente preclusa a noi moderni, o che gli «dei sono
fuggiti», secondo l’espressione hölderliniana spesso ritradotta in una «canzone da organetto».
Il proclamato risveglio religioso, ha osservato un filosofo contemporaneo, non deve trarre in inganno: «Esso è solo un sintomo dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo che, cresciuto nella visione della tecnica
come progetto di salvezza, oggi percepisce all’ombra del progresso la possibilità di distruzione, e all’ombra dell’espansione tecnica la possibilità di
estinzione. E qui nessun dio «ci può salvare», come vorrebbe l’allusione di
Heidegger, perché la tecnica è nata proprio dalla corrosione del trono di
Dio. Potenziata dalla religione, che aveva preparato il terreno per iscrivere
la tecnica in un progetto di salvezza, la tecnica ha portato la religione al suo
crepuscolo e, con la religione, la storia che è nata dalla visione religiosa del
mondo»26. Ma questo è altro discorso, su cui converrà tornare in altra sede.
Dimenticanza e perdono. La dimenticanza, tuttavia, non ha solo il volto oscuro della colpevolezza; essa può assumere anche un aspetto luminoso, grazie
alla facoltà del perdono: è il perdono che nasce dal pentimento e che conduce alla speranza, cioè all’attesa di un futuro svincolato dalle conseguenze
di ciò che è stato.
Tuttavia, il perdono, voler cancellare le offese – il principio della «dimenticanza attiva» – è anche una modalità dell’agire umano: esso si manifesta come la capacità di annullare l’irreversibilità del passato, grazie all’inserimento di un ventaglio di possibilità tra il continuum spazio temporale
fossilizzato nella necessità del “non più” e l’imprevedibilità del futuro. Proprio a partire dal cristianesimo questa facoltà ha acquistato rilevanza nel
dominio degli affari umani e dal campo religioso il perdono è stato poi mutuato dalla sfera politica. Prima dell’esperienza cristiana si possono riscontrare tracce informi della consapevolezza del perdono, come rettifica
Cf. W. WEISCHEDEL, “Philosophische Theologie im Schatten des Nihilismus”, Zeitschrift für Evangelische Theologie, 1962, pp. 233-249. Questo saggio riproduce il testo di una
conferenza tenuta da Weischedel alla Kirchliche Hochschule di Berlino nel 1961, conferenza che catturò l’attenzione di molti filosofi e teologi dell’epoca. Cf. anche dello stesso
autore Il Dio dei filosofi. Fondamenti di una teologia filosofica nell'epoca del nichilismo, 3 voll., Il
Melangolo, Genova 1988-1994.
26 U. GALIMBERTI, “Nessun Dio ci può salvare”, Micromega 2 (2000), p. 198. Cf. dello
stesso autore Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
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dei guasti derivanti dalle azioni, solamente nel principio romano di risparmiare i vinti (parcere subiectis), un principio del tutto sconosciuto al mondo
greco, o nel diritto di commutare la pena di morte.
Ad ogni modo, il perdonare appare subito, nel cristianesimo delle origini, una prerogativa non esclusivamente divina – del resto, Gesù stesso
sosteneva contro gli «scribi» e i «farisei» come non solo Dio avesse il potere di perdonare – ma anche come una capacità propriamente umana. Esso
è esattamente l’opposto della vendetta, che è la naturale e quasi meccanica
reazione contro un’offesa e, pertanto, può essere prevista e in qualche modo calcolata all'interno del processo dell’agire. Viceversa, il perdono non si
limita a re-agire, anzi agisce in modo inatteso e improvviso. Perdonare, affermare cioè la capacità umana di svincolarsi dalle conseguenze di ciò che è
stato, cancellare l’azione dell’offensore, significa annullare la cupa pesantezza del passato, dunque inaugurare l’assolutamente nuovo, l’inimmaginabile, lo straordinario.
Su tale carattere del perdono ha lungamente insistito, nel nostro tempo,
Hannah Arendt27, sottolineando come il perdono, una facoltà appartenente
alla sfera dell’azione e sottratta pertanto al dominio della natura, sia capace
di convertire il «così fu» in «così volli che fosse». Nella riconciliazione con
il passato, postulata dal perdono, affiora così la pietas di un pensiero che è
insieme riabilitazione e giubilo, raccoglimento e speranza, invocazione e
appello. Occorre, in ogni caso, fare attenzione, perché giustificare non è
semplicemente riabilitare il passato e valicare le differenze. Non si tratta
solo di dire: il passato che ci colpì, che ci lacerò, che produsse illusione e
amarezza, ora non fa più paura, dunque possiamo volgere lo sguardo
all’indietro e rimirarlo; non si tratta solo di dire: dimentichiamo le offese, i
colpi e le ferite che ci sono venuti dall’altro, dagli altri. Si ha da fare, invece, con una giustificazione più “alta”, cioè si tratta di “intervenire” sul passato. È su questo aspetto che le considerazioni arendtiane sul perdono come “riscrittura” del passato risultano di grande interesse: in fondo, interrompere o meglio “trasformare” il continuum temporale pietrificato nella
necessità del già stato, cioè mutare il passato svincolandoci dalle sue conseguenze, ha senso per aprire appunto nuove possibilità per il futuro.
Nel pensiero contemporaneo, numerose voci sono intervenute nel dibattito sul perdono come facoltà della dimenticanza “attiva”. È opportuno
fare riferimento almeno ad alcune significative prese di posizione di pensatori come Paul Ricoeur, Vladimir Jankélévitch e Jacques Derrida.
27 H. ARENDT, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958; tr. it.
Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, pp. 174 e sgg.
100
Pio Colonnello
Il perdono, che si manifesta subito come il contrario dell’oblio passivo,
a parere di Paul Ricoeur, richiede un sovrappiù di «lavoro della memoria»28: «esso si apparenta a una sorta di oblio attivo, che però non verte sugli avvenimenti in se stessi, la cui traccia deve al contrario essere accuratamente protetta, bensì sulla colpa, il cui peso paralizza la memoria e, per
estensione, la capacità di proiettarsi in modo creativo nel futuro»29. Ricoeur invita, anzitutto, dal guardarsi dalla “trappola” del perdono facile, cioè
dalla pretesa di esercitare il perdono come un potere, senza essere passati
«attraverso la prova della richiesta di perdono e, peggio ancora, del rifiuto
del perdono»30. Altra forma problematica è il perdono di indulgenza, così
presente nella nostra tradizione teologica, secondo la quale il perdono significa assoluzione. Con tale forma di perdono, tuttavia, non solo non si
esce dalla logica della retribuzione, ma questa cancellazione, che può essere
definita “magica”, va nella stessa direzione dell’oblio peggiore, e cioè dell’oblio profondo. La critica alla logica della retribuzione è, del resto, nella
stessa regola evangelica dell’«amare i nemici, fare del bene e prestare senza
sperare niente in cambio»31. L’amore per i nemici diviene così la «misura
as-soluta del dono», cui è associata l’idea di un prestito senza speranza di
ri-torno. È qui, conclude Ricoeur, «che il perdono confina con l’oblio attivo: non con l’oblio dei fatti, in realtà incancellabili, ma del loro senso per il
presente e il futuro. Accettare il debito non pagato, accettare di essere e rimanere un debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita. Fare della
colpa stessa il lavoro del lutto […]. Tracciare una linea sottile tra l’amnesia e
il debito infinito»32.
Da parte sua, Vladimir Jankélévitch, nel fare riferimento agli olocausti
del Novecento ed, in particolare, alla tragedia della Shoa, si è ripetutamente chiesto se sia sempre opportuno perdonare. Quando un atto nega
l’essenza dell’uomo in quanto uomo, egli osserva in Perdonare?, la prescrizione, che vorrebbe assolverlo in nome della morale, contraddice essa
stessa la morale. Non è contraddittorio, egli domanda, e anche assurdo invocare qui il perdono? «Dimenticare un crimine gigantesco contro l’umanità sarebbe un nuovo crimine contro il genere umano»33. Il tempo che
Cf. P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., p. 110.
Ibid.
30 Ivi, p. 112.
31 Lc 6,32-35.
32 P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., p. 118.
33 V. JANKELEVITCH, Pardonner?, Éditions du Seuil, Paris 1986; tr. it. Perdonare?, La
Giuntina, Firenze 1987, p. 19.
28
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L’ambiguo volto della dimenticanza
101
tutto trasforma e inghiotte, «il tempo che lavora all’usura del dolore come
lavora all’erosione delle montagne, il tempo che favorisce il perdono e
l’oblio», il tempo consolatore «non attenua in niente la colossale ecatombe:
al contrario non cessa di ravvivarne l’orrore», in quanto «i crimini contro
l’umanità sono imprescrittibili, e cioè non possono essere prescritti; il tempo
non ha presa su di essi»34. A parere di Jankélévitch, soltanto la disperazione
e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d’essere al
perdono. Chi è colpevole non può pretendere, né aspirare in tutti i casi al
perdono. Per pretendere il perdono, «bisognerebbe dichiararsi colpevoli,
senza riserve né circostanze attenuanti». Il risentimento delle vittime – che
è anche un sentimento intensamente vissuto della colpa inespiabile – protesta fortemente contro «un’amnistia morale che non è altro che una vergognosa amnistia, custodisce la fiamma sacra dell’inquietudine e della fedeltà alle cose invisibili». In questo caso, la dimenticanza sarebbe «un grave
insulto» nei confronti delle vittime che non possono più fare ascoltare la
loro voce, perché la loro «cenere è mescolata per sempre con la terra; sarebbe una mancanza di serietà e di dignità, una vergognosa frivolezza»35.
A Jankélévitch Jacques Derrida contesta proprio la logica della retribuzione nel tema del perdono, convocando lo stesso Jankélévitch nell’appello ad un’etica iperbolica, al pensiero di un perdono da concedere paradossalmente anche se non domandato, a un perdono incondizionale, al di là
di ogni calcolo. «Mi domando», rileva Derrida, «se una rottura di questa
reciprocità o di questa simmetria, se perfino la dissociazione tra il perdono
domandato e il perdono accordato, non sia di rigore valida per ogni perdono degno di questo nome»36. E inoltre: è proprio vero che quando il crimine è di una gravità inaudita, tanto da superare la linea del male radicale o
addirittura dell’umano, non si tratta più di perdonare, essendo il perdono
una questione tipicamente umana? Derrida risponde che «vi è nel perdono,
nel senso stesso del perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento, un appello che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo,
perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si confessa, né
rende migliore se stesso o si riscatta […], al di là perfino di ogni espiazione»37. Per Derrida, che sostiene che non vi è perdono nel perdonare il
veniale, lo scusabile, ciò che si può sempre perdonare, occorre in definitiva
Ibid.
Ivi, pp. 49-50.
36 J. DERRIDA, Pardonner: l’impardonable er l’imprescriptible, Editions de l’Herne, Paris
2004; tr. it. Perdonare, Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 39.
37 Ivi, p. 42.
34
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Pio Colonnello
mettere in questione il comune assioma della tradizione e, in fondo, dello
stesso Jankélévitch, cioè che il perdono debba avere ancora un senso e che
questo senso si debba determinare su uno sfondo di riconciliazione, di redenzione, di salvezza e di espiazione, persino di sacrificio38.
Tonalità ambigue della dimenticanza nel pensiero greco delle origini. Veniamo
ora ad un altro paradigma della dimenticanza, quello elaborato nell’antico
pensiero greco. Prima ancora della concettualizzazione filosofica dell’oblio,
nell’epoca greca arcaica tutte le immagini e i paragoni dell’oblio ci sono offerti dal mito. La dimenticanza è personificata in Lete, divinità femminile,
che forma una coppia di opposti con Mnemosyne39, dea della memoria e madre delle muse. Secondo il mito, Lete discende da Eris, la discordia e dalla
stirpe della Notte. Lete, tuttavia, non ha rappresentato sempre una divinità
funesta in tutta la letteratura greca. La sua accezione negativa, che ha origine in Esiodo, è stata successivamente sviluppata dalla tradizione filosofica
che ha esaltato il valore della vigilanza. Da parte sua Plutarco colloca Mnemosyne e le Muse dal lato di Apollo, e Lete con Siope dal lato di Dioniso, in
un’antitesi in cui si oppongono la luce le tenebre, il giorno e la notte, il
chiaro e l’oscuro, confondendo così le due tradizioni mitiche arcaiche, una
di segno positivo e l’altra legata alla negatività e al male40. Nella Teogonia di
38 Ivi, pp. 47-48. Per potere sfuggire, forse, alla logica della retribuzione, occorrerebbe riconoscere che il colpevole, colui che produsse offese o recò torti, non abbia avuto coscienza delle proprie azioni, non abbia realmente saputo cosa facesse. Forse solo un dio
può riconoscere l’intenzione segreta del cuore del colpevole e perdonare a colui che non sa
ciò che fa, dimenticando così completamente il male prodotto: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
39 Cf. M. SIMONDON, La mémoire et l’oubli, cit., p. 128: «La fonction cathartique de
Mnémosyne est définie par Hésiode dans la Théogonie, en termes d’oubli: “C’est ainsi qu’en
Piérie, uni au Cronide leur père, Mnémosyne enfanta les Muses, pour être l’oubli des
maux, la treve aux soucis». Remarquons que lesmosyne qui fait pendant à Mnemosyne, est un
nom commun et désigne non une abstraction, mais la capacité d’oublier. Cette alliance remarquable de termes antithétiques décrit plus que le simple effet de la musique et du chant;
elle attribue aux Muses et à leur mère une fonction essentielle et constante. La divinité
Mèmoire est, en quelque sorte, maîtresse d’oubli, d’un certain oubli. “Les Muses, dit encore Hésiode, n’ont en leur poitrine souci que de leur chant et gardent leur âme libre de
chagrin”».
40 PLUTARCO, De E apud Delphos, 394a: «λέέγεται γὰρ ὁ µμὲν Ἀπόόλλων ὁ δὲ Πλούύτων, καὶ ὁ µμὲν Δήήλιος ὁ δ'ʹ Ἀιδωνεύύς, καὶ ὁ µμὲν Φοῖβος ὁ δὲ Σκόότιος·∙ καὶ παρ'ʹ ὧ µμὲν αἱ Μοῦσαι καὶ ἡ Μνηµμοσύύνη, παρ'ʹ ὧ δ'ʹ ἡ Λήήθη καὶ ἡ Σιωπήή·∙ καὶ ὁ µμὲν Θεώώριος καὶ Φαναῖος, ὁ δέέ ‘Νυκτόός <τ'ʹ> ἀιδνᾶς ἀεργηλοῖόό θ'ʹ υπνου κοίίρανος·∙'ʹ»: «Uno infatti si
chiama Apollo e l’altro Plutone, uno Delio e l’altro Aidoneo, uno Febo e l’altro Scotio,
L’ambiguo volto della dimenticanza
103
Esiodo, Lete appartiene alla seconda generazione dei figli della Notte, sorella di Hypnos, il sonno: pertanto, oblio e sonno, spesso accomunati, appartengono, nella genealogia e nella teogonia, a generazioni differenti. Come rileva opportunamente Simondon, «l’ambivalenza dell’oblio è illustrata dalle due tradizioni opposte, presenti nella Teogonia di Esiodo: quella di
λησµμοσύύνη κακῶν, opera di Mnemosyne, e quella di Λήήθη, figlia di Eris
στυγερήή. Le due nature dell’oblio sono nettamente distinte in Pindaro come in Esiodo. È vero che Pindaro ha sovente fatto riferimento al “cattivo”
oblio, sia come colpa rituale, sia come negazione della gloria; ma egli ha
anche riconosciuto il valore positivo dell’oblio non solo come semplice sollievo delle pene, ἐπίίλασιν καµμάάτων, ma come una sorta di cancellazione,
di obliterazione del passato»41.
Nella Teogonia esiodea, Mnemosyne, vicina alla luce del giorno e al dio
del sole Apollo, e Lethe, divinità tenebrosa apparentata alla morte, sono
due dee, dotate di regni e di uguali privilegi, parimenti venerate dai mortali, che rivolgono sacrifici ora all’una ora all’altra, a seconda che essi richiedano un potente aiuto dal ricordo o, viceversa, dall’oblio, quando occorre cancellare sventure e malanni.
Nel pensiero mitico greco, sebbene non esista un’unica versione della
struttura dell’Ade, che cambia in base all’autore e all’epoca storica, Lete
indica anche il nome di un fiume degli inferi, che dona oblio alle anime dei
morti. In questo caso, la metaforica dell’oblio si affida all’elemento liquido
dell’acqua, non – come avverrà successivamente – alle immagini dei paesaggi deserti e delle lande sabbiose, in cui le cose da dimenticare sono soffiate via dal vento.
Secondo la concezione mitica arcaica, tutti i fiumi della terra sarebbero
confluiti nel baratro immenso del Tartaro, luogo tenebroso situato all’interno della terra, temuto persino dagli dei, per poi defluire e assumere
aspetto diverso a seconda della natura del terreno. È interessante notare
come nell’Ade venissero rappresentati diversi corsi d’acqua, che possono
essere paludi o fiumi, dalla corrente lenta o minacciosa, sebbene la loro disposizione venga riportata diversamente a seconda delle fonti.
accanto al primo siedono le Muse e la Memoria, accanto all’altro l’Oblio e il Silenzio.
Quello è Teorio e Faneo, questo signore della Notte scura e del pigro Sonno» (tr. it. di G. Lozza, in Dialoghi Delfici, Adelphi, Milano 1983, pp. 158-159). Per il verso «signore della Notte
scura e del pigro Sonno», cf. l’edizione dei Poetae Melici Graeci, a cura di D.L. Page, OUP, Oxford 1962: Frammento lirico adespoto, fr. 78, p. 996.
41 Cf. M. SIMONDON, La mémoire et l’oubli, cit., p. 135. La traduzione del passo citato è mia.
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Pio Colonnello
Accanto ad Acheronte, il fiume del dolore, nominato per la prima volta
nell’Odissea, spesso descritto come il fiume principale che circonda l’Ade,
troviamo Flegetonte, il fiume del fuoco che circonda il Tartaro e che rischiara ogni tanto con le sue vampe infuocate. Ed ancora, vi sono lo Stige,
il fiume dell’odio, rappresentato talora come una squallida palude, e il Cocito, il fiume dei lamenti o del pianto, menzionato già da Omero come un
affluente dell'Acheronte e ramo dello Stige. Infine, ecco Lete, il fiume dell’oblio: un punto controverso, negli autori antichi, è l’individuazione della
superficie attraverso la quale scorrono le acque del Lete, nonché l’esatta
collocazione del corso del fiume in rapporto agli altri corsi d’acqua del regno dei morti. Oltre che nel pensiero mitico, troviamo menzione del fiume anche nel X libro della Repubblica di Platone, dove viene narrato il mito
di Er, disceso agli inferi per conoscere i misteri della reincarnazione delle
anime:
Quando tutte le anime ebbero scelto la propria vita, si presentarono a Lachesi secondo l’ordine del sorteggio; a ciascuna ella assegnava come custode della sua vita ed esecutore della sua scelta il demone che si era preso.
Questi per prima cosa guidava l’anima al cospetto di Cloto, perché sotto la
mano di lei e sotto il volgersi del fuso sancisse il destino che aveva scelto al
momento del sorteggio; dopo che aveva lasciato il fuso la conduceva al filo
di Atropo, perché rendesse immutabile la trama filata. Dall’anima andava
senza voltarsi ai piedi del trono di Ananke e lo superava; quando anche le
altre anime furono passate oltre, si avviarono tutte assieme verso la pianura del Lete in una calura soffocante e tremenda, poiché il luogo era spoglio di alberi e di tutto ciò che nasce dalla terra […]. <poi tutte le anime
furono costrette a bere una certa quantità di quell’acqua, ma le anime che
non erano protette dalla prudenza ne bevevano più della giusta misura; e
chi via via beveva si dimenticava ogni cosa […]. Ma a Er fu impedito di bere l’acqua; non sapeva come e per quale via fosse tornato nel corpo, ma all’improvvido riaprì gli occhi e si vide disteso all’alba sulla pira42.
Sembra abbastanza unanime il consenso degli autori antichi sul fatto che le
anime bevono l’acqua del Lete per divenire libere, tramite la dimenticanza, dalla loro precedente esistenza. Al contrario, nei frammenti orfici43,
PLATONE, Repubblica, X, 620e-621b.
Cf. i testi orfici tradotti e commentati in M. Tortorelli Ghidini, Figli della terra e del
cielo stellato. Testi orfici con traduzione e commento, D’Auria Editore, Napoli 2006. Cf., in particolare, il testo della laminetta nominata Petelia perché ritrovata, in circostanze imprecisate, nella necropoli dell’antica Petelia nel 1834 e presente nella collezione del British
42
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L’ambiguo volto della dimenticanza
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vi è la raccomandazione agli iniziati, giunti nell’al di là e in procinto di entrare in una nuova vita, di non bere l’acqua dell’oblio, ma di fare tesoro
del proprio passato per conseguire un livello superiore di saggezza.
Le dottrine orfiche assegnano dunque alla memoria divinizzata, a Mnemosyne, un ruolo preminente, giungendo a invertire i termini dei topoi
convenzionali: non è più l’Ade a configurarsi come regione desolata e
mondo dell’oblio, ma la vita terrestre a essere concepita come luogo di
prova e di castigo. Anzi, l’esercizio della memoria potrebbe essere una
modalità soteriologica per liberarsi dal divenire e dalla morte, trascendendo così la forma di muta ed oscura sopravvivenza nel regno oltremondano, priva di coscienza e di ricordo44.
Quanto osservato finora ci offre senza dubbio lo spunto per una più attenta ricostruzione della storia concettuale dell’oblio e per introdurci alla
sua considerazione filosofica. Il teorema metafisico platonico di un processo a tre fasi – la contemplazione delle idee nel mondo iperuranio; il loro oblio, dovuto alla nascita; infine, la reminiscenza – è così noto da non
richiedere alcun commento45. Interessa invece il nesso tra ciò che è da diMuseum dal 1843: «Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte, / e accanto ad essa
eretti un bianco cipresso. / A questa fonte non accostarti neppure; / ne troverai un’altra,
fredda acqua che scorre / dal lago di Mnemosine; innanzi vi sono custodi. / Di’: “della
Terra sono figlia e del Cielo stellato; / ma la mia stirpe è celeste; e ciò sapete anche voi. /
Di sete sono arsa e mi sento morire: orsù, datemi / la fredda acqua che scorre dal lago di
Mnemosine”» (p. 67). La formula che viene suggerita al defunto: «Sono figlio della Terra e
del Cielo stellato», presente nelle laminette d’oro rinvenute in sepolcri dell’Italia meridionale, appunto a Petelia, presso Crotone, o a Thurii, nella Sibaritide, o a Hipponion [Vibo Valentia], costituisce una sorte di lasciapassare, onde ottenere dai guardiani dell’Ade il
permesso di accostarsi alla fonte di Mnemosyne. Solo così l’iniziato potrà sottrarsi per
sempre al penoso ciclo delle rinascite. Nella topografia dell’Ade, delineata nelle laminette
orfiche, vi è il ripetuto avvertimento che la prima fonte, sulla destra, è quella dell’oblio: la
sua acqua disseta solo in apparenza, facendo dimenticare tutto e quindi rinascere in un nuovo corpo. Per evitare di continuare la serie delle incarnazioni mortali, il defunto dovrà invece abbeverarsi alla fonte di Mnemosyne (cf. Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio
oltremondano degli iniziati greci, a cura di G. Pugliese Carratelli, Adelphi, Milano 2001).
44 Cf. quanto osserva M.S. MIRTO in La morte nel mondo greco: da Omero all’età classica,
Carocci, Roma 2007, p. 44: «Il defunto che riesca a dominare l’arsura e a non cedere all’istintiva “sete di vivere” bevendo alla prima fonte (nella serie di laminette dove si allude
all’acqua che scorre dal lago di Mnemosyne) può dimostrare ai guardiani degli inferi di conoscere la parola d’ordine appropriata, e trovare così refrigerio alla sorgente della memoria».
45 Tra le pubblicazioni più recenti sul tema dell’oblio in Platone, cf. E. LLEDÓ, El surco
del tiempo. Meditaciones sobre el mito platónico de la escritura y la memoria, Editorial Critica,
106
Pio Colonnello
menticare e ciò che non è da dimenticare, appunto perché ciò che non è da
dimenticare è espresso dai Greci con il termine ἀλήήθεια, cioè verità.
I Greci avevano più di un termine che corrisponde a dimenticare:
ἐπιλανϑάάνοµμαι è il vocabolo più corrente nella lingua greca; ἀποµμανϑάάνω è il dimenticare qualcosa già appreso, il disimparare; παραλείίπω è il dimenticare ciò che si doveva fare, nel senso di trascurare, di tralasciare. Se
la radice – ληθ – di λανϑάάνοµμαι indica qualcosa di latente, di nascosto, di
segreto, viceversa la denotazione della verità come aletheia – termine derivante dalla stessa radice cui è premesso l’alfa privativo – sta a indicare ciò
che non è nascosto, non è segreto. Sono ben note le analisi di Martin Heidegger riguardo all’idea della verità come «svelatezza», «non nascondimento»: il fenomeno della verità, se pensato nel senso suggerito dall’etimologia greca, è uno strappare alla latenza e all’occultamento; di qui l’idea
di ripristinare l’originario significato ontologico della verità come «apertura» e «scoprimento del senso». Lo stesso Heidegger ha fatto della coppia
concettuale memoria/oblio il punto di forza della sua critica alla metafisica
occidentale, quando ha messo in luce ciò che egli ha ritenuto l’errore fondamentale, che sarebbe presente in tutta la storia della metafisica da Platone a Nietzsche: vale a dire l’oblio della differenza ontologica, cioè della
differenza tra essere ed ente, con la conseguente “entificazione” o “sostanzializzazione” dell’essere.
Ma torniamo alle antiche fonti greche, a iniziare da Omero. Nei poemi
omerici, l’Ade è il regno della lethe, dell’abbandono e dell’oblìo. I suoi abitanti sono ottusi e dimenticati. Qui valgono le equivalenze: la dimenticanza significa il silenzio e la morte, mentre il ricordo il parlare e il vivere46.
L’oblio però, nell’antica poesia greca, può avere anche una facies positiva, una funzione, per così dire, “terapeutica”. Se incombono sventure e
malanni, dall’oblio ci si attende appunto guarigione e salute. È un grande
bene riuscire a dimenticare il dolore o l’infelicità del vivere, come sanno i
poeti lirici, ad esempio Alceo, che canta l’oblio prodotto dal vino, prezioso
Barcelona 1992; tr. it. Il solco del tempo. Il mito platonico della scrittura e della memoria, Laterza, Roma-Bari 1994. Cf., in partic., il paragrafo intitolato L’età dell’oblio, pp. 107-112.
46 Od. 11, 71, 97ss. 140ss 147ss. In Omero manca ancora distinzione tra i buoni e i
malvagi. Tutte le anime, salvo eccezioni, subiscono la stessa sorte: non appena si separano
dal corpo, raggiungono l’Ade, assumendo la forma di ombre incorporee, che hanno le
sembianze dei loro corpi. Risiedono probabilmente tutte nel Prato degli Asfodeli, luogo
monotono, senza dolori, ma anche senza gioie, senza un futuro e senza la luce del sole.
L’ambiguo volto della dimenticanza
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pharmakon, dono dato agli uomini dagli dei: «Beviamo, perché aspettare le
lucerne? Breve il tempo./ O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,/ perché il figlio di Zeus e Semele/ diede agli uomini il vino/ per
dimenticare i dolori./ Versa due parti di acqua e una di vino;/ e cola le
tazze fino all’orlo;/ e l’una segua subito l’altra»47.
D’altra parte, l’oblio può avere la funzione catartica di cancellare non
solo le tracce del passato, ma anche ogni aspettativa del futuro, collocandoci in una dimensione di “eterno presente”: in tal modo scompare la successione temporale degli istanti-ora, il flusso inarrestabile del tempo; ciò
che conta è l’ora puntuale, il presente, un punto-ora che si dà come sempre esistito e mai potrà volgere nell’abisso del “già-stato” per fare posto ad
un punto-ora del “non ancora”. Il presente si dilata nell’innocente eternità
circolare del divenire.
Esempi di questo oblio che ci fa immergere in un “eterno presente” sono già in Omero e precisamente in tre episodi, che è possibile rievocare
solo fugacemente. Il primo è nel nono canto dell’Odissea: Ulisse, accolto
dopo un naufragio da Nausicaa e dal padre, il re Alcinoo, nella terra dei
Feaci, racconta le sue gesta durante una festa in suo onore. Nel suo racconto è rievocato l’episodio dell’isola dei Lotofagi, allorché alcuni uomini, inviati dallo stesso Ulisse ad esplorare l’isola, ricevono dagli abitanti un gustoso frutto, il loto, che possiede la virtù di provocare l’oblio. Gli esploratori cancellano completamente nella loro mente non solo il compito appena assegnato, il passato prossimo, ma anche la protensione del futuro, lo
scopo del loro viaggio, il ritorno ad Itaca. Solo un intervento esterno rompe il piacevole incantesimo dell’oblio.
Ulisse rievoca ancora, nel X canto, l’episodio della maga Circe: anche
qui, la bevanda magica che la maga fa bere ai compagni dell’eroe, prima di
trasformarli in maiali, cancella del tutto in loro il ricordo della patria. Ulisse stesso è indotto all’oblio da un incantesimo ancora più grande: l’amore.
Solo l’intervento dei suoi compagni, alla fine, lo spinge ad intraprendere il
viaggio di ritorno. Infine, eloquente è anche l’episodio della ninfa Calipso,
che trattiene per sette anni presso di sé l’eroe. Ad Ulisse, dimentico di
ogni cosa, viene offerto un dono che nessun mortale rifiuterebbe, l’immortalità, se accetterà di restare per sempre nel magico incantesimo dell’amore. L’immortalità è qui metafora di un “eterno presente” che si dilata
senza soluzione di continuità nei due divergenti orizzonti del passato e del
47 Si tratta del frammento 346. Cf. Supplementum lyricis Graecis. Poetarum lyricorum Graecorum fragmenta quae recens innotuerunt, edidit D.L. Page, Clarendon Press, Oxford 1974.
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Pio Colonnello
futuro: eternità è il vivere l’“ora”, senza alcuna preoccupazione del “nonpiù” o del “non-ancora”.
D’altra parte, non mancano, nello stesso mondo mitopoietico greco,
chiare rappresentazioni della dimenticanza nella sua dimensione colpevole.
Un solo esempio tra i tanti – un aneddoto narrato da Cicerone48 e da Quintiliano49 nei loro scritti retorici e ripetuto, anche con varianti diverse dopo
di loro, da molti altri autori – è senza dubbio eloquente: un pugile di nome
Scopa, vittorioso in una gara sportiva, dà incarico al poeta Simonide di Ceo
di comporre un inno celebrativo e di recitarlo durante i festeggiamenti per
la vittoria. Tuttavia, Scopa resta insoddisfatto, perché Simonide avrebbe
assegnato solo una parte minore del poema alle sue gesta, mentre avrebbe
celebrato lungamente i dioscuri Castore e Polluce. Pertanto la decisione di
Scopa è che al poeta spetta solo un terzo dell’onorario concordato, mentre
il resto gli sarebbe dovuto dai dioscuri. Assai significativo è l’epilogo della
storia. Al banchetto celebrativo partecipa anche il poeta Simonide, che però è invitato inaspettatamente a uscire fuori dalla sala, perché due giovani
avrebbero chiesto di parlare con lui; fuori, invece, non c’è nessuno ad attenderlo. In quel mentre, crolla il soffitto della sala, che seppellisce Scopa
e tutti i suoi ospiti. Solo Simonide resta incolume, avendo così gli dei Castore e Polluce pagato il loro debito al poeta; d’altra parte, la dimenticanza
colpevole di Scopa – il cancellare il suo debito di gratitudine a Simonide –
è stata in tal modo severamente punita.
Per venire ad una prima conclusione e per tirare, per così dire, le fila
del discorso, si può osservare che sono state seguite finora due piste ermeneutiche o, meglio, due snodi problematici in cui possono confluire i numerosi sentieri della dimenticanza: un primo paradigma della dimenticanza,
cui si è fatto riferimento, è quello elaborato propriamente dal mondo
ebraico-cristiano; l’altro paradigma, richiamato in queste pagine, è quello
elaborato nell’antico pensiero greco, soprattutto nell’ambito della poesia,
del mondo mitopoietico e del sapere tragico. Proprio la metafisica del tragico richiede particolare attenzione: nelle tragedie, che non sono solo opera di altissima poesia, ma anche espressione di saggezza riflessiva, di sapere
metafisico, non è possibile indicare un teorema che manifesti ai mortali
l’origine del dolore e il suo nesso con la dimenticanza; certamente non è
legge universale che la dimenticanza generi sventura, dal momento che il
dolore non appare, come nella tradizione ebraica, il “salario” del peccato.
48
49
De Oratore II, 86, 352.354.
Institutio oratoria XI, 2, 11-16.
L’ambiguo volto della dimenticanza
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Molto spesso, l’infelicità e la miseria non sono generate dall’uomo, ma dagli dei: non di rado è la dea Ate, la dea che volteggia leggera sul capo dei
mortali, a indurre l’uomo in errore, spingendolo al delitto, alla follia,
all’oblio di ogni cosa. Nella tragedia greca, com’è noto, la ragione primordiale dello scaturire del dolore è nell’innocente crudeltà dell’esistere, in
quel gioco di crudeltà e di innocenza, che è la natura stessa. Nella metafisica del tragico, felicità e sventura, innocenza e colpevolezza, oblio e memoria, fanno parte ugualmente del “gioco” dell’essere – il gioco del fanciullo
eracliteo che gioca a dadi col mondo –, proprio come Dioniso, il dio dalla
furia orgiastica, che è all’origine della tragedia, si manifesta come il dio che
presiede al ritmo alterno dell’origine e della fine, della morte e della rinascita, dell’esaltazione del movimento sfrenato e della sua ricomposizione in
un ordine superiore.
A volere individuare, sia pure per linee generalissime, il discrimine che
separa tra loro le due tipologie, si può notare che nella Weltanschauung mitica, poetica e tragica greca, sono la sofferenza, le sventure, l’infelicità del
vivere che inducono la creatura mortale alla dimenticanza: l’oblio si manifesta, non di rado, come pharmakon contro i mali e il dolore. Nei poeti lirici, come Alceo, tale pharmakon, l’ebbrezza prodotta dal vino, provoca la
cancellazione dei ricordi; nel mito e nella poesia epica, Lete, il fiume
dell’oblio, libera le anime dai ricordi dolorosi della loro esistenza terrena.
Al contrario, nel paradigma ebraico-cristiano, come si è notato, la dimenticanza non è effetto, ma causa del dolore. Nell’Antico Testamento, in particolare, vi sono numerosi esempi della dimenticanza del patto con Jahvé,
oblio che conduce alla miseria e all’infelicità. Si è anche notato, però, che
la stessa dimenticanza, come può essere intesa nella concettualizzazione
greca nella sua dimensione di pharmakon felice, così, nella Weltanschauung
ebraico-cristiana, essa conduce nondimeno al pentimento e questo al perdono; il perdono infine alla speranza. Di qui l’aspetto gianico della dimenticanza, rilevato all’inizio, il suo essere una condizione melanconica e mesta
e, a un tempo, prospera e felice.