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RASSEGNA STAMPA
giovedì 5 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DONNE E DIRITTI
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 05/03/15, pag. 10
Otto barconi soccorsi al largo della Sicilia
Dieci morti, mille salvati
A bordo 30 bimbi e una donna incinta in gravi condizioni
PORTO EMPEDOCLE (Agrigento) Il bilancio potrebbe essere soddisfacente per ufficiali e
marinai che nel Mediterraneo in subbuglio sono riusciti a salvare 1.035 migranti in 24 ore,
portandoli al sicuro nei porti siciliani. Ma l’equipaggio della nave Dattilo — che aveva già a
bordo 318 disperati in fuga da guerre e fame —, quando si è accostato a una vecchia
carretta che affondava, è riuscito a mettere in salvo 121 persone mentre fra le onde già
galleggiavano tanti cadaveri. Dieci quelli recuperati. E poi anche la Dattilo, il pattugliatore
d’altura Fiorillo, motovedette e mercantili entrati in azione, hanno ripiegato verso costa con
i loro carichi dolenti. Così, ancora una volta, arrivano insieme intere famiglie atterrite ma
felici e sacchi neri diretti all’obitorio.
Continua la tragedia del Mediterraneo, con l’insidia del bel tempo che muta di botto
facendo sobbalzare barconi e gommoni. Come è accaduto martedì fino a notte fonda, 24
ore d’inferno per otto operazioni di soccorso alle quali se ne aggiunge una della Marina
tunisina con 86 migranti salvati in extremis al largo della costa di Zarzis. La Guardia
costiera, come sempre allertata con chiamate satellitari spesso effettuate dagli stessi
scafisti, si è spinta fino a 50 miglia a nord della Libia dove sono stati concentrati anche tre
mercantili, uno dei quali ha salvato 183 persone. Poi l’arrivo del Fiorillo con il recupero di
altri 319 migranti e quindi una unità della Marina militare inserita nel cosiddetto dispositivo
Triton.
I migranti viaggiavano su cinque gommoni e due barconi con un carico di famiglie
provenienti dall’area subsahariana, da Siria, Palestina, Tunisia, Libia. Fra loro più di 30
bambini e almeno 50 donne, di cui una siriana incinta in condizioni preoccupanti. Di qui la
decisione di trasferirla con marito e tre figli con una veloce motovedetta dirottata verso il
Poliambulatorio di Lampedusa. Gli altri hanno continuato la navigazione verso Porto
Empedocle dove sono arrivati ieri pomeriggio, ponendo nuovi pesanti problemi. Come
succede a Pozzallo o ad Augusta, ieri il centro provvisorio d’accoglienza è stato installato
al porto, affollatissimo.
Le polemiche continuano a dividere il mondo politico. Il deputato pd Khalid Chaouki chiede
alla Commissione Ue di uscire da «una inspiegabile indifferenza». Appello condiviso
dall’Arci che chiede di aprire «canali umanitari» e da Medici senza frontiere con Chiara
Montaldo: «Mettiamoli in condizione di viaggiare legalmente senza rischiare la vita» . Il
leader leghista Matteo Salvini attacca: «Quei morti pesano sulla coscienza di chi invita
queste persone a partire, quindi Renzi, Alfano e l’Ue li hanno sulla coscienza. Ci stiamo
avvicinando a quota 4 mila morti in poco più di un anno». La replica del ministro
dell’Interno: «Forse Salvini di morti ne voleva 200 mila, così prendeva più voti».
Felice Cavallaro
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del 05/03/15, pag. 9
Dieci morti nel Mediterraneo. L’Europa
promette di svegliarsi
Carlo Lania
ROMA
L’Unione europea si prepara a cambiare la sua politica sull’immigrazione e lo fa proprio nel
giorno in cui altri 10 migranti muoiono dopo che il barcone sul quale viaggiavano nel
canale di Sicilia si è rovesciato a 50 miglia dalla costa libica, mentre quasi altri mille
profughi sono stati salvati dalle motovedette della Guardia costiera insieme a una nave
della Marina militare che partecipa alla missione Triton e ad alcuni mercantili. E proprio la
Libia è uno dei punti su cui l’attenzione europea si concentra maggiormente. Il premier
Matteo Renzi ne ha parlato ieri a Mosca con Vladimir Putin nella speranza che la Russia
possa prima o poi contribuire alla pacificazione del Paese nordafricano, mentre è
guardando a quanto accade sull’altra sponda del Mediterraneo che ieri Federica
Mogherini, nel corso dei lavori della commissione europea sull’immigrazione, ha
sottolineato la necessità di un intervento più incisivo. «Occorre costruire un’autorità statale
in Libia che abbia il controllo del territorio e delle frontiere di terra e in mare», ha detto
l’alto rappresentante della politica estera dell’Ue.
Già, ma come fare? In queste ore sembrano concretizzarsi gli sforzi di Bernardino Leon, il
mediatore Onu che da mesi tenta una difficile trattativa tra Tripoli e Tobruk per contrastare
l’avanzata dell’Is in Libia. Un eventuale accordo tra le fazioni in guerra non potrebbe non
avere conseguenze anche sulla gestione dei flussi in partenza da quel Paese. Nel
frattempo Bruxelle prova a riorganizzare il proprip intervento, anche se con difficoltà.
Tradotte dal linguaggio della diplomazia, le parole della Mogherini si prestano in realtà a
più di un’interpretazione. E’ risaputo infatti che, al di là del cordoglio per le tragedie in
mare, fino a oggi l’Unione si è opposta a politiche di maggior apertura nei confronti dei
migranti, puntando sempre più sul controllo delle frontiere. E questo proprio per
l’opposizione dimostrata ogni volta dai Paesi del Nord Europa. La riprova è proprio nella
missione Triton, che però ora potrebbe cambiare natura. O almeno è quello che si intuisce
dalle parole del vicepresidente della commissione, Frans Timmermans, che farebbero
sperare a una nuova missione pensata sul modello italiano: «L’immigrazione è un
problema che riguarda tutti gli Stati membri, non è più Mare nostrum ma Europa nostra»
ha detto Timmermans, mentre il commissario Ue all’Immigrazione, Dimitri Avramopoulos,
ha ricarato la dose: «Triton ha salvato migliaia di vite umane, ma nel Mediterraneo
dobbiamo fare di più. Non abbiamo altra scelta».
Di sicuro per ora c’è solo il fatto che il processo di Khartoum sembra procedere nella sua
attuazione. L’accordo, stipulato nello scorso mese di dicembre tra l’Ue e alcuni paesi
africani, prevede l’apertura di campi in Africa dove accogliere i profughi in attesa di
esaminare le domande di asilo. Il problema è che ne fanno parte anche governi il cui tasso
di democrazia interna lascia a dir poco a desiderare, come l’Eritrea e il Sudan. Un
particolare che non sembra però preoccupare più di tanto l’Unione. «Non dobbiamo
essere ingenui», ha spiegato ieri Avramopoulos facendo riferimento ai regimi con cui
Bruxelles si prepara a lavorare. «Noi non li legittimiamo, ma vogliamo cooperare contro i
trafficanti di esseri umani. Li coinvolgiamo e li mettiamo di fronte alle loro responsabilità,
ma non offriamo legittimazione politica o democratica ai loro regimi».
Ieri sera la nave Dattilo della Capitaneria di porto è arrivata ad Augusta con le salme dei
dieci migranti morti nel naufragio. A bordo anche i 121 superstiti e altri 318 profughi salvati
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in una precedente operazione di soccorso. Con le vittime di ieri sale a 39 il numero dei
migranti morti nel Mediterraneo nel 2015, mentre sono 8.882 le persone sbarcate nei primi
due mesi dell’anno (il 43% il più rispetto allo stesso periodo del 2014). 67.128 sono invece
gli stranieri presenti nelle strutture di accoglienza. La tragedia ha provocato le solite
reazioni leghiste: «Altri 10 morti e 900 clandestini pronti a sbarcare. A Roma e a Bruxelles
ci sono tasche piene e mani sporche di sangue. Stop alle partenze, stop alle morti, stop
invasione», ha detto il segretario Matteo Salvini. Ma Carroccio a parte sono in molti a
chiedere di ripristinare Mare nostrum. Tra i tanti il Consiglio italiano rifugiati, la Cgil e l’Arci:
«Ancora una volta — scrive quest’ultima al governo — chiediamo di fare scelte concrete e
non chiacchiere: aprire canali umanitari che permettano alle persone di venire a chiedere
asilo in Europa e riattivare Mare nostrum».
Da Corriere.it – Corriere Sociale del 04/03/15
Otto barconi soccorsi al largo della Sicilia.
Dieci morti, mille salvati
di Felice Cavallaro
PORTO EMPEDOCLE (Agrigento) - Il bilancio potrebbe essere soddisfacente per ufficiali
e marinai che nel Mediterraneo in subbuglio sono riusciti a salvare 1.035 migranti in 24
ore, portandoli al sicuro nei porti siciliani. Ma l’equipaggio della nave Dattilo — che aveva
già a bordo 318 disperati in fuga da guerre e fame —, quando si è accostato a una
vecchia carretta che affondava, è riuscito a mettere in salvo 121 persone mentre fra le
onde già galleggiavano tanti cadaveri. Dieci quelli recuperati. E poi anche la Dattilo, il
pattugliatore d’altura Fiorillo, motovedette e mercantili entrati in azione, hanno ripiegato
verso costa con i loro carichi dolenti. Così, ancora una volta, arrivano insieme intere
famiglie atterrite ma felici e sacchi neri diretti all’obitorio.
Continua la tragedia del Mediterraneo, con l’insidia del bel tempo che muta di botto
facendo sobbalzare barconi e gommoni. Come è accaduto martedì fino a notte fonda, 24
ore d’inferno per otto operazioni di soccorso alle quali se ne aggiunge una della Marina
tunisina con 86 migranti salvati in extremis al largo della costa di Zarzis. La Guardia
costiera, come sempre allertata con chiamate satellitari spesso effettuate dagli stessi
scafisti, si è spinta fino a 50 miglia a nord della Libia dove sono stati concentrati anche tre
mercantili, uno dei quali ha salvato 183 persone. Poi l’arrivo del Fiorillo con il recupero di
altri 319 migranti e quindi una unità della Marina militare inserita nel cosiddetto dispositivo
Triton.
I migranti viaggiavano su cinque gommoni e due barconi con un carico di famiglie
provenienti dall’area subsahariana, da Siria, Palestina, Tunisia, Libia. Fra loro più di 30
bambini e almeno 50 donne, di cui una siriana incinta in condizioni preoccupanti. Di qui la
decisione di trasferirla con marito e tre figli con una veloce motovedetta dirottata verso il
Poliambulatorio di Lampedusa. Gli altri hanno continuato la navigazione verso Porto
Empedocle dove sono arrivati ieri pomeriggio, ponendo nuovi pesanti problemi. Come
succede a Pozzallo o ad Augusta, ieri il centro provvisorio d’accoglienza è stato installato
al porto, affollatissimo.
Le polemiche continuano a dividere il mondo politico. Il deputato pd Khalid Chaouki chiede
alla Commissione Ue di uscire da «una inspiegabile indifferenza». Appello condiviso
dall’Arci che chiede di aprire «canali umanitari» e da Medici senza frontiere con Chiara
Montaldo: «Mettiamoli in condizione di viaggiare legalmente senza rischiare la vita» . Il
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leader leghista Matteo Salvini attacca: «Quei morti pesano sulla coscienza di chi invita
queste persone a partire, quindi Renzi, Alfano e l’Ue li hanno sulla coscienza. Ci stiamo
avvicinando a quota 4 mila morti in poco più di un anno». La replica del ministro
dell’Interno: «Forse Salvini di morti ne voleva 200 mila, così prendeva più voti».
http://sociale.corriere.it/otto-barconi-soccorsi-al-largo-della-sicilia-dieci-morti-mille-salvati/
Da Redattore Sociale del 04/03/15
Ancora morti nel Mediterraneo, l’Arci:
“Vittime di leggi proibizioniste”
L’associazione: “Davanti all’ennesima tragedia chiediamo di fare scelte
concrete e non chiacchiere: aprire canali umanitari che permettano alle
persone di venire a chiedere asilo in Europa! Riattivare Mare Nostrum”
ROMA - “Oggi sono dieci i cadaveri recuperati dopo che un gommone partito dalla Libia e
diretto in Europa si è ribaltato nel canale di Sicilia. Dieci morti certi e ottanta tra donne e
bambini recuperati vivi ma con la morte negli occhi”. A ricordarlo è l’Arci, che ricorda come
l’Onu la scorsa estate e molti altri soggetti hanno segnalato come “l’operazione Triton non
ha nulla che a fare con il salvataggio delle persone; Triton è una perversa retromarcia
dell’Italia e dell’Ue; con Triton si è voluto disconoscere la scelta di pensare che sia più
importante la sicurezza e la vita delle persone che le frontiere”.
Per l’Arci, “ogni giorno, d’estate così come d’inverno, la legge del mare viene derisa e
violata. La solidarietà umana negata e umiliata. La responsabilità politica sepolta nei
fondali marini insieme alle vittime dell'ipocrisia. Le persona in fuga da guerre e
persecuzioni non si fermano. Non le ferma il mare grosso, non le ferma il filo spinato, non
le ferma un fucile puntato, un muro di cinta, una montagna, tantomeno le ferma
l’irresponsabilità politica degli attuali legislatori o, più banalmente, il razzismo delle leggi”.
Continua l’associazione: “I pescatori di Lampedusa hanno ricevuto il premio internazionale
delle Colombe d’oro per il loro contributo significativo al mantenimento della pace. I
lampedusani hanno ricevuto il premio Cittadini d’Europa 2014 per essere espressione
genuina dei valori espressi nelle carte dell’UE. Impariamo da loro. Imparate da loro”.
“Ancora una volta – concludono -, davanti all’ennesima tragedia vi chiediamo di fare scelte
concrete e non chiacchiere: aprire canali umanitari che permettano alle persone di venire
a chiedere asilo in Europa! Riattivare Mare Nostrum”.
Da Redattore Sociale del 04/03/15
Buonanno offende i rom, Arci e Naga: “Uno
show vergognoso”
Dopo le dure parole pronunciate dall'Eurodeputato della Lega Nord a
“Piazza pulita”, le associazioni esprimono vicinanza al popolo rom e
all'attrice e attivista Dijana Pavlovic. Arci: "Una vergogna che
personaggi simili ci rappresentino a Bruxelles"
ROMA - "I rom e gli zingari sono la feccia della società". Sono le dure parole
dell'europarlamentare della Lega, Gianluca Buonanno, pronunciate nel corso della
trasmissione Piazza Pulita su La 7. Buonanno si stava rivolgendo a un'altra ospite del
programma Dijana Pavlovic, attrice e attivista politica di etnia rom, alla quale sono giunti
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nelle ultime ore moltissimi messaggi di solidarietà e vicinanza. Tra questi quello dell'Arci
che ha ricordato le tante battaglie condotte insieme alla Pavlovic, definita "compagna di
strada di tante battaglie per i diritti e contro il razzismo".
"Non solo Buonanno ha ripetuto tutti i peggiori luoghi comuni sui rom - ha affermato
l'associazione - ma a favore del pubblico a casa e in studio, che lo ha pure applaudito, ha
calcato la mano con un ‘Voi rom siete la feccia della società’. Solo dopo le offese più gravi
il conduttore è intervenuto per prenderne le distanze e zittire il pubblico plaudente, ma a
quel punto Buonanno aveva potuto completare il suo show vergognoso".
Quello avvenuto negli studi di Piazza Pulita è solo l'ultimo di una serie di spiacevoli episodi
che hanno visto protagonista Buonanno: in passato da sindaco si inventò i cartelloni anti
"vu cumprà", da parlamentare si dipinse la faccia di nero e da eurodeputato si presentò a
Bruxeles indossando un burqa.
"Sul fatto che simili personaggi rappresentino il popolo italiano in istituzioni come il
Parlamento europeo - ha sottolineato l'Arci - in tante altre occasioni abbiamo già detto,
semplicemente ce ne vergogniamo. Quel che vogliamo ora sottolineare è che a questa
corsa dei media a dare spazio e visibilità alle posizioni più becere, rissose e razziste
(basta leggersi i dati dell’Osservatorio di Pavia sulle presenze in Tv di Salvini) pur di
garantirsi un po’ d’audience è diventata davvero intollerabile. Bisogna che la
comunicazione torni a garantire livelli culturali degni di un paese civile, oltreché un reale
pluralismo dell’informazione e delle posizioni. Come Arci valuteremo se ci sono le
condizioni per sporgere denuncia, insieme ad altre organizzazioni, contro Buonanno, ma
soprattutto rafforzeremo il nostro impegno per riportare nell'informazione verità e dignità
sacrificate sull’altare degli ascolti".
Vicinanza e solidarietà a Dijana Pavlovic e a tutto il popolo rom è stata espressa anche dal
Naga, che punta il dito contro la politica rea di "non prendere posizione di fronte ad atti
così gravi, se non per sostenerli".
"Da più di 25 anni - ha affermato Luca Cusani, presidente del Naga - forniamo assistenza
sanitaria, sociale e legale anche ai cittadini rom e sinti e ci impegniamo nella difesa dei
loro diritti e, quindi, di quelli di tutti. Sempre di più ci rendiamo conto che le affermazioni
discriminatorie nei confronti dei rom vengono lasciate scorrere senza che suscitino alcuna
reazione né personale né collettiva. Anzi, spesso con reazioni di sostengo, come in questo
caso. Evidentemente il pregiudizio verso i rom è talmente radicato nella cultura nella quale
viviamo da non essere neanche più riconosciuto e da aver raggiunto il livello ontologico: è
sufficiente essere rom per essere qualcosa di negativo, non serve compiere nessuna
azione. Questa è la realtà in cui viviamo, nell'indifferenza generalizzata. Come Naga - ha
concluso Cusani - continueremo a batterci perché si aprano orizzonti diversi oltre
pregiudizi e stereotipi e, nell'immediato, esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Dijana
Pavlovic".
Da Repubblica.it del 04/03/15
Roma, ma perchè chiudere il Rialto? Come
pensare spazi pubblici diversi
Anna Bandettini
Non capisco che tipo di politica culturale si fa a Roma. Da una parte l'assessore alla
Cultura Giovanna Marinelli apre le porte nientemeno che del Teatro di Roma agli ex
occupanti del Valle per dare sviluppo all'esperienza sul Bene Comune e la Fondazione
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culturale (in sè fatto curioso, vedi post del 17 febbraio) dall'altra il Dipartimento Patrimonio,
Sviluppo e Valorizzazione di Roma Capitale mette i sigilli a uno dei luoghi "indipendenti"
più attivi sul piano culturale come il Rialto Santambrogio, centro di residenza per molte
compagnie, coproduttore di numerose attività, locale, gestito dall'Associazione Culturale
Rialto e dall'Arci, tutto nello spazio di un antico palazzo nella zona del Ghetto. Il motivo del
sequestro preventivo? Pare ragioni di sicurezza.
La polizia ha concesso 30 giorni ai gestori per abbandonare la struttura.
L'associazione Rialto e l'Arci hanno chiesto un incontro urgente con il sindaco Marino e
l'assessore al Patrimonio, ma il risultato per ora è che il Rialto è chiuso.
Non si può "cancellare - hanno denunciato i gestori - un luogo pubblico, non statale, centro
di sperimentazione culturale e sociale e per tanto svincolato dal mero fattore economico".
Una vicenda, sottolineano, "non isolata, ma che si inserisce in una serie di analoghi
provvedimenti che stanno colpendo altri spazi sociali della capitale".
La verità è che quella del Rialto è una storia esemplare di malgoverno culturale, il segno di
come sia impossibile in questa città pensare di organizzare uno spazio in modo diverso.
Il Rialto fu aperto nel 2000 proprio su iniziativa del Comune di Roma per ospitare una serie
di iniziative e artisti da Lucia Calamaro, Tony Clifton Circus, Massimiliano Civica, solo per
citarne alcuni. Chiuso cinque anni fa per gli stessi motivi di oggi, dopo svariati gradi di
processo che ne hanno accertato la legalità, il Rialto fu dissequestrato per ordine del
tribunale nel febbraio del 2014 con il progetto di un trasferimento nell'ex autoparco dei
Vigili urbani di viale delle Mura Portuensi, mai accaduto. Così nello spazio del Ghetto, da
settembre il Rialto era tornato a vivere in maniera continuativa e vivace. Otto spettacoli di
teatro e danza, residenza a più di quaranta spettacoli e nuove drammaturgie. Diciassette
live di musicisti italiani e internazionali, e poi mostre d’arte, proiezioni video, film, finali di
concorsi fotografici e dibattiti, più workshop su arti sceniche, musica e nuove tecnologie,
video, design e impresa culturale.
I nuovi sigilli hanno bloccato 17 date di live e djset, di mostre e proiezioni; 6 spettacoli di
teatro in coproduzione con il Rialto; le tante compagnie che avevano avuto accesso,
sempre gratuitamente, al progetto R2; un festival di 2 giorni per la musica elettronica
indipendente previsto per maggio e un festival di 10 giorni di teatro per compagnie e
nuove drammaturgie inquadrate nel progetto di Tutoraggio a opera delle “compagnie
storiche” che sarebbe stato totalmente prodotto dal Rialto, e previsto per maggio.
http://bandettini.blogautore.repubblica.it/2015/03/05/roma-ma-perche-chiudere-il-rialtocome-pensare-spazi-pubblici-diversi/
Da Adn Kronos del 04/03/15
8 marzo 2015: un mese costellato di incontri,
mostre e spettacoli.
“UDI. Le donne della Val di Chiana si raccontano”. E’ questa l’iniziativa, organizzata
dall’Associazione Archivio della Provincia di Siena, in collaborazione con il Comune di
Chiusi, che il 28 Febbraio ha fatto da “apripista” al “Cartellone 8 marzo 2015”. “Apripista”
non solo per quanto riguarda le date ed il calendario, ma per la capacità di legare memoria
ed attualità. La relazione di Tiziana Bruttini, Presidente dall’Associazione Archivio della
Provincia di Siena “Dalla memoria di lotte e movimenti alla riappropriazione di un impegno:
dalla realtà di ieri a quella di domani” sintetizza il senso di questo 8 marzo 2015, in bilico
tra stereotipi, pregiudizi, vecchie e nuove forme di violenza, ma anche determinazione,
presenza, partecipazione attiva delle donne. Tutto il mese di marzo sarà costellato di
mostre, concerti, spettacoli teatrali, presentazioni di libri, convegni e dibattiti che
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punteranno a mettere in luce questa complessità, affrontando temi quali la violenza di
genere, la maternità libera e consapevole, la genitorialità, l’autodeterminazione, il diritto di
vivere liberamente la propria identità e la rivendicazione della parità di diritti tra i generi. Gli
appuntamenti in Cartellone proseguiranno per tutto il mese di marzo e copriranno tutto il
territorio della provincia. “Anche quest’anno – sottolinea il Presidente Fabrizio Nepi, - la
Provincia di Siena rinnova il proprio impegno nella valorizzazione delle numerose iniziative
promosse su tutto il territorio provinciale da istituzioni, as-sociazioni e Centri pari
opportunità in occasione della Giornata internazionale della Donna. Un calendario ricco di
appuntamenti culturali e politici che vogliono tenere alta l’attenzione sul tema delle
politiche di genere, ed in particolare sulla violenza contro le donne e sulle varie forme di
discriminazioni che ancora limitano le donne e gli uomini nella possibilità di vivere
liberamente e con felicità le proprie identità”. Il Cartellone delle iniziative. Si inizia sabato 7
marzo con tre appuntamenti. A Siena, “La vie en rose” al Circoli Arci Due Ponti, un
pomeriggio di conversazioni, letture, storie, poesie, canti e racconti che parlano di donne.
A Chiusi la presentazione del libro “MAAM La Maternità è un Master” e al Teatro comunale
di Sarteano il monologo "La casa delle bambole". Tanti appuntamenti anche domenica 8
marzo. Si inizia la mattina alle 10 a Cetona con una tavola rotonda che affronta il tema
della violenza contro le donne, in collaborazione con i centri antiviolenza Amica donna e
Pronto donna. Si prosegue a Siena, alle 16,15 con la proiezione del film "Pranzo di
ferragosto" al Circolo Arci di Ravacciano. Alle 16.30 ad Abbadia San Salvatore, al Club 71,
una lettura teatrale a più voci tratta da 'Le Beatrici' di Stefano Benni, mentre a Castiglione
d'Orcia alle 17,00 andrà in scena “Donnacce” un esilarante spettacolo tutto al femminile. Il
Teatro Povero di Monticchiello presenta il film documentario "Io sto con la sposa” che
racconta la storia di Tasnim, una sposa siriana a Milano che insieme al corteo nuziale,
parte alla volta della Svezia attraversando in 20 ore 3000 km e 5 paesi. Per finire
l’appuntamento è a Siena al Teatro dei Rozzi, ore 19,00, con lo spettacolo teatrale
“Ummonte” di Opificio Badesse, che affronta il tema della crisi del prestigioso istituto
bancario da un punto di vista femminile. Altri appuntamenti sono previsti per Martedì 10
marzo a Siena, dove il CUG dell’Università per Stranieri organizza una conferenza con
Cecilia Robustelli su “Genere, grammatica e linguaggio amministrativo” e mercoledì 11
marzo sempre a Siena, al Caffè La Piazzetta in Via Montanini per ascoltare racconti e
testi-monianze video sull'omosessualità femminile tra discriminazioni, stereotipi e
invisibilità nell’ambito dell’iniziativa “Donne che amano le donne”. Giovedì 12 marzo a
Siena, al Museo Civico, andrà in scena “SÌ lo voglio se IO voglio”, progetto teatrale di
Silvia Priscilla Bruni e Margherita Fusi, promosso dalla Provincia di Siena e il Comune di
Siena che parte dalla figura della Sposa, quale icona intoccabile, per parlare di violenza
contro le donne. Sono previste due repliche dello spettacolo, alle ore 19,30 e 21,30. Per
prenotazioni ed info: [email protected] L’Aula magna Storica dell’Università ospiterà
alle ore 17.00 di venerdì 13 MARZO la presentazione del libro “La quadratura del cerchio.
Incarnazione e libertà nel «Liber Divinorum Operum» di Ildegarda di Bingen” di Teresa
Lucente. Sabato 14 marzo, alle ore 15, presso la Biblioteca Comunale di Colle Val d’Elsa,
avrà luogo l’incontro-dibattito “Di genere si può morire. Conoscere per capire, educare e
cambiare”, con Lorella Zanardo, organizzato dal centro antiviolenza
DonneInsiemeValdElsa. Venerdì 20 marzo, il centro antiviolenza Donna chiama donna
organizza nella Sala Patrizi del Comune di Siena, alle ore 16, la tavola rotonda “Violenza:
ragazzi in balìa del cyberbullismo”. Alle 20,30, con replica alle 22, nello spazio HB a
Poggibonsi nuova rappresentazione dello spettacolo “SÌ lo voglio se IO voglio”, per
prenotazioni ed info: [email protected]. Sabato 21 marzo, nella Biblioteca Comunale di
Monticiano alle 17,30 si terrà il convegno “Educare alle differenze”, che sarà l’occasione
per presentare i risultati dei laboratori svolti nelle scuole della Val di Merse sul tema della
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differenza di genere e del contrasto agli stereotipi, mentre mercoledì 25 marzo a
Montepulciano sarà presentato il libro “Amori violenti” di Francesca Pidone da parte del
centro antiviolenza Amica donna. Sabato 27 marzo, l’Associazione Archivio UDI della
Provincia di Siena, alle ore 16,00, nella sala del Teatro "La Lunga Gioventù", organizza la
tavola rotonda “Spazio verde e partecipazione: il giardino dei profumi". Alle ore 17,00,
sempre a Siena, nella sala di Palazzo Patrizi, è in programma “Amore e violenza, un
legame insospettabile” conversazione con Lea Melandri, Presidente della Libera
Università delle Donne di Milano, organizzata da IL GRUPPO, spazio di riflessione
collettiva e intergenerazionale sul pensiero delle donne. Chiude la serie degli
appuntamenti l’iniziativa “Agricoltura Sociale: sfide ed opportunità – esperienze di donne a
confronto", che si terrà martedì 31 marzo, alle ore 10,30, a San Gimignano presso
l’azienda agricola Cappella Sant’Andrea, organizzata da Donne Impresa – Coldiretti.
Rassegne cinematografiche, mostre espositive e concerti Il Servizio Ass.to Pari
Opportunità Unione dei Comuni Valdichiana Senese organizza al Multisala Clev Village di
Chiusi, alle ore 21,00, una rassegna cinematografica sull’universo femminile: lunedì 9
marzo proiezione del film "La bicicletta verde", lunedì 16 marzo "Big eyes" e lunedì 23
marzo "We want sex". Dal 4 marzo, in Valdelsa mostra di ANARKIKKA di Stefania Spanò,
autrice e vignettista, il suo lavoro è un percorso di denuncia sociale con particolare
attenzione alle problematiche femminili. La mostra itinerante sarà al Politeama di
Poggibonsi e poi a seguire in altre sedi dei comuni della Valdelsa. info:
[email protected]. Le Donne CGIL e Spi CGIL mettono in campo idee nuove per la
celebrazione dell’8 marzo: con “ConcertAzio-neDiGenere – Libere di scegliere”, saranno
realizzati nei reparti di ostetricia e ginecologia degli ospedali (ore 15,30) di Montepulciano,
l’11 marzo, di Poggibonsi, il 14 marzo, di Siena il 19 marzo altrettanti concerti per flauto e
pianoforte, introdotti da una breve relazione sulla maternità consapevole. La grafica del
cartellone. Per la grafica del cartellone è stato scelto di riutilizzare un’immagine realizzata
dalle ragazze e dai ragazzi del Liceo artistico - Istituto d’Arte “Duccio di Buoninsegna” di
Siena nel 2012 che mette in evidenza la forza delle donne nel sostenere “il peso del
mondo”, inteso come “pesantezza” nel fare i conti con le quotidiane di-scriminazioni che
ancora sono presenti, ma anche come senso di responsabilità e coraggio nell’affrontarle e
superarle.
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ESTERI
del 05/03/15, pag. 6
Grecia, piano in sei mosse. Riapre la tv
A. Mas
Grecia. Varoufakis all’Eurogruppo: riforma fiscale e della pubblica
amministrazione, misure contro la povertà. Oggi in Parlamento il
progetto di legge per la televisione di Stato: riassunti i 2.800 licenziati
Raramente è accaduto che, in Europa, le mosse concrete di un governo siano finite così
sotto i riflettori come sta accadendo con quello greco. Pure quando un esecutivo
rappresentava una novità nel panorama continentale e da esso si aspettava un
cambiamento.
Non lo è stato ai tempi di Zapatero in Spagna, fatta eccezione per le misure sui diritti civili,
e non è così per i socialisti di Hollande in Francia, le cui misure economiche e sociali sono
sostanzialmente ignote all’opinione pubblica non francese. Tutti attendono invece le
mosse di Tsipras e Varoufakis: cosa proporranno all’Europa? E ai greci?
Ieri mattina, i quotidiani ellenici anticipavano le sei proposte che il ministro delle Finanze di
Atene presenterà lunedì prossimo all’Eurogruppo per ottenere lo sblocco della tranche di
finanziamenti per sette miliardi di euro. Secondo i media greci, il piano comprenderà la
riforma del fisco e della pubblica amministrazione, nonché altre misure per affrontare il
cosiddetto «trittico povertà», che vuol dire cibo, alloggio ed energia per le fasce più deboli.
Si tratta delle «misure umanitarie» sulle quali il governo di Syriza non intende transigere.
Illustrando una proposta di legge presentata in Parlamento, il governo ha detto che
stanzierà duecento milioni per per la distribuzione di buoni pasto, per l’assistenza a chi
non può permettersi un alloggio e per pagare le bollette dell’energia ai meno abbienti. Si
tratta, in gran parte, di un sostegno alle attività di mutuo soccorso che sono fiorite negli
ultimi anni e che già ricevevano un sostegno da parte di Solidarity4all, la struttura creata
ad hoc alla quale i deputati di Syriza devolvono un terzo dello stipendio.
Sarebbe previsto poi un intervento sui debiti dei cittadini nei confronti dello Stato e delle
assicurazioni, una vera e propria emergenza sociale. Il punto è che tutti sanno che si tratta
di debiti insolvibili, almeno sul breve periodo, e l’obiettivo è quello di rateizzarli a lunga
scadenza in modo da produrre un gettito fiscale reale. Nel piano ci sarebbero inoltre la
riforma dell’amministrazione fiscale, l’unificazione delle tasse municipali per la pulizia delle
strade e per la raccolta dei rifiuti, nonché l’istituzione di una nuova agenzia che effettuerà
verifiche fiscali mirate. Anche qui, il punto è riuscire a rendere efficace la lotta all’evasione
e alla diseguaglianza fiscale.
Nel frattempo, si avvicina pure la riapertura dell’Ert, la tv pubblica chiusa d’imperio dall’ex
premier Antonis Samaras un anno e mezzo fa. Oggi infatti sarà presentato in Parlamento
un progetto di legge per la riapertura della tv di Stato. Una notizia molto attesa soprattutto
dai resistenti (giornalisti e tecnici) dell’Ert Open, la tv e radio autogestita che ha continuato
a trasmettere da un palazzo di fronte alla vecchia sede, nel frattempo riaperta da Samaras
con un nuovo nome, Nerit, e appena un terzo dei dipendenti di un tempo, tutti assunti a
tempo determinato e con stipendi più che dimezzati. Ora chiunque lo vorrà, tra i 2.800
licenziati, potrà chiedere di essere riassunto.
Il piano di Varoufakis, che non conterrebbe le misure sulla televisione e neppure quelle
sull’immigrazione (il governo ha deciso la chiusura del centro di detenzione di
Amygdaleza, finito più volte nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani, nonché
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procedure meno restrittive sui controlli agli immigrati), ora dovrà essere vagliato
dall’Eurogruppo. Che dovrebbe valutarne esclusivamente la compatibilità economica.
Varoufakis, astutamente, gioca sul filo del fuorigioco: se gli dicono di no, dovranno
spiegarne le ragioni politiche e non solo finanziarie.
del 05/03/15, pag. 12
Ucraina, Renzi al Cremlino per tentare il
disgelo “Ma stop all’aggressione”
Poroshenko chiede aiuto per la pilota detenuta in Russia Obiettivo del
premier è avere sostegno nella crisi libica
FRANCESCO BEI
DAL NOSTRO INVIATO
MOSCA .
Il nevischio che cade sul Cremlino è leggero come le ambizioni di Palazzo Chigi per la
visita che oggi Matteo Renzi porterà all’uomo forte di Mosca. Nessuno si fa illusioni, tanto
che lo stesso viceministro degli Esteri, Lapo Pistelli, avverte prudentemente che «nessuna
visita è miracolosa». Eppure il premier italiano, rimasto finora ai margini della crisi ucraina,
è deciso a riprendersi un ruolo di primo piano. Forte dei rapporti dell’Italia con Mosca,
Renzi ha scelto di fare da apripista con Putin, sfidando anche l’isolamento diplomatico
imposto dalle sanzioni occidentali contro la leadership russa.
Non sarà quindi un vertice bilaterale, con le delegazioni allargate ai ministri — un formato
diplomatico espressamente precluso dal regime sanzionatorio — ma un più semplice
“pranzo di lavoro” quello che si terrà oggi al Cremlino con Putin dopo il colloquio con il
primo ministro Medvedev alla Casa Bianca. E dopo, ovviamente, che Renzi avrà pagato
un tributo alla memoria dell’oppositore Boris Nemtsov, trucidato da misteriosi sicari sotto il
Cremlino. E proprio da quel luogo, all’imbocco del ponte che porta dalla piazza Rossa,
partirà la giornata moscovita del premier, con la deposizione di un fiore.
Quello che aveva da dire sulla crisi ucraina Renzi l’ha anticipato ieri in un passaggio da
Kiev per la via di Mosca. «Siamo in un momento in cui tutti noi vogliamo il rispetto
dell’indipendenza e della sovranità dell’Ucraina: siamo totalmente impegnati affinché torni
la pace in questo pezzo straordinario della nostra Europa», ha scandito Renzi dopo un
lungo incontro con il presidente Petro Poroshenko. Un sostegno «molto fermo e forte»
apprezzato dal presidente ucraino, alle prese fra l’altro con una drammatica crisi economica. Nonostante i dubbi della vigilia su un possibile smarcamento di Renzi dalla linea
comune concordata tra Ue e Usa, la posizione di Roma non concede ambiguità. Tanto che
Poroshenko si spinge fino a lodare «la ferma posizione italiana» sulla questione del
rispetto da parte russa degli accordi di Minsk. Un’intesa ancora fragile, che i generali della
Nato temono possa soltanto servire alle forze filo-russe per riorganizzarsi e sferrare un
nuovo attacco su larga scala in primavera, quando il terreno sarà meno fangoso e
consentirà ai carri armati di avanzare spediti.
Per questo Poroshenko ieri ha parlato esplicitamente di un possibile indurimento delle
sanzioni, senza incontrare obiezioni da parte di Renzi. «Se l’aggressione contro l’Ucraina
non si ferma le sanzioni devono essere allargate». Il premier italiano ha promesso «ogni
sforzo perché gli accordi di Minsk possano trovare piena efficacia». Tanto che la missione
Osce vede l’Italia come «il secondo gruppo impegnato», seconda solo agli inglesi. E vista
la situazione di crisi profonda di Kiev, Renzi ha promesso anche «il massimo supporto
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possibile alla ripresa del paese» con il coinvolgimento di «aziende, imprese e banche
italiane».
Tra “Petro” e “Matteo” insomma il rapporto sembra solido (oltretutto anche Poroshenko è
un utilizzatore accanito di Twitter), e si vedrà oggi quanto le parole impegnative
pronunciate in Ucraina saranno ripetute davanti a Putin. «Grazie alla leadership di
Poroshenko — si è sbilanciato Renzi — saremo in condizioni di far splendere la pace in
questo Paese». Per favorire una distensione tra il gigante russo e l’Ucraina sarebbe
importante anche un gesto simbolico come la scarcerazione della donna pilota Nadezhda
Savchenko, in sciopero della fame da oltre 80 giorni. Una lettera personale a Putin è stata
inviata ieri da Poroshenko, ma il Cremlino sembra rispondere con un niet. Il presidente
ucraino su Twitter ha scritto di aver chiesto a Renzi di sollevare con Putin il «problema
doloroso » della liberazione immediata della donna, per la quale si stanno mobilitando gli
attivisti di tutto il mondo (in Italia i radicali). Ma se l’Ucraina è la questione più
appariscente, da parte italiana in realtà l’obiettivo politico più importante della visita
riguarda la Libia. E il coinvolgimento attivo della Russia, membro del Consiglio di
sicurezza Onu, in una soluzione negoziata del conflitto tra Tripoli e Tobruk per fermare
l’avanzata dell’Is. Pistelli conferma: «Contando sul fatto che la Russia è un attore globale e
ha numerose proiezioni in Medio Oriente, puntiamo ad acquisire una collaborazione sui
delicati dossier mediorientali, dalla Libia, alla Siria».
del 05/03/15, pag. 7
Renzi da Putin: per Kiev e Libia
Simone Pieranni
Ucraina . Ieri ha incontrato Poroshenko: «Sosteniamo la sovranità del
paese»»
Giornata intensa in Ucraina, sotto molti punti di vista. Nell’est del paese, nella zona nota
per le miniere e le industrie, una nuova tragedia ha coinvolto dei lavoratori. Ieri -secondo
quanto ha riferito il presidente del parlamento ucraino — un’esplosione ha colpito la
miniera Zasyadko a Donetsk.
Le cifre fornite sulla tragedia non concordano granché, tra le varie fonti. Secondo il
sindacato indipendente dei minatori ucraino, al momento dell’esplosione sarebbero state
207 le persone al lavoro nella miniera. Di queste 47 sarebbero ancora disperse. Secondo
il ministero delle emergenze della repubblica popolare di Donetsk oltre 70 minatori sono
rimasti intrappolati e almeno 32 sarebbero le vittime.
A tutte queste voci ha replicato il capo dell’amministrazione distrettuale, Ivan Prikhodko,
che ha respinto le affermazioni del presidente del Parlamento ucraino definendo
«immorale» parlare di 32 morti (sarebbero 10 per ora) visto che le squadre di soccorso
non avevano ancora raggiunto la zona della deflagrazione. Si tratta di una nuova tragedia
che fa da sfondo a un’intensa giornata diplomatica, contrassegnata dall’incontro tra il
premier italiano Matteo Renzi e il presidente ucraino Petro Poroshenko.
Incontro non senza «tensione», perché precedente a quello di oggi tra Renzi e Putin. La
posizione dell’Italia non è comodissima: i media ucraini hanno tenuto a ricordare le accuse
nei confronti di Mogherini e della nostra diplomazia, circa una presunta vicinanza alla
Russia. E del resto tutti sanno che oggi Putin e Renzi parleranno di Ucraina, ma
soprattutto di Libia e Medio oriente. E non è escluso che non esca dal cilindro di Renzi e
Putin un’idea di alleanza, magari anche con il generale al Sisi, per recuperare l’ipotesi di
una guida comune per un ipotetico intervento diplomatico in Libia.
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Nel frattempo Poroshenko ha chiesto a Renzi di perorare la causa di Savcenko, la «top
gun» ucraina arrestata da Mosca (e al centro di un contenzioso che va avanti da tempo)
guadagnando i complimenti del premier italiano. Secondo Renzi — infatti — Poroshenko è
l’uomo giusto per fare le riforme di cui ha bisogno l’Ucraina. «Tutti noi — ha specificato
Renzi in conferenza stampa — vogliamo il rispetto dell’indipendenza e della sovranità
dell’Ucraina».
«Voglio ringraziare l’Italia per l’atteggiamento espresso da Renzi, di un sostegno
all’Ucraina molto fermo e forte», ha ribadito Poroshenko in segno di amicizia. Tra
convenevoli, il premier italiano ha dunque ribadito la vicinanza italiana a Kiev,
confermando la necessità di rispettare gli accordi di Minsk e ha sottolineato la necessaria
partnership strategica a livello economico. «La questione economica in Ucraina ha una
rilevanza fondamentale — ha detto Renzi — faremo di tutto con le nostre imprese e le
banche per dare il massimo supporto possibile all’Ucraina».
E ha proseguito: «Dobbiamo implementare il percorso di Minsk. La priorità della questione
economica è sotto gli occhi di tutti. Ognuno deve dare attenzione alla situazione
economica. Noi faremo la nostra parte».
Il fulcro del viaggio di Renzi, però, sarà concentrato oggi a Mosca. Il premier (che non
vuole ricevere domande su quanto discuterà con il leader russo) però avrà ben altro
personaggio davanti a sé e con ben altri intenti. Renzi dovrà provare a irretire con la sua
parlantina e la sua ricerca della captatio benevolentiae una vecchia volpe come Putin. Gli
scopi del viaggio di Renzi, sono stati spiegati dal viceministro agli Esteri, Lapo Pistelli: sarà
una «visita di poche ore in un momento particolarmente delicato», con due obiettivi:
responsabilizzare la Russia sia riguardo la situazione in Ucraina sia riguardo i vari
«dossier» relativi al Medio Oriente.
E Putin è alle prese con la questione interna relativa all’omicidio Nemtsov, ma tutto
sommato rispetto all’Ucraina è ben soddisfatto. Ha ottenuto a Minsk quanto voleva: un
cuscinetto tra Mosca e l’europa. Intanto nel Donbass, si è aperto un altro straordinario
fronte di guerra, confuso e dai tratti inquietanti, tra ceceni, che stando alle rivelazioni di
The Intercept — utilizzerebbero l’Ucraina come zona di passaggio di jihadisti e nazionalisti
russi: un comandante ceceno, già impegnato nella guerra contro Mosca, è stato ucciso in
circostanze misteriose.
del 05/03/15, pag. 11
Libia, l’Onu lavora a un governo di unità
Il mediatore León: oggi a Rabat vertice tra le fazioni in lotta, tregua più
vicina
Massimo Gaggi
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Mai tanto grave la minaccia della diffusione del
terrorismo del «califfato» in Libia, con gli uomini dell’Isis a Derna e nella Sirta che per la
prima volta sono passati da attentati spaventosi ma circoscritti a vere e proprie offensive
militari. Ma anche mai così vicina la possibilità di far tacere le armi nella guerra civile che
dilania la Libia, dando vita a un governo provvisorio di unità nazionale: le fazioni in lotta si
stanno rendendo conto che del conflitto beneficerà solo il sedicente Stato islamico.
Criticato da più parti per gli scarsi risultati fin qui ottenuti dalla sua azione diplomatica, il
mediatore dell’Onu, lo spagnolo Bernardino León, ha sintetizzato così la situazione
illustrando ieri al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il lavoro fin qui fatto per
riprendere il negoziato tra le fazioni.
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Tentativi fin qui falliti in un clima di guerra di tutti contro tutti. Ma proprio la minaccia
dell’Isis che cerca di sfruttare i conflitti interni per impadronirsi del Paese, sta spingendo le
parti in lotta a tornare al tavolo del negoziato. León, che si è collegato in videoconferenza
con l’Onu di New York dalla sede della Fao a Roma, ha annunciato che la trattativa
riprenderà già oggi in un incontro tra le fazioni in lotta che si svolgerà in Marocco, a Rabat.
Non è il primo summit di questo tipo e quelli precedenti, l’ultimo a Ghadames, in febbraio,
sono falliti. Ma ora León è ottimista. Indica addirittura un ordine del giorno articolato in tre
punti: creazione di un governo provvisorio di unità nazionale; definizione di una serie di
condizioni per garantire la tenuta della tregua; redazione di una nuova Costituzione.
Programma assai ambizioso, ogni dubbio è lecito. Ma León continua a godere del pieno
appoggio delle Nazioni Unite: ieri, nonostante il rappresentante del governo di Tobruk,
l’unico riconosciuto sul piano internazionale, avesse chiesto la fine dall’embargo sulla
fornitura di armi in modo da poter combattere con più efficacia i jihadisti, il Consiglio di
Sicurezza dell’Onu ha deciso di attendere l’esito della mediazione di León prima di ogni
decisione.
Il mediatore ha incassato anche il pieno appoggio del nostro ministro degli Esteri Paolo
Gentiloni che ha incontrato a Roma, nonostante l’Italia, il Paese che ha di gran lunga più
influenza sulla Libia e più interessi in Libia, aspiri a svolgere un ruolo ben maggiore di
quello attuale nella gestione della crisi esplosa non lontano dalle coste della Penisola.
Se uno spiraglio si aprirà davvero, non sarà solo merito della mediazione León. Sono in
parecchi a muoversi: se l’Egitto l’ha fatto con le armi, dopo l’uccisione di 21 suoi lavoratori
copti da parte dell’Isis, l’Italia è attivissima sul piano diplomatico e rilancia la sua
candidatura a un seggio nel Consiglio di Sicurezza Onu essendo, tra l’altro, il Paese
occidentale che dà il maggiore contributo alle missioni dei «caschi blu». Ma si muovono
anche altri: il governo algerino ha reso noto che nei giorni scorsi ad Algeri si è svolto un
incontro segreto al quale hanno partecipato 200 capi politici e militari delle varie fazioni in
lotta in Libia alla ricerca di un compromesso.
Incontri che dovrebbero riprendere nella capitale algerina dopo la conferenza che si terrà
oggi in Marocco e che, evidentemente, nessuno pensa che possa essere risolutiva.
León cerca di stringere i tempi dell’accordo proprio agitando la minaccia Isis. Ma il
generale Khalifa Haftar (in teoria al servizio del debole governo di Tobruk, in realtà capo
brutale e autonomo) annuncia di aver circondato Derna, la roccaforte del «califfato»: è
pronto a bombardarla.
Intanto si continua a combattere ovunque in questo Paese con un governo legittimo
asserragliato a Tobruk, mentre a Tripoli governano gli islamisti. Ieri l’Isis ha conquistato
alcuni pozzi petroliferi nell’area controllata da Tripoli, mentre Zintan, città-Stato fedele al
governo di Tobruk, ma dalla parte opposta del Paese, è stata bombardata da misteriosi
Mig.
del 05/03/15, pag. 34
Sulla facciata di un palazzo sventola la bandiera nera dell’Is. I cecchini
sono pronti a sparare ma l’esercito di Misurata è deciso a sferrare
l’attacco. Nella città simbolo si combatte la partita decisiva della guerra
in Libia. E da oggi a Rabat ripartono i negoziati
L’assedio di Sirte
DAL NOSTRO INVIATO
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VINCENZO NIGRO
SIRTE
LA BANDIERA dello Stato islamico, nera, enorme, sventola frenetica come l’ala di un
pipistrello catturato da una rete, trattenuto dai quattro tiranti allungati sulla facciata dello
Ouagadougou Center. Sembra una di quelle enormi pubblicità esposte nei palazzi delle
nostre città. Il messaggio è chiaro: siamo vincenti, qui comandiamo noi.
In basso c’è l’ingresso dell’auditorium, nel complesso più importante di Sirte, il centro
congressi che Gheddafi fece costruire alla fine degli anni Novanta per ospitare nella sua
città natale un vertice dell’Unione africana. Adesso sul tetto del salone ci sono i cecchini
del Califfato, e tutto intorno le palazzine in cui si sono appostati. Attraversiamo il centro di
Sirte veloci come missili sulle Toyota 4x4 che i nemici del Califfato in Libia, i soldati della
città di Misurata, hanno messo in colonna per farci fare un giro della città. «Ve li facciamo
vedere da lontano, quando soltanto vedranno le nostre macchine capiranno chi siamo,
non spareranno perché sanno che noi reagiamo, ma non vogliamo provocarli ». Il
maggiore Mohammed Zadma assieme al colonnello Suleiman Saltarghi è uno degli ufficiali
che Misurata ha spinto fino a Sirte per stringere l’assedio all’Is. Con questi ufficiali, con i
loro soldati e con gli uomini dell’intelligence che da Misurata ci hanno accompagnato per
250 chilometri fino a Sirte poco alla volta ricostruiamo non solo l’arrivo degli uomini del
Califfo in questa città sul mare, ma anche le condizioni che hanno permesso all’Is di
avanzare in questa zona della Libia.
Lasciamo la strada che riporta verso Misurata, prendiamo una sterrata ed entriamo nel
campo militare installato ben lontano dalla città per coordinare l’assedio dell’Is.
«Innanzitutto dovete conoscere la storia di questa città: qui è nato Gheddafi, qui c’era la
sua tribù, che sempre lo ha difeso e che sempre lui ha privilegiato», dice il comandante
Mohammed Omar: «Qui Gheddafi ha scelto di venire a morire, quando sapeva che
stavamo avvicinandoci a lui. Si è rifugiato a Sirte e a Sirte è stato ucciso». Il maggiore
Zadma srotola una foto satellitare della città, è grande quanto tutto il tavolo, è chiaramente
scaricata da un satellite civile ma con un lavoro da topografi militari. La foto è nitida come
l’acqua del Mediterraneo qui di fronte, con una lente si possono quasi vedere le persone
appostate sui tetti. «Avremmo bisogno di droni, di intelligence, ma intanto andiamo avanti
così…». Quando li attaccherete? Quando li costringerete a ritirarsi? «Stiamo serrando la
rete poco alla volta, non vogliamo distruggere la città e non vogliamo uccidere altri civili.
Vede questo quartiere limitrofo allo Ouagadougou Center? E’ una specie di serraglio in cui
Gheddafi fece trasferire decine di mauritani con le loro famiglie ». Era una delle
transumanze etniche che il Colonnello ordinava per importare popoli e tribù che fossero
fedeli a lui e per deportare e indebolire le tribù ostili».
I mauritani sono rimasti anni, e sono stati foraggiati dal regime. Così come le due principali
tribù dell’area, i warfalla e i gheddafia: «Il risultato è che anche dopo la rivoluzione questa
è rimasta una zona ostile, una zona che le città della rivoluzione, Misurata o Bengasi, non
hanno mai controllato». Sirte è rimasta per mesi ad autogovernarsi con quel poco che il
governo centrale dei rivoluzionari di Tripoli faceva arrivare. «Qui si sono insediati quelli di
Ansar Al Sharia, sono arrivati in forze e per alcuni mesi hanno garantito la pace e l’ordine
», dice il maggiore. «Ansar è stata a lungo nostra alleata perché come loro tanti gruppi
islamici hanno combattuto nella rivoluzione contro Gheddafi. Al tempo della rivoluzione
erano alleati degli americani e degli inglesi, sono stati armati dall’Occidente per
sconfiggere il regime, fino a quello che è successo a Bengasi con l’assalto al consolato
americano».
Due mesi fa qualcosa è cambiato. L’Is, il “Daesh” come lo chiamano qui storpiando la
parola con un soffio di disprezzo, si è collegato ad ex militari gheddafiani. Un fratello di un
torturatore gheddafiano che è in carcere a Misurata, Hussein Karame, è diventato uno
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degli emiri nella zona fra Derna e Sirte. Sostenuti dai post-gheddafiani, gli uomini del
Califfo sono andati nelle basi di Ansar Al Sharia, hanno chiesto prima di convivere, poi
hanno chiesto ai giovani militanti di passare dalla loro parte. «Prima ancora che ci fosse
l’allarme scattato con i 21 egiziani uccisi abbiamo capito che c’era qualcosa che non
andava», dice il colonnello Suleiman: parla italiano, è stato addetto militare gheddafiano a
Roma per otto anni, ma dall’inizio della rivoluzione si è schierato con i suoi concittadini di
Misurata. «Abbiamo avuto dei ragazzi rapiti perché fermati a posti di blocco volanti creati
dal Califfato, poi hanno iniziato a far sparare i loro i cecchini. Noi allora abbiamo
raddoppiato i posti di blocco lungo la litoranea, e abbiamo iniziato a concentrare attorno a
Sirte dei blindati per contenerli, per limitargli lo spazio».
Tre settimane fa l’evento mediatico, l’Is occupa la sede di Radio Sirte, manda comunicati e
diffonde fotografie, attacca il ministro italiano Gentiloni e minaccia di espandersi ancora in
tutta la Libia. Da allora Misurata li assedia. Molti si chiedono perché non hanno ancora
attaccato, chiedono se ci siano trattative sotterranee. «No, trattative dirette con quelli non
è possibile farle, ma parliamo con difficoltà con la città, con gli anziani che sono i leader di
una popolazione a noi ostile».
Il maggiore rimette mano alla carta militare: «Si sono appostati anche qui, sui silos dei
cereali, il posto più alto di Sirte e da lì fino all’auditorium sono capaci di muoversi in questo
quartiere. Se non prosciughiamo l’acqua in cui si muovono la battaglia sarebbe un
massacro».
Mohsen, un amico che incontriamo la sera a Misurata, aggiunge un dettaglio in più:
«Misurata a Sirte controlla l’Is ma non combatte ancora massicciamente per due buone
ragioni: innanzitutto dovremmo schierare artiglieria pesante e carri armati. E poi, visto che
la guerra civile continua, in futuro potremmo sempre essere attaccati: abbiamo i depositi
ancora pieni, ma non possiamo sprecare munizioni in giro per la Libia, con il generale
Haftar che da Tobruk prova a colpirci dall’aria ogni giorno ».
Ecco, la conferma sul campo di quello che l’Onu e i governi più responsabili dicono da
mesi: oggi a Rabat ripartono i negoziati politici. Se presto non ci saranno accordo e pace
fra le fazioni libiche, se continueranno per mesi a farsi la guerra fra di loro, l’Is avrà altri
cento striscioni da far scivolare lungo i palazzi delle città di Libia.
del 05/03/15, pag. 17
Cina, corsa al riarmo
La spesa militare cresce del 10 per cento
Il presidente Xi si garantisce anche la lealtà dell’esercito
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO L’economia della Cina sta rallentando, ma
la spesa militare continua a crescere: quest’anno «intorno al 10%», ha annunciato ieri la
signora Fu Ying, portavoce del Congresso nazionale del popolo, la versione pechinese di
Parlamento che si riunisce per la sessione del 2015 a Pechino. «Siccome è un grande
Paese, la Cina ha bisogno di una forza militare capace di proteggere la sua sicurezza
nazionale e il suo popolo; la storia ci ha insegnato che quando siamo rimasti indietro
siamo stati attaccati, non lo dimenticheremo», ha spiegato la signora.
Secondo i dati pubblicati a Pechino, l’anno scorso per la macchina militare sono stati spesi
132 miliardi di dollari, con un incremento del 12,2% rispetto al 2013. L’aumento del 10%
porterà il bilancio delle forze armate a 148 miliardi di dollari. Molti analisti occidentali
sostengono che in realtà la Cina spende circa il doppio rispetto al dato ufficiale, ma anche
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se il sospetto è fondato, si tratterebbe sempre di una cifra decisamente inferiore rispetto ai
585 miliardi di dollari stanziati da Barack Obama per la difesa degli Stati Uniti.
L’Esercito popolare di liberazione conta 2,3 milioni di uomini e donne e un terzo della
spesa serve a pagare i loro stipendi: per addestramento, vestiario, armamento, paghe,
ogni soldato cinese costa 57 mila dollari, una frazione di quello che ricevono i colleghiavversari americani.
Resta il fatto che Pechino continua a far lievitare la spesa militare a un passo superiore
alla crescita della sua economia. Il Prodotto interno lordo l’anno scorso è salito del 7,4% e
il budget della Difesa del 12,2. Nel 2015 il Pil potrebbe rallentare ancora, attestandosi al
+7% e i generali potrebbero contare invece su uno stanziamento di tre punti superiore.
Qualcuno sospetta che dietro questi numeri si celi la necessità del presidente Xi Jinping di
garantirsi la lealtà dell’Esercito popolare proprio mentre decine di ufficiali cadono sotto i
colpi della campagna anti-corruzione. In carcere sono già finiti il vicepresidente della
Commissione militare (equiparabile al capo di stato maggiore della Difesa) e il numero due
della logistica. La settimana scorsa una nuova decimazione: la Commissione di disciplina
del partito ha arrestato 14 generali. Xi, che presiede la Commissione militare, ordinando di
accrescere la spesa per l’ammodernamento delle forze armate, dice alla «parte sana» dei
suoi generali che il Paese ha bisogno di loro.
L’ammodernamento dell’arsenale cinese è modellato soprattutto sulla proiezione di forza
ad alta tecnologia al di là dei confini. Sono la flotta sottomarina e gli aerei stealth a
beneficiare dell’impegno economico ingente. E l’ascesa della flotta cinese ha provocato
una reazione a catena nella regione. Il Vietnam ha acquistato dalla Russia 6 sottomarini, 6
fregate e 36 caccia Sukhoi; le Filippine si sono rivolte agli Usa per 12 jet e due pattugliatori
navali. I governi di Hanoi e Manila hanno con Pechino un contenzioso sulle isole del Mar
cinese meridionale e vogliono mostrare al grande avversario di non essere disposti a
cedere senza battersi. India e Giappone vogliono tenere il passo e così New Delhi ha
ordinato alla Francia 136 caccia Rafale e agli Usa 22 elicotteri Apache e 8 aerei P-8I
Poseidon da sorveglianza marina. Tokyo ha in cantiere 4 portaelicotteri e ha comperato
dagli alleati americani 42 caccia F-35 e 17 aerei a decollo verticale V-22 Osprey. Spese
multimiliardarie. Per i mercanti d’armi il business è infinito.
Guido Santevecchi
del 05/03/15, pag. 1/17
L’India censura il film shock sugli stupri
Nel documentario parla uno dei killer della giovane violentata e uccisa
nel 2012: “Non doveva reagire, le brave ragazze non escono di sera” La
polemica arriva anche in Parlamento: “È una cospirazione contro il
nostro paese”. La madre della vittima: “A morte l’assassino”
RAIMONDO BULTRINI
NEW DELHI .
Le donne devono stare a casa e si ha il diritto di violentarle se escono la sera. Davanti a
una telecamera della Bbc non ha usato parole diverse da queste uno dei quattro assassini
della giovane indiana stuprata nel dicembre del 2012 a bordo di un bus nelle strade del
centro di Delhi. Non è un caso se ora il documentario anticipato dalla rete inglese con la
cinica e spavalda testimonianza dell’autista di quella notte brava, Mukesh Singh, sta
sollevando in India un’ondata emotiva paragonabile solo a quella del giorno del delitto.
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Il governo ha subito vietato a ogni tv di mandare in onda «in India e all’estero» il trailer e il
film intitolato Figlia d’India , realizzati dalla regista Leslee Udwin, «profondamente
rattristata» dai tentativi di bloccare la sua opera in uscita l’8 marzo per la festa della
donna, quando sarà trasmessa in parecchi Paesi seguita da una campagna globale per i
diritti femminili e la solidarietà di star del cinema internazionale come Meryl Streep e
Freida Pinto.
Intanto la magistratura sta indagando per il reato di «oltraggio alla modestia femminile» e
«disturbo della quiete pubblica» causato dalle parole del detenuto, mentre i responsabili
del carcere di Tihar che hanno permesso l’intervista, sotto pressione dal governo,
accusano la tv di aver violato gli accordi. Il ministro dell’Interno non è riuscito a capacitarsi
di «come sia potuto accadere», e ha annunciato che da ora in poi sarà vietato l’ingresso
nelle prigioni a qualsiasi troupe. Un altro ministro si è spinto a definire il documentario
«una cospirazione contro l’India ».
Molti però si sono detti sconvolti dalle censure di dichiarazioni che fanno in fondo
«emergere una mentalità malata e senza rimorso », come si è espressa ieri la madre della
giovane studentessa di medicina. Gli autori si sono anche rivolti al premier Modi perché, in
nome della libertà di informazione, faccia conoscere a tutti le frasi sconvolgenti
pronunciate dall’imputato: «Non avrebbe dovuto reagire, e accettare ciò che le facevamo
— aveva dichiarato tra l’altro Mukesh — Avevamo il diritto di dargli una lezione, una brava
ragazza non va in giro alle 9 di sera». E ancora: «Una ragazza è molto più responsabile
dello stupro di un ragazzo. Ragazzo e ragazza non sono uguali. I lavori di casa e le pulizie
sono per le ragazze, non girare in discoteche e bar di notte a fare cose sbagliate, con
addosso vestiti sbagliati». Frasi folli dette fuori e dentro l’India, dove però la mentalità
dell’autista stupratore è piuttosto comune e gli stessi partiti politici trattano con cautela le
frange estreme che portano voti.
La madre della vittima, dopo aver ascoltato le parole del killer, ha voluto condannare la
lunghezza del processo. «Queste persone sono una minaccia per la società — ha detto —
e si deve eseguire la loro pena di morte e renderci giustizia. Vogliamo giustizia e la
sicurezza delle donne». Ma per la decisione di trasmettere o meno il documentario si è
rimessa alla scelta del governo.
Di certo la polemica non si placherà presto perché, secondo giornali e commentatori, il
caso dello stupro sul bus ha messo allo scoperto una volta per tutte lo scontro finora
represso tra le due anime dell’India, divise sul ruolo della donna e sui suoi diritti. Santoni
venerati da milioni di fedeli ed esponenti del partito ultrareligioso al potere, il Bjp, avevano
usato più o meno le stesse parole dell’autista violentatore all’indomani dello stupro di
Nirbhaya — vero nome Jyoty — e uno di loro giunse a dire che la ragazza avrebbe dovuto
lasciarsi prendere e chiedere solo a Dio di aiutarla: «Così avrebbe salvato la vita».
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INTERNI
del 05/03/15, pag. 6
Quei pasticci sulle leggi nel governo orfano
dei “grand commis”
Effetto boomerang nella rottamazione degli alti burocrati
Giuseppe Salvaggiulo
«Cosa si aspettava, Renzi, rottamandoci? Noi almeno le leggi le sapevamo scrivere...».
Sorride il consigliere di Stato, commentando dietro lo scudo della riservatezza l’ennesimo
pasticcio legislativo del governo. Prima della scuola, decreto fiscale, partite Iva, Jobs Act:
una decina in un anno, e su materie importanti. Nell’ovattato mondo delle burocrazie
romane, tutto era previsto da quando Renzi si è insediato al governo epurando i grand
commis. «Ora ci sono i petit commis e i risultati si vedono», chiosa uno di loro.
Queste figure (capi degli uffici legislativi, capi di gabinetto, segretari generali) sono «lo
scheletro dello Stato», secondo la definizione di un giurista che li conosce bene. Sono loro
a scrivere le leggi, i politici al massimo indicano obiettivi e di tecnica normativa sanno poco
(quelli ora al potere meno dei predecessori).
Renzi ha operato una rivoluzione. Per la prima volta a capo dell’Ufficio legislativo di
Palazzo Chigi, la sala macchine del governo dove vengono vagliati i testi arrivati dai
ministeri e si elaborano quelli di diretta volontà del premier, non c’è un giurista di alto
rango ma Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze. Ad affiancarla, anziché
quattro-cinque tra presidenti del Consiglio di Stato e consiglieri della Corte dei Conti, solo
anonimi funzionari. Anche nei ministeri sono stati accantonati i giudici delle alte
magistrature. Ora s’arrangiano avvocati di non eccelsa fama e funzionari parlamentari.
Con due difetti: una certa predisposizione all’accondiscendenza politica e una scarsa
capacità di scrittura delle leggi.
Il caso dei consiglieri di Stato è emblematico: il governo Renzi ne ha fatti fuori otto su
dieci, nei posti chiave. A Palazzo Chigi, rompendo una lunga tradizione, non ce ne sono
più. E quando il brillante Roberto Garofoli, ex capo di gabinetto di Letta, è stato ingaggiato
da Padoan al ministero dell’Economia, a Palazzo Chigi hanno storto il naso: nomina non
concordata e di peso tale da controbattere con cognizione ai neofiti giureconsulti di
provenienza fiorentina.
Inoltre Renzi ha rivoluzionato lo stile di governo. Attivismo, esautorazione dei ministri e
annunci rapsodici mandano in tilt gli uffici legislativi. Prima di lui, la prassi era sempre stata
scandita da questi passaggi, gestiti dagli alti burocrati: testi elaborati nei ministeri;
trasmissione all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi; riunioni di coordinamento tra ministeri;
pre-consiglio dei ministri per limare il testo; infine palla ai politici nel Consiglio dei ministri
che vara i provvedimenti. Da un anno questa ritualità è saltata, anche perché il premier
lancia nel dibattito mediatico provvedimenti che non ci sono, vede l’effetto che fa e li
corregge in corsa, virando dove annusa consenso popolare o interessi che non vuole
deludere (vedi il caso liberalizzazioni). Il risultato è che al Consiglio dei ministri arrivano
testi semilavorati, schemi generali quando non slide. I testi vengono corretti o scritti dopo,
spesso male. Esemplari i casi di un decreto legge pubblicato in Gazzetta ufficiale 15 giorni
dopo il Consiglio dei ministri (alla faccia della «necessità e urgenza») e della famigerata e
innominata «manina» che aggiunse la norma pro Berlusconi nel decreto fiscale.
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E quando, nelle riunioni degli uffici legislativi, qualcuno solleva obiezioni, Manzione lo gela:
«Questo lo vuole Renzi». Anni fa, anche Gianni Letta in diceva «questo lo vuole
Berlusconi». Ma capitava tre volte l’anno, non ogni settimana.
del 05/03/15, pag. 6
Lumbard verso la scissione nasce il gruppo
di Tosi Salvini: “Non perdo il sonno”
In Veneto il presidente della Liga fonda una nuova componente. Oggi il
vertice finale a Padova
RODOLFO SALA
MILANO .
É il primo atto del divorzio ormai imminente tra Flavio Tosi e la Lega. Nel consiglio
regionale del Veneto nasce un nuovo gruppo, composto da due fedelissimi del sindaco di
Verona: Luca Baggio (che è presidente delle Liga Veneta) e Matteo Toscani. Con loro un
ex esponente del Nuovo centrodestra, Francesco Piccolo. Il nuovo gruppo si chiama
“Impegno veneto” e la sua costituzione è stata direttamente ispirata da quella Liga Veneta
di cui Tosi è ancora segretario, «per raccogliere in consenso dei tanti moderati che non
voterebbero più la Lega dopo la sua svolta a destra», spiegano i transfughi. Si tratta
dunque di un plateale gesto di sfida dopo il commissariamento del partito regionale deciso
lunedì dal “federale” del Carroccio. Il tutto avviene alla vigilia dell’attesissimo consiglio
“nazionale” della Liga veneta, stasera a Padova. Lì Tosi dovrebbe annunciare le sue
decisioni. Tutto lascia presagire un no secco alle richieste perentorie di Salvini, già
giudicate «inaccettabili» dal sindaco veronese. Zaia viene ricandidato, ma se stasera Tosi
romperà, il passo successivo sarà scendere in campo sfidando il governatore. Con la sua
lista civica e anche con quella costituita ieri in Regione, e probabilmente con l’appoggio
dei centristi del Ncd. Anche se Matteo Salvini cerca di stemperare il clima: «Abbiamo un
ottimo governatore che è Zaia, dice - un ottimo segretario ancora in carica che si chiama
Tosi. se c'è voglia di lavorare bene per Tosi non c'è tanto spazio: di più». E sulla alleanze
aggiunge: «Non è che ci passo la notte e non ci perdo certo il sonno. Vediamo che cosa
fanno gli altri partiti». «La Lega — spiega però il tosiano Baggio. si sta posizionando verso
destra, è questo che spaventa tanti moderati. Ho un passato culturale e familiare che nulla
ha a che vedere con questo estremismo, sono entrato nella Lega perché credevo bei
valori del federalismo e dell’identità dei territori». Valori che, come denuncia Tosi, vengono
messi in discussione dalla svolta impressa da Salvini. Per Baggio la riunione di stasera
«dovrà ribadire l’autonomia del Veneto». Insomma, le liste in vista delle regionali le deve
fare il segretario regionale, altro che commissariamento e ultimatum. Il resto lo dice Matteo
Toscani, l’altro transfugo: «La Lega non è più quella del 1987, lo abbiamo visto sabato a
Roma. La presenza di CasaPound rappresenta per noi un disvalore, noi prendiamo anche
le distanze dalla manifestazione che sabato vedrà Salvini in piazza a Venezia con Fratelli
d’Italia».
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del 5/03/15, pag. 6
Skinhead, ex Msi, antisionisti le amicizie nere
parallele dei duellanti del Carroccio
PAOLO BERIZZI
MILANO .
La Lega Nera li fa e poi (non) li accoppia. Salvini e Tosi. Fratelli coltelli. Con un debole in
comune: l’estrema destra. Xenofoba, razzista, antisemita, nazionalista. Sdoganata da
Flavio e Matteo con tempi e modi diversi. E atterrata sul Carroccio. Se è vero che Salvini
ha imbarcato CasaPound e schiacciando con la sua nuova Lega fasciolepenista
l’avversario Tosi, è anche vero che le truppe del «moderato» sindaco di Verona non sono
proprio composte da boy scout. O soltanto da «sinceri democratici». Al contrario. In
anticipo sui tempi della Lega Nord il borgomastro scaligero i fascisti li ha coccolati,
sostenuti. Ci ha marciato insieme e li ha presi per mano dopo il loro lungo apprendistato
nel serbatoio del Veneto Fronte Skinhead — destra intollerante, odio ultrà, crociate anti
immigrati, concerti nazirock — e delle bande nere legate al Msi. Poi, in cambio di voti, ha
provato a renderli (quasi) presentabili. Fino a portarli nelle istituzioni. Scavando appena un
po’ sotto la superficie, si scoprono nomi che, come minimo, fanno il paio con i camerati
accolti da Salvini in Piazza del Popolo.
Chi sono gli amici «neri» dei due figli illegittimi della Lega, il partito che un tempo, con il
fondatore Umberto Bossi, diceva che i «porci fascisti elettori di An bisogna andare a
prenderli casa per casa» (per questa frase il Senatùr fu condannato nel ‘98)? Eccoli. Da
Verona a Milano. A braccetto con Tosi («è uno stronzo, ha portato i fascisti nella Lega»,
sempre Bossi) e Salvini. Cortei. Convegni. Rimpatriate. Foto ricordo. Gli “unti” da Tosi:
Piero Puschiavo, 50 anni, da Vicenza. Oggi imprenditore, arrestato nel ‘94 per propaganda
razzista, fondatore del Fronte (Vfs) e tra i leader delle teste rasate italiane (prima Msi poi
Fiamma, da cui è stato espulso). Scoppia la scintilla con la Liga veneta. Il 6 ottobre 2013 a
Mantova Puschiavo è alla presentazione della Fondazione Ricostruiamo il Paese di Flavio
Tosi. All’assemblea di “Progetto Nazionale”, di cui Puschiavo è presidente, il 25 gennaio
2014 Puschiavo e Tosi raggiungono l’accordo: pieno appoggio alla Fondazione del
sindaco da parte del nuovo contenitore della Verona nera. Il segretario della Liga, a
differenza di Salvini, è di destra per cultura, origine, ideali. Salvini no, vuole aggregare i
movimenti, li cerca, li corteggia tutti. Anche quelli fascisti. Tosi ha sempre seminato il
campo dell’estrema destra, ha letto i libri di Pino Rauti. Uomo d’ordine, odia il folklore che
Salvini raccatta e rimescola in un frullato dove offre il pass ai neri cresciuti a pane,
cinghiate e Mussolini e intanto dialoga coi neomarxisti come il suo filosofo Diego Fusaro e
si dichiara No Tav e insieme pro Forconi meridionali. Salvini scopre i fasci. Tosi ce li ha nel
sangue. Altro camerata tosiano: Andrea Miglioranzi. Coordinatore di quella lista Civica per
Verona (vecchi arnesi missini, destra di strada, Casapound, ex skinhead) che permette a
Tosi di stravincere due volte. A metà anni ‘90 Miglioranzi, anche lui esponente del Vfs,
anche lui dirigente di Progetto Nazionale insieme a Massimo Piubello (capogruppo lista
Tosi in consiglio comunale), è uno dei primi a finire «dentro»: istigazione all’odio razziale.
Come il leader romano di Casapound Gianluca Iannone, ha il pallino per il white power
rock e coi “Gesta bellica” per anni ha deliziato le platee neofasciste del Nordest con brani
come “Il capitano”, dedicato all’ex capitano delle SS Erich Priebke, “8 settembre” («Io sono
camicia nera: la mia patria è la mia bandiera») e testi antisemiti e xenofobi come “Tu,
ebreo maledetto, giudeo senza patria” o “Furti, droga, musi neri, tutto questo non mi va:
Potere bianco, sola possibilità”. Do- po l’insediamento, Tosi ha la non geniale idea di
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nominare il cantore del Terzo Reich nell’Istituto storico della Resistenza. Oggi Miglioranzi
non siede più nel consiglio comunale ma è presidente di Amia, l’Azienda municipale di
igiene ambientale. Una poltrona Tosi non la nega a nessuno. Per l’avvocato Roberto
Bussinello, già dirigente di Forza Nuova, uno che quando muore Priebke posta su fb un
«Capitano ora sei per sempre con i tuoi guerrieri nei Campi Elisi», arriva la nomina
nell’organismo di vigilanza dell’Azienda comunale dell’energia elettrica e gas. Tutto si tiene
nella nuova Lega nero-verde agitata dal duello Salvini-Tosi. Non sorprende che i camerati
di CasaPound siano accolti a brac- cia aperte anche dal primo cittadino di Verona. L’altra
sponda, in Veneto come in Lombardia, è Progetto Nazionale. Vi hanno aderito anche
Pasquale Guaglianone, ex cassiere dei Nar, milanese, affermato commercialista indagato
nel 2012 dalla Dia di Reggio Calabria per lo scandalo del Carroccio e gli investimenti in
Tanzania. E poi il suo delfino, Domenico Magnetta. Chi è costui? Ex Avanguardia
nazionale, un passato di rapine e eversione, amico e complice (di fuga) del boss di Mafia
Capitale e ex terrorista Massimo Carminati, oggi Magnetta conduce una trasmissione a
Radio Padania Libera. Da’ voce a commercianti “strozzati” da fisco e Equitalia. E spesso
esonda anche sui migranti.
Altri fascisti sedotti dalla Lega lepenista salviniana. Roberto Jonghi Lavarini. Tra i fondatori
di Cuore Nero, oggi è l’anima del Progetto Grande Milano. Che aderisce a Progetto
Nazionale. Soprannominato “Il Barone Nero”, l’Unione delle comunità ebraiche italiane l’ha
denunciato per le sue recenti dichiarazioni antisemite a Le Iene . Eccolo, Lavarini. Anche
lui in posa. Prima con Salvini in maglietta bianca «stop invasione ». Poi con Tosi in
camicia nera. Bipartisan. O forse no.
del 05/03/15, pag. 32
IL POPULISMO DI SALVINI
NADIA URBINATI
IL DECLINO delle ideologie politiche e dell’identificazione dei cittadini con i partiti
parlamentari ha, tra le altre, una conseguenza evidente: la legittimazione del populismo
come fenomeno capace di esprimere le frustrazioni dei cittadini nelle democrazie
avanzate. Il populismo come “grido di dolore”. Discreditato sul suolo europeo per il
passato fascista, il populismo sta così riconquistando terreno anche tra i teorici radicali e
di sinistra, desiderosi di dare della democrazia un significato più carico di implicazioni di
quel che può fare la classica teoria delle regole del gioco. I partiti esistenti facilitano questo
revisionismo, perché non hanno programmi che li distinguono e sono niente altro che
macchine per vincere — winnability invece di “progettualità” è il loro paradigma. E in
questo scenario senza idealità, molti cittadini e movimenti si immettono nel fiume
populista.
Populismo è un termine impreciso, la cui valutazione è legata al contesto storico-politico.
Negli Stati Uniti (dove il People’s Party nato a fine Ottocento ha di fatto segnato l’inizio del
populismo come fenomeno democratico) questo termine ha un significato positivo che
risulta ostico per un europeo. In America Latina, invece, il populismo ha avuto anche
valenza militarista (sorto sull’esperienza del caudillismo) ed è sfociato nel fascismo
peronista. Tuttavia i sommovimenti di popolo hanno avuto anche impatti di
democratizzazione, come nel caso della prima stagione di Chávez in Venezuela, del
movimento del Chiapas in Messico o dell’attuale Nicaragua di Ortega.
Sarebbe sbagliato affastellare tutte le esperienze, quelle dei Paesi post-coloniali con
quelle dei Paesi europei. Nel vecchio continente, da dove le colonizzazioni sono partite, il
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populismo ha preso una valenza sempre nazionalista senza tuttavia avere quell’impatto
emancipatore che è riuscito a volte ad avere negli Stati post-coloniali. Nei nostri Paesi il
populismo mobilita la nazione come forza identitaria e si fa nemico del pluralismo, come
dimostra l’Ungheria di Orbán. Nato una volta che il popolo ha ottenuto l’inclusione politica,
il populismo costituisce il tentativo di catturare il popolo, unificandolo mediante l’uso astuto
da parte di capi-popolo di alcune parole d’ordine o supposti valori atavici.
Nell’Italia democratica il movimento che più espressamente ha incorporato queste
caratteristiche è stata la Lega Nord, sia nella fase costitutiva con Umberto Bossi sia in
questa fase rifondatrice con Matteo Salvini. E il declino e la scomparsa della Lega di Bossi
mostrano come il populismo può crescere fino a quando resta un movimento e non entra
nel palazzo. Se e quando conquista il governo esso o declina, oppure, per non declinare,
si deve fare sovversivo nei confronti delle istituzioni. Non c’è dunque terza via: il
populismo, quando e se va al potere per vie democratiche, deve sfidare la stabilità
costituzionale per non perdere consenso. La Lega di Bossi ha perso perché non è stata
coerentemente populista e si è adattata alle regole del gioco democratico. La Lega di
Salvini a giudicare dagli amici di strada e di lotta che ha scelto — i nazifascisti di
CasaPound — sembra aver capito questa lezione ed è per questo estremamente
pericolosa. Del resto punta verso Roma, ha un progetto eversivo delle istituzioni
democratiche.
Gli entusiasti del populismo come mobilitazione contro le élite e le nuove oligarchie
farebbero bene a comprendere che le masse non fungono da protagoniste nella strategia
populista, ma sono strumenti per consentire un ricambio veloce e dirompente delle élite, o
in un partito o nel governo del Paese. Gli scossoni al sistema non intendono rendere più
democratica la democrazia; sono gli scossoni di un’élite contro un’altra con il popolo che fa
da detonatore. Le strategie dell’audience che i nuovi media e Internet mettono a
disposizione rendono questo gioco più facile e veloce. I populismi sono nemici della
democrazia che subdolamente usano il popolo come mezzo. E la nuova Lega ne è una
prova. Tutto viene affastellato nel cesto delle parole d’ordine di Salvini, anche la svastica
se ciò serve a portare acqua al suo mulino. Il puro strumentalismo è politica senza valori,
winnability della più bell’acqua. Questa è la strategia di un populismo che vuole essere un
regime più che un movimento.
del 05/03/15, pag. 9
Comuni all’asciutto per Expo 2015
Ma a Sgarbi vanno 1,9 milioni di euro
Fabio Poletti
Mancano 57 giorni al via e su Expo 2015 si continua a litigare. L’ultima grana istituzionale
è scoppiata al Pirellone tra il Pd e la giunta del leghista Roberto Maroni. In ballo ci sono
finanziamenti regionali ai Comuni in vista di Expo per «evidenziare la Lombardia come
regione della cultura». Si tratta di 9,8 milioni di euro che servirebbero a finanziare 15
progetti culturali e turistici spalmati tra le varie realtà locali. «Ma i territori per ora
rimangono all’asciutto, i soldi sono finiti altrove...», scuote la testa Alessandro Alfieri,
capogruppo del Pd in Regione che ha fatto i conti in tasca alla Giunta.
Per ora gli unici finanziamenti stanziati prevedono ben 400 mila euro per la comunicazione
di Regione Lombardia e 1 milione e 900 euro per i progetti Bella Italia del critico Vittorio
Sgarbi, ambasciatore culturale nominato dalla giunta per Expo. «Non voglio discutere il
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progetto di Sgarbi ma andava valorizzato pure un percorso importante come quello dei
Comuni lombardi coinvolti nell’esposizione in prima persona», prende bene la mira il
capogruppo del Pd. «L’assessore al Bilancio Massimo Garavaglia ha annunciato che verrà
integrato il fondo ma non ha dato certezza sulla copertura totale dei progetti già avviati da
tempo sui territori».
L’assessore Garavaglia, messo nel mirino, giura e promette di fare presto: «Interverremo
con una prima tranche di 2 milioni e mezzo di euro nei progetti di promozione del territorio.
Sicuramente ci avvicineremo alle richieste delle autorità locali». I soldi sono quelli che
sono ma soprattutto è il tempo che scarseggia dietro a questo Expo 2015 che corre veloce
come un treno per mantenere tutte le promesse.
E quella sui finanziamenti - nazionali, regionali, territoriali, giù giù fino agli spiccioli - rimane
la parte più ostica perché i soldi sembrano non bastare mai. Se ne lamenta pure Vittorio
Sgarbi, ambasciatore commissario a titolo gratuito per le belle arti in Regione Lombardia e
amministratore della Fondazione Bagatti Valsecchi: «In effetti la cifra stanziata è oscena
ma modestamente oscena. Perché alla fine voglio ben sperare che sia di più, molto di più
del milione e 900 mila euro stanziato. Anche se forse certi politici locali ignorano le
meraviglie di questa città che abbiamo il dovere di valorizzare e mostrare al mondo». E
per battere cassa Sgarbi l’ambasciatore fa l’elenco di quei palazzi che vorrebbe ancora di
più valorizzare in vista di Expo 2015: palazzo Clerici, Litta, Isimbardi, Cusani, il Cenacolo.
Ma si sa che la coperta dei finanziamenti è assai corta. E tic-tac mancano meno di due
mesi al via di Expo 2015.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 05/03/15, pag. 2
Governo diviso sulla giustizia stop alle norme
anticorruzione lite su falso in bilancio e
prescrizione
Il ministro Boschi: “C’è una ipotesi di accordo. Siamo fiduciosi” Il
garante Cantone difende l’esecutivo: “È una norma ben fatta”
ROMA .
Giornata tormentata sulla giustizia per governo e maggioranza. Alla Camera, infatti, Area
popolare si accoda a M5S e Forza Italia e in commissione Giustizia vota contro
l’emendamento dei relatori, condiviso dal governo, che allunga i tempi di prescrizione per
la corruzione da 8 fino a 18 anni. Dunque maggioranza spaccata. Al Senato, invece, la
conferenza dei capigruppo decide di rinviare l’approdo in aula del ddl sulla corruzione,
previsto per oggi, al 17 marzo. Protestano i grillini che vorrebbero stringere i tempi, mentre
Forza Italia in commissione fa l’ostruzionismo contro il provvedimento. La situazione è
complicata dal malessere dei senatori per il fatto che non hanno visto arrivare l’annunciato
emendamento governativo sulle nuove norme sul falso in bilancio ampiamente descritto
dalla stampa. Una situazione che ha portato alla protesta degli stessi senatori del Pd che
chiedono anche di riportare a 6 anni il massimo delle pena per le società non quotate. Ma
il testo del governo viene promosso da Raffaele Cantone: «Si tratta di una norma ben
fatta», dice il presidente dell’Anticorruzione. A Montecitorio, intanto, Area popolare giudica
«incivile» l’allungamento dei tempi di prescrizione per la corruzione. I grillini invece sono
contrari per il motivo opposto: avrebbero voluto aumentare i tempi anche per altri reati, per
esempio la concussione. Il ministro Andrea Orlando cerca di stemperare le polemiche e
dice: «Discuteremo, l’esame del provvedimento è solo all’inizio, ma va salvaguardata una
specificità dei termini di prescrizione per i reati di corruzione».
Ottimista, invece, la ministra Maria Elena Boschi: «La maggioranza ha già individuato
un’ipotesi di accordo. Sono molto fiduciosa che si troverà un accordo».
del 05/03/15, pag. 2
L’altolà di Palazzo Chigi ad Alfano
“Non può mettersi di traverso”
E Grasso critica la maggioranza “Sembra la
tela di Penelope”
IL RETROSCENA
LIANA MILELLA
ROMA .
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Stop di Renzi ad Alfano sull’anti-corruzione — «No, non ti puoi mettere di traverso così
come i tuoi hanno fatto oggi» — e tagliola di Grasso sui tempi di discussione in Senato. Un
“unodue” che potrebbe bloccare le diatribe nella maggioranza e i rinvii senza fine sulle
nuove norme anti-mazzette. Cominciamo da Piero Grasso. È appena finita la riunione dei
capigruppo quando il presidente del Senato reagisce così: «Parlare della corruzione? Per
dire cosa? Nelle ultime due settimane solo sul falso in bilancio siamo passati da niente
soglie a soglie percentuali, poi soglie con cifre, poi di nuovo niente soglie, le pene che si
alzano e si abbassano, intercettazioni si poi no poi forse. Non posso rincorrere le voci del
giorno, non sarebbe serio da parte mia. Parlerò quando ci sarà un testo definitivo ». Parole
amare, si può ben dire in questo caso. Sono dell’autore del primo disegno di legge sulla
corruzione. Pronunciate quando i capigruppo di palazzo Madama hanno deciso di rinviare
ancora, e di ben due settimane, la discussione in aula del disegno di legge anti-corruzione.
Testo importante perché non solo contiene la nuova versione del falso in bilancio, ma
anche le nuove pene sulla corruzione e sull’associazione mafiosa.
Grasso si ferma ancora qualche minuto, giusto il tempo di un’altra staffilata: «Come diceva
Totò, ogni limite ha una pazienza: ormai più che di ddl Grasso dovremmo parlare di ddl
Penelope, perché questo tira e molla va avanti da troppo. Ora è calendarizzato per il 17
marzo, e il 15 la mia proposta compie due anni ». Già, perché fu proprio Grasso, nel primo
giorno da senatore del Pd dopo aver messo in pensione la toga da procuratore nazionale
antimafia, a presentare il testo che attende di essere approvato da 730 giorni. Un testo
che, nello scontro all’interno del governo e tra maggioranza e opposizione, rischia pure di
tornare a essere il testo base per la discussione in aula.
Perché ieri Grasso ha fatto una mossa per non rinviare più, nemmeno di un giorno, l’avvio
del voto. Non ha utilizzato la formula di rito che consente un ulteriore slittamento anche se
il dibattito in commissione non è finito. Mentre alla Camera continuavano a litigare Pd e
Ncd sulla prescrizione, e mentre il ministro Boschi si accorgeva di non poter presentare in
commissione Giustizia del Senato l’emendamento sul falso in bilancio perché, tra l’altro,
contiene il marchiano errore di fare riferimento a una legge, quella sulla tenuità del fatto,
che ancora non esiste (se va bene, sarà approvata martedì dal consiglio dei ministri), ecco
la mossa di Grasso che spiazza i litiganti e obbliga a chiudere. Martedì 17, brutta data per
chi è scaramantico, il governo dovrà essere pronto. Il giorno prima, lunedì 16, dovrà
esserlo alla Ca- mera, perché lì, in aula, si comincia a discutere del disegni di legge sulla
prescrizione, quello su cui il governo si è spaccato ieri.
Ma il governo sarà pronto? Gli alfaniani hanno i denti affilati, sulla prescrizione più lunga
per i reati di corruzione non vogliono mollare. Il vice ministro della Giustizia Enrico Costa,
con l’aria di chi la sa lunga, dice che «il testo non sarà questo, sarà diverso ». Ma da
palazzo Chigi e da Renzi è già arrivato un segnale molto chiaro ad Alfano e ai suoi, un
messaggio del tipo «sulla corruzione non ammetto cedimenti, dobbiamo andare avanti
spediti ». Messaggio rimbalzato subito nelle parole del Guardasigilli Andrea Orlando
quando dice che «bisogna salvaguardare la specificità dei termini di prescrizione per i reati
di corruzione». Lì sta tutta la battaglia di ieri alla Camera e quella futura.
Tecnicamente sono solo tre righe, politicamente è un’enormità. La norma è criptica, «i
termini di prescrizione sono aumentati della metà per i reati di corruzione e di corruzione in
atti giudiziari». Significa che, per quei delitti, la prescrizione verrà misurata nel massimo
della pena più la metà, e non solo un quarto come avviene adesso. Renzi richiama
all’ordine Alfano, ma gli alfaniani come Costa battono i pugni e parlano già come se
avessero ottenuto l’assicurazione che invece le tre righe saranno cassate e che la
corruzione sarà trattata al pari degli altri reati. Nessun aumento. Già lanciano il ricatto «se
la legge non cambia noi non la votiamo».
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Succede lo stesso sull’anti-corruzione e sul nodo del falso in bilancio, protagonista in
questo caso Federica Guidi. La titolare dello Sviluppo economico ha detto con chiarezza
ad Orlando che lei il testo così com’è non lo sottoscrive, perché non solo penalizza le
piccole imprese ma, come dice Confindustria, contiene indicazioni generiche che danno
troppo potere ai giudici. Un falso in bilancio che la sinistra del Pd già giudica non votabile,
dovrebbe essere ulteriormente ammorbidito. Per questo Orlando e la stessa Boschi hanno
potuto soltanto prendere tempo. Se ne riparla martedì durante il consiglio dei ministri.
Ultima tappa oltre la quale, senza un accordo, si rischia soltanto una prossima débacle
parlamentare sul anticorruzione e prescrizione.
del 05/03/15, pag. 22
La commissione antimafia ora indaga
sull’antimafia “Basta con i falsi paladini”
Dopo i casi di Montante e Helg via all’inchiesta parlamentare Rosy
Bindi: “Non faremo i poliziotti ma nel movimento serve trasparenza”
EMANUELE LAURIA
DAL NOSTRO INVIATO
CALTANISSETTA .
Ora la commissione antimafia indaga sull’antimafia, nella Sicilia in cui buoni e cattivi si
confondono. Non era mai successo, in mezzo secolo di storia dell’organismo parlamentare
che vigila sulla criminalità organizzata: sotto la lente finiscono non più, non solo i boss, ma
anche chi almeno sulla carta li combatte. È una decisione che matura nel giorno in cui la
commissione sbarca a Caltanissetta, la città che fu capitale di una Cosa nostra antica,
quella di don Calò Vizzini, e oggi è il cuore di un movimento di lotta moderno, quello degli
imprenditori schierati contro il racket. Ma il leader di questo movimento, il presidente di
Confindustria Sicilia Antonello Montante, è sotto inchiesta per concorso esterno, chiamato
in causa da cinque pentiti per le sue frequentazioni con i capi famiglia locali. Un simbolo,
Montante, di un sistema di potere con addentellati saldi nella Regione siciliana che si è
consolidato sotto le insegne della legalità.
Storia diversa ma che, per le sue ambiguità (almeno finché i magistrati nisseni non
faranno chiarezza), non è così lontana da quella di Roberto Helg, il numero uno della
Camera di commercio di Palermo che predicava la buona battaglia contro gli estorsori ed
è stato colto in flagrante mentre intascava una tangente. «Per fare una lotta vera alla
mafia — dice la presidente della commissione Rosy Bindi — bisogna avere un’antimafia
trasparente. Quando ci sono delle ombre sull’azione di chi è considerato pioniere della
battaglia al malaffare in campo economico e sociale, si indeboliscono gli anticorpi nei
confronti di Cosa nostra. È nostro compito capire, senza intenti polizieschi. Non si può
praticare la legalità per una convenienza di parte». Nella prossima seduta sarà stabilito il
calendario dei lavori di questa inedita inchiesta sull’antimafia: la Bindi non esclude che
venga sentito lo stesso Montante.
Nessun commento sulla vicenda giudiziaria del delegato alla legalità di Confindustria, ma
la Bindi ha auspicato le sue dimissioni, e non soltanto l’autosospensione, dall’agenzia dei
beni confiscati: «Se un soggetto è un potenziale assegnatario dei beni — afferma — non
può fare parte dell’organo che li assegna ».
Alla missione dell’Antimafia a Caltanissetta non ha partecipato il senatore Beppe Lumia,
vicino a Montante e (almeno in passato) a Helg: ufficialmente Lumia era impegnato in
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commissione Giustizia. Il vicepresidente Claudio Fava ha annunciato che una
sottocommissione da lui guidata sentirà quei giornalisti che hanno avuto rapporti
economici con l’industriale nisseno. «C’è un problema evidente — dice Fava — che è
quello dell’antimafia dei pennacchi e degli affari, di un assetto di potere che si estende
anche ad altri mondi: opportuno un approfondimento. Anche per distinguere fra chi
combatte Cosa nostra e chi semplicemente costruisce carriere».
del 05/03/15, pag. 16
Libera dalle mafie
Silvio Messinetti
ISOLA CAPO RIZZUTO
Storie. Omissioni, aggiunte, sostituzioni. Al processo contro l’ex
sindaca antimafia di Capo Rizzuto Carolina Girasole si smontano le
intercettazioni sui favori ai clan
Nessuno riuscirà mai a spiegare a Josef K. il motivo del processo che un’autorità
giudiziaria incalzante gli ha intentato. Neanche prima del tragico epilogo, quando il
protagonista del romanzo di Franz Kafka verrà giustiziato. Nella narrazione gli spiragli che
sembrano illuminare la realtà sono subito oscurati da una penombra che non si dilegua, da
una macchina della giustizia fosca ed impenetrabile che annichilisce il protagonista in una
condizione di grottesca semilibertà vigilata. Invece, Carolina Girasole, già sindaco di Isola
di Capo Rizzuto e per anni considerata testimonial dell’antimafia, referente di Libera, i capi
d’imputazione per cui è a processo da più di un anno a Crotone, e prima ancora agli
arresti, li conosce eccome. Ma tanto l’attività investigativa quanto il dibattimento stanno
dimostrando come a volte la giustizia può farsi ingiustizia e mostrare il suo volto peggiore.
Quello dell’errore giudiziario e, chissà, persino della trappola.
Il 4 dicembre 2013 Girasole e suo marito Franco Pugliese vengono tratti in arresto. La
custodia cautelare si protrarrà per 8 lunghi mesi. La tesi accusatoria è descritta
dall’informativa della guardia di finanza e poi ripresa dall’ordinanza di custodia cautelare.
In sintesi: «Il sindaco Girasole attraverso suo marito avrebbe chiesto alla cosca Arena i
voti in cambio di favori. I voti li avrebbe ottenuti nella misura di almeno 1350. Il sindaco
avrebbe favorito i mafiosi perché invece di distruggere i finocchi nelle terre confiscate li ha
messi all’asta». Questa tesi infamante sarebbe «provata» da due «fondamentali»
intercettazioni di conversazioni tra mafiosi, in cui questi, parlando tra loro e delle loro cose,
metterebbero in campo notizie «indubitabili» atte a provare la tesi dell’accordo tra Girasole
e la cosca Arena. In una prima si parlerebbe di mille voti. In una seconda di 350 voti.
Nonchè la sottolineatura, ripetuta più volte, che tutta la famiglia Arena si sarebbe attivata a
favore dell’ex sindaco perché, come dice uno dei mafiosi, «Pasquale Arena, facendo favori
ai cristiani (alla gente, ndr) raccoglieva i voti». Infine, la convinzione espressa dal
capomafia Nicola Arena che «se il sindaco poteva fare qualcosa l’avrebbe fatta (a
proposito dei terreni confiscati, ndr)». In realtà, tutte le intercettazioni risultano
«sostanzialmente manipolate» nella loro trascrizione: omissioni, aggiunte inesistenti,
trasformazioni del maschile in femminile, sostituzioni di termini. Ciò lascia intravedere un
«disegno ideologico» — secondo la difesa — atto ad incastrare Girasole e farla cadere ai
tempi in cui le intercettazioni vennero captate. Ovvero sul finire del 2010, quando era
chiaro il suo orientamento di affidare a Libera le terre confiscate piuttosto che ad
associazioni locali probabilmente collegate agli Arena. Le intercettazioni ritenute
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«fondamentali» dall’accusa sono del tutto inattendibili. Dall’ascolto della prima risulta falso
che la parola «1000 voti» sia stata pronunciata (il mafioso dice «‘na vota», volendo
affermare che avrebbe parlato «non solo una volta» con il marito di Girasole: al posto di
«’na vota» l’informativa della gdf scrive «1000 voti»).
Anche l’altra intercettazione è fallace. I 350 voti di cui si parla sono chiaramente riferiti alle
elezioni provinciali di Crotone e sarebbero stati raccolti non per Girasole, che non
partecipò a quella competizione elettorale, ma per un signore (di cui peraltro si sente il
nome e cognome), vituperato come «merdoso» e «ricchiuneddu» e perciò detto anche
«fimmina». Anche questa conversazione risulta manipolata: il discorso è tutto chiaramente
al maschile (lui… iddhu etc), a un certo punto viene introdotto il termine «sindaco» e
facendo riferimento all’espressione «fimmina» si declina tutto al femminile. Insomma, un
pasticcio investigativo in cui si scambiano le identificazioni dei soggetti (Pasquale Arena di
cui si legge nell’ordinanza non è il figlio del boss ma solo un omonimo), ci sono aggiunte
malevole, omissioni parziali. Un blob di 15 intercettazioni in cui mai si ascolta la voce del
sindaco Girasole o del marito ma solo conversazioni tra mafiosi. E in cui mai risulta che gli
Arena abbiano dato un solo voto a Girasole.
Per la difesa è stata costruita ai suoi danni «una vera e propria trappola per ostruirle la
carriera politica e rovinarle la vita». Esiste, peraltro, una documentazione cospicua fornita
dalla difesa al tribunale che attesta «l’attività di contrasto» di Girasole alla ‘ndrangheta e
agli Arena. A partire dal fatto incontrovertibile che i 100 ettari sono stati sottratti alla
disponibilità del clan solo grazie alla caparbietà del sindaco. Che, se avesse voluto,
avrebbe potuto consegnare i terreni ad associazioni locali, cosa gradita al boss Nicola
Arena come pur si sente nelle intercettazioni. Il sindaco, invece, in accordo con la
prefettura, li ha consegnati a Libera di don Ciotti.
Il dibattimento in corso sta smontando il castello accusatorio pezzo per pezzo. Una cosa è
certa: l’odissea giudiziaria ha distrutto la carriera politica di Girasole. Non è più sindaco e
non ha più ambizioni nazionali. Ora Isola di Capo Rizzuto è in mano alla destra. Il nuovo
sindaco è di Forza Italia e si chiama Gianluca Bruno, giovane e aggressivo con la foto di
Dell’Utri nell’album di facebook. Molta voce in capitolo hanno le Misericordie di don
Edoardo Scordio, un parroco potente e discusso che mal ha digerito l’arrivo in paese di
don Ciotti e di Libera, sponsor Girasole. Bruno per anni è stato nel consiglio direttivo delle
Misericordie. Un pozzo di danaro, la confraternita. La posta di bilancio più alta è l’appalto
del Cie/Cara Sant’Anna, un fiume milionario. L’anno scorso l’ex ministra Kienge vide coi
suoi occhi le condizioni fatiscenti del campo. Il Cie è stato chiuso dopo le rivolte dei
migranti. Rimane il centro d’accoglienza più grande d’Europa che, a dispetto del nome, è
tutt’altro che accogliente. Qualche giorno fa una delegazione della campagna
LasciateCIEntrare lo ha visitato. «Appena entrati ci siamo diretti verso il Campo A che da
più di 10 anni si trova lì e si compone di tanti container di ferro al cui interno dimora una
dozzina di asiatici e maliani in condizioni igieniche insane — raccontano Ciccio Gaudio e
Yasmine Accardo — l’assistenza sanitaria è penosa perché è difficile incontrare i medici. Il
cibo è insufficiente, senza né gusto né sapore, oltre che non avere nessuna indicazione se
sia o meno halal, nel caso si tratti di carne. Ogni migrante è costretto ad accettare le
condizioni del campo per paura o per ricatto, visto che gli si dice “o così o niente permesso
di soggiorno”. La storia più triste è quella di una donna marocchina che ha partorito nel
campo dopo una lunga sofferenza e che ora ha una figlia malata di 4 mesi, nata dopo un
intervento dentro al Cara, senza aver mai visto l’ospedale. Siamo poi giunti al posto di
prima identificazione dove abbiamo trovato più di 50 persone tra uomini, donne e bambini
tutti siriani, appena arrivati da Lampedusa. Stavano tutti dentro un capannone, un posto
davvero indegno per una prima accoglienza. Ci siamo avvicinati a un giovane, che aveva
la stanchezza tracciata pesantemente sul viso. Stavamo scambiando due chiacchiere
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quando è arrivato un funzionario che ha cominciato a gridare. Diceva che noi non
potevamo stare lì e chiamato la polizia, l’esercito, i carabinieri per impedirci di restare
sebbene autorizzati. Quindi siamo stati accompagnati fuori e dopo un po’ siamo stati
richiamati da un siriano. Volevano costringerlo a prendere le impronte con la forza. Così
siamo entrati di nuovo, però la polizia ci ha impedito di parlare con loro, che erano già in
sciopero della fame. Abbiamo spiegato che non potevano prendere le impronte contro la
volontà dei migranti, che già erano arrivate segnalazioni di percosse ai siriani. Abbiamo
chiamato un avvocato ma non è stato fatto entrare. Poi è arrivata un’altra attivista. È
entrata anche lei, ma non le è stato permesso di vedere i siriani. Si tratta nient’altro che un
campo di vergogna».
Nonostante da oltre dieci anni il Sant’Anna sia nell’occhio del ciclone, non viene mai
chiuso e l’appalto è sempre rinnovato. Le Misericordie continuano a sguazzare nel
business dell’accoglienza e hanno un sindaco nella loro orbita. Nel mentre, la loro
avversaria, Carolina Girasole, vive un dramma giudiziario da oltre un anno. Intrappolata in
una macchina giudiziaria sorda e kafkiana.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 05/03/15, pag. 1/11
Immigrati, tensione a Bruxelles: «Ora
cooperare con i dittatori»
La sfida del commissario Avramopoulos. A maggio un piano in 4 mosse
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES È amaro solo pensarlo, ma così è: a
colpi di naufragio, una tragedia dopo l’altra, mentre nel canale di Sicilia muoiono ancora
dieci migranti e in 24 ore altri mille vengono salvati dalla guardia costiera italiana, l’Unione
Europea scopre che «l’immigrazione è un problema che riguarda tutti gli Stati membri, non
è più Mare Nostrum ma Europa nostra» (parole di Frans Timmermans, primo
vicepresidente della Commissione Europea). E sempre la Ue ammette apertamente,
ancora con Timmermans, ciò che finora era solo sussurrato, concesso per metà, a volte
perfino negato: nel Mediterraneo le vecchie misure non bastano più, ci vuole più
solidarietà fra i Paesi membri, ci vuole una «politica più aggressiva nei confronti dei
trafficanti di esseri umani».
Mentre il commissario europeo agli affari interni, Dimitris Avramopoulos, si spinge ancora
più in là: «Non dobbiamo essere ingenui», per combattere i trafficanti può essere
necessario «collaborare con dei regimi dittatoriali, ma ciò non significa che li legittimiamo».
Un’affermazione mai prima udita a Bruxelles, probabilmente non condivisa da tutti
(Timmermans non ha voluto commentarla), e però rivelatrice della tensione su questo
tema.
Tutto ciò avviene nel corso di una riunione dai toni drammatici della Commissione
europea, sintetizzata nella conferma dell’emergenza ufficiale: cioè nell’anticipo a maggio
—prima scadenza possibile, nei fatti — delle misure già previste per luglio dall’Agenda
europea sulle migrazioni. Sulla base di quattro priorità: «Migliorare il meccanismo del
sistema di asilo con una maggiore sinergia tra gli Stati membri, e garantendo che le regole
vengano applicate nello stesso modo in tutti i 28 Paesi»; «far meglio nel proteggere le
frontiere», rafforzando le possibilità dell’agenzia di sorveglianza delle frontiere Frontex, e
operando «in modo che lo scambio di informazioni sia migliorato»; poi, appunto, realizzare
«una politica aggressiva nella lotta all’immigrazione illegale, in particolare contro coloro
che con la mira di far soldi si rendono colpevoli delle tragedie» del mare, coloro «che
stanno dietro il traffico di esseri umani, o l’offerta di navi»; infine, quarta priorità, bisogna
«migliorare le possibilità dell’immigrazione legale».
Altre esperienze hanno insegnato come, nella casa comune degli europei, le parole dei
politici possano sedare, diluire, anche le emozioni più forti. Ma qui, ormai, sono le cifre a
urlare, e a scuotere le sale più ovattate di Bruxelles: solo nel 2014, secondo Frontex, oltre
276 mila persone sono entrate illegalmente in Ue, e 220 mila l’hanno fatto rischiando le
proprie vite in mare; dei morti, nessuno conosce il numero preciso.
Il fatto stesso che la Commissione abbandoni certe cautele diplomatiche, e cominci a
chiamare le cose con il proprio nome, sembra marcare un cambio di marcia. A conferma di
questo, il «ministro degli esteri» della Ue, Federica Mogherini, ha inserito il tema
dell’immigrazione fra i punti all’ordine del giorno del consiglio dei ministri degli esteri del 16
marzo, a Bruxelles: «Su questa questione si misura la credibilità nel nostro essere uniti
come europei».
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In quell’occasione, si tornerà a parlare anche di Frontex, da molto tempo accusata di
ritardi e inefficienze: oggi, secondo il commissario Avramopoulos, «non è un guardiano
delle frontiere; se vogliamo che funzioni meglio servono più soldi, non solo per il
Mediterraneo, anche per le frontiere interne». E quella della solidarietà fra i vari Paesi non
è un’immagine retorica, ma «una necessità perché nessuno Stato può affrontare questo
problema da solo». Proprio mentre la riunione collegiale della Commissione si chiudeva, è
giunta la conferma ufficiale dell’ultimo naufragio, di quegli altri 10 morti: «queste tragedie
del Mediterraneo — ha commentato Timmermans — rafforzano il sentimento di urgenza».
Luigi Offeddu
del 05/03/15, pag. 20
L’allarme di Frontex: triplicati gli sbarchi in
Europa
VLADIMIRO POLCHI
ROMA .
Un’onda ha sommerso la fortezza Europa nell’ultimo anno. Un flusso inarrestabile di
immigrati e rifugiati ha abbattuto le frontiere del continente. Non solo sbarchi, ma anche
ingressi via terra. Alla fine il bilancio è contenuto in poche righe scritte da Frontex: nel
2014 circa 278mila persone sono entrate in modo illegale nell’Ue, con un incremento del
155% rispetto al 2013. Di questi, 218mila sono arrivati attraversando il Mediterraneo. I
nuovi dati sono contenuti nelle 66 pagine dell’ultimo rapporto Frontex: l’agenzia europea
per la gestione delle frontiere esterne dell’Unione, con centro direzionale a Varsavia. Lo
studio Q3 analizza il terzo trimestre 2014. Ebbene, tra luglio e settembre scorso, sono
arrivati in Europa 110.581 uomini: quasi tre volte di più del peggior trimestre della
primavera araba nel 2011, quando Nicolas Sarkozy chiuse provvisoriamente la frontiera
francese con l’Italia. Ed è proprio il nostro Paese a restare ancora oggi la principale porta
d’accesso al continente. Da luglio a settembre, infatti, su circa 100mila arrivi via mare «gli
illegali passati dall’Italia hanno rappresentato i due terzi del totale, mentre il 27% di tutti i
migranti censiti su questa frontiera erano siriani».
Non solo. Anche il conflitto in Ucraina ha cominciato a far sentire le sue conseguenze sui
flussi migratori: «Gli ucraini continuano a essere la principale nazionalità respinta alle
frontiere dell’Ue», scrive Frontex, che parla di 5.198 rifiuti in tre mesi, principalmente da
Polonia, Ungheria Slovacchia e Romania. E ancora: il mercato dei documenti contraffatti
resta tra i principali problemi dell’immigrazione irregolare. Gli arrivi surclassano comunque
i respingimenti. L’anno scorso, come scrive Le Figaro , gli Stati europei hanno rifiutato
l’ingresso a 112.362 migranti (-13%) e hanno proceduto all’espulsione di altri 157.324
irregolari (-2%). Ma il numero totale di soggiornanti illegali sale e ha raggiunto quota
400mila in 12 mesi. Anche le domande d’asilo crescono: hanno superato le 470mila
(+38%), principalmente ripartite tra Germania e Svezia.
Frontex sottolinea poi l’aumento degli scafisti arrestati, passati in 12 mesi da 7.137 a 9.376
(+31%). L’agenzia alle frontiere riporta però che «disponendo di poche imbarcazioni, i
trafficanti recuperano spesso le barche delle traversate precedenti lasciate alla deriva,
dopo il soccorso dei passeggeri, e le riportano in Libia per riutilizzarle». Altra denuncia:
alcuni gruppi criminali arrivano a chiedere ai migranti che non possono permettersi di
pagare la traversata (1.500 euro a testa) «se preferiscono essere utilizzati come mano
d’opera o donatori d’organi» all’arrivo.
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Non è tutto. A stupire sono anche le parole che il rapporto Frontex dedica a Mare nostrum.
L’operazione di salvataggio in mare dei migranti da parte dei mezzi della Marina militare
italiana e dell’Aeronautica è durata dall’ottobre 2013 al primo novembre 2014. Poi è stata
sostituita dalla missione europea Triton, ben più limitata nel suo raggio di intervento: non
oltre le 30 miglia nautiche dalla costa. I risultati? «Mare Nostrum ha salvato quasi 200mila
persone, tra cui molte donne e bambini – spiega William Lacy Swing, direttore generale
dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – Nonostante 3.279 migranti
siano morti nel Mediterrano l’anno scorso, ciò che è stato realizzato con questa
operazione è stato impressionante ».
Frontex però scrive anche che: «Le reti criminali hanno sfruttato la presenza dei vascelli
italiani impiegati in prossimità delle coste libiche nel quadro dell’operazione Mare nostrum
per rendere sicuro il loro traffico di esseri umani». Insomma, mettono in mare ogni genere
di imbarcazione con la certezza di rapidi soccorsi. I militari italiani da soccorritori dei
naufraghi a facilitatori dei traffici dei mercanti di uomini.
del 05/03/15, pag. 21
E Cantone denuncia: “Fuorilegge l’appalto
per il centro di Mineo”
L’Autorità anticorruzione contro la gara pilotata da Luca Odevaine di
Mafia capitale
ANTONIO FRASCHILLA
PALERMO .
Una gara da cento milioni di euro «lesiva della concorrenza, parziale, senza alcuna
trasparenza e criteri di economicità » per le casse pubbliche. Firmato, il presidente
dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, che entra così a piedi uniti in un
appalto già finito nelle carte di Mafia Capitale: quello del Cara di Mineo, il mega centro di
prima accoglienza siciliano per richiedenti asilo voluto nel 2010 dal governo Berlusconi.
Nella commissione che ha aggiudicato l’appalto sedeva Luca Odevaine, uomo di
riferimento di Salvatore Buzzi, il re delle cooperative sociali finito agli arresti per i suoi
rapporti con Massimo Carminati, il vertice della «Cupola nera». Cantone boccia senza
appello la procedura che ha affidato per i prossimi tre anni la gestione del Cara di Mineo.
A bandirla è stato il consorzio “Calatino terra di accoglienza” che raggruppa i comuni del
comprensorio: una creatura nata per volontà dall’ex commissario per la gestione del Cara,
il sottosegretario Giuseppe Castiglione di Ncd, braccio destro del ministro Angelino Alfano.
Dallo scorso anno a guidare il consorzio è il sindaco Ncd di Mineo, Anna Aloisio.
Dalle intercettazioni di Mafia Capitale emergeva questo appalto «blindato», con l’azienda
vincitrice, la Cascina ristorazione, che avrebbe pagato al componente della commissione
aggiudicatrice «un compenso da 10 mila euro al mese». Almeno così sosteneva Odevaine
che, intercettato, riferendosi al bando in questione aggiungeva: «Sarà difficile che se lo
possa aggiudicare qualcun altro». Secondo Cantone, al quale si è rivolta l’azienda Cot di
Emanuele Ribaudo esclusa dalla gara, i servizi dovevano essere messi a gara «in lotti
autonomi». Nell’appalto inoltre la base d’asta era stata fissata a 97 milioni di euro: «Una
clausola che risulta in contrasto con il principio di trasparenza, non essendo stati
individuati gli importi per le singole attività in affidamento — scrive Cantone — l’assenza di
concorrenza e convenienza per la stazione appaltante è dimostrata dal fatto che v’è stato
solo un concorrente che ha partecipato alla procura, il gestore uscente, cui è stato
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aggiudicato l’appalto con un ribasso molto ridotto pari all’un per cento». Per questi motivi,
la procedura utilizzata «è illegittima » e tutti gli atti «vengono inviati alle procure
competenti».
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WELFARE E SOCIETÀ
Da il Giornale.it del 05/03/15
L'idea del Viminale: "Daspo a prostitute e
clochard"
Il governo vorrebbe affidare maggiori poteri di polizia a questori e
prefetti anche in materia di decoro e degrado urbano con provvedimenti
interdittivi
Mario Valenza
Divieto d'accesso nei centri delle citTà a clochard e prostitute.
Il governo vorrebbe affidare maggiori poteri di polizia a questori e prefetti anche in materia
di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la possibilità di intervenire su temi che vanno
dalla prostituzione al cosiddetto accattonaggio, passando per i locali notturni troppo
rumorosi, con provvedimenti interdittivi. L'ipotesi su cui sta lavorando il ministero
dell'Interno, darebbe a questori e prefetti la possibilità di applicare anche in queste materie
ordinanze analoghe al Daspo, il provvedimento col quale attualmente possono impedire
l'ingresso allo stadio ad alcuni tifosi, a prescindere da eventuali responsabilità penali.
Al momento, l'idea allo studio dei tecnici del Viminale e degli esperti più vicini al ministro
Angelino Alfano è solo uno studio. Un primo testo potrebbe essere pronto nelle prossime
settimane ma in ogni caso i tempi di approvazione non sarebbero immediati, visto che si
pensa di mandare avanti la proposta tramite un disegno di legge di iniziativa governativa.
Ma nonostante le prudenze del caso, la prospettiva di ampliare i poteri di intervento nel
cosiddetto ”diritto di polizia” permettendo ordinanze interdittive o restrittive, potrebbe
diventare presto una realtà.
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DONNE E DIRITTI
del 05/03/15, pag. 1
Quei 450 euro che dividono uomini e donne
di Paola Profeta e Rita Querzé
Il divario economico tra uomini e donne in Italia è del 45%. Tradotto in soldi, questo vuol
dire che se un italiano ogni mese guadagna mille euro, una italiana si deve accontentare
di 550. I dati dell’Eurostat sono calcolati su tutti i cittadini: considerando solo chi lavora, la
percentuale scende intorno al 7%. Ma se la parità va cercata nel portafogli, molti 8 marzo
devono passare prima che l’obiettivo sia raggiunto. E se i nuovi occupati che si
registreranno nei prossimi mesi non saranno trattati diversamente in base al genere, sarà
perché intascheranno tutti il minimo contrattuale. Un dato più incoraggiante è invece frutto
della legge sulle quote temporanee di rappresentanza di genere nei consigli di
amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate: siamo passati dal 6% di
presenza femminile a circa il 23%. Eppure, a dimostrazione di quanto grande resti la
disparità, il Gender Gap Index del World Economic Forum colloca l’Italia al 114° posto (su
142 Paesi) per quanto riguarda la partecipazione femminile al mercato del lavoro e le
opportunità economiche. Mentre risaliamo al 37° posto nella «valorizzazione politica»
del 05/03/15, pag. 28
8 MARZO Uomini e donne divisi da 450 euro
È il divario di guadagno in Italia calcolato su tutti i cittadini. La
percentuale è vicina al 7% se si considera chi lavora In banche e
assicurazioni la differenza è più accentuata. «Servono i congedi
parentali anche per gli autonomi»
Se la parità va cercata nel portafogli, allora molti 8 marzo hanno da passare prima che
l’obiettivo sia raggiunto. Il divario tra le entrate degli uomini e quelle delle donne in Italia è
del 45% (fonte Eurostat). Per ogni mille euro guadagnati da un italiano le donne devono
accontentarsi di 550. Parliamo di valori medi, calcolati su tutti i cittadini, quindi il dato tiene
conto anche delle tantissime donne che in Italia non lavorano. Proprio la loro presenza
allarga il fossato. Nel resto d’Europa, però, non va meglio. Per dire, in Norvegia la distanza
è del 51%. Negli illuminati Stati del Nord ad abbassare i guadagni al femminile è la forte
diffusione del part time.
In teoria ci si potrebbe consolare con i bassi livelli del cosiddetto pay gap , il differenziale
retributivo sulla paga oraria. «Solo il 6,7% di distanza media tra la paga oraria di italiani e
italiane», dicono le statistiche Eurostat, mentre una ricerca di Job Pricing parla del 7,2%. Il
divario in entrambi i casi si riduce drasticamente perché in questo caso si esclude dal
confronto chi non lavora. Ma non è solo questo. «Il dato non considera il fatto che, in Italia,
sul totale delle lavoratrici, quelle che hanno professionalità medio-alte sono più che nel
resto d’Europa», fa notare Luisa Rosti, docente di Economia del personale a Pavia.
Anche i contratti di categoria contribuiscono a ridurre la forbice delle retribuzioni. «In Italia
la presenza delle piccole imprese è preponderante. E qui le donne guadagnano quanto gli
uomini: semplicemente il minimo tabellare», fa notare Paolo Jacci presidente Aidp
promotion, associazione dei direttori del personale. «Il pay gap pesa di più nelle grandi
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aziende dove i dipendenti possono contare su un superminimo. Spesso più alto per gli
uomini che per le donne. E’ rilevante anche nei settori dove esiste un’ampia articolazione
degli inquadramenti. Impiegati di fascia a, b, c, d… Le donne stanno spesso nelle fasce
più basse».
La rappresentazione plastica di queste dinamiche sta nei dati del rapporto sulle
retribuzioni uomo/donna condotto dalla società di consulenza Job Pricing. In testa alla
classifica dei contesti che differenziano di più gli stipendi in base al genere ci sono banche
e assicurazioni. I settori che discriminano di più sono anche quelli che occupano più
donne. Tante, sì. Ma concentrate ai livelli professionali più bassi, come avviene nella
moda, nel tessile, nella farmaceutica e nelle agenzie per il lavoro.
Nonostante il divario retributivo di genere continui a esistere, la crisi ha messo il
silenziatore sulla protesta delle buste paga rosa. «I nuovi occupati che si registreranno nei
prossimi mesi grazie a sgravi contributivi e Jobs act con ogni probabilità non saranno
trattati diversamente in base al genere: intascheranno tutti il minimo contrattuale. E le
temerarie con aspirazioni di carriera che ancora insistono a rivendicare parità di
trattamento in busta paga si sentiranno rispondere: “Tu un lavoro ce l’hai, molti altri non
possono dire la stessa cosa”. La crisi non ha fatto che cristallizzare le differenze»,
constata Paolo Jacci.
Intanto negli Usa si respira un’aria molto diversa. La questione del pay gap non è caduta
nel dimenticatoio, tutt’altro. Tra le pasionarie della parità in busta paga ci sono anche le
attrici di Hollywood. «È ora di ottenere la parità di retribuzione una volta per tutte, e la
parità di diritti per tutte le donne negli Stati Uniti», ha scandito dal palco degli Oscar
Patricia Arquette con la statuetta stretta nelle mani, tra gli applausi di Meryl Streep e
Jennifer Lopez.
In Italia di pari opportunità in azienda si parla molto, ma i fatti sono un’altra cosa.
L’osservatorio sul Diversity management dell’università Bocconi di Milano ha appena
chiuso un’indagine che rende l’idea della situazione: «Solo il 27% delle aziende
intervistate, tutte sopra i 250 dipendenti, attua politiche di gestione delle differenze in
azienda. E nella gran parte si tratta di interventi molto tradizionali, part time in testa»,
constata Simona Cuomo, responsabile del progetto. «Dopo tanti anni di sensibilizzazione
su questi temi ci aspettavamo una situazione diversa», aggiunge Cuomo.
Da dove si comincia per riallineare le entrate di uomini e donne? La strada maestra sono
le politiche che aiutano a gestire insieme famiglia e lavoro. Su questo fronte il governo si
sta muovendo con una serie di misure contenute nel Jobs act. «Maternità per le
parasubordinate anche in assenza di versamenti contributivi, congedo di
maternità/paternità non solo fino agli 8 anni del bambino ma fino ai 12 e anche per periodi
brevi», elenca Teresa Bellanova, sottosegretario al lavoro, un passato da sindacalista.
«Troppo spesso i diritti sono rimasti scritti sulla carta, con queste misure stiamo cercando
di renderli esigibili», spiega la ratio delle misure Bellanova. Le lavoratrici autonome
apprezzano. «Utile anche la possibilità di non smettere di lavorare durante l’assenza
obbligatoria. Ma per l’8 marzo chiediamo un regalo: tre mesi di congedo parentale anche
per i papà autonomi — rivendica Anna Soru, a capo di Acta, associazione dei consulenti
del terziario avanzato —. Se i papà ci danno una mano, tutto diventa più facile».
Post scriptum : le donne restano ostaggio tutta la vita delle discriminazioni in busta paga.
In Italia le pensioni rosa sono in media il 30% più basse di quelle degli uomini. Unica
consolazione: per una volta i tedeschi fanno peggio. In Germania il divario è del 40%.
Rita Querzé
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del 05/03/15, pag. 28
Dalle quote allo smart-working Ecco perché la
parità dei diritti stimola la crescita economica
Paola Profeta
Il basso tasso di occupazione femminile italiano è una delle (tristi) certezze del nostro
mercato del lavoro. Inchiodato a circa il 47% da prima della crisi. Restiamo tra gli ultimi in
Europa, seguiti solo da Grecia e Malta. Può essere letto però anche come un’opportunità,
che l’Italia deve sfruttare per far crescere il Paese. La legge Golfo-Mosca (120/2011) che
introduce quote temporanee di rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e
collegi sindacali delle società quotate in Borsa, estesa anche alle società a controllo
pubblico, è stata giustamente celebrata come il grande risultato di questi anni.
Siamo passati dal 6% di presenza femminile nei Cda delle società quotate a circa l’attuale
23%. La legge, una forzatura a tempo necessaria per rompere un equilibrio basato sul
potere maschile, è diventata un modello in Europa. Oltre ad aumentare il numero di
donne, ha innescato un rinnovamento benefico dei consigli di amministrazione, allargando
la platea dei candidati, uomini e donne, e favorendo l’ingresso di consiglieri più giovani,
mediamente più istruiti e più qualificati. Le quote alzano l’asticella del merito per gli uomini.
La sfida attuale, tutta da verificare, è l’effettiva rottura del glass ceiling , il «soffitto di vetro»
che ostacola le carriere femminili: siamo in presenza di un meccanismo a cascata verso il
basso, che comporta un aumento delle donne in posizioni manageriali? Un processo da
monitorare con attenzione, visto che si innesta su meccanismi di selezione e promozione
tipicamente non neutrali rispetto al genere.
Il tema quote di genere si è esteso alla politica. La legge 215/2012 prevede per i comuni
italiani con più di 5.000 abitanti quote di genere nelle liste dei candidati e la doppia
preferenza di genere alle elezioni. Evidenze preliminari di uno studio in corso all’università
Bocconi mostrano che queste misure sono state efficaci nell’aumentare il numero di donne
elette, in particolare la doppia preferenza di genere. Analisi sull’esperienza passata nelle
elezioni municipali italiane (nel periodo 1993-1995) mostrano anche che le quote in politica
possono migliorare la qualità dei politici eletti, grazie alla selezione di uomini più
competenti, un risultato da verificare anche in questo caso.
Sempre in politica, la legge 56/2014 fissa il 40% di rappresentanza di genere nelle giunte
dei comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti. Molti comuni però non hanno
rispettato questo limite. Un’occasione mancata. La politica è comunque la dimensione che
ha registrato i maggiori progressi per parità di genere negli ultimi anni: grazie anche alla
maggiore presenza di donne nelle posizioni di governo, culminata nella sostanziale parità
del governo Renzi, che vede il 50% dei ministri donne, l’Italia è risalita dal 71esimo posto
del 2012, al 44esimo posto del 2013 fino all’attuale 37esimo posto, su 142 Paesi, secondo
l’indicatore di uguaglianza di genere in political empowerment della classifica del World
Economic Forum. Lo stesso non si può certo dire della parità di genere nella dimensione
economica, che ci ha sempre visto intorno alla 100esima posizione, precipitata al
114esimo posto nell’ultimo anno. Segnali su cui riflettere, che ci riportano al problema
dell’accesso delle donne al mondo del lavoro, rimasto fanalino di coda nell’agenda di
questi anni, schiacciandoci al nostro 47%.
Cosa ci riservano il presente e il futuro? Il Jobs act e il decreto legislativo in materia di
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro sono elementi utili per la riflessione. Il decreto
tocca il nodo centrale in tema di occupazione femminile in Italia, la maternità. Il numero di
donne che abbandona il lavoro dopo la nascita di un figlio continua ad aumentare in Italia
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— fenomeno che contribuisce in larga misura a tenere fermo il nostro tasso di
occupazione femminile ai livelli più bassi e a frenare il tasso di fecondità —. Al momento
però nel decreto si prevede solo l’estensione dell’indennità di maternità e forme di tutela
inclusiva della maternità.
Non c’è invece riferimento nel decreto legislativo alle due misure discusse nel Jobs act
che potrebbero favorire l’occupazione femminile: il tax credit , un credito d’imposta per le
donne lavoratrici, al di sotto di un certo reddito, con figli minori, e la promozione
dell’integrazione pubblico-privato nell’offerta di servizi per la prima infanzia, oggi molto
scarsi nel nostro Paese, dove la cura dei bambini è delegata alle mamme non lavoratrici e
ai nonni (gratis, se ci sono). La combinazione di asili nido e detrazioni fiscali porterà a un
vero cambio di marcia quando la famiglia non dovrà confrontare i costi della cura con il
potenziale guadagno del secondo lavoratore, tipicamente la donna.
Infine, e questa è forse la misura più innovativa, resta sul tavolo della discussione anche lo
smart-working, un’organizzazione del lavoro basata sulla flessibilità di orari (e di sede) in
cui ciò che conta sono gli obiettivi raggiunti dal singolo lavoratore. Grazie alla tecnologia,
questo strumento può comportare una rivoluzione culturale nella concezione del lavoro.
Pratiche nuove per noi, i cui segnali preliminari in termini di efficacia e produttività dei
lavoratori sono promettenti. Un disegno di legge a favore di forme flessibili e semplificate
di smart-working è stato depositato l’anno scorso. Sperimentare, innovare, e valutare
l’efficacia di questo strumento può essere un modo di ripartire. Un’occasione da non
perdere.
Professoressa di Scienza delle Finanze all’università Bocconi di Milano,
coordinatrice «Gender Initiative» Centro di ricerca Dondena-università Bocconi
del 05/03/15, pag. 1/13
Quel che manca al nostro vocabolario
Un giorno arriverà l’ingegnera
Gianluigi Beccaria
Non c’è dubbio che la grammatica è maschiocentrica, se penso alla larga prevalenza del
maschile sul femminile sia per indicare le espressioni astratte (“il giusto”, “il vero”), sia
nell’uso dei pronomi (“non c’è nessuno”), sia nella sintassi, perché se un aggettivo si
riferisce a due o più nomi di genere diverso, esso va al maschile plurale e non al femminile
(“una donna e un uomo italiani”). Ciononostante mi pare difficile proporre sostituzioni.
Tuttavia, sul tema del “sessismo” nella lingua si sono scatenate strane proposte, anche
perché tra la gente prevale l’idea che la grammatica non deve tanto seguire l’uso, la
consuetudine, quanto che va riformata. C’è stato chi per esempio ha criticato “la
fratellanza del genere umano”, “la paternità della legge x”, “l’uomo della strada”, da evitare
perché discriminerebbero il sesso femminile. C’è chi trova scorretto che una maestra si
rivolga alla classe dicendo “i vostri compagni”. E le “compagne”? Il principio secondo cui,
se una parola sembra discriminare il sesso femminile, va evitata o sostituita con un’altra,
ha avuto seguito soprattutto in America. Si era addirittura pensato di cassare ingl. female,
come se fosse nato dal maschile male, mentre è un diminutivo di femina, lat. femella.
Più serio chiedersi se si debba dire il ministro o la ministra. Il dubbio risale a decenni
passati, da quando le donne hanno cominciato a esercitare professioni, a ricoprire
incarichi e funzioni prima esercitate quasi esclusivamente dai maschi. Personalmente, io
non sono un prescrittivo, so bene che in lingua difficilmente si può imporre una proposta
anche organica che d’autorità provenga dall’alto e piallare secondo logica una realtà come
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la lingua, che è invece materia viva e e oscillante. Penso che sia ragionevole rispettare
sempre un uso già consolidato. Non si può di punto in bianco decidere in via ufficiale di
adottare la studente. Non è per nulla un dramma tenerci le oscillazioni del tipo «la
professoressa X, Rettore dell’Università di Y». La lingua, quando come in questi casi non
sussiste il problema del giusto/sbagliato, vive di diritto la sua vitale mobilità. Non è bene
imporre una soluzione o l’altra. Senza imposizioni, pian piano cancelliera, ministra,
filosofa, antropologa si sono andate stabilizzando. Già trovi scritto sui giornali sindaca,
mentre avvocata (si sente forse risuonare l’advocata nostra rivolto alla Madonna?) non
piace alle stesse interessate. Per ora nessuno tira in ballo ingegnera, anche se sarebbe
grammaticalmente ben formato, e inseribile nella larga serie cameriera, infermiera,
cassiera, ragioniera.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 05/03/15, pag. 2
Avvelenatori, ora si paga
Luca Fazio
Ambiente. Il Senato approva il ddl sui reati ambientali che potrebbe
chiudere un percorso sofferto condiviso da tutto il mondo
ambientalista. Con 165 voti favorevoli (Pd, Ncd, M5S e Sel), 49 contrari e
18 astenuti vengono introdotti nel codice penale nuovi reati di
inquinamento e disastro ambientale, delitto colposo contro l'ambiente e
traffico e abbandono di materiale radioattivo. Sono stati allungati anche
i termini di prescrizione dei reati. Soddisfatte tutte le associazioni
ambientaliste. Manca solo un passaggio, l'approvazione della Camera.
"Facciamolo al più presto e senza cambiare nemmeno una virgola al
testo"
Chi inquina, finalmente, paga. Anche con la galera. Con l’approvazione al Senato del
disegno di legge sui reati ambientali potrebbe chiudersi nel migliore dei modi un percorso
sofferto che per decenni è stato condiviso da tutto il mondo ambientalista. Il
provvedimento, dopo aver subito delle modifiche a Palazzo Madama, adesso dovrà
tornare alla Camera per la terza lettura.
L’inedito fronte politico che ha sostenuto il ddl è composto da Pd, Sel, Ncd e M5S (primi
firmatari Ermete Realacci del Pd, Salvatore Micilli del M5S e Serena Pellegrino di Sel).
165 i voti favorevoli, 49 contrari, 18 astenuti. L’altra notizia è che il governo, per la prima
volta, non si è piegato a Confindustria. L’esito, come dicono tutte le associazioni
ecologiste, è positivo. Il vuoto normativo è stato colmato, anche se queste norme rischiano
di perdere efficacia in un quadro legislativo ancora confuso e contraddittorio, soprattutto
quando si tratta di reati ambientali.
In sintesi, il ddl introduce nuovi reati di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, i
delitti colposi contro l’ambiente, il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo e il reato di
impedimento di controllo. Tra le altre, è stata introdotta anche una norma che vieta le
esplosioni in mare per attività di ricerca ed ispezione dei fondali, una questione che l’altro
giorno aveva visto il governo battuto in aula. Si tratta di un pacchetto particolarmente
indigesto per le cosiddette ecomafie che in Italia, ogni anno, impunite, “fatturano” cifre
astronomiche.
Sono soddisfatti i due ministri direttamente coinvolti. “Si tratta di un segnale di grande
sensibilità nei confronti di un tema di stringente urgenza per il paese — ha commentato il
ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti — e ormai siamo all’ultimo miglio di un passaggio
storico: chiedo alla Camera di fare presto e di approvare questo testo senza ulteriori
modifiche, c’è assoluta necessità di stroncare i business criminali che si arricchiscono
inquinando il nostro territorio”. Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando (già ministro
per l’Ambiente) questa è la risposta del governo “alle molte ferite che hanno colpito il
paese”. Orlando ci tiene a mettere l’accento non solo sull’impianto punitivo delle norme ma
anche alla riduzione delle pene per chi si impegna a ripristinare lo stato dei luoghi
inquinati, il cosiddetto “ravvedimento operoso”.
Entrando nei dettagli, il testo inserisce nel codice penale il nuovo delitto di inquinamento
ambientale (art.452 bis) che punisce con la reclusione da 2 a 6 anni, e una multa da 10
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mila a 100 mila euro, chiunque provochi un danno significativo alle acque, all’aria, al suolo,
al sottosuolo e più in generale alla biodiversità, alla vegetazione o agli animali. C’è anche
una norma che prevede la detenzione, quella di disastro ambientale: da 5 a 15 anni per
chi inquina provocando danni irreversibili per l’ambiente e per le persone esposte al
pericolo. Vengono in mente i rifiuti tossici in Campania, l’Ilva di Taranto, o l’Eternit in
Piemonte.
“L’approvazione del ddl — ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso — è la risposta
al dolore di persone come il poliziotto della terra dei fuochi che si è ammalato di tumore in
seguito alle sue indagini sui rifiuti in Campania, o dei familiari delle persone che hanno
perso la vita a Casale Monferrato”. Per Titti Palazzetti, sindaco di Casale, questa è “una
promessa mantenuta”.
Il delitto di “abbandono di materiale ad alta radioattività” viene punito con la reclusione da
2 a 6 anni e con una multa che va da 10 a 50 mila euro, pena estesa anche a chi acquista,
riceve, importa, esporta, trasporta o detiene il materiale in questione. Per il delitto di
“impedimento al controllo”, invece, le pene vanno da 6 mesi a 3 anni. Mano pesante per
l’aggravante di “associazione mafiosa”: verrà applicata anche ai pubblici ufficiali che si
renderanno complici di qualunque tipo di agevolazione in materia di concessioni o
autorizzazioni. Pene più severe anche per chi ispeziona i fondali marini utilizzando
tecniche esplosive (da 1 a 3 anni di reclusione). Tra i nuovi reati è stato introdotto anche
quello di “omessa bonifica” per chi non ottempera all’ordine di recuperare l’area inquinata.
Uno degli adeguamenti più significativi del codice penale permette inoltre di poter contare
sull’allungamento dei termini di prescrizione del reato. “Ricordiamo a tale proposito —
sottolinea il WWf con una nota — il caso Eternit: l’intervenuta prescrizione che ha mandato
assolti gli imputati è dipesa dall’esistenza di reati assolutamente inadeguati rispetto alla
gravità dei fatti. Se le disposizioni contenute nella proposta di legge fossero già entrate in
vigore, il processo si sarebbe prescritto in quindici anni”.
Il vicepresidente di Legambiente, Stefano Ciafani, e il coordinatore nazionale di Libera,
Enrico Fontana, ieri hanno assistito al voto in Senato in rappresentanza di quelle 23
associazioni e di quei 70 mila cittadini che hanno sottoscritto il loro appello intitolato “In
nome del popolo inquinato: subito i delitti ambientali nel codice penale”. Adesso hanno
fretta, vogliono che la Camera approvi al più presto un decreto legge atteso da più di venti
anni. “Grazie a questo voto — hanno aggiunto — è stata finalmente cancellata la non
punibilità dei reati colposi in caso di bonifica, tanto cara a Confindustria, e sono stati
apportati ulteriori miglioramenti al testo grazie al voto favorevole della maggioranza, del
M5S e di Sel”.
Ermete Realacci, presidente della Commissione ambiente e territorio alla Camera, primo
firmatario della proposta di legge, si augura che il via libera definitivo avvenga “senza
cambiare nemmeno una virgola”. E’ questa la preoccupazione di tutti gli ambientalisti.
Vista la larga e inedita maggioranza, non dovrebbero esserci brutte sorprese. Anche
perché, ha spiegato Realacci, “quelli contro l’ambiente sono crimini particolarmente odiosi
e molto pericolosi, basti pensare che stando al rapporto Ecomafia di Legambiente fruttano
alla malavita organizzata circa 15 miliardi all’anno”.
del 05/03/15, pag. 3
Un ravvedimento operoso
Alberto Prunetti
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IL TESTO . Allungata la prescrizione ma Eternit insegna: ci si ammala
anche dopo 30 anni. Molte inchieste si sono arenate sul concetto di
dolo. Serviva l’esproprio contro chi con la sua opera ha rovinato
generazioni
Il disegno di legge 1345 in materia di delitti contro l’ambiente approvato ieri al Senato
introduce i reati di inquinamento ambientale e alcune nuove fattispecie, come
l’impedimento al controllo e l’omessa bonifica. I primi commenti della politica parlano di
una risposta alla prescrizione del processo Eternit di novembre o alla situazione
devastante del territorio casertano. Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando si tratta
di «una risposta alle molte ferite che hanno colpito il nostro paese in ambito ambientale».
Anche per il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti si tratta di «un passaggio storico».
Ma la realtà è che per avere idee più precise bisognerà leggere il testo finale una volta che
sarà approvato dalla Camera. Si tratta di un provvedimento legislativo che si rivolge
soprattutto alla classe imprenditoriale e che dovrà fare i conti con le reti di smaltimento
illegali che attraversano il nostro paese muovendo i rifiuti industriali, ovvero alcune delle
merci a più alta valorizzazione di capitale. In una materia tanto delicata il rischio è che
fatta la legge, come si suol dire, sarà presto trovato l’inganno.
I punti critici non mancano. Innanzitutto, c’è da approfondire la questione del cosiddetto
«ravvedimento operoso», una formula gesuitica che potrebbe permettere di uscire puliti
dai processi dopo aver sporcato l’ambiente. Di fatto, impegnandosi in qualche modo a
ripristinare lo stato dei luoghi, sarà possibile ottenere ingenti sconti di pena. L’altro
elemento da approfondire è come si collocano le responsabilità della colpa e del dolo.
Spesso sullo scoglio del dolo si sono arenati gli ultimi processi su questioni ambientali e
industriali.
Il problema di fondo poi, e la sentenza Eternit lo dimostra appieno, è che la giurisprudenza
italiana ha tardato a realizzare che il disastro ambientale o industriale non è un episodio
puntuale, che si interrompe nel momento in cui finisce la dispersione di polveri nocive o di
altre sostanze pericolose. È un evento in divenire che spesso ha effetti di reato lontani nel
tempo dal momento in cui è avvenuto un disastro. Per capirci, una fibra della Eternit
prodotta nel 1984 può essere inalata oggi da un bambino in una palestra scolastica e
questo stesso bambino potrebbe sviluppare un mesotelioma tra trent’anni. Ugualmente, i
polmoni di chi vive a Taranto o a Caserta potrebbero guastarsi quando quella diossina
sarà già prescritta. In effetti, nel nuovo testo la prescrizione risulta allontanarsi nel tempo.
Infine, è giusto far pagare chi inquina, ma il problema è che non si può impostare tutto solo
sulle sanzioni pecuniarie. Altrimenti la salute dei lavoratori diventerà solo una voce in più
da ammortizzare tra le uscite di un business plan.
L’ha detto bene Valerio Evangelisti: «Sostituire un lavoratore che muore costa sempre
meno che introdurre modifiche nel processo lavorativo». Non solo chi sporca deve pagare,
ma non deve più sporcare. Ovvero bisogna che gli imprenditori a priori siano obbligati a
forme produttive che non siano inquinanti. Non basta limitarsi a farli pagare dopo.
A una prima analisi pertanto il ddl approvato in Senato è una buona notizia, perché
mancava il trattamento di questi reati (come manca ancora una legge sul reato di tortura e
in entrambi i casi non si può dire che certi fatti non sussistano).
Ma bisognerà leggersi il testo definitivo per essere sicuri che certi riflessi positivi, a
cominciare dall’allungamento dei termini di prescrizione, siano davvero oro che luccica o
non piuttosto specchietti per le allodole.
Mentre una misura efficace su questi reati dovrebbe contemplare la possibilità di
espropriare chi inquina. Ma la proprietà è intoccabile. Su salute e ambiente, invece, se ne
può discutere e eventualmente accordarsi dopo un «operoso ravvedimento».
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del 05/03/15, pag. 3
Due «grandi opere» insostenibili per Firenze
Alberto Ziparo
Progetti inutili e dannosi. Dalla Tav al nuovo aeroporto, monumenti alla
reiterata incapacità della governance ai vari livelli della città
Il nodo della mobilità è sempre più centrico nell’area fiorentina. Ma manca uno scenario di
pianificazione credibile, argomento di cui cui si parlerà in un convegno organizzato dai
comitati con il Lapei dell’Università sabato mattina 7 marzo all’auditorium di Sant’Apollonia
in via San Gallo.
I lavori fermi della Tav – a parte qualche modesto movimento alla stazione Foster –
costituiscono ormai un monumento alla reiterata incapacità della governance ai vari livelli,
che avrebbe l’occasione per abbandonare un progetto inutile e dannoso per la città. Di
fronte agli enormi problemi già emersi, con criticità notevoli accentuate da irregolarità e
illegittimità amministrative e penali – vedi i rinvii a giudizio con cui si è conclusa una prima
inchiesta della magistratura – appare bizzarra l’insistenza a ripetere che «solo il
sottoattraversamento Av libererà le linee per il traffico locale, risolvendo il problema».
Invece è stato dimostrato che una coppia di binari aggiuntivi in superficie sarebbe molto
più vantaggiosa per ottimizzazione funzionale e modello di esercizio. Specie se integrata a
un completamento del sistema ferroviario metropolitano che si potrebbe realizzare –
insieme alla Tav in superficie – proprio con le stesse risorse destinate ai tunnel e alla
stazione sotterranea. Del resto il progetto è tuttora bloccato da problemi insoluti. Non
ultimo quello delle terre di scavo, per le quali oggi si chiede al Cnr, per il riutilizzo
immediato, il «miracolo» di dichiarare che le terre non sono né tossiche né inconsistenti,
come invece risulta anche dagli studi applicativi più recenti, con la conseguente necessità
di trattamento in situ o di trasporto in discarica da realizzare appositamente: circostanze
che richiedono ambedue una nuova Valutazione di impatto ambientale ad hoc).
Qualora poi i lavori riprendessero, emergerebbero nuovi problemi, già incombenti: si va
dalla mutata natura del contraente generale, alla mancanza di Via del progetto Foster di
stazione sotterranea, per finire con le conseguenze dell’avanzamento dei lavori, con gli
effetti dannosi dello scavo.
Per quanto riguarda il primo punto, va ricordato che, con il sostanziale fallimento
dell’impresa Coopsette è mutata la natura del general contractor: si è proceduto allora alla
sua sostituzione «con procedura singolare più che particolare» e per nulla trasparente,
con la società Condotte, una maggiori operanti nel settore Grandi Opere ex legge
Obiettivo. Ma proprio la stessa legge chiarisce che non sono possibili tali subentri
automatici.
Secondo punto, il progetto di stazione Foster manca di Via. È ormai infatti stato chiarito
che nella Conferenza dei servizi del 2003 il proponente dichiarava una palese falsità:
ovvero che all’uopo fosse valida la Via allegata al progetto Zevi per Belfiore; già
abbandonato e riferito ad un altro elaborato per un sito diverso. Per giunta quella
decisione era tesa proprio a nascondere i gravi problemi ambientali legati al «più grande
scavo della storia del sottosuolo del centro fiorentino». Tra questi gli insufficienti studi
sismologici, la mancata verifica dei regimi alluvionali, e i rischi di danni da scavo.
Peraltro il passante Tav non è l’unica grande opera «inutile e dannosa» che sta per
abbattersi sulla città. Incombe l’ampliamento dell’aeroporto, con la costruzione di nuova
pista più lunga di quella prevista dal piano territoriale regionale. Impatti enormi, anche su
quello che resta del Parco della Piana, e rischi per diverse attività tra cui quelle del Polo
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scientifico universitario (che si oppone e ha impugnato il progetto). Inoltre l’ampliamento
dell’aeroporto Vespucci di fatto prospetta una logica di concorrenza, e non di integrazione,
con l’aeroporto intercontinentale Galilei di Pisa.
Tirando le somme, nel settore dei trasporti si continua a tentare di imporre questo o quel
«grande progetto», quasi sempre avulso dalla reale domanda sociale. Questa logica va
abbandonata per tornare a scenari di pianificazione corretta e sostenibile del territorio e
dei trasporti.
Oggi il piano paesaggistico regionale, voluto dall’assessore-urbanista Anna Marson e sotto
un durissimo attacco congiunto di destra e renziani, fornisce il quadro territoriale su cui
inserire progetti programmaticamente validi di mobilità sostenibile. Questa logica,
apprezzata e promossa anche da movimenti, comitati e dal gruppo di ricerca «mobilità
sostenibile» dell’Università di Firenze, è alla base della giornata di discussione di sabato
mattina, che ha per titolo «Scenario di mobilità sostenibile invece delle grandi opere
inutili». Al quale seguirà, nel pomeriggio, la partecipazione a un sit-in in difesa del piano
paesaggistico così come è stato progettato dall’assessore Marson.
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INFORMAZIONE
del 05/03/15, pag. 7
Sulla Rai Grillo tenta il Pd ma il dialogo parte
in salita
Democratici e M5S sondano il terreno per un’intesa sulla Tv pubblica
Stop invece all’apertura sul reddito garantito: non ci sono soldi
Carlo Bertini
Una risoluzione del Parlamento europeo del luglio 2011 chiedeva a tutti gli Stati europei di
rafforzare il reddito minimo garantito e a Italia e Grecia di adottarlo al più presto. Il
problema di garantire una sussistenza minima a chi è senza lavoro dunque esiste, impatta
con lo stato delle finanze pubbliche e si capisce il perché, mentre scende le scale laterali
di Montecitorio, Pier Carlo Padoan reagisca con un laconico «no comment» quando gli si
chiede un parere su Grillo che sarebbe pronto a trattare sul reddito minimo garantito: non
dice altro il ministro dell’Economia. Qualche cosa in più la dice il renziano doc Ernesto
Carbone, membro della Commissione Finanze: «Costerebbe dai 13 ai 17 miliardi di euro.
E dove li troviamo i soldi?». Ma al di là dello scetticismo su questo nodo, oggetto di varie
proposte di legge in commissione Lavoro alla Camera e di altrettante al Senato, l’intervista
al Corsera con cui Beppe Grillo si dice pronto al dialogo anche col Pd sul reddito di
cittadinanza e sulla Rai, provoca contraccolpi.
La strada in salita
Sul reddito di cittadinanza, gli stessi grillini più alti in grado non si fanno soverchie illusioni,
mentre vedono «possibilità concrete sulla Rai». Sul reddito di cittadinanza invece i più
convinti sono quelli di Sel. Vendola twitta subito «in Parlamento c’è una maggioranza
possibile. Facciamolo. Ora». E i suoi rilanciano il disegno di legge di Sel che prevede un
assegno minimo di 600 euro al mese per tutti quelli sotto la soglia di povertà, da finanziare
anche con una patrimoniale sui redditi sopra i 500 mila euro, nonché con una riduzione
delle spese per gli armamenti, sulla falsariga della proposta dei 5Stelle in Senato. Che
lega l’assegno minimo di 780 euro a chi accetta di seguire un percorso con lo Stato per
trovare lavoro. Anche la minoranza bersaniana cavalca il tema, ma tutti sono consapevoli
che il colpo grosso per aiutare i più poveri sarà difficile da realizzare.
La Rai terreno d’incontro
È dunque piuttosto la Rai, anche a detta degli uomini del premier, che «può fornire un
terreno di dialogo». Con il retropensiero sibillino che «quando loro ci sbatteranno la porta
in faccia allora sarà giustificato intervenire per decreto». Renzi già qualche giorno fa tese
la mano, dopo che Grillo e Casaleggio nel documento consegnato a Mattarella avevano
chiesto un’accelerazione della riforma dell’informazione della Rai. In una nota alle dieci di
sera Renzi, definiva «molto interessante l’apertura di Beppe Grillo sulla Rai, non dimentico
che lui dalla Rai fu cacciato. Se c’è un argomento su cui ascolterei volentieri Grillo è
proprio questo».
Il nodo dell’ostruzionismo
Ma le prove generali di dialogo a tutto campo finiscono in un lampo. Dopo che il
capogruppo Roberto Speranza se ne esce dichiarando che «se Grillo cambia rotta, il Pd è
pronto al confronto»; dopo che la Boschi fa notare «noi non siamo mai stati chiusi al
dialogo, non cambiamo idea», il leader dei 5Stelle si irrigidisce: «Forse è il Pd che deve
cambiare rotta, dritto verso la democrazia! Hic manebimus optime». Dando così buon
gioco al vicesegretario Pd, Lorenzo Guerini, di rimettere le cose al punto di partenza.
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«Come volevasi dimostrare: Grillo scende dal tetto e poi ci risale immediatamente. D’altra
parte in questi mesi ci ha abituati a cambi di linea così repentini da generare sospetti».
Insomma, il Pd aspetta che Grillo dia un segnale concreto, rinunciando magari
all’ostruzionismo quando da lunedì in aula alla Camera si dovrà votare quella riforma degli
assetti costituzionali.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 05/03/15, pag. 4
Scuola, alle Camere 40 giorni per dire sì
Lo scadenzario del governo per non mettere a rischio le 160mila
assunzioni promesse: “Il primo settembre tutti in cattedra” Il
sottosegretario Faraone: “Giusto che il Parlamento discuta il piano. Ma
se non lo approverà entro il 15 aprile, faremo il decreto”
CORRADO ZUNINO
ROMA .
Quaranta giorni per approvare un disegno di legge sulla Buona scuola. Andata e ritorno,
Camera e Senato (e ancora Camera, di fronte a cambiamenti nel secondo ramo). Sono
questi i tempi — da record — che il governo e il ministero dell’Istruzione si sono dati, e
danno al Parlamento, per aprire e chiudere l’iter della riforma sulla scuola senza ricorrere
a un decreto d’urgenza. Il premier Matteo Renzi, con lui il sottosegretario Davide Faraone,
non vogliono separare i “160mila da assumere” dai restanti 33 articoli di una riforma
ampia, organica, ambiziosa. Non vogliono l’assumificio: hanno sempre venduto un
programma di lungo periodo a cui affiancare gli insegnanti necessari e la fine della
precarietà scolastica. Tutto insieme. Così, ora, hanno messo in cima alle ipotesi di lavoro
questa: opposizione e maggioranza (e opposizioni all’interno della maggioranza) possono
discutere di scuola e approdare a un voto sui singoli articoli entro il 15 aprile.
Tecnicamente è possibile. La sfida del disegno di legge è sì aperta a tutti, ma chiede a
tutti, a Forza Italia, al Movimento 5 Stelle, allo stesso Pd, una rapidità fin qui mai vista.
Con un calendario serrato e senza ostruzionismo, in Parlamento — sostiene Renzi — si
potrà parlare di governance della scuola, autonomia scolastica e valutazione cambiando
magari qualche passaggio, ma chiudendo subito dopo Pasqua. Gli uffici di gabinetto del
Miur hanno calcolato che oltre quella data diventerebbe difficile non solo portare i precari
in cattedra, ma anche organizzare un organico funzionale funzionante.
Se in aula il viaggio della “Buona scuola” dovesse dimostrarsi periglioso, il governo
ritirerebbe il “ddl” per trasformarlo in un decreto legge, immediatamente operativo. «Se il
Parlamento dovesse dimostrare di non essere collaborativo e celere», dice il
sottosegretario Faraone, «interverremo per garantire legittimi diritti a studenti, docenti e
presidi già dal prossimo anno».
Il giorno dopo l’annuncio di rinvio a Palazzo Chigi, questo è il lavoro in corso. È stata
accantonata la possibilità di procedere subito con l’assunzione dei primi 36mila docenti
necessari per coprire il turnover (19mila in pensione) e i posti liberi oggi coperti da precari
(17mila), a cui poi aggiungere 15mila insegnanti di sostegno. L’infornatina d’annata —
51mila in tutto — si potrà fare a luglio: 50 mila subito non è necessario e sarebbe
deludente per una platea di supplenti a cui si è sempre raccontato che ne sarebbero stati
stabilizzati il triplo. È sempre possibile che alcune questioni specifiche — valutazione,
formazione degli insegnanti, asilo unico da 0 a 6 anni — entrino in una legge delega del
governo.
Renzi è partito per le missioni all’estero spiegando ai suoi che, in verità, nella bozza
ministeriale del decreto “La Buona scuola” alcuni problemi c’erano. Il più serio: aver
mischiato urgenze (le assunzioni) con elementi di didattica e carriera che potevano essere
più tranquillamente discussi. Nella serata di lunedì, ascoltati i suoi, in pochi minuti — come
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spesso gli accade — ha deciso di rovesciare il tavolo e togliere di mezzo il decreto. Il
giorno dopo il premier è stato duro con la Giannini, piccata per il cambio in corsa: un anno
di lavoro poteva produrre qualcosa di più equilibrato, l’ha rimproverata. In conferenza
stampa a Palazzo Chigi, poi, ha mostrato la sua irritazione e rimandato ogni scelta al
Consiglio dei ministri di martedì prossimo. In Parlamento si troverà una convergenza sullo
sgravio fiscale per le paritarie: ieri si è spesa anche la senatrice Rosa Maria De Giorgi,
fiorentina, renziana di lungo corso. Susanna Camusso, segretario Cgil, ha avuto parole
dure su tutto: «Di nuovo annunci ripetuti e promesse esercitate, ma più in là si va nel
tempo e meno credibile è la stabilizzazione dei precari». Tra i 140mila supplenti delle
Graduatorie a esaurimento si è diffusa una paura sostanziale. Sul decreto fin qui vivente si
parla di soppressione delle Gae «a decorrere da settembre 2015», ma ad oggi non vi è
alcuna certezza sul destino dei precari ospitati e, anche di fronte a una regolarizzazione di
90 mila tra loro, per 50 mila resterebbe solo la possibilità del concorso pubblico.
del 05/03/15, pag. 1
Scuola a tempo perso
Alba Sasso
Dunque i soldi per le assunzioni dei precari ci sarebbero, secondo quanto dichiara il
Presidente del consiglio. Ma al solito, i problemi nascono dal fastidioso esercizio della
democrazia. Per cui tutti questi parlamentari che pretendono didiscutere, vederci chiaro,
fare i conti rispetto al disegno di legge e/o decreto sulla scuola, di fatto ne intralciano la
realizzazione, e alla fine saranno loro i responsabili della mancata assunzione di migliaia
di precari tanto sbandierata.
Il governo conosce bene le condizioni in cui versa la scuola. E sa quindi che l’assunzione
immediata, promessa e ora rinviata, di precari sarebbe una boccata di ossigeno,
benvenuta e auspicata da tutti, nel segno della continuità didattica necessaria per la
«buona scuola». Invece no. Ora tutto ritorna in alto mare. I precari al solito vengono usati
come merce di scambio politica, il ruolo mediatico del presidente del consiglio prevale su
tutto, passa sopra alla stessa ministra ed alle aspettative di decine di migliaia di famiglie.
Un governo la cui unica stella polare sembra essere quella dei «like» sui social mostra
clamorosamente la propria mancanza di visione strategica per un settore, la scuola
pubblica, che invece strategica è per il futuro del paese.
Ci auguriamo che si ponga un rimedio veloce ed efficace a questo balletto privo di dignità.
Nulla impedisce al governo di decretare da subito le assunzioni, e di mantenere l’impianto
del disegno di legge da discutere poi in Parlamento, dove certo risiede il potere
costituzionale di fare le leggi. Non vorremmo che per una volta, il rispetto delle prerogative
della divisione dei poteri fosse solo un alibi, l’ennesimo, per rimandare sine die la
soluzione di un problema che rende precarie non solo le vite degli insegnanti, ma l’intera
scuola e per scaricare tutta la colpa sui parlamentari fannulloni e su tutti i «gufi del
mondo» che si ostinano a ostacolare il manovratore. O che, al contrario, l’urgenza di
risolvere il problema (senza dimenticare l’infrazione dell’Europa per le mancate
assunzioni) finisca col soffocare il tempo del dibattito parlamentare sulla scuola. Un tempo
considerato, con tutta evidenza, «perso». Insomma, si dice di scegliere la via
parlamentare per poi renderla impraticabile.
Un capolavoro di astuzia, non c’è che dire. Ma alla fine la copertura finanziaria per i
150.000, poi 120.000, poi 90.000 precari c’è o no?
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P.S. Le ultime decisioni non cambiano i termini del problema. Rimane l’incertezza sulle
assunzioni, sugli strumenti legislativi e normativi e sulle coperture.
del 05/03/15, pag. 5
E così le scuole private si accaparrano i soldi
pubblici
Roberto Ciccarelli
La riforma. Proteste di M5S, Cgil e associazioni, ma il governo sembra
intenzionato a concedere gli sgravi. Il Pd resta spaccato, e i cattolici
festeggiano: ma chiedono di approvare in fretta la legge
Se l’assunzione di una parte dei precari è ancora a rischio, le scuole paritarie e cattoliche
quasi esultano. Il governo Renzi ha confermato di volere inserire nel disegno di legge le
detrazioni fiscali promesse dal sottosegretario all’Istruzione Toccafondi, confermate dal
ministro Giannini, e rivendicate da 44 parlamentari del Pd insieme a quelli dell’Ncd. Ma
avrebbero voluto da Renzi un decreto legge, così da incassare il bonus fino a 4 mila euro
a famiglia e il 5 per mille subito. Così non è stato e ieri Famiglia Cristiana ha iniziato a
dubitare del progetto del governo: «Quello di Renzi è un bluff o è #lavoltabuona?».
Toccafondi ha rassicurato: «Il governo sta attuando una piccola riforma culturale e sta
superando con il realismo un pregiudizio perché autonomia e parità riguardano la scuola
nella sua totalità, statale e non statale».
L’operazione ideologica è vasta, trasversale e ben congegnata. A riprova c’è l’appello
pubblicato da Avvenire firmato da 37 parlamentari e due eurodeputati di Forza Italia: «Ci
uniamo alla lettera indirizzata da 44 colleghi deputati – hanno scritto — per chiedere che
nel ddl per la “buona scuola” trovi piena realizzazione la garanzia del diritto alla libertà di
scelta educativa della famiglia». A confermare l’avanzata del fronte che intende aumentare
le risorse pubbliche per i privati è sceso in campo l’ex ministro dell’istruzione Luigi
Berlinguer: «È con l’autonomia che si afferma, in pratica, il pluralismo educativo», ha
detto.
Le destre sono schierate con la Chiesa cattolica. Il Pd è spaccato come una mela. È uno
degli effetti prodotti dall’approvazione della legge sulle paritarie del 2000 voluta dal centrosinistra. Un vulnus costituzionale che da allora ha prodotto numerose polemiche. Ieri la
segretaria Cgil Susanna Camusso ha attaccato anche questa decisione del governo sulla
scuola: «Siamo di nuovo di fronte ad annunci ripetuti senza avere chiari gli obiettivi,
mentre si continuano a concedere risorse alle scuole paritarie e private che è esattamente
l’opposto del dettato costituzionale che garantisce il diritto allo studio e assume la
responsabilità pubblica della garanzia dell’istruzione».
Di «sconvolgimento dei principi e dei valori della Costituzione» parla anche la Flc Cgil,
mentre il movimento 5 Stelle attacca: «Gli sgravi fiscali per gli istituti paritari, che
costeranno 400 milioni di euro ogni anno – sostiene Riccardo Fraccaro — sono uno
schiaffo alle famiglie, agli studenti e agli insegnanti costretti a fare i conti con le enormi
criticità che minano il diritto allo studio». La defiscalizzazione fino a quattro mila euro per
alunno in favore delle scuole non statali violano inoltre l’articolo 33 della costituzione
(«senza oneri per lo Stato»).
«Le scuole private prendono già tanti soldi da Stato, Regioni e Comuni – ha detto a Radio
Citta Fujiko Giovanni Cocchi del coordinamento per la legge popolare sulla scuola Lip —
Sarebbe una cosa improponibile, soprattutto se si trattasse di soldi aggiuntivi. Sono già
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aumentati i fondi alle private quest’anno, è un ulteriore modo per favorire il privato quando
nella scuola pubblica manca anche la carta igienica».
del 05/03/15, pag. 29
Trovare un senso nel caos creativo della
scuola
Marco Rossi Doria propone una visione del mondo dove ordine e
complessità convivono
Giuseppe Salvaggiulo
In tempi di annunciata e assai propagandata #buonascuola, è opportuno ripartire dai
fondamentali. La conversazione tra Giulia Tosoni e Marco Rossi-Doria, pubblicata da
Edizioni Gruppo Abele con il titolo La scuola è mondo, restituisce in pieno il senso di
vertigine provocato dall’insegnamento nella società del «costante spaesamento»: sociale,
lavorativo, ideale, familiare. L’insicurezza diffusa si scarica sulla scuola, la travolge e ne
delegittima l’autorità, rompendo un secolare patto di rispetto. È venuta meno quella
necessaria asimmetria tra scuola (sia come istituzione generale, sia nelle figure che la
compongono) e utenti (studenti e famiglie), plasticamente identificata nella cattedra
sopraelevata.
«Sul piano educativo oggi abbiamo meno certezze, è assai più difficile», scrive RossiDoria, maestro elementare di strada a Napoli e promotore di progetti educativi
d’avanguardia prima e dopo l’esperienza come sottosegretario all’Istruzione nei governi
Monti e Letta. L’analisi di questa perdita di punti di riferimento (demografici, affettivi,
cognitivi) è abbondante e non banale in questo libro, mai venata di nostalgia. Consigliabile
soprattutto ai non addetti ai lavori.
Ma conviene qui soffermarsi più sulla pars construens, sul desiderio di «generare nuove e
più solide cornici entro cui l’educare ritrovi un senso, costruire una asimmetria minima».
Cominciando dalle piccole cose, come le assenze. Nell’era del pluralismo familiare (dei
genitori separati, che fare se uno giustifica la malattia del figlio e l’altro no?), «forse quella
del controllo non è una via proficua. Ci deve essere sì una misura di ordine, una
manutenzione di assenze e ritardi, un ripristino dei limiti. Ma il controllo non può sostituire
la forza e l’efficacia delle relazioni».
Consideriamo gli oggetti della ritualità scolastica. Una volta la casa era una sola, la
mamma o la nonna ne erano responsabili e se perdevi un libro o un quaderno scattava il
castigo come punizione automatica, quasi matematica. «Oggi gli oggetti hanno molti
custodi e mancati custodi (...) e vi è un intreccio quotidiano, molto complesso, di attese,
proiezioni, negoziazioni, parole, paure. Non sono cose astratte, le giornate cominciano
spesso intorno a queste cose».
Serve un nuovo patto «ed è una grande questione politica» che né leggi (tantomeno slide
o evanescenti linee guida) né accordi sindacali possono disciplinare.
Molti docenti ci provano, altri si rifugiano in una rivendicazione difensiva dell’asimmetria
passata. Ma il sistema disincentiva l’assunzione di un «sano rischio di libertà», sia creativa
sia artigianale, rafforzando i «fattori inibenti». Eppure sta per schiudersi una grande
opportunità: nei prossimi sei-sette anni vanno in pensione i tre quarti dei vecchi maestri e
«dobbiamo dare ai giovani che stanno per rimpiazzarli i saperi complessi che servono».
«È finita la zizzanella, come si dice a Napoli». Per tutti, anche per la scuola pubblica che si
crogiola nel mito costituzionale. «La scuola che meritiamo» ha un docente in grado di
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ricondurre a unità l’inevitabile sovrapposizione di voci, senza zittirle nascosto dietro un
registro di classe, sia esso enorme e cartaceo o tascabile ed elettronico.
Un senso dentro un grande caos, che grande programma politico.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 05/03/15, pag. 44
Tagliati i fondi dell’80% alla Biblioteca di
Firenze
Decurtato il finanziamento del Mibact alla Nazionale da 1.111.000 euro a
196.397 in un solo anno
TOMASO MONTANARI
DA ANNI la più importante biblioteca italiana – la Nazionale Centrale di Firenze, 6 milioni
di volumi – è moribonda, per mancanza di fondi. Il personale copre circa il 50%
dell’organico, nella Sala di Consultazione si deve studiare col cappotto, piove dai lucernari,
i bagni sono spesso inagibili, le finestre non si possono aprire perché pericolanti. E ora
sembra arrivato il colpo di grazia: il Ministero per i Beni Culturali ha deciso di tagliare di
oltre l’80% il fondo per il funzionamento (quello che permette di aprire le porte ogni
mattina, di pagare le bollette: insomma, di sopravvivere malgrado tutto). Invece del
1.111.000 euro arrivato l’anno scorso, quest’anno la dotazione sarà di 196.397 euro: una
cifra ridicola, inferiore a quella che lo stesso ministero ha pensato bene di destinare a Non
c’è due senza te, l’ultimo film con Belén Rodriguez. O, se vogliamo rimanere ai libri, pari
ad un quarto di quella destinata dalla stessa tabella ministeriale al funzionamento del
Centro del libro e della Lettura (826.209 euro). Sarebbe poi umiliante constatare quanti
soldi pubblici vadano gettati in mostre d’occasione e festival effimeri, mentre si costringe la
Biblioteca per eccellenza della nazione ad una indecorosa, e comunque inutile,
prostituzione: un anno fa la Sala di Lettura – definita per l’occasione «una location
fiorentina ricca di storia e di atmosfera» – fu chiusa per accogliere una sfilata di moda,
mentre pochi mesi prima la Biblioteca aveva ospitato alcune partite di golf.
Naturalmente, la Nazionale fiorentina non è un caso isolato: è solo il luogo dove sono più
visibili le conseguenze del massiccio disinvestimento pubblico (pari al 50%, dal 2005 ad
oggi) in quelle fabbriche di futuro che sono le biblioteche. Il piano della performance del
Mibact per il 2013-2015 riconosce che «le biblioteche pubbliche statali attualmente
ricevono circa la metà dei fondi di cui necessitano per garantire un adeguato servizio
all’utenza e per assicurare la corretta tutela e valorizzazione del patrimonio librario
custodito, nonché per garantire il rispetto della normativa sulla sicurezza». E non è
l’Europa a chiederci questa sorta di suicidio collettivo, questa scientifica costruzione di un
futuro meno civile: se da noi, nel 2013, la somma disponibile per il funzionamento di tutte
le cinquanta biblioteche statali era di 11.244.186 euro, nello stesso anno lo Stato francese
faceva funzionare la sola Biblioteca Nazionale con 87.314.979.
Di fronte a questo drammatico stato delle cose, il governo Renzi non cambia verso: e a
Firenze arrivano, per ora, solo promesse. Il 14 febbraio scorso l’Associazione Lettori della
Nazionale ha scritto un’accorata lettera al ministro Franceschini, chiedendo che vengano
assegnati «fondi adeguati, e, soprattutto, che vengano indetti concorsi per selezionare con
contratti a tempo indeterminato il personale specializzato, il solo in grado di gestire una
macchina del sapere complessa e insostituibile. Crediamo che il progetto di rinnovamento
della scuola, voluto dal Suo governo, e la volontà di assicurare la “cultura diffusa”, di cui
ha parlato il nuovo presidente della Repubblica, non possano fare a meno del buon
funzionamento delle strutture portanti». Franceschini non ha trovato ancora il tempo di
rispondere: forse perché la differenza tra annunci e realtà è imbarazzante. Trovando, al
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contrario, il tempo per cantare insieme a Gianni Morandi, il ministro ha dichiarato che la
canzone di Lucio Dalla che meglio rappresenta il Governo sarebbe Futura. Ma entrando
nella Biblioteca Nazionale di Firenze viene in mente, invece, Attenti al lupo.
del 05/03/15, pag. 1/29
UNA PROPOSTA PER IL PAESE
Cultura e industria, l’orgoglio di costruire il
futuro
di Giorgio Squinzi
Pubblichiamo l’intervento che il presidente di Confindustria Giorgio
Squinzi ha tenuto ieri a Roma presso il Ministero dei Beni culturali nel
corso del seminario organizzato sul tema delle potenzialità
dell’industria culturale in vista della presentazione, prevista a giugno,
del rapporto della Fondazione Symbola.
È ancora poco diffusa la consapevolezza dell’apporto che il sistema produttivo e l’industria
in particolare danno al patrimonio culturale italiano. Premetto che maneggio la parola
cultura sempre con una certa cautela, anche quando ragiono di cultura industriale, termine
con cui ho inevitabilmente convissuto per tutta la mia vita di imprenditore. Questa cautela
deriva dall’aver osservato quanto sia stato fin qui poco produttivo e viziato da pregiudizi il
dibattito sul rapporto del mondo privato con la cultura e quanto siano ancora vive
anacronistiche antinomie tra mondo pubblico e privato.
per questo vorrei proporre non tanto un confronto generale sulla cultura industriale o sul
rapporto tra privati e patrimonio culturale, ma riflettere su due grandi questioni:
come l’impresa italiana e in generale il mondo privato può contribuire alla tutela, studio,
promozione del patrimonio culturale del Paese, di cui l’industria è parte essenziale
come il sistema culturale può contribuire a far conoscere il patrimonio industriale italiano, a
renderlo ricchezza condivisa.
Più questa doppia interazione è vivace, intensa e innovativa, più il Paese e la sua industria
crescono.
La prima questione è stata oggetto di molti confronti, spesso arenatisi in inesistenti conflitti
tra il tutelare e il promuovere, tra i partigiani della deregulation e chi si difende dietro
assurdi eccessi normativi. Oggi è l’occasione per superare qualche ambiguità. Il confronto
internazionale sul rapporto che le istituzioni culturali - pubbliche o private che siano –
instaurano con il mondo privato, ci dice che non esistono modelli univoci di approccio e ci
insegnano che ormai il patrimonio culturale è considerato per definizione un Bene
Pubblico, anche quando la sua proprietà e gestione sono nelle mani dei privati.
In secondo luogo, lo sa meglio di chiunque altro l’imprenditore, non esiste possibilità di
promuovere alcunché se il patrimonio che si vuole far conoscere non è in primo luogo
catalogato, tutelato e conservato. Al tempo stesso, un patrimonio non promosso, e quindi
fruito, perde il valore che nasce dalla condivisione. Questo Governo ha avviato una nuova
politica per la cultura con l’introduzione delle erogazioni liberali prevista nel decreto del 29
luglio dello scorso anno. È un ottimo passo avanti. Al ministro Franceschini dico che
sarebbe a nostro avviso importante introdurre nella norma un’idea più larga di Bene
Pubblico, come è oggi internazionalmente considerato, e cioè un bene di cui è pubblica la
fruizione e la conoscenza, non la proprietà o la gestione. Se estendessimo l’art bonus in
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tal senso, credo daremmo una spinta alle erogazioni private in senso generale e
contribuiremmo a far sì che il grande patrimonio culturale giacente nelle imprese italiane
possa diventare, da un lato oggetto di studio e conservazione, dall’altro essere finalmente
fruito e goduto dagli italiani, e non solo. Faremo al ministro una proposta che va in questa
direzione. Mi auguro possa essere accettata perché l’industria sostenga con più forza la
cultura italiana. L’industria è patrimonio culturale del Paese e vuole che proprio questo
patrimonio diventi un bene condiviso. Esso nasce in una comunità che condivide un
sistema di saperi, risorse, tecniche, regole, per generare utilità, strumentalità, opportunità.
Questa comunità è cresciuta con l’uomo, ha una sua storia e ha vissuto nel corso degli
ultimi cento anni un’accelerazione straordinaria. L’Italia e gli italiani sono cambiati insieme
all’industria. Pensate che nel 1951 i giovani tra i 19 e i 26 anni iscritti all’università erano
due su cento, oggi sono più di 50. Su 100 laureati 12 erano donne, oggi sono quasi 60.
Nel paniere degli italiani del 1954 c’erano il popelin, la soda e la brillantina. Oggi ci sono la
pay-tv, le chiavi Usb e il cibo biologico. Tra fine anni 50 e inizi 60 crescevamo a ritmi
asiatici, oggi la sfida che stiamo costruendo è quella che io chiamo industria 4.C : colta,
connessa, competitiva e creativa. L’Italia è stata ed è un campione in questa sfida.
Siamo la seconda potenza industriale in Europa e l’ottava al mondo, proprio perché
abbiamo una nostra storia industriale e una nostra cultura, inimitabili e che per questo tutti
cercano di imitare. Il 15% della ricchezza italiana è prodotto dalla manifattura, il 20% se
aggiungiamo le costruzioni. Otto milioni di italiani vivono di industria.
Cinquecento miliardi di prodotti italiani vengono esportati sui mercati di tutto il mondo ogni
anno. Nell’industria si fa ricerca di qualità, ci sono occasioni di lavoro ricche di contenuti,
c’è la maggiore mobilità sociale, si mettono alla prova competenze e capacità. L’industria
genera intorno a sé ricchezza materiale e intellettuale. Qualsiasi prodotto ha bisogno di
essere studiato, comunicato, regolato, protetto. Le persone che lo producono sempre più
hanno bisogno di essere formate. Tutto questo negli anni si stratifica e diventa patrimonio,
storia, memoria per fare altra industria. Tutto questo è cultura italiana.
Per molti all’estero l’Italia migliore è proprio la sua industria, i suoi prodotti, la sua marca.
Made in Italy , all’estero, è sinonimo di ben fatto. Eppure al Paese e agli italiani l’industria
nazionale non sembra stare molto a cuore. Anzi, l’industria genera spesso un senso di
pregiudizio e fastidio, più che non di sfida e di voglia di futuro. Troppo spesso la figura
dell’imprenditore è ancora vista come una figura negativa, non come un costruttore di
valori e di benessere per la Comunità. In molti Paesi l’impresa si racconta a scuola perché
è considerata parte viva della ricchezza della società. Deve diventare così anche in Italia e
per gli italiani e la giornata di oggi può divenire lo start up di un’iniziativa che contribuisca a
costruire consapevolezza e stima collettiva attorno all’industria italiana.
In Confindustria ci sentiamo un po’ i depositari di questo patrimonio. È quindi nostro
preciso compito tutelarlo, metterlo a valore e condividerlo. Una parte di questa storia la
racconteremo ad Expo con una mostra dedicata al rapporto tra industria e alimentazione.
Con uno specifico gruppo di lavoro stiamo lavorando ad un progetto che racconti le storie
di imprese, imprenditori, lavoratori, di tecnici, di prodotti, di tecnologie, di successi. Anche
di sfide perse, di cui dovremo cercare le ragioni, e la forza per riprovare. Credo che gli
italiani sarebbero piacevolmente stupiti e orgogliosi di conoscere quanto si è inventato e
costruito in Italia, quanto ancora si sta facendo e quanto si farà. Su questo vorremmo
lanciare un grande sforzo di comunicazione comune, della rete e del sistema radiotelevisivo, dell’istruzione, con il fondamentale apporto del ministero dei Beni culturali. Il
nostro patrimonio è un bene pubblico, sta nelle fabbriche, negli archivi, nei musei e
soprattutto nella memoria dell’industria. È da lì che aggiorniamo ogni giorno il nostro futuro
industriale, che è poi il futuro del nostro Paese. Vorremmo raccontarlo agli italiani perché
diventasse una ragione di orgoglio di tutti.
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ECONOMIA E LAVORO
del 05/03/15, pag. 4
di Salvatore Cannavò
LA COALIZIONE DEL REDDITO
GRILLO PROPONE AMPIE CONVERGENZE. SEL E SINISTRA PD
SODDISFATTI. TADDEI: SOLO UNA SUGGESTIONE
Il Movimento Cinque Stelle punta decisamente al reddito di cittadinanza e lo dimostra con
l’ampia intervista concessa ieri da Beppe Grillo al Corriere della Sera. Da cui emerge la
volontà di ampliare la campagna. Già di per sé una notizia, la conversazione con cui il
leader pentastellato ha dato credito al presidente Mattarella e ha ribadito l’importanza della
riforma della Rai, è servita a definire la linea della “convergenza” sul tema del reddito.
Come spiegato qualche giorno fa al Fatto dalla senatrice M 5 S Nunzia Catalfo, la
proposta prevede l’introduzione di un reddito di 780 euro mensili modulabile sulla base dei
componenti familiari, aperto agli inoccupati, ai disoccupati e a coloro che hanno un reddito
inferiore a quella cifra, vincolandoli all’accettazione di proposte di lavoro. Il costo: circa 15,
5 miliardi la cui copertura va dalla “patrimoniale” sui redditi sopra i 2 milioni di euro alla
riduzione delle spese militari, dai risparmi della Pubblica amministrazione alla riduzione dei
costi della politica o alla riduzione dell’ 8 per mille alla Chiesa. “Anche Papa Francesco
sarà sulla nostra stessa linea d’onda” assicura Grillo, confidando nell’audizione della Cei in
Commissione Lavoro del Senato richiesta dai suoi senatori.
IL PUNTO SENSIBILE dell’intervista è però l’affermazione che su questa proposta il M 5 S
auspica “tutte le convergenze del mondo” dichiarandosi aperto “a qualsiasi discussione” e
anche a “trovare una mediazione”. Dichiarazione subito interpretata dal Pd come
“un’inversione di linea”. In questo senso si è espresso il capogruppo alla Camera, Roberto
Speranza. L’ex comico ha subito replicato a queste affermazioni garantendo che “non c’è
stata nessuna inversione di tendenza del M 5 S: quello che abbiamo detto lo abbiamo
sempre fatto, a partire dalla restituzione dei finanziamenti pubblici ai partiti, al contrario dei
Pd”. Dialogo difficile, quindi, se non improbabile. La distanza è confermata anche da
quanto ha dichiarato al Fatto il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei: “Il reddito
di cittadinanza è una misura che manca al nostro Paese e non a caso nel Jobs Act
abbiamo introdotto l’Asdi, l’assegno di disoccupazione, con uno stanziamento di 200
milioni”. Un primo passo, ma non risolutivo. “Il problema da affrontare, seriamente,
aggiunge Taddei sono le coperture, la loro qualità. Non ci convincono generiche
patrimoniali, tra l’altro una tantum e quando si è trattato di ridurre la spesa pubblica il M 5
S ha sempre votato contro. Per discutere ci aspettiamo una proposta seria e concreta
sulle coperture altrimenti non è una proposta politica ma una suggestione”.
IL TEMA DELLA convergenza però resta in piedi. Dal fronte del Pd, infatti, va segnalata la
“soddisfazione” di Pippo Civati o il gradimento di Enrico Rossi, presidente della Toscana.
In Senato, poi, dove la legge è incardinata, la minoranza Pd ha un peso importante. Altro
segnale di apertura, stavolta dall’ala moderata, è la dichiarazione resa al Fatto dal
senatore Pietro Ichino, già Scelta civica e ora Pd: “È un frutto molto positivo del dialogo
instauratosi il fatto che il Movimento 5 Stelle, pur continuando a indicare la sua proposta
con l’espressione ‘ reddito minimo di cittadinanza’, ne abbia modificato il contenuto
trasformandolo sostanzialmente in un sistema di ‘ reddito minimo di inserimento’”.
Secondo Ichino bisogna ora arrivare alla “soppressione di tutte le forme di assistenza
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impropria, che devono essere sostituite” per trovare risorse a vantaggio del reddito
minimo”. Al Senato, inoltre, esiste anche la proposta di legge di Sel che ieri, con il
coordinatore Nicola Fratoianni, ha apprezzato le parole di Grillo dicendosi disposto a
dialogare e discutere sia del reddito di cittadinanza che della riforma Rai. Poi c’è il
sostegno esterno al mondo politico che si vedrà nei prossimi giorni quando Libera di don
Luigi Ciotti avvierà la campagna dei 100 giorni per il “Reddito per la dignità”, su cui
raccogliere centinaia di migliaia di firme da mettere a disposizione di tutte le forze in
Parlamento. La campagna vede anche l’impegno del Basic In-come Network (Bin), la rete
che ha già introdotto la tematica promuovendo una legge di iniziativa popolare. “Quanto
sta avvenendo è molto positivo” dice Papi Bronzini della Bin secondo cui senza una
mobilitazione popolare non succederà nulla. Alla campagna parteciperà anche la Fiom e le
varie forze che stanno costruendo la “coalizione sociale” proposta da Maurizio Landini, a
partire da Stefano Rodotà.
del 05/03/15, pag. 10
Euro mai così debole dal 2003 Draghi avvia
l’acquisto di bond “Ma non basta per la
ripresa”
Moneta unica a quota 1,1069 sul dollaro. Oggi direttivo Bce a Cipro
Merkel e Juncker: “Non c’è un terzo piano di salvataggio della Grecia”
ETTORE LIVINI
MILANO .
Il bazooka di Mario Draghi e i nuovi segni di debolezza dell’economia del vecchio
continente spingono l’euro ai minimi degli ultimi undici anni. La moneta unica veniva
scambiata nella serata di ieri – alla vigilia del quantitative easing (Qe) da 1.100 miliardi
della Bce – a quota 1,1069, il livello più basso dal 2003. I dettagli della maxi iniezione di
liquidità della banca centrale saranno messi a punto tra oggi e domani al Consiglio di
Eurotower che si riunirà a Cipro, dove sono previste manifestazioni di protesta contro il
costosissimo (per i risparmiatori) salvataggio del sistema bancario di Nicosia di due anni
fa. E lo stesso Draghi avverte: «Il Qe da solo non basterà per la crescita dell'Eurozona.
Ognuno faccia la sua parte».
I vertici della banca centrale dovranno definire quali titoli obbligazionari sarà possibile
acquistare e il sistema con cui spalmare perdite e profitti tra i singoli istituti nazionali.
L’impegno è quello di rastrellare 60 miliardi di bond al mese per stimolare l’economia e i
consumi e pilotare l’inflazione verso quota 2%, l’obiettivo fissato nel mandato dell’istituto. A
mettere sotto pressione l’euro sono stati anche i nuovi segnali di divaricazione tra Usa
(dove le imprese hanno creato nuovi posti di lavoro, 200mila questa volta, per il 13esimo
mese consecutivo) ed Europa dove l’indice dei servizi ha confermato una ripresa ancora
debole e a macchia di leopardo.
Il secondo delicatissimo tema di cui si discuterà a Cipro è la Grecia, su cui l’allarme rosso
è tutt’altro che cessato. Angela Merkel è scesa in campo ieri per ribadire che le voci di un
terzo piano di salvataggio («serviranno altri 30-50 miliardi», ha insistito il ministro delle
finanze spagnolo Luis De Guindos) sono al momento fuori luogo: «L’Europa è impegnata
al 100% nella realizzazione del secondo programma di aiuti». Parole ribadite dal
presidente della Commissione Jean Claude Juncker. «Gli esecutivi ellenici hanno già fatto
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molto e sarebbe un peccato buttare alle ortiche i progressi fatti fino ad oggi», ha ribadito il
numero uno del Fondo Monetario Christine Lagarde. La Bce oggi è l’unica fonte di
finanziamento di Atene che non può più emettere bond (salvo rinnovare quelli in scadenza
come ha fatto ieri con un rialzo al 2,79% dei tassi per i semestrali) ed è tenuta in vita dalle
linee di credito d’emergenza di Francoforte per le banche elleniche.
Eurotower valuterà nei prossimi due giorni se allargare un po’ le maglie della liquidità per
la Grecia. Il vero banco di prova per il governo Tsipras è però l’Eurogruppo di lunedì
quando presenterà all’Eurogruppo il primo pacchetto di riforme cui affida le speranza di
sbloccare almeno una parte dei 7,2 miliardi dell’ultima tranche di aiuti dell’ex Troika.
Il piano, come nello stile di Yanis Varoufakis, è il tradizionale capolavoro di «ambiguità
costruttiva». In un unico pacchetto stile “prendere o lasciare”, sono incluse le misure
umanitarie promesse ai greci - luce e buoni pasto gratis alle famiglie più povere e aiuti per
gli affitti («costano solo 200 milioni») - e le riforme strutturali che piacciono a Bruxelles:
una prima bozza della ristrutturazione dell’Agenzia dell’Entrate e della strategia fiscale del
governo contro gli evasori assieme al piano di recupero delle tasse arretrate. Un modo per
ottenere il via libera sia dai creditori che dalla minoranza di Syriza. La speranza è che l’ex
Troika, di fronte alla dimostrazione di buona volontà del governo, possa sbloccare almeno
un pezzo dell’ultima tranche di sostegno dando un po’ d’ossigeno ad Atene.
del 05/03/15, pag. 10
Gli Stati Uniti si sacrificano per sostenere la
crescita globale
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK .
Non accadeva da più di 11 anni. Per ritrovare l’euro a quota 1,10 sul dollaro bisogna
risalire al settembre 2003. Ai suoi massimi l’euro aveva superato 1,50. La discesa ormai
punta dritta verso la parità, il traguardo è uno a uno sul dollaro, come accadde poco dopo
la nascita della moneta unica. E’ il massimo beneficio “anticipato” dai mercati per una
politica ancora di là dal venire: il “quantitative easing” in versione europea, lo stampare
moneta per comprare bond. Mario Draghi annuncia oggi i dettagli di un’operazione che
varrà 60 miliardi di euro al mese, ricalcata sulla terapia che per cinque anni fu applicata
qui negli Stati Uniti.
E’ uno scambio delle parti, tardivo ma comunque positivo. Il “quantitative easing” fu
inventato dalla Federal Reserve americana nella crisi del 2008–2009. Ci vollero cinque
anni e 4.500 miliardi di dollari di nuova moneta, per arrivare al risultato di oggi: una ripresa
prolungata, solida, con 12 milioni di posti creati. Più ancora del credito facile, quella
politica americana (ora conclusa) ebbe successo perché indebolì il dollaro. Oggi lo
ammette senza esitazioni – a condizione di non essere citato – uno dei massimi dirigenti
della banca centrale americana: «Gli acquisti di bond hanno agito sull’economia reale Usa
anzitutto attraverso la svalutazione del cambio ». Ex post è una sincerità sorprendente.
Mentre applicavano quella politica monetaria d’emergenza, gli americani negarono sempre
che l’obiettivo fosse il dollaro debole. Eppure fu quella la leva principale, perfino in
un’economia relativamente “autosufficiente” come la loro (solo il 15% del Pil Usa è
generato dall’import-export). A maggior ragione ne trarrà vantaggio l’eurozona, ora che le
parti si sono invertite, ed è l’euro a indebolirsi rendendo meno cari i prodotti italiani,
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tedeschi o francesi nel resto del mondo. L’eurozona è tre volte più dipendente dal
commercio estero.
Il dollaro forte è l’altra faccia della situazione attuale. Forte contro tutti, s’intende, non solo
contro l’euro. Il Dollar Index, che misura il valore della moneta americana rispetto ad un
paniere di monete dei suoi principali partner commerciali, è ai massimi da un decennio.
Bisogna tornare all’epoca di George W. Bush nel primo mandato presidenziale, quando
l’America ebbe una ripresa post-11 settembre drogata dal boom di spese militari
(invasione dell’Iraq) e dai generosi sgravi fiscali per i ricchi. Fu allora l’ultimo dollaro forte
che si ricordi. Ora ci si torna, sia per la vitalità della ripresa americana, sia per le
debolezze riunite di tutti gli altri. La Cina è costretta a tagliare il costo del denaro per
contrastare il rallentamento della sua crescita. Il Giappone fa compagnia all’eurozona: in
deflazione. Il Brasile è lambito perfino da voci di default. La Russia è in recessione. Il
contrasto che offre lo spettacolo della crescita Usa, viene riassunto in quest’altro dato: la
disoccupazione è scesa simultaneamente in tutti i 50 Stati Usa, una sincronizzazione che
non si verificava dal lontano 1984, durante la presidenza di Ronald Reagan.
La solitudine americana ha dei costi. Tutti cercano di esportare verso il mercato che tira, e
quindi l’industria Usa soffre una concorrenza feroce. Le multinazionali americane vedono
assottigliarsi i profitti che fanno nel resto del mondo, soprattutto quando li traducono in
superdollari. Wall Street ne trae cattivi auspici per gli utili delle società quotate. Ma fin qui
la locomotiva Usa sembra in grado di reggere questo ruolo trainante nei confronti del resto
del mondo.
Il precedente del “quantitative easing” applicato dalla Federal Reserve – poi copiato da
inglesi e giapponesi, buon’ultima la Bce – è di buon auspicio ma al tempo stesso gli
americani ci rivolgono alcuni avvertimenti. Primo: gli effetti dell’aiuto monetario si
percepiscono sull’economia reale con lentezza. Basti pensare al fatto che l’America è
entrata nel suo sesto anno consecutivo di crescita, ma solo da pochi mesi se ne vedono i
frutti anche sui salari e sul potere d’acquisto delle famiglie. Se vale lo stesso per
l’eurozona, quella ripresa “percepita” a livello di massa (aumenti salariali, pieno impiego,
recupero dei consumi) rischia di arrivare nel 2020. Inoltre gli americani sono preoccupati
che qualcosa non funzioni nella “cinghia di trasmissione” che deve diffondere gli effetti
degli acquisti di bond: dalla Bce alle banche, e da queste all’economia reale. Negli Stati
Uniti – che pure sono meno banco-dipendenti e hanno altri circuiti di finanziamento delle
imprese – il sistema bancario fece una drastica pulizia nei suoi bilanci, e una formidabile
ricapitalizzazione. L’eurozona sembra ancora ben lontana da quel risanamento degli istituti
di credito.
del 05/03/15, pag. 18
La “ripresina” non è per tutti
Paolo Maddalena
Da qualche tempo Confindustria e multinazionali diffondono notizie ottimistiche su possibili
previsioni di aumenti, in termini decimali, del nostro Pil, soprattutto a seguito della politica
monetaria della Bce e della politica economica del nostro governo, entrambe tese ad
aiutare, rispettivamente, banche e imprese. In realtà si tratta di notizie poco attendibili,
poiché, come gli stessi economisti insegnano, non è detto che, una volta ricevuti gli aiuti,
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le banche concedano prestiti a piccole e medie imprese e che le imprese reinvestano i loro
guadagni in attività produttive.
È INVECE DA PORRE in evidenza che da tempo gli osservatori più acuti e credibili
(Luciano Gallino, Vladimiro Giacché, Zygmunt Bauman, eccetera) segnalano un
deterioramento a livello globale del sistema economico finanziario vigente, deterioramento
il cui fine ultimo è la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e l’asservimento
dei lavoratori alle esigenze del mercato. Si registrano, infatti, dati indiscutibili che
sembrano ispirati da un disegno generale, il quale mira a distruggere le Costituzioni
democratiche e a creare uno “spazio” in cui le forze economiche e finanziarie, che hanno
conquistato le istituzioni finanziarie europee e internazionali, possano agire da sovrani
assoluti, senza, come suol dirsi, “lacci e lacciuoli”, che ne frenino le attività intraprese. Il
primo dato davvero preoccupante è l’avvenuta creazione di una ricchezza finanziaria
fittizia, costituita da trilioni e trilioni di euro e di dollari, la quale agisce nel mercato alla pari
della ricchezza reale, producendo fallimenti e disastri, contro i quali si è spesso levata la
voce isolata di Papa Francesco.
SI TRATTA di una ricchezza in gran parte realizzata mediante la cosiddetta
“cartolarizzazione dei diritti di credito in titoli commerciabili”, prevista dalla legge numero
130 del 1999, secondo la quale i “debiti”, denominati “diritti di credito”, valgono come se
fossero debiti garantiti, e cioè, non un terzo del loro valore (come sarebbe in una
contrattazione di mercato), ma l’intero valore nominale del debito stesso. Altro dato
estremamente preoccupante è quello della “privatizzazione” e della “svendita”, autorizzate
con varie leggi del governo Berlusconi e da ultimo dallo Sblocca Italia e dalla legge di
stabilità, di immobili pubblici, di industrie strategiche, di territori, di demani (resi alienabili
dal decreto legislativo numero 85 del 2010), di reti di comunicazione (si pensi alle antenne
Rai) e così via dicendo. Terzo dato veramente allarmante è costituito dalle continue
deroghe e abrogazioni delle norme urbanistiche, alle quali, come è noto, è affidata la tutela
del territorio e del paesaggio, che sono beni comuni in appartenenza sovrana del popolo
(vedi, per tutti, il decreto Sblocca Italia).
MA NON È TUTTO. Preoccupa non poco la tendenza ad assicurare agli operatori
commerciali e finanziari anche “l’immunità” da qualsiasi giurisdizione. Per il Meccanismo
europeo di Stabilità, un organo dell’Unione europea che ha il compito di concedere aiuti ai
Paesi in difficoltà, tale immunità è già vigente. Di immunità per gli operatori commerciali e
finanziari si parla anche a proposito di un Trattato transatlantico tra Stati Uniti, Canada e
Unione europea, le cui trattative sono tenute in gran segreto e, tanto per finire, l’ “immunità
per responsabilità penale o amministrativa” è prevista anche dal decreto sull’Ilva, in corso
di approvazione in Parlamento. In questo quadro appare chiaro che una luce in fondo al
tunnel possono vederla soltanto le banche e le multinazionali, e non certo il popolo
italiano. Eppure una via d’uscita c’è. È l’applicazione degli articoli 41, 42 e 43 della
Costituzione repubblicana vigente, i quali sanciscono, rispettivamente, che l’iniziativa
economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”, che il diritto di
proprietà privata è riconosciuto e garantito dalla legge “allo scopo di assicurarne la
funzione sociale”, che le imprese “che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia” dovrebbero essere gestite dalla mano pubblica o da “comunità di lavoratori o di
utenti”.
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del 05/03/15, pag. 27
Una coppia di lavoratori trentenni in giro tra le agenzie degli istituti di
credito per chiedere un finanziamento immobiliare Un impiego stabile e
l’altro con il contratto a tutele crescenti Due giorni di colloqui tra
simulazioni e tabelle
Anche con il Jobs Act il mutuo resta chimera
“Banche non informate e serve ancora il
garante”
MATTEO PUCCIARELLI SILVIA VALENTI
MILANO .
L’impiegata sgrana gli occhi: «Eh?!». Sembra non averne mai sentito parlare. Il direttore di
filiale chiede di cosa si tratti e alla fine prova a empatizzare, con dubbio successo:
«”Tutele crescenti”, sì come no, quante se ne inventano...». C’è uno spettro che si aggira
per le banche e si chiama “Jobs Act”, o meglio: il nuovo contratto a tempo indeterminato
senza articolo 18, cioè quello che a breve sarà l’unico capace di garantire le assunzioni
non a termine. Se ne parla mesi ma gli istituti di credito non lo conoscono, non sanno
valutarlo, non sanno insomma se ha lo stesso peso specifico del vecchio indeterminato;
anche se, da una prima occhiata, parrebbe proprio di no. E quindi in fin dei conti il destino
di chi nei prossimi mesi (e anni) vorrà provare a ottenere un mutuo sarà ancora una volta
aggrappato alle garanzie delle mamme o dei papà muniti del contratto classico o di una
buona pensione.
Due giorni di colloqui, tra simulazioni, tabelle, tassi e grafici, in dieci banche: grandi,
piccole, italiane o straniere. Nonostante le ottime credenziali di partenza — se non
invidiabili per il contesto lavorativo e generazionale — riceviamo tre no, quattro forse, un
solo sì e due non risposte a un prestito per l’acquisto della prima casa. Lui: 30 anni,
geometra, un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti appena firmato, 1.600
euro al mese e tredicesima; lei: trentenne, grafica, un vecchio contratto a tempo
indeterminato a 1.200 euro al mese e tredicesima. Una casa da 200mila euro individuata
in un quartiere della semiperiferia milanese e una somma di tutto rispetto da anticipare,
cioè 70mila euro. In condizioni “normali”, i nostri parametri sarebbero perfetti: chiediamo
“solo” il 65 per cento del valore della casa (il massimo è l’80); puntando su un mutuo di 25
o 30 anni, il rapporto tra reddito totale e rata del prestito è molto al di sotto della soglia
massima del 35 per cento; non abbiamo altre rate sulle spalle, né protesti o altro, siamo
candidi come colombe. Eppure no, nessuna certezza di farcela da soli, neanche così.
Prima banca, la grande Bnl-Bnp Paribas. Davanti al dilemma dei dilemmi («cos’è questo
tutele crescenti?») l’impiegata chiama la superiore che, molto sinceramente, ci dice le
cose come stanno: «Ci rientrate in teoria, ma il problema è il contratto da 1.600 euro:
credo non faccia cumulo, servirà un garante». In casa Unicredit non ci si espone, ma sono
i piccoli segnali quelli che contano: «Facciamo la scheda, va bene se parto con i dati della
ragazza?». Che tra i due è quella con lo stipendio più basso, ma considerato — a torto o a
ragione — davvero garantito. Alla Monte dei Paschi c’è la lunga ed edificante premessa
che fa sperare per il meglio: «Il mondo cambia e anche noi dobbiamo adeguarci e
avvicinarci alle esigenze e ai mutamenti nel mercato del lavoro», ragiona il giovane
impiegato. Ma stringi stringi e la valutazione non si avvicina molto a “esigenze” e
“mutamenti”: «Serve uno storico per far acquisire peso alla pratica, se tornate fra 3 o 6
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mesi con le buste paga del nuovo contratto è meglio». Ovvero quando la nostra casa,
probabilmente, se la sarà comprata qualcun altro.
Nel mondo delle popolari la situazione cambia di poco. Alla Bpm ci ricordano che servono
dai sei mesi ai due anni di lavoro a tempo indeterminato alle spalle per rassicurare gli
eventuali creditori. E allora «per sicurezza cominciate a sentire i vostri genitori, o gli zii».
Pure in Bp Lodi ci si augura che «la riforma ci permetta di stare al passo coi tempi, anche
se per ora non abbiamo ricevuto comunicazioni di nessun tipo». Per non sbagliarsi meglio
tranquillizzare il centro decisionale con una bella assicurazione contro la perdita del
lavoro. Costo: 12mila euro. Il direttore della Crediparma chiede cosa significhi “tutele
crescenti”: «Nel senso che man mano che uno va avanti si guadagna di più?». Alla
risposta — cioè che d’ora in poi il licenziamento sarà monetizzabile — il consiglio, a parte
trovarsi il famoso garante, è anche qui l’assicurazione contro la perdita dell’impiego da
incorporare al mutuo. In Banca Etruria sono gentilissimi, premettono che l’istituto è
commissariato, ma sulla questione Jobs Act, un po’ come tutti gli altri, brancolano nel buio,
«magari ci risentiamo tra qualche giorno». Alla Bp Vicenza clima molto informale, da
mutuo tagliato su misura e fatto in casa, «qui decide il nostro direttore di filiale». Se non
va, sai chi ti ha detto no, ha un nome e un volto. Un modo per acquisire punti ci sarebbe:
comprarsi almeno 100 azioni della banca, così si diventa soci e si risparmia sui tassi.
Servono 6-7mila euro per l’operazione; sarà un cattivo pensiero, ma pare quasi di
comprarsi un “sì”. C’è solo un istituto dove la riforma “epocale” sembra essere presa in
considerazione ed è Deutsche Bank. Il consulente non ha neanche trenta anni, forse è per
quello che non fa la faccia strana di fronte alla menzione del nuovo contratto: «Se non lo
diamo a voi il mutuo, a chi dobbiamo darlo?». Sarà una iniezione di fiducia per non
deprimerci o davvero hanno una politica ad hoc ? «Non abbiamo direttive ma non vedo
quale sia il problema, è sempre un tempo indeterminato ». Su un punto il nostro
interlocutore è davvero sicuro, più che altro è una profezia: «Comunque vedrete, nei
prossimi mesi il costo dell’assicurazione contro la perdita di lavoro schizzerà. Fatela ora
finché il prezzo è umano».
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