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Cassazione civile , sez. III 03/10/2013 n. 22585 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UCCELLA Fulvio - Presidente Dott. D'ALESSANDRO Paolo - Consigliere Dott. GIACALONE Giovanni - Consigliere Dott. TRAVAGLINO Giacomo - rel. Consigliere Dott. D'AMICO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il (OMISSIS) An.Gi., dirigente chimico in servizio presso la sezione di (OMISSIS) dell'Istituto regionale della Vite e del Vino, prese in consegna da due ufficiali della G.d.F. - inviati presso il detto istituto da un magistrato della procura della Repubblica di Brindisi - una borsa contenente alcuni campioni di liquido da analizzare in qualità di perito all'uopo nominato dal predetto ufficio giudiziario. Nel percorrere una rampa di scale che conduceva al laboratorio dove sarebbe stato riposto il materiale consegnatogli dai finanzieri, l' An. inciampò, perdendo l'equilibrio, e cadde nello spazio vuoto esistente tra i due montanti di sostegno del passamano della scala. Ne riportò gravissime lesioni, che ne cagionarono la totale compromissione della capacità lavorativa e la irredimibile modificazione in pejus della qualità della vita. Vennero così convenuti in giudizio, dinanzi al Tribunale di Marsala, P.P., presidente del consiglio di amministrazione e di legale rappresentante dell'ente, A.S., dirigente del settore amministrativo con competenza sulla gestione degli immobili, ed M.E., direttore dell'istituto, dei quali An. G. chiese la condanna al risarcimento dei danni subiti nella misura di L. 2.338.446808. Lamentò, in particolare, l'attore che ciascuno dei convenuti, nell'ambito delle rispettive competenze, aveva omesso di adottare le dovute misure antinfortunistiche, come emerso nel corso del procedimento penale instauratosi a loro carico e conclusosi con l'applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p.: i gradini della scala, difatti, si presentavano pericolosamente sdrucciolevoli, come egli non aveva mancato di far notare ai responsabili, ma ciò nonostante l'unica protezione esistente era rappresentata, al tempo dei fatti, da un corrimano in ferro che lasciava ai due lati della rampa ampi spazi verso il vuoto - mentre un appropriato parapetto avente le caratteristiche previste dal D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 26 e 27, avrebbe sicuramente evitato l'infortunio, anche alla luce di una segnalazione dell'ing. Ca., che aveva rappresentato la necessità di eseguire alcune opere all'interno dell'istituto, tra cui l'installazione di elementi protettivi della scala per conformarla alla normativa antinfortunistica (opere puntualmente eseguite dopo il verificarsi dell'evento). Furono chiamati in causa da P.D. tutti i componenti del Consiglio di amministrazione dell'istituto a titolo di regresso ex art. 2055 c.c., e si provvide alla riunione del procedimento con il successivo giudizio promosso in riassunzione dallo stesso An.Gi. nei confronti del solo Istituto della Vite. Il giudice di primo grado - alla luce della relazione dell'ispettorato del lavoro, espressamente indicativa della non conformità della scala alla normativa antinfortunistica ritenendo che, di tale situazione di pericolo, fossero sicuramente a conoscenza l' A., il M., il P. e tutti i consiglieri, accolse la domanda risarcitoria in parte qua, e, dopo aver escluso qualsivoglia ipotesi di colpa concorrente del danneggiato: - condannò in solido P.D., M.E. e l'Istituto regionale della Vite e del Vino al pagamento, in favore dell'attore, della somma di Euro 1.541.573 a titolo di risarcimento di danno morale, biologico e non patrimoniale, nonchè alla ulteriore somma risultante dalla sottrazione di Euro 231.698 da quella di Euro 557.773, a titolo di danno patrimoniale; - quantificò (in accoglimento delle relative domande di regresso) la responsabilità del P. e del M. nelle misura, rispettivamente, dell'11% e del 5%; - rigettò l'istanza risarcitoria proposta nei confronti di A. S., ritenendone nella specie impredicabile qualsivoglia forma di responsabilità; - dichiarò il proprio difetto di giurisdizione in ordine tanto alla domanda di rivalsa spiegata dall'Istituto nei confronti dei tre originari convenuti quanto a quella di garanzia proposta dal M. nei confronti del detto Istituto; - accolse la domanda di regresso spiegata dal P. nei confronti di tutti i soci componenti del consiglio di amministrazione, ritenuti colpevolmente concorrenti nella misura del 7% ciascuno. La Corte di appello di Palermo, investita dei gravami hic et inde proposti, accolse in toto quelli del P. e del M., mandandoli assolti da ogni responsabilità, ed accolse in parte quello dell'Istituto della Vite, riducendo a vario titolo l'importo del risarcimento dovuto all' An. - del quale ritenne predicabile, a differenza del giudice di prime cure, una concorrente responsabilità nella misura del 25%. Per la cassazione della sentenza della 6orte siciliana ha proposto ricorso, illustrato da un unico, complesso motivo di impugnazione, l'Istituto Regionale della Vite e del Vino. Resistono M.E., P.D. con controricorso, mentre A.S. e An.Gi. integrano l'atto di resistenza all'impugnazione principale ciascuno con ricorso incidentale, cui resiste con controricorso l'Istituto della Vite. P.D., A.S. e l'Istituto Regionale della Vite hanno altresì depositato memorie illustrative. MOTIVI DELLA DECISIONE Dei ricorsi riuniti, devono essere accolti quello principale dell'Istituto regionale della Vite e del Vino e quello incidentale condizionato di An.Gi.. Meritano altresì accoglimento il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale non condizionato An. (con assorbimento del quarto motivo) e il ricorso incidentale A.. Deve invece essere rigettato il primo motivo del ricorso An.. IL RICORSO PRINCIPALE DELL'I.R.V.V.. Con il primo ed unico motivo, la difesa dell'ente denuncia, testualmente, violazione e falsa applicazione di norme di diritto e precisamente dell'art. 2043, con specifico riferimento al principio di diritto che ne individua i presupposti applicativi nei confronti della P.A., e art. 28 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3); contraddittorietà della motivazione in relazione al primo capo della sentenza relativo alla decisione sulle domande spiegate nell'appello dell'Istituto (art. 360, n. 5). Insussistenza di responsabilità in capo all'IRVV. La censura è fondata in diritto, anche se il suo accoglimento non può condurre - come si avrà modo di precisare in sede di esame del ricorso incidentale An. - al risultato auspicato dalla difesa dell'istituto - id est alla affermazione di un principio di diritto che consenta al giudice del rinvio di provvedere alla incondizionata e definitiva assoluzione da responsabilità dell'ente vinicolo. La giuridica fondatezza della censura si coglie, sia pur in parte qua, alla luce del principio secondo cui non è legittimamente predicabile la responsabilità di un ente in assenza della speculare ed espressa affermazione di responsabilità del/dei soggetti che abbiano agito in sua rappresentanza (intesa quest'ultima in senso organico). E' principio di diritto consolidato presso questa Corte regolatrice (principio cui sembrerebbe prestare formale ossequio la stessa sentenza impugnata, volta che, al folio 38, vi si afferma che la responsabilità dell'IRVV si radica, nel caso di specie, proprio in forza del rapporto organico), difatti, quello secondo il quale la responsabilità aquiliana degli enti si fonda proprio sul rapporto organico con le persone fisiche che li rappresentino - oltre che sulla relazione che lega agli enti stessi a tutte le altre persone fisiche inserite nell'organizzazione burocratica o aziendale (in argomento, tra le tante, Cass. 2089/2008 e 3980/2003). Il principio così predicato sul piano della morfologia dell'illecito postula, peraltro, come suo logico corollario sotto il profilo funzionale, che sia stata accertata e dichiarata una qualsivoglia responsabilità, ex art. 2043 c.c., di (almeno) una delle persone fisiche poste in rapporto giuridicamente rilevante (organicamente qualificato, o meno) con l'ente stesso (amministratori, funzionari, dipendenti), le quali, per la posizione di "protezione" rispettivamente rivestita, siano in condizione di adottare le misure preventive necessarie ad evitare la consumazione dell'illecito. Nel caso di specie, la corte di appello ha espressamente negato che una responsabilità di tal genere potesse rinvenirsi in capo al presidente del C.d.A. e legale rappresentante dell'istituto, P. D., ovvero in capo agli altri componenti del C.d.A., ovvero ancora al direttore preposto alla gestione del patrimonio immobiliare, M.E., senza nel contempo accertare nè sanzionare espressamente, sul piano sostanziale, sia pur soltanto incidenter tantum (stante la preclusione formale scaturente dalla mancata proposizione dell'appello da parte del danneggiato), tale responsabilità con riferimento alla posizione di A. S., mero coordinatore del settore amministrativo. Nei suoi confronti, difatti, pur avendone genericamente rilevato, nelle poche righe che si occupano della sua posizione, una pretesa violazione di un obbligo di segnalazione e informazione (per avere egli omesso di segnalare al c.d.a. il contenuto della nota dell'ing. Ca. indirizzata all'Istituto ed allo stesso A.), la forte di appello non procede poi ad alcun espresso accertamento ed ad alcuna espressa declaratoria, sia pur, ripetesi, in via soltanto incidentale (come pure sarebbe stato legittimo, al fine di giustificare la responsabilità dell'ente), in ordine ai presupposti della relativa responsabilità - ritenendo conseguentemente assorbite le domande formulate dal P. e dal M. volte a tale affermazione in conseguenza della mancata impugnazione, da parte dell' An., del capo di sentenza con la quale il tribunale di Marsala aveva rigettato la domanda di risarcimento proposta nei confronti dello stesso A., ritenendone, appunto, insussistente ogni responsabilità. Non risulta, pertanto, applicabile, nella specie, il principio di diritto espresso da questa stessa Corte, a mente dei quali l'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando difetti una identificazione precisa dell'autore del reato stesso e purchè questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico, come quello che lega la società di capitali al suo amministratore, o di dipendenza. Nel caso di specie, difatti, ciò che manca non è la precisa individuazione del responsabile (che anzi risulta astrattamente individuato con assoluta precisione), ma il corretto ed esplicito esame, incidenter tantum, della sua posizione sostanziale, pur nella preclusione, sul piano processuale, di ogni ulteriore indagine nei suoi confronti. La corte di appello, difatti, al folio 39 della sentenza oggi impugnata, compie un fugace (quanto inesatto) excursus motivazionale che ha riguardo al comportamento tenuto dall' A. - del quale è messa in luce la posizione di "interlocutore dell'ing. Ca." per effetto di una nota del 18.11.1991 (diretta, peraltro, anche all'Istituto), e quella di "destinatario del compito di rassegnarne il suo esatto contenuto all'organo amministrativo, al suo presidente e al direttore" - per concludere, sic et simpliciter, che, "in forza del rapporto organico", la responsabilità dell'Istituto risulterebbe ad ogni buon conto predicabile a prescindere dalla mancata impugnazione dell'assoluzione dell' A. in prime cure. Tale statuizione merita la censura svolta nell'odierno controricorso dalla difesa dell' A., che legittimamente lamenta una patente contraddittorietà della motivazione della sentenza d'appello alla luce della ben più pregnante ed approfondita disamina della vicenda operata dal tribunale (che questa corte può conoscere ed esaminare per essere stata integralmente riportata nel corpo della stessa sentenza di appello), dalla quale emerge la correttezza dell'esclusione della sua responsabilità, attesone, da un canto, il compito di vigilanza e garanzia rispetto alla sola consistenza patrimoniale dell'istituto (e non anche quello di adozione di misure antinfortunistiche rispetto alle quali egli non aveva alcun potere decisionale e/o di spesa); dall'altro, la impredicabilità di un suo obbligo di impedire l'evento in quanto in posizione residuale e settoriale rispetto: 1) al potere di determinazione del c.d.a.; 2) a quello di adozione di provvedimenti urgenti da parte del presidente P.; 3) all'obbligo di intervento gravante sul M.; dall'altro ancora, la assoluta mancanza di prova che egli fosse a conoscenza del perdurare della situazione di pericolosità della scala una volta rimessa la questione alle determinazioni del c.d.a.. La sentenza di primo grado, diversamente da quella di appello, evidenzia poi, del tutto correttamente, la decisiva circostanza secondo la quale il Pianeta, al pari del consiglio di amministrazione, fosse perfettamente a conoscenza della situazione di pericolosità della scala (così è testualmente riferito ai ff. 2122 della sentenza d'appello), tanto da aver espressamente rappresentato all'assemblea la necessità di realizzare lavori di adeguamento della sede dell'istituto, definiti necessari ed urgenti dall'ing. Ca. con la già ricordata nota 18.11.1991, nota indirizzata anche all'istituto e depositata presso l'ente in data 20.11.1991 (tra tali lavori, si indicavano espressamente quelli volti all'istallazione di fasce di lamiera sulla ringhiera di protezione della scala per renderla conforme alla normativa antinfortunistica), tanto che "l'assemblea, dopo ampia discussione, aveva deliberato di dare mandato all'ing. Ca. perchè provvedesse alla progettazione dei lavori necessari". Sotto questo limitato profilo in punto di diritto, il ricorso principale deve, pertanto, trovare accoglimento, alla luce, da un canto, della mancata, espressa valutazione ed affermazione (in termini di sua astratta configurabilità) di una responsabilità ex art. 2043 c.c., dell' A. (del tutto insufficienti, oltre che erronei, risultando gli scarni riferimenti di cui poc'anzi si è riferito), dall'altro, della (altrettanto inesatta) ricostruzione della condotta dei convenuti P. e M. negli speculari termini di assenza di responsabilità per il fatto dannoso: ciò che comporta, ipso facto, la attuale impossibilità di veder ricondotta all'ente qualsivoglia forma di responsabilità organica o di posizione, senza che questo, coma già anticipato in premessa, conduca, peraltro, all'assoluzione da ogni responsabilità dell'istituto ricorrente, a cagione dell'accoglimento in parte qua del ricorso incidentale An., di cui a breve si dirà. IL RICORSO INCIDENTALE A.. Per i motivi suesposti, deve essere accolto il motivo di ricorso incidentale svolto dalla difesa A. in punto di liquidazione delle spese del primo e secondo grado di giudizio, alla cui definizione provvedere il giudice del rinvio, in conseguenza della rivalutazione dei fatti di causa da operarsi alla luce dei principi di diritto indicati dalla Corte. IL RICORSO AN.. a) Il ricorso incidentale condizionato. Con l'unico motivo di ricorso incidentale (condizionato all'accoglimento di quello principale poc'anzi esaminato), la sentenza di appello viene censurata, ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2043 c.c.) in relazione ai presupposti applicativi nei confronti della P.A. e dell'art. 28 Cost., con riferimento al principio di diritto per il quale, nel caso di infortuni sul lavoro dovuti a carenze di ordine strutturale, sono responsabili gli organi apicali dell'ente, ai quali fanno capo i poteri di indirizzo e di programmazione; nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per difetto di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riferimento all'obbligo degli organi apicali dell'ante (presidente e consiglio di amministrazione) e del direttore generale (consegnatario degli immobili e responsabile della sicurezza dei lavoratori) di provvedere alle misure legali di prevenzione infortuni sul lavoro adottando i provvedimenti di competenza per eliminare le carenze strutturali della scala interna della sede marsalese dell'istituto. L'accoglimento del motivo di ricorso principale consente di esaminare il contenuto della censura così come sopra riportata. Essa è fondata. Incorre, difatti, in errore la corte territoriale nell'escludere, dal novero dei responsabili dell'evento di danno che colpì l' An. tanto il C.d.A. dell'ente, quanto P.D. ed M.E. nelle rispettive qualità. E' principio di diritto consolidato presso questa corte regolatrice, difatti, quello secondo il quale, delle carenze strutturali degli immobili (quali certamente quelle da cui risultava caratterizzata la scala delle sede dell'Istituto), rispondono gli organi apicali ("l'organo politico di vertice", secondo il dictum di Cass. n. 21010 del 2006, che, pur occupandosi di una vicenda di responsabilità riguardante un ente territoriale afferma peraltro principi che, mutatis mutandis, appaiono del tutto conferenti alla fattispecie in esame, volta che in sentenza si legge ancora che tale responsabilità risulta con figurabile solo in presenza di specifiche situazioni, correlate alle attribuzioni proprie di tale organo, e, cioè, quando si sia al cospetto di violazioni derivanti da carenze di ordine strutturale, riconducibili all'esercizio dei poteri di indirizzo e di programmazione, ovvero quando l'organo politico sia stato specificamente sollecitato ad intervenire, ovvero ancora quando sia stato a conoscenza della situazione antigiuridica derivante dalle inadempienze dell'apparato competente, e abbia cionondimeno omesso di attivarsi, con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio). Questa stessa Corte, poi, sia pur in sede penale, e sotto diverso profilo, ha dal suo canto affermato ripetutamente che, al fine di affermare la responsabilità di un dipendente amministrativo addetto ad un determinato servizio gestito da una pubblica amministrazione, occorre considerare la ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze, i limiti della delega ottenuta e le funzioni in concreto esercitare, e distinguere tra carenze strutturali, addebitabili ai vertici dell'ente, e deficienze derivanti dall'ordinario buon funzionamento, delle quali è tenuto a rispondere il funzionario addetto al settore secondo la ripartizione interna e istituzionale delle specifiche competenze (ex multis, Cass. pen. 5407/1996, in conformità con quanto già in precedenza affermato dalle stesse sezioni unite penali con la sentenza n. 9874 del 1992). Dalla descrizione degli eventi così come operata dal giudice territoriale emerge ictu oculi come la non conformità della scala a cagione della quale ebbe a verificarsi il gravissimo incidente fosse dovuta ad una vera e propria carenza strutturale (e non anche di una omessa o cattiva manutenzione) del manufatto, conseguente alla altrettanto dimostrata difformità dai precetti normativi dettati in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Da una evidente responsabilità della vicenda di danno così correttamente ricostruita (e correttamente esaminata in prime cure), non potevano, pertanto, dirsi esenti, sic et simpliciter, i vertici dell'istituto, cui andava viceversa ascritta la qualità di "debitori di sicurezza" risultati, nella specie, colpevolmente inadempienti. Incorre in una irredimibile contraddizione, per altro verso, la sentenza impugnata nella parte in cui omette di considerare che la deliberazione del C.d.A. del 10.12.1991 riproduceva esattamente, e nel medesimo ordine, i tre interventi necessari ed urgenti proposti dall'ing. Ca. nella nota 20.11.1991 - diretta tanto all' A. quanto specificamente all'istituto -, onde l'inevitabile inferenza di ordine logico secondo la quale tale nota fu evidentemente portata a conoscenza del consiglio. La contraddittorietà della motivazione appare ancor più palese se si consideri che in nessun modo e in nessun passaggio argomentativo essa esamina e contesta quanto affermato dal giudice di primo grado (e testualmente riportato ai ff. 21.22 della sentenza oggi impugnata), secondo il quale "il P....aveva rappresentato all'assemblea la necessità di realizzare dei lavori di adeguamento della sede dell'istituto definiti necessari ed urgenti dall'ing. Ca. con nota indirizzata all'istituto e depositata il 20.11.1991, tra i quali l'installazione di fasce in lamiera sulla ringhiera di protezione della scala elicoidale per renderla conforme alla normativa antinfortunistica, e l'assemblea, dopo ampia discussione, aveva deliberato di dar mandato all'ing. Ca. perchè provvedesse alla progettazione dei lavori necessari". L'obbligo di impedire l'evento dannoso gravava, pertanto, sugli organi apicali dell'ente - consiglio di amministrazione e presidente, quest'ultimo obbligato anche ai sensi dell'art. 5, comma 4, dello statuto, a mente del quale egli aveva il potere di adottare eccezionalmente i provvedimenti di urgenza salvo ratifica del consiglio. A non diversa conclusione (come rettamente opinato dal giudice di prime cure) sarebbe dovuto giungere la corte territoriale con riguardo alla posizione del Marzullo, cui competevano incombenze tipiche di vigilanza ed attuazione delle delibere del C.d.A., nella qualità di consegnatario del patrimonio immobiliare, di direttore del personale, di garante del buon funzionamento dell'ente e di partecipante alle determinazioni dell'assemblea con voto consultivo, con conseguente configurabilità di un dovere di informazione e conoscenza della concreta situazione delle strutture entro le quali il personale era chiamato ad operare, di un altrettanto ineludibile dovere di segnalazione delle eventuali fonti di pericolo derivanti da carenze strutturali dei manufatti esistenti, di un conclusivo potere di adozione di rimedi provvisori attingendo all'apposito fondo cassa, di un ulteriore potere di segnalazione della necessità di inibire l'uso delle strutture pericolose (quali, appunto, la scala sulla quale ebbe a verificarsi l'incidente): non appare senza significato la incontestata circostanza, indicata dal ricorrente An. al folio 23 del suo ricorso incidentale condizionato, secondo la quale il Marzullo, a seguito dei rilievi mossi dagli ispettori del lavoro e dopo soli sei giorni dall'incidente, dette incarico all'ing. Ca. di procedere alla realizzazione dei lavori urgenti di messa in sicurezza della scala medesima. All'accoglimento del motivo così esaminato consegue la impredicabilità di qualsivoglia ipotesi di assoluzione da responsabilità dell'ente vinicolo - così dovendosi interpretare, in parte qua, l'accoglimento del relativo ricorso principale - che andrà conseguentemente dichiarata in sede di rinvio. b) Il ricorso incidentale non condizionato. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1227 c.c., comma 1, in relazione agli artt. 2043, 2087 e 2056 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, con specifico riferimento ai principi di diritto che regolano il concorso di colpa del danneggiato negli infortuni sul lavoro)/omessa e contraddittoria motivazione in relazione al capo della sentenza relativo alla condotta alternativa lecita che il danneggiato avrebbe dovuto tenere al fine di evitare il danno (art. 360 c.p.c., n. 5). Insussistenza del concorso di colpa. La censura non può essere accolta. La inconferenza del richiamo ai principi dettato in tema di rischio professionale e di rischio c.d. "ulteriore" appare evidente volta che, facendo corretto uso del proprio potere di (ri)valutazione del fatto, la corte territoriale (ff. 41 ss. della sentenza impugnata) ha, con ragionamento probatorio scevro da vizi logico-giuridici, ravvisato profili di colpa nella condotta del danneggiato tanto ex intervallo - nel periodo anteriore all'avverarsi del sinistro -, quanto in continenti - e cioè in occasione del sinistro stesso, quando, a detta del giudice palermitano, "lo spirito di cortesia nei confronti del militari spinse l' An. ad un comportamento imprudente". Le censure mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata, pertanto, nel loro complesso, pur formalmente proposte sotto la veste di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un di decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all'impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle - fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E' principio di diritto ormai consolidato quello per cui l'art. 360 n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto - delle valutazioni compiute dal giudice d'appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso del precedente grado del procedimento, in una dimensione motivatamente difforme da quanto opinato in prime cure, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello - non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2059 c.c. in relazione agli artt. 2 e 3 Cost., e D.P.R. 3 marzo 2009, art. 5, lett. e) con specifico riferimento al principio di diritto dell'autonomo riconoscimento del danno morale (art. 360 c.p.c., n. 3); difetto e contraddittoria motivazione in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione del danno non patrimoniale nel suo complesso (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2059 c.c. in relazione agli artt. 2, 4 e 29 Cost.) con specifico riferimento alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti (art. 360 c.p.c., n. 3); insufficiente motivazione in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione del danno non patrimoniale nel suo complesso per non aver tenuto conto della lesione di tutti gli interessi costituzionalmente protetti (art. 360 c.p.c., n. 5). Entrambi i motivi sono fondati. Lamenta il ricorrente che la Corte palermitana, diversamente da quanto opinato dal giudice di prime cure, avrebbe illegittimamente omesso di riconoscere e liquidare autonomamente il danno morale subiettivo patito dall' An.. Lamenta poi lo stesso ricorrente che il giudice d'appello avrebbe omesso di valutare correttamente le conseguenze, sul piano del danno non patrimoniale, della definitiva compromissione delle normali potenzialità di esplicazione e realizzazione della personalità del danneggiato, tanto in ambito familiare (ivi compreso il diritto all'esplicazione della sessualità irrimediabilmente compromesso) quanto in ambito professionale e di relazione con soggetti terzi. Osserva, nel richiamare la più giurisprudenza di questa corte, che l'autonomia del danno morale risulta sancita per via normativa, in epoca successiva alle sentenza 11.11.2008 delle sezioni unite di questa corte, dai D.P.R. n. 37 del 2009, e D.P.R. n. 181 del 2009. Rileva, sotto altro profilo, la illegittimità dell'esclusione di ogni riconoscimento alla lesione del diritto dell' An. alla realizzazione ed esplicazione della persona in ambito tanto familiare quanto lavorativo e sociale. Le censure devono essere accolte entro i limiti di cui si dirà. Va premesso come questa stessa Corte regolatrice, in più di un'occasione (Cass. 28407/2008; 29191/2008; 5770/010; 18641/011) abbia avuto modo di predicare, in tema di danno morale e di danno "relazionale", i principi di diritto alla cui riaffermazione legittimamente anela il ricorrente. In particolare, con la recente pronuncia n. 20292 del 2012, si è affermato, in motivazione, quanto segue: Un più ampio panorama dello stato della giurisprudenza, di legittimità e costituzionale, sino a tutto il 2006 - secondo una ricognizione oggi imposta dall'assai parziale richiamo ad un singolo e non significativo passaggio della sentenza 8827/2003 - consente al collegio una prima considerazione (peraltro non indispensabile, alla luce dei successivi interventi compiuti dal legislatore, a livello di normativa primaria e secondaria, all'indomani delle sentenze dell'11 novembre 2008): un indiscusso e indiscutibile formante giurisprudenziale di un altrettanto indiscutibile "diritto vivente", così come predicato ai suoi massimi livelli, era, sino a tutto l'anno 2006, univocamente indirizzato nel senso della netta separazione, concettuale e funzionale, del danno biologico, del danno morale, del danno derivante dalla lesione di altri interessi costituzionalmente protetti. In tale ottica, le stesse "tabelle" in uso presso il tribunale di Milano - che questa stessa Corte eleverà, con la sentenza 12408/2011, a dignità di generale parametro risarcitorio per il danno non patrimoniale - ne prevedevano una separata liquidazione, indicando, in particolare, nella misura di un terzo la percentuale di danno biologico utilizzabile come parametro per la liquidazione del (diverso) danno morale subbiettivo. Le norme di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005), calate in tale realtà interpretativa, non consentivano (nè tuttora consentono), pertanto, una lettura diversa da quella che predicava la separazione tra i criteri di liquidazione del danno biologico in esse codificati e quelli funzionali al riconoscimento del danno morale: in altri termini, la "non continenza", non soltanto ontologica, nel sintagma "danno biologico" anche del danno morale. Nella liquidazione del danno biologico, invece, il legislatore del 2005 ebbe a ricomprendere quella categoria di pregiudizio non patrimoniale - oggi circoscritta alla dimensione di mera voce descrittiva - che, per voce della stessa Corte costituzionale, era stata riconosciuta e definita come danno esistenziale: è lo stesso Codice delle assicurazioni private a discorrere, di fatti, di quegli aspetti "dinamico relazionali" dell'esistenza che costituiscono danno ulteriore (rectius, conseguenza dannosa ulteriormente risarcibile) rispetto al danno biologico strettamente inteso come compromissione psicofisica da lesione medicalmente accertabile. L'aumento percentuale del risarcimento riconosciuto in funzione del punto invalidità, difatti, non è altro che il riconoscimento di tale voce descrittiva del danno, e cioè della descrizione degli ulteriori patimenti che, sul piano delle dinamiche relazionali, il soggetto vittima di una lesione medicalmente accertabile subisce e di cui (se provati) legittimamente avanza pretese risarcitorie. Ma quid iuris qualora (come nella specie) un danno biologico manchi del tutto, e il diritto costituzionalmente protetto (quello che le sentenze del 2003 definirono, con terminologia di più ampio respiro, in termini di "valore" e/o "interesse" costituzionalmente protetto) risulti diverso da quello di cui all'art. 32 Cost., sia cioè, altro dal diritto alla salute (che il costituente, non a caso, ebbe cura di non definire inviolabile - al pari della libertà, della corrispondenza e del domicilio - bensì fondamentale)? Quanto al danno morale, ed alla sua autonomia rispetto alle altre voci descrittive di danno (e cioè in presenza o meno di un danno biologico o di un danno "relazionale"), questa Corte, con la sentenza 18641/2011, ha già avuto modo di affermare quanto segue: "La modifica del 2009 delle tabelle del tribunale di Milano - che questa Corte, con la sentenza 12408/011 (nella sostanza confermata dalla successiva pronuncia n. 14402/011) ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio nazionale - in realtà, non ha mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale: nè avrebbe potuto farlo senza violare un preciso indirizzo legislativo, manifestatosi in epoca successiva alle sentenze del 2008 di queste sezioni unite, dal quale il giudice, di legittimità e non, non può in alcun modo prescindere, in una disciplina (e in una armonia) di sistema che, nella gerarchia delle fonti del diritto, privilegia ancora la disposizione normativa rispetto alla produzione giurisprudenziale. L'indirizzo di cui si discorre si è espressamente manifestato attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 31 del 2009, e il D.P.R. n. 191 del 2009, in seno ai quali una specifica disposizione normativa (l'art. 5) ha inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore di distinguere, morfologicamente prima ancora che funzionalmente, all'indomani delle pronunce delle sezioni unite di questa corte (che, in realtà, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto volto alla soppressione per assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo esse viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell'evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie) tra la voce di danno c.d. biologico da un canto, e la voce di danno morale dall'altro: si legge difatti alle lettere a) e b) del citato art. 5, nel primo dei due provvedimenti normativi citati: - che la percentuale di danno biologico è determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni; - che la determinazione della percentuale di danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto dell'entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in misura fino a un massimo di due terzi del,valore percentuale del danno biologico". Quanto, in particolare, al c.d. "danno parentale" la sentenza specifica ancora come "Vadano senz'altro ristorati anche gli aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale inteso come danno esistenziale... al cui proposito approfondita si appalesa la disamina della corte territoriale che, dopo aver ricostruito la vicenda in termini di eccezionalità sotto il profilo dinamico- relazionale della vita dei genitori del piccolo tetraplegico, ha poi altrettanto correttamente ritenuto di conservare un ancoraggio alla liquidazione del danno biologico quale parametro di riferimento equitativo non del tutto arbitrario del danno parentale, quantificando - con apprezzamento di fatto scevro da errori logico giuridici e pertanto incensurabile in questa sede - il danno stesso in una percentuale (l'80%) del pregiudizio biologico risentito dal minore". Non sembrò revocabile in dubbio alla Corte, e non sembra revocabile in dubbio oggi al collegio, che, nella più ampia dimensione del risarcimento del danno alla persona, la necessità di una integrale riparazione del danno parentale (secondo i principi indicati dalla citata Cass. ss.uu. 26972/08) comporti che la relativa quantificazione debba essere tanto più elevata quanto più grave risulti il vulnus alla situazione soggettiva tutelata dalla Costituzione inferto al danneggiato, e tanto più articolata quanto più esso abbia comportato un grave o gravissimo, lungo o irredimibile sconvolgimento della qualità e della quotidianità della vita stessa. Sulla base di tali premesse, e sgombrato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello biologico (escluso nel caso di specie), ma anche a quello "dinamico relazionale" (predicabile pur in assenza di un danno alla salute), va affrontata e risolta la questione, specificamente sottoposta oggi dal ricorrente incidentale al vaglio di questa Corte, della legittimità di un risarcimento di danni "esistenziali" così come riconosciuti dalla corte di appello di Potenza. Questione da valutarsi, non diversamente da quella afferente al danno morale, alla luce del dictum dalle sezioni unite di questa corte nel 2008, che lo ricondussero, in via di principio, a species descrittiva di danno inidonea di per sè a costituirne autonoma categoria risarcitoria. Un principio affermato, peraltro, nell'evidente e condivisibile intento di porre un ormai improcrastinabile limite alla dilagante pan- risarcibilità di ogni possibile species di pregiudizio, benchè priva del necessario referente costituzionale, e sancito con specifico riferimento ad una fattispecie di danno biologico. Un principio che, al tempo stesso, affronta e risolve positivamente la questione della risarcibilità di tutte quelle situazioni soggettive costituzionalmente tutelate (diritti inviolabili o anche "solo" fondamentali, come l'art. 32 Cost., definisce la salute) diversi dalla salute, e pur tuttavia incise dalla condotta del danneggiante oltre quella soglia di tollerabilità indotta da elementari principi di civile convivenza (come pure insegnato dalle stesse sezioni unite). Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione che discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo - così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale alla persona per il terzo millennio. La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta risposte al quesito circa la "sopravvivenza" - predicata dalla corte di appello lucana - del c.d. danno esistenziale, se è vero come è vero che "esistenziale" è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana nella sfera dinamico relazionale del soggetto, come conseguenza, si, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile. Prova ne sia che un danno biologico propriamente considerato - un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma consequenzialista - non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano risarcitorio, non ontologico) tutte le volte che la lesione (danno evento) non abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco ad essere estirpato dal (costoso) dentista è certamente una "lesione medicalmente accertabile", ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id est, del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile, poichè nessuna conseguenza dannosa (anzi..), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato ad essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell'ambito di una specifica terapia ossea che attende di lì a poco il danneggiato). La mancanza di "danno" (conseguenza dannosa) biologico, in tali casi, non esclude, peraltro, in astratto, la configurabilità di un danno morale soggettivo (da sofferenza interiore) e di un possibile danno "dinamicorelazionale", sia pur circoscritto nel tempo. Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze delle sezioni unite del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formale-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (il rapporto familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale). Una indiretta quanto significativa indicazione in tal senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell'art. 612-bis del codice penale, che, sotto la rubrica "Atti persecutori", dispone che sia "punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita". Sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale - i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore, e la significativa alterazione della vita quotidiana. Danni diversi e, perciò solo, entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita "esterna" per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa). E' lecito ipotizzare, come sostiene il ricorrente incidentale, che la categoria del danno esistenziale risulti "indefinita e atipica". Ma ciò è la probabile conseguenza dell'essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e atipica". Il Collegio ritiene di dover dare ulteriore continuità a tali principi, con conseguente accoglimento dei motivi in esame. Con il quarto motivo, si denuncia difetto di motivazione in ordine alla compensazione delle spese del giudizio di secondo grado. La censura è assorbita dall'accoglimento dei due motivi di ricorso che precedono, dovendosi rimettere al giudice del rinvio ogni decisione in ordine ad un nuovo riparto delle spese processuali. P.Q.M. La corte, decidendo sui ricorsi riuniti: - accoglie, nei limiti di cui in motivazione, quello principale dell'Istituto regionale della Vite e del Vino; - accoglie l'unico motivo di ricorso incidentale condizionato An.; - accoglie il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale non condizionato An., dichiarandone assorbito il quarto; - accoglie il ricorso incidentale A.; - rigetta il primo motivo del ricorso incidentale non condizionato An.; - cassa entro i limiti del predetto accoglimento la sentenza impugnata e rinvia il procedimento, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Palermo in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2013. Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2013 Cassazione civile, sez. III 12/03/2013 n. 6093 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SEGRETO Antonio - Presidente Dott. AMATUCCI Alfonso - Consigliere Dott. VIVALDI Roberta - rel. Consigliere Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere Dott. SCRIMA Antonietta - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO M.D. convenne, davanti al tribunale di Bologna, l'Azienda Ospedaliera Sant'Orsola - Malpighi ed i sanitari Ma. D., M.F. e P.S. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni dalla stessa subiti a causa di errata diagnosi. Espose, a tal fine, di essere stata ricoverata presso la Clinica Chirurgica 1 del Policlinico S. Orsola di Bologna in data (OMISSIS) e sottoposta ad intervento di colecistectomia effettuato dal Prof. Mi.Fr. in data (OMISSIS). Durante l'intervento i chirurghi avevano osservato la presenza lesioni epatiche di aspetto neoplastico. Sulla base dell'esame immediato su prelievo bioptico, effettuato presso l'Istituto di Anatomia Patologica della stesso ospedale, diretto dal Prof. P.S. era diagnosticato un "adenocarcinoma scarsamente differenziato con aspetti a cellule ad anello con castone ed intensa reazione desmoplastica", diagnosi confermata dal P. in data (OMISSIS); ragion per cui l'intervento non era portato a termine. A seguito di tale diagnosi, con lettera di dimissioni del 24.8.1995 del Prof. Ma.Do., direttore della 1 Clinica Chirurgica del policlinico S. Orsola, la paziente era stata inviata al reparto di oncologia dell'Ospedale di Budrio. Qui era sottoposta a trattamento chemio-terapico protrattosi fino al (OMISSIS). A seguito della mancata progressione della malattia e del persistere nella norma dei markers tumorali, gli oncologi dell'ospedale di Budrio chiedevano, il (OMISSIS), una revisione dello stesso preparato istologico esaminato nell'agosto del 1995, che conduceva, in data 20.2.1997, gli anatomopatologi dell'Istituto di Anatomia ed Istologia Patologica del Policlinico S. Orsola-Malpighi a formulare la diversa e corretta diagnosi di "emangioendotelioma epitelioideo", diagnosi poi, confermata, nel successivo (OMISSIS), dallo stesso Direttore dell'Istituto Prof. P.. All'esito dell'istruttoria svolta nel giudizio di primo grado, il tribunale, con sentenza del 30.6.2003, rigettò la domanda. Ad eguale conclusione pervenne la Corte d'Appello che rigettò l'appello proposto dalla M.. Quest'ultima ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Resistono con controricorso il Ma., il P. e l'Azienda Ospedaliera di Bologna - Policlinico Sant'Orsola Malpighi. L'altro intimato non ha svolto attività difensiva. Le parti costituite, ad eccezione del P., hanno anche presentato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l'applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo 1. Secondo l'art. 366-bis c.p.c. - introdotto dall'art. 6 del decreto i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall'art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4, l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall'art. 360, comma 1, n. 5), l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Segnatamente, nel caso previsto dall'art. 360 c.p.c., n. 5, l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n. 16002). Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l'enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la violazione di norme di diritto, in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. S.U. 11.3.2008 n. 6420 che ha statuito l'inammissibilità - a norma dell'art. 366 bis c.p.c. - del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un'enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo). La funzione propria del quesito di diritto - quindi - è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass.7.4.2009 n. 8463; v, anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433). Inoltre, l'art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta - ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso -, una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimità, a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall'art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura - come già detto - deve, all'esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., all'enunciazione del principio di diritto, ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza. Nell'ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso (c.d. momento di sintesi) - in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria - ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. da ultimo Cass. 25.2.2009 n. 4556). I quesiti posti rispettano i requisiti richiesti dalla norma dell'art. 366 bis c.p.c.. Con il primo motivo la ricorrente denuncia a) nullità della sentenza per lesione del contraddittorio e del correlato diritto di difesa (art. 275 c.p.c., comma 2, art. 352 e 101 c.p.c., art. 3 Cost., art. 111 Cost., comma 2 e art. 24 Cost., comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4); b) violazione in ogni caso dell'art. 275 c.p.c., commi 3 e 4 e art. 352 c.p.c. e dell'art. 24 Cost., comma 2, nonchè dell'art. 111 Cost., comma 6, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Il motivo non è fondato. In primo luogo, deve rilevarsi che è principio condiviso nella giurisprudenza della Corte di legittimità che l'omessa fissazione, nel giudizio d'appello, dell'udienza di discussione orale, pur ritualmente richiesta dalla parte ai sensi dell'art. 352 c.p.c. non comporti necessariamente la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa. E ciò perchè l'art. 360 c.p.c., n. 4, nel consentire la denuncia di vizi di attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo. Inoltre, avendo la discussione della causa, nel giudizio d'appello, una funzione meramente illustrativa delle posizioni già assunte e delle tesi già svolte nei precedenti atti difensivi e, non essendo sostitutiva delle difese scritte di cui all'art. 190 c.p.c., per configurare una lesione del diritto di difesa non basta affermare, genericamente, che la mancata discussione ha impedito al ricorrente di esporre meglio la propria linea difensiva, ma è necessario indicare quali siano gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o di approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi (Cass. 5.12.2003 n. 18618). L'applicabilità di questi principi, però, necessita di un elemento pregiudiziale, vale a dire che la richiesta di discussione orale sia rituale ai sensi dell'art. 352 c.p.c., comma 2. Prevede, infatti, tale norma che " Se l'appello è proposto alla corte di appello, ciascuna delle parti, nel precisare le conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio. In tal caso, fermo restando il rispetto dei termini indicati nell'art. 190 per il deposito delle difese scritte, la richiesta deve essere riproposta al presidente della corte alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica". Ebbene, nel caso in esame di una tale riproposizione, sulla quale il presidente provvede ai sensi dell'art. 352 c.p.c., comma 3, non vi è traccia; nè il ricorrente dimostra - e riproduce in ricorso - il tenore ed i tempi di tale richiesta, debitamente riproposta; con la conseguente declaratoria di infondatezza del motivo. Con il secondo motivo si denuncia nullità della C.T.U. espletata in primo grado con conseguente nullità derivata della sentenza della Corte d'Appello che l'ha interamente recepita, ancora una volta per lesione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa ("error in procedendo" con violazione degli artt. 61, 101, 122 e 123 c.p.c., art. 3 Cost. e art. 24 Cost., comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4). Il motivo non è fondato sotto due concorrenti profili. In ordine al primo, sarebbe addirittura inammissibile perchè nuovo. Non risulta, infatti, che la censura relativa alla supposta nullità della c.t.u., per le ragioni che si vanno più oltre ad indicare, sia stato proposta nel giudizio di appello; nè la ricorrente, al fine di evitare la declaratoria di novità, indica in quali atti processuali sarebbe stata già proposta riproducendone il contenuto nel ricorso per cassazione. Nè il rilievo può essere superato da una tale indicazione contenuta nella memoria - nella specie depositata ex art. 378 c.p.c. - la cui funzione è solo quella di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi già debitamente enunciati nel ricorso, ma non di integrarli con gli elementi mancanti (v. da ultimo Cass. 15.4.2011 n. 8749). In ogni caso, anche a tralasciare un tale profilo, l'infondatezza del motivo scaturisce dall'insussistenza dei rilievi avanzati. La nullità, infatti, è predicata per avere il c.t.u. "posto a fondamento della propria relazione pubblicazioni in lingua inglese senza la traduzione in lingua italiana quanto meno dei passaggi richiamati e fatti propri" (così nel quesito posto al termine della illustrazione del motivo). Ma, il principio dell'obbligatorietà dell'uso della lingua italiana - previsto dall'art. 122 c.p.c. - si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti prodotti dalle parti. Quindi, quando questi ultimi siano redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell'art. 123 c.p.c., ha la facoltà, e non l'obbligo, di nominare un traduttore, per cui, il mancato esercizio di detta facoltà, specie quando trattasi di un testo di facile comprensibilità, sia da parte dello stesso giudice che dei difensori, non può formare oggetto di censura in sede di legittimità (da ultimo Cass. 16.6.2011 n. 13249; Cass. ord. 23.2.2011 n. 4416). La consulenza tecnica d'ufficio, regolarmente redatta in lingua italiana - che nella specie la ricorrente ritiene fondata su pubblicazioni in lingua inglese - è, pertanto, esente dai rilievi avanzati. Con il terzo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5); violazione degli artt. 2236, 1176, 1218, 1223, 1226, 2043 2056 e 2059 c.c. nonchè degli artt. 2 e 32 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3). Il motivo è fondato per le ragioni che seguono. La Corte di merito, nel contestare le valutazioni della consulenza di parte - considerata "come illustrazione delle ragioni dell'appellante" - mostra di ritenere non condivisibile il rilievo per il quale "anzichè indirizzare la paziente al reparto oncologico dello stesso ospedale essi (i medici) avrebbero dovuto rivalutare il caso e discuterlo collegialmente assieme agli oncologi". E ciò perchè il direttore della clinica chirurgica consigliava al medico di base di sottoporre la M. - appena in condizioni di essere dimessa - a visita oncologica specialistica; indicazione questa ritenuta "pienamente congrua e condivisibile anche se il primo referto anatomo - patologico sulla biopsia avesse avuto un significato equivocabile", non sembrando "condivisibile l'osservazione che già a quel momento fosse evidente la diagnosi di "emangioendotelioma epitelioideo" anzichè l'adenocarcinoma". Aggiunge la Corte che "a quella più corretta diagnosi si giunse un anno e mezzo dopo, ma certamente vi contribuirono le osservazioni sui risultati della chemioterapia praticata in quel di Budrio" affermando non essere decisiva "l'assenza di valori pericolosi dei due marcatori tumorali CA 19.9 e CEA.". E conclude, in ordine ai rilievi avanzati dal consulente di parte ed esaminati come ragioni di impugnazione: "Non sono le chiacchiere estemporanee di pur dotta persona ad influenzare una decisione giudiziaria, sia pur per disporre il rinnovo della consulenza". Ebbene, sotto questo primo profilo, per un verso, è evidente la carenza motivazionale in cui è incorsa la Corte di merito in ordine ai rilievi critici mossi dal consulente di parte - e riportati in ricorso - alla consulenza tecnica d'ufficio ai fini di un rinnovo della consulenza in appello esaminati "quali ragioni di impugnazione", limitandosi la Corte di merito - nell'aderire alla consulenza di ufficio - ad affermare che "sia per la rarità di quelle neoplasie, sia per la possibilità di confondimento diagnostico, non era frutto di imperizia, imprudenza o negligenza la diagnosi fatta dall'anatomo patologo prof. P.". Trova, nella specie, applicazione il principio secondo il quale è affetta da vizio di motivazione la sentenza che, a fronte di precise e circostanziate critiche mosse dal consulente tecnico di parte alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, non le abbia dovutamente prese in considerazione e si sia, invece, limitata a far proprie le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio (Cass. 2.12.2011 n. 25862; Cass. 24.4.2008 n. 10688; Cass. 1.3.2007 n. 4797). Dal rilievo che la consulenza tecnica di parte non è mai un mezzo di prova, ma solo un atto difensivo e che, dunque, il Giudice non è tenuto a discuterne ex professo le conclusioni quando ritenga di aderire a quelle del consulente di ufficio (v. anche S.U. 9.3.1965, n. 375), non è, infatti, consentito trarre il corollario che egli possa anche totalmente prescindere dai rilievi precisi e circostanziati che il consulente di parte abbia mosso agli argomenti ed alle conclusioni del consulente d'ufficio (Cass. 2.2.2011 n. 25862; Cass. 24.4.2008 n. 19688; Cass. 16.6.2001 n. 8165). E ciò perchè il potere del Giudice di merito, di apprezzare il fatto, non equivale ad affermare che egli possa farlo immotivatamente e non lo esime, quindi, dalla spiegazione delle ragioni - fra le quali evidentemente non può considerarsi prevalente la maggiore fiducia che egli eventualmente tenda ad attribuire al consulente d'ufficio quale proprio ausiliare - per le quali sia pervenuto ad una conclusione anzichè ad un'altra, incorrendo, altrimenti, nel vizio di motivazione su punto decisivo della controversia (Cass.13.1.2005, n. 582). In tali casi, la possibilità per il Giudice di limitarsi a condividere le argomentazioni tecniche svolte dal proprio consulente, recependole, deve considerarsi riferita al caso che le critiche mosse alla consulenza siano state già valutate dal consulente d'ufficio ed abbiano trovato motivata e convincente smentita in un rigoroso ragionamento logico (fra le varie Cass. 2.5.2006 n. 10133). Ciò che, nella specie, non è avvenuto. Non solo. Ma la Corte omette anche di chiarire e motivare le ragioni per le quali non sarebbe "condivisibile l'osservazione che già a quel momento fosse evidente la diagnosi di "emangioendotelioma epitelioideo" anzichè l'adenocarcinoma". Nè l'affermazione, sempre immotivata, del perchè soltanto dopo un anno e mezzo si potè giungere " a quella più corretta diagnosi ", alla quale contribuirono "certamente" "le osservazioni sui risultati della chemioterapia praticata in quel di Budrio" è sostenuta dalla indicazione delle ragioni di un tale convincimento. Il carattere assertorio della sentenza impugnata non può essere condiviso in assenza di una congrua e convincente motivazione. Ed a tale conclusione deve pervenirsi anche con riferimento al rilievo per il quale la Corte di merito ha ritenuto priva di decisività la circostanza dell'assenza "di valori pericolosi dei due marcatori tumorali CA 19.9 e CEA"; rilievo, questo, meramente allegato; come tale - in difetto di motivazione sulle ragioni per le quali la circostanza è stata considerata non decisiva - privo di consistenza. Ed allora, già sotto questi primi profili, per le ragioni indicate, la sentenza impugnata non può considerarsi esente dalle critiche motivazionali che le sono state mosse dall'odierna ricorrente. Passando, quindi, all'esame delle potenziali colpe ascrivibili agli odierni intimati e del percorso logico argomentativo che ha condotto il giudice del merito ad escludere ogni profilo di colpa -, la Corte di merito ritiene - sulla scorta delle conclusioni della c.t.u. - che "sia per la rarità di quelle neoplasie, sia per la possibilità di confondimento diagnostico, non era frutto di imperizia, imprudenza o negligenza la diagnosi fatta dall'anatomo patologo prof. P.". Ed, a tal fine, afferma: "Trattandosi di errore scusabile in situazione che ai sensi dell'art. 2236 c.c. per la speciale difficoltà della diagnosi, avrebbe limitato la responsabilità al caso della colpa grave, nulla può essere addebitato al prof. P.; tantomeno può muoversi rimprovero al chirurgo prof. Mi. che si comportò secondo i migliori canoni dettati dalla prudenza o dal rispetto verso la paziente subito richiedendo l'analisi della biopsia nel corso dell'intervento e comportandosi come quel referto imponeva. Del tutto estraneo alla vicenda è stato il prof. Ma., cui non si poteva attribuire il dovere di ripetere quell'esame, senza un motivo valido per farlo, e che sarebbe stato seriamente in colpa se non avesse riferito e consigliato al curante di far visitare la paziente a uno specialista oncologo". Concludendo: "Poco importano i rilievi sulla conseguente terapia, che comunque si giustificava come scelta di maggior prudenza. La scusabilità dell'errore diagnostico impone il rigetto dell'appello". Orbene, anche tali conclusioni non possono essere condivise. La limitazione di responsabilità professionale del medico-chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell'imprudenza e della negligenza. Infatti, anche nei casi di speciale difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza o imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (fra le varie Cass.1.3.2007 n. 4797; Cass. 19.4.2006 n. 9085; Cass. 29.7.2004 n. 14488;Cass. 10.5.2000 n. 5945; Cass. 18.11.1997 n. 11440; Corte Cost. 22.11.1973, n. 166). Il giudice del merito, nel caso in esame, si è attestato sulla scusabilità dell'errore diagnostico per la speciale difficoltà della diagnosi - rilievo questo relativo alla sola perizia, peraltro neppure debitamente motivato in relazione alle particolarità del caso concreto - per escludere la responsabilità a vario titolo dei soggetti coinvolti, ma nulla ha detto con riferimento alle altre due ipotesi: negligenza o imprudenza che, se ricorrenti, sono fonte di responsabilità contrattuale anche nei casi di speciale difficoltà. Anche in questo caso, - unitamente alla non corretta applicazione dei principii in tema di responsabilità professionale medica ex art. 2236 c.c. che depongono per la sussistenza dell'ipotesi di violazione di legge si tratta anche di evidente vizio motivazionale, che ha condotto a scelte decisionali non condivisibili perchè fondate soltanto su di un aspetto di tale responsabilità. Ed a una tale conclusione si perviene, ancora una volta, anche con riferimento alla indicazione desunta dalla c.t.u. svolta nel giudizio di primo grado, laddove la Corte di merito si è uniformata al giudizio tecnico - che aveva concluso che " sia per la rarità di quelle neoplasie, sia per la possibilità di confondimento diagnostico, non era frutto di imperizia, imprudenza o negligenza la diagnosi fatta dall'anatomo patologo prof. P." -, senza procedere ad una autonoma valutazione delle condotte in relazione ai profili della imprudenza e negligenza. Da ultimo, non meno viziata appare l'affermazione alla quale perviene la sentenza - dopo avere concluso per la scusabilità dell'errore diagnostico - "Poco importano i rilievi sulla conseguente terapia, che comunque si giustificava come scelta di maggior prudenza". Un tale assunto, ancora una volta, avrebbe potuto essere condivisibile soltanto se il giudice del merito avesse argomentato di quali rilievi si fosse trattato, la loro irrilevanza e le ragioni sulle quali fondava una tale conclusione; invece apodittica. Diversamente, anche i successivi aspetti fattuali della vicenda avrebbero potuto gettare una luce chiarificatrice sulle ipotizzate responsabilità. Questi gli snodi argomentativi che la Corte di merito ha in modo erroneo trattato e che l'hanno condotta ad una conclusione non in linea con i principi enunciati. Il caso in esame - per le sue peculiarità - richiede un più approfondito e puntuale esame da parte del giudice del merito, al fine di cogliere le diverse problematiche che investono le condotte dei sanitari, i profili di eventuale responsabilità, il nesso di causalità e la ricorrenza del potenziale danno risarcibile. Alla luce dei principii esposti dovrà essere condotto l'esame da parte del giudice del rinvio. Merita precisare alcuni corollari applicabili alla fattispecie in esame. Sono principii ormai pacifici nella giurisprudenza della Corte di legittimità in tema di responsabilità medica i seguenti. La responsabilità dell'ente ospedaliere è di natura contrattuale; e ciò perchè l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (v. per es. Cass. 3.2.2012 n. 1620; Cass. 16.1.2009 n. 975; S.U. 11.1.2008 n. 577; Cass. 14.6.2007 n. 13953; Cass. 13.4.2007 n. 8826; Cass. 19.4.2006 n. 9085). A sua volta, anche l'obbligazione del medico dipendente dall'ente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorchè non fondata sul contratto, ma sul contatto sociale - cioè su altro fatto idoneo a produrre l'obbligazione ex art. 1173 c.c. -, ha contenuto contrattuale (v. per es. Cass.7.10.2010 n. 20808; Cass.19.4.2006 n. 9085; Cass. 28.5.2004 n. 10297). Secondo questa condivisibile giurisprudenza, le obbligazioni possono sorgere da rapporti di fatto, in quei casi in cui taluni soggetti entrano tra loro in contatto. Benchè questo contatto non riproduca le note ipotesi negoziali, pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, ma si rinviene una responsabilità a contenuto contrattuale, per non avere il soggetto fatto ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vincolo. La situazione descritta si riscontra nei confronti dell'operatore di una professione cd. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato), particolarmente, quando la professione abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti, come avviene per la professione medica, che incide sul bene della salute, tutelato dall'art. 32 Cost.. Rispetto all'operatore professionale la coscienza sociale, prima ancora che l'ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non tacere - e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità -, ma proprio quel tacere, nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l'attività in ogni momento. La responsabilità, sia del medico, sia dell'ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione ha, dunque, contenuto contrattuale ed è quella tipica del professionista. Ne deriva che trovano applicazione il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell'onere della prova, i principi delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza ed al grado della colpa, e la prescrizione ordinaria. Quanto all'onere della prova, in particolare, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l'onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno (Cass. 9.10.2012 n. 17143; Cass. 21.7.2011 n. 15993; Cass. 8.10.2008 n. 24791). Inoltre, in relazione alla responsabilità del primario, vale ricordare Cass. 29.11.2010 n. 24144 che ha affermato che il primario ospedaliero, che, ai sensi del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, art. 7, ha la responsabilità dei malati della divisione (per i quali ha l'obbligo di definire i criteri diagnostici e terapeutici, che gli aiuti e gli assistenti devono seguire), deve avere puntuale conoscenza delle situazioni cliniche che riguardano tutti i degenti, a prescindere dalle modalità di acquisizione di tale conoscenza (con visita diretta o interpello degli altri operatori sanitari), ed è, perciò obbligato ad assumere informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici cui il paziente sia stato affidato, indipendentemente dalla responsabilità degli stessi. E ciò, al fine di vigilare sulla esatta impostazione ed esecuzione delle terapie, di prevenire errori e di adottare tempestivamente i provvedimenti richiesti da eventuali emergenze. Anche di questi principii dovrà tenere conto il giudice del rinvio nell'esaminare il caso concreto. Conclusivamente, sono rigettati il primo e secondo motivo; è accolto il terzo. La sentenza impugnata è cassata in relazione, e la causa è rinviata alla Corte d'Appello di Bologna in diversa composizione. Le spese sono rimesse al giudice del rinvio. P.Q.M. La Corte rigetta il primo e secondo motivo. Accoglie il terzo. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Bologna in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di cassazione, il 23 gennaio 2013. Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2013 Cassazione civile, sez. III 28/01/2013 n. 1874 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRIFONE Francesco - Presidente Dott. UCCELLA Fulvio - rel. Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. SCARANO Luigi Alessandro - Consigliere Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il 5 marzo 2004 il Tribunale, adito con citazioni 20-22 maggio 1999 da \Alfredo Calvo\, che si era sottoposto ad una operazione di espianto di rene per donarlo a \Vito Giacaruni\ il *15 dicembre 1986*: a) dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Gestione Liquidatoria della ex USL *Roma A* e della Regione Lazio, in quanto il Policlinico Umberto *I di Roma*, prima della riforma ex legge n.453/99 costituiva unità organica con la Università *La Sapienza* ed era estranea al S.S.N., pur concorrendo alle sue prestazioni; b) dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Azienda Policlinico *Umberto I* perchè la neocostituita Azienda era succeduta alla precedente Azienda Universitaria Policlinico *Umberto I* solo nei rapporti in corso e non già nei rapporti esauriti già definiti alla data della istituzione dell'Azienda Policlinico, trattandosi di azione di risarcimento danni a seguito di inesatto adempimento di prestazione sanitaria; c) dichiarava prescritto il diritto al risarcimento nei soli confronti del Ministero della Salute, in carenza di atto interruttivo, mentre rigettava la eccezione di prescrizione dell'Azienda Universitaria; d) accoglieva la domanda risarcitoria proposta dal \Calvo\ nei confronti dell'Azienda Universitaria per inadempimento contrattuale solo per danni biologico e morale, escludendo, perchè non dimostrato, il danno patrimoniale; e) rigettava la domanda di garanzia impropria assicurativa, proposta nei confronti della Assitalia dalla Azienda Policlinico *Umberto I* e la domanda di garanzia proposta dalla Azienda universitaria nei confronti della stessa Compagnia, essendo rimasto senza esito (successivo alla notifica) il differimento della udienza di comparizione. In punto di fatto, il \Calvo\ aveva citato, con gli atti di cui sopra, il Ministero della Sanità (ora Ministero della Salute), la Regione Lazio, la ex USL *ROMA 4* (in realtà USL *ROMA 2*)), ex artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., e a vario titolo, onde sentirli condannare al risarcimento dei danni, che assumeva avere riportato a seguito di un intervento di espianto di un rene, come donatore, presso il Reparto di patologia speciale chirurgica del Policlinico *Umberto I*. Asseriva che a seguito di quell'intervento, aveva riportato gravi sofferenze (spondilosi lombare, discopatia, stati depressivi e schizofrenia), cronicizzate, tali da impedirgli lo svolgimento di qualunque attività lavorativa e lamentava di avere riportato danni anche alla sfera psicologica perchè erano state omesse o eseguite in modo errato le indagini richieste dalla legge n.458/67 atte ad accertare l'attitudine psicologica del donatore ad essere spiantato. Su gravame principale della Università *La Sapienza* ed incidentale dell'Assitalia la Corte di appello di Roma il 21 dicembre 2009 ha accolto per quanto di ragione l'appello principale, segnatamente disconoscendo il danno morale risarcibile per inesistenza di un comportamento antigiuridico direttamente riferibile ai sanitari (p.17 sentenza impugnata) e ha dichiarato assorbito l'appello incidentale della Assitalia, governando variamente le spese. Avverso siffatta decisione propone ricorso principale per cassazione la Università degli Studi di Roma, affidandosi a sette motivi, di cui tre incentrati sulla disconosciuta prescrizione, altri su profili processuali (uno e sette), altri su questioni di diritto sostanziale. Al ricorso principale resistono con controricorso l'Assitalia, che propone poi ricorso incidentale in parte adesivo al ricorso della Università, l'Azienda Policlinico *Umberto I* e il \Calvo\, che propone ricorso incidentale, con un unico motivo che con cui contesta la ritualità, rinvenuta dal giudice dell'appello, delle modalità con cui è stato raccolto dal Pretore il suo consenso ai sensi della L. n. 458 del 1967, art. 3. Al ricorso incidentale del \Calvo\ resiste con controricorso l'Università *La Sapienza*. L'INA ASSITALIA ha depositato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE I due ricorsi sono riuniti ex art. 335 c.p.c.. In merito alle questioni sottoposte dalle parti all'esame di questa Corte il Collegio osserva quanto segue. 1.Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 99 c.p.c., e del principio della domanda ultrapetizione -, nonchè di quello della corrispondenza tra chiesto - petitum - e pronunciato in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università lamenta che, avendo il \Calvo\ introdotto una domanda di natura extracontrattuale - art. 2043, 2049 e 2050 c.c., la stessa non poteva essere qualificata di natura contrattuale. In altri termini, in presenza di una espressa menzione da parte dell'attore delle norme relative alla responsabilità extracontrattuale (p.3 della citazione introduttiva) sarebbe stato evidente che l'azione era solo di questa ultima natura nei confronti di tutti i convenuti, non solo, anche perchè la sentenza impugnata ha escluso l'antigiuridicità della condotta della struttura. Peraltro, per ciò che riguarda l'attuazione delle garanzie previste dalla L. n. 458 del 1967, art. 5, la assenza di decreti attuativi della legge, escludeva in radice la responsabilità sia della Università che di qualsiasi altro soggetto convenuto. 2.-Con il secondo motivo, collegato al precedente, (violazione e falsa applicazione dell'art. 2935, 2943 e 2947 c.c., in materia di prescrizione, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università afferma che erroneamente il giudice del merito avrebbe respinto l'eccezione di prescrizione, che doveva decorrere dalla data del trapianto (1986) e non già dalla data di aggravamento delle condizioni di salute del \Calvo\ (1993-1995), nè, al riguardo, avrebbero avuto efficacia interruttiva le lettere dell'aprile 1994 e del luglio 1995, in quanto rivolte non già alla Università, ma al Ministero e al Policlinico *Umberto I* ed anche la richiesta di indennizzo assicurativo è diversa dalla domanda risarcitoria (p.9-10 ricorso). 3. - Conseguente a questa censura è il terzo motivo( violazione e falsa applicazione degli artt. 2935, 2943, 2947 e 2952 c.c., in materia di prescrizioni brevi del contratto di assicurazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) con il quale la Università assume che le lettere dell'aprile 1994 e del luglio 1995 non erano idonee ad interrompere la prescrizione perchè con esse il \Calvo\ aveva chiesto solo chiarimenti in ordine alla stipula di apposito contratto assicurativo, riservandosi di agire successivamente per il risarcimento (p.11 ricorso). 4. - Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., nonchè dell'art. 2697 c.c., dell'onere della prova, dei principi in materia di nesso di causalità tra i danni lamentati ed un comportamento dell'Università *La Sapienza* in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università lamenta che, essendo stato escluso un comportamento colpevole della Università nella procedura e nell'intervento di espianto del rene, non avrebbe dovuto ad essa essere addebitato alcun danno biologico per la mancata stipula del contratto assicurativo. Peraltro, non essendosi attivato tempestivamente per far valere la garanzia assicurativa entro l'anno, il \Calvo\ nulla avrebbe potuto e dovuto pretendere (p. 12 ricorso). 5. - In ordine a tutte queste censure il Collegio osserva che esse, in buona sostanza, tendono ad affermare che l'azione del \Calvo\ sarebbe stata prescritta e in mancanza di un nesso di causalità il \Calvo\ non avrebbe potuto nulla pretendere. 5.1. - Di vero, e venendo al primo motivo, sotto il profilo della qualificazione della domanda, va ribadito, come da giurisprudenza costante, che la stessa rientra nel potere di apprezzamento interpretativo del giudice del merito a prescindere dal nomen juris ad essa attribuita dalla parte e, quindi, in ipotesi del genere nessuna violazione si rinviene nella sentenza impugnata così come individuata dalla ricorrente, ossia la sussistenza di un divario tra chiesto e pronunciato, e ciò, tanto meno, sotto il profilo del difetto di motivazione. Del resto, come evidenzia il resistente nel suo controricorso (p. 11), risulta che egli, una volta esposto i fatti, ebbe a proporre una domanda risarcitoria facendo riferimento alle norme anche di natura secondaria che, a suo avviso, erano state violate in sede di procedura prodromica all'espianto e non aveva affatto specificato nella formulazione del petitum la qualificazione giuridica della sua pretesa. Ciò detto, deve convenirsi con la sentenza impugnata che "la qualificazione dell'azione contrattuale non ha modificato nè il bene della vita richiesto (risarcimento del danno), nè le ragioni della domanda (il comportamento contra legem della struttura sanitaria presso la quale era stato eseguito l'espianto in violazione della L. n. 458 del 1967" (p.12 sentenza impugnata). 5.2. - In merito al secondo motivo, circa la decorrenza del termine prescrizionale, corretta si rivela la decisione impugnata nella parte in cui ha individuato l'inizio della decorrenza del termine dalla data dell'intervento (e in ciò accogliendo la prospettazione della stessa Università), così come pienamente aderente ai dati documentali è l'affermazione del giudice dell'appello secondo cui le due lettere del 3 aprile indirizzata alla AUSL *Roma A* e al Ministero della Sanità e quella del 6 luglio 1995 alla stessa Azienda e al Policlinico *Umberto I* prospettavano in modo in equivoco la azione giudiziaria in caso di mancato accertamento della copertura assicurativa in favore del donatore ex L. n. 458 del 1967. Del resto, anche la seconda lettera era stata inviata al Policlinico *Umberto I* (p.14 sentenza impugnata) e su questa circostanza, oltre quanto contestato nella censura, nulla oppone la Università nemmeno nel controricorso al ricorso incidentale del \Calvo\. 5.3. - Il terzo motivo va disatteso perchè si limita a contestare, peraltro, genericamente, la ritenuta idoneità delle lettere inviate dal difensore del \Calvo\, non contestando, però, quanto affermato in sentenza, ossia che almeno quella del 1995 era indirizzata alla Università *La Sapienza di Roma*, che non poteva non essere l'unico soggetto passivamente legittimato all'epoca dell'intervento, in quanto il Policlinico costituiva parte integrante della Università (p.15 sentenza impugnata con puntuale richiamo a Cass. S.U. n. 584/08, che condivide Cass. n. 4456/03 ed di recente Cass. 23098/10). 5.4. - Con il quinto motivo violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 2043 c.c., della L. n. 458 del 1967, (art. 5 e 8) in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5), in estrema sintesi e sulla base della premessa mancanza delle norme regolamentari di attuazione della L. n. 458 del 1967, la Università assume che l'obbligo assicurativo a suo carico non era previsto, mentre lo sarebbe stato a carico di altri soggetti (p.13 ricorso). La censura non merita accoglimento per le considerazioni che seguono. Di vero, una volta ritenuto che unico soggetto autorizzato ex art. 3 della legge citata era l'Istituto Universitario, il Policlinico, che costituiva azienda dell'Università *La Sapienza*, dotato di autonomia patrimoniale, organizzativa e contabile, ma privo di personalità giuridica e che la domanda risarcitoria era conseguente, ma autonoma rispetto al rapporto contrattualmente definito di espianto, ogni legittimazione passiva non poteva che individuarsi nella Università. E' vero, trattandosi di dato normativo testuale, che alla legge doveva seguire il Regolamento attuativo, (art. 8, comma 1) non per questo, però, la legge, in parte qua, doveva ritenersi sospesa nel suo vigore e nella sua efficacia. Dal punto di vista di inquadramento della fattispecie in esame in linea di principio va affermato che il contratto di espianto di un rene, nel suo momento genetico e funzionale, in riferimento al rapporto tra "donatore" e struttura sanitaria specialistica, è un contratto assimilabile a quello di prestazione d'opera, in cui la responsabilità del debitore sorge per l'inesatto adempimento della stessa. Si è in presenza di un contratto, però, che offre una sua peculiarità nel senso che concreta una deroga alla norma imperativa, di ordine pubblico interno, qual è l'art. 5 c.c., anche secondo una interpretazione costituzionalmente orientata (v. LL.PP. e dibattito di cui alla seduta della Camera dei Deputati del 15 giugno 1967), peraltro condiviso da attenta dottrina. Questo contratto in tanto si perfeziona in quanto si siano osservati scrupolosamente la L. n. 458 del 1967, artt. 2, 3, 4 e 5, e come tutti i contratti di cui sopra presenta una obbligazione di mezzi e non di risultati, ma, diversamente da altri similari, richiede per essere valido ed efficace una protezione del donatore per i rischi e un'assoluta gratuità (v. L. n. 458 del 1967, artt. 6 e 7). Infatti, l'art. 5 della legge, che di per sè mostra una cauta apertura alla indisponibilità del proprio corpo (art. 5 c.c.), si giustifica in forza della tutela primaria della persona, che in virtù degli artt. 2, 3 e 32 Cost., si concreta come carattere fondamentale qualificante l'intera architettura dello Stato. Quindi, in questo caso, l'espianto, dopo l'accertamento di tutti gli elementi prodromici alla autorizzazione della sua effettuazione, deve anche presentare una soglia di copertura, a garanzia dell'indubbio favor donantis, presente nella legge. Ne consegue che tra gli elementi essenziali del contratto tra il "donatore" e la struttura sanitaria rientra indiscutibilmente la sussistenza di una garanzia assicurativa, la cui indispensabilità, richiesta dall'art. 5 della citata, legge, trova conforto proprio nella peculiarità del contratto, che, riguardando l'integrità della persona, non può non essere soggetta all'influenza dei valori costituzionali racchiusi nelle norme costituzionali sopra indicate. E' per questo che la norma di cui all'art. 5 della citata legge è norma di immediata attuazione ed imperativa nel confronti della struttura sanitaria ritenuta idonea ad operare il trapianto, come si ricava dalla sua formulazione, quando prevede che il "donatore" è ammesso a godere dei benefici previsti da altre leggi per i lavoratori dipendenti e autonomi in stato di infermità e recita "è altresì assicurato contro i rischi immediati e futuri, inerenti all'intervento operatorio e alla menomazione subita". Tale natura di norma immediatamente precettiva è ulteriormente rafforzata dal fatto che disconosce alcuna facoltà contrattuale - assicurativa alla struttura sanitaria nè alcuna discrezionalità è lasciata alla autorità amministrativa., configurando, al contrario, un diritto soggettivo perfetto a tutela del donatore e che, specularmente, si concreta in un obbligo giuridico a carico della struttura sanitaria: obbligo che è componente essenziale del rapporto contrattuale tra struttura sanitaria e "donatore". E' per questo che la inesistenza del Regolamento attuativo, nella specie, era ed è irrilevante, per cui l'attesa del Regolamento non poteva a sua volta essere causa di giustificazione nè per eventuali interventi sanitari nè per la copertura assicurativa a favore del "donatore", non potendosi ragionevolmente ritenere da un lato che il trapianto, alle condizioni previste dalla legge, non potesse essere effettuato dopo la sua entrata in vigore, tanto è che fu accolta la istanza del \Calvo\ e attivata tutta la relativa procedura; dall'altro, che si potesse effettuare l'intervento senza la obbligatoria copertura assicurativa. In altri termini, l'art. 5 della legge era ed è di immediata applicazione, obbligando la struttura a munirsi della copertura assicurativa in caso di rischi immediati e futuri e di menomazione subita, conseguenti, all'intervento. Diversamente opinando, pur con la entrata in vigore della L. n. 458 del 1967, nessun intervento avrebbe potuto e dovuto essere eseguito anche dai Centri o Istituti specialistici Universitari, all'uopo esistenti e deputati. In conclusione, nessuna prestazione sanitaria di espianto del rene poteva essere fatta, una volta ottenuto il nulla osta del Pretore, senza la completa sussistenza di tutti i benefici e della contratta assicurazione e resi possibili dalla diligenza della struttura, destinataria di tali obblighi. Peraltro, come si evince dai LL.PP. il rinvio alla emanazione del Regolamento trovava la sua giustificazione in ragione di carattere solidaristico e sociale, ossia evitare che solo gli abbienti potessero sottoporsi ai trapianti e non già i malati di rene meno abbienti ed in tale recupero di solidarietà si giustificava il previsto concerto ai fini dell'emanazione del Regolamento di competenza dell'allora Ministero della Sanità con il Ministero del Lavoro (v. resoconto stenografico della seduta della Camera dei Deputati 15 giugno 1967 di approvazione del d.d.l. in materia). Quindi il motivo va disatteso. 5.5. - Ne consegue che il quarto motivo va anch'esso respinto. Il giudice dell'appello, preso atto dell'intrinseca natura contrattuale del rapporto tra il Policlinico *Umberto I* e il \Calvo\, facendo buon governo dell'art. 1218 c.c., ha ritenuto provato da parte del \Calvo\ l'inadempimento della obbligazione, atteso che la Università non aveva disconosciuto che la garanzia assicurativa, in quanto parte essenziale del contratto a suo tempo stipulato, non esisteva. In altri termini, l'unica violazione addebitabile alla struttura sanitaria nella quale venne eseguito l'intervento è data dalla mancata stipulazione della polizza assicurativa, da cui la sentenza impugnata ha dedotto che non poteva configurarsi un danno morale risarcibile, riconosciuto, invece, dal primo giudice in virtù della circostanza che lesioni riportate furono, in quella sede, attribuite al comportamento "protocollare" ritenuto antigiuridico della struttura, perchè ad avviso della Corte territoriale tutti gli accertamenti previsti dalla legge erano stati effettuati ed avevano dato esito favorevole all'espianto (p.1516 sentenza impugnata). Di vero, se, onde attuare la prestazione contrattualmente prevista, la struttura sanitaria doveva munirsi anche della copertura assicurativa ne consegue che, non avendo stipulato la Università alcun contratto assicurativo, la struttura - il Policlinico *Umberto I* - si era resa inadempiente alla complessa fattispecie contrattuale, composta da prestazioni sanitarie interessanti ex se la salute e la dignità del "donatore" e per questo dovevano essere coperte da apposita assicurazione. In difetto di questo contratto nessuna decadenza poteva e può addebitarsi al \Calvo\. Nè, quindi, può seriamente mettersi in discussione la sussistenza del nesso di causalità tra l'inadempimento degli obblighi contrattuali della struttura conia sopra precisato e la richiesta risarcitoria. 5.6. - Di qui, l'assorbimento del sesto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5), in quanto, pur trattandosi di obbligazione ex lege, come già posto in rilievo, essa costituiva e costituisce uno degli elementi integranti ed indispensabili del contratto - tra struttura sanitaria e "donatore" - per l'espianto del rene, cui volontariamente si sottopose il \Calvo\, dopo i prescritti accertamenti e il nulla osta del Pretore, ora Tribunale in funzione di giudice tutelare. 5.7. - Giunti all'esame di questi sei motivi del ricorso principale, osserva il Collegio che occorre passare all'esame dell'unico motivo del ricorso incidentale (violazione e falsa applicazione della L. 26 giugno 1967, n. 458, (trapianto tra persone viventi), degli artt. 2697, 1218, 2727 e 2729 c.c.; artt. 582 e 583 c.p.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo - p. 20 - 25 controricorso \Calvo\) con il quale il \Calvo\ lamenta che l'atto dispositivo del proprio rene, come venne accertato dal Tribunale, era invalido in quanto, così come emerso nel corso del giudizio ed in via istruttoria non tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 458 del 1967, erano stati posti in essere dal Policlinico *Umberto I*. Aggiunge il \Calvo\ che nemmeno su ordine del giudice ex art. 210 c.p.c., era stata prodotta dall'Università la documentazione (verbale della riunione) attestante l'asserita riunione del collegio medico che avrebbe dovuto comprendere il suo medico di fiducia e la trasmissione del verbale al medico provinciale: circostanze non provate, a suo dire, nemmeno dal dr. \\Cortesini\ capo dell'equipe che effettuò l'intervento. Nè ad alcun esame di ordine psicologico egli sarebbe stato sottoposto e il tutto si sarebbe svolto con leggerezza. L'Università non avrebbe provato il fatto estintivo della pretesa del \Calvo\ (creditore), violando anche le norme in tema di presunzioni perchè mancava una prova documentale e a ciò avrebbe dovuto indurre anche l'assenza del contratto assicurativo, con l'effetto che a lui andava riconosciuto anche il danno morale ai sensi dell'art. 2059 c.c.. Ritiene il Collegio che la censura sia infondata. Infatti, il giudice dell'appello, dopo avere ritrascritto la L. n. 458 del 1967, art. 3, (v.p. 15 - 16 sentenza impugnata) ha affermato che l'ottenuto nulla osta del Pretore fa ragionevolmente ritenere che fossero state espletate tutte le fasi prodromiche di competenza dei sanitari del Policlinico *Umberto I* "vale a dire la riunione del collegio medico attestante l'idoneità del donatore, il giudizio tecnico favorevole, la trasmissione del verbale al medico provinciale, la constatazione da parte di quest'ultimo dell'ottemperanza alle condizioni attinenti alla valutazione del collegio medico e, quindi, la trasmissione degli atti al Pretore per il nulla osta" (p. 16 sentenza impugnata). In presenza di quel nulla osta, che, come già ritenuto dal giudice di primo grado, accertava il giudizio favorevole al prelievo e al trapianto di rene e dava atto del referto medico collegiale non si poteva dichiarare la assenza degli stessi accertamenti da esso attestati (p. 16 sentenza impugnata). A fronte di questo argomentare che il ricorrente incidentale senza allegare almeno stralci del nulla osta, censura di inadeguatezza o superficialità, la doglianza non può essere accolta, non solo perchè non risulta almeno dalla sentenza, nè lo indica il \Calvo\, che il nulla osta del Pretore sia stato contestato vivacemente in appello, rispondendo alle censure sul punto dedotte dalla Università; ma per le considerazioni che seguono e che il Collegio ritiene dirimenti. In primis, e dal punto di vista formale processuale, la censura più che una doglianza di diritto si risolve e concreta, come si può dedurre dalla sua sintetica ma fedele trascrizione, una quaestio facti, su cui comunque il giudice a quo ha congruamente e logicamente motivato. In secundis per questioni di puro diritto che di seguito sono esposte. L'intervento del Pretore (all'epoca competente), stanti la finalità della legge, la sua ratio ispiratrice, come si desume dai lavori preparatori, non può considerarsi un mero intervento burocratico e ampiamente discrezionale, come pure stigmatizza parte della dottrina. Esso è stato previsto dal legislatore perchè si tratta nel caso di trapianto tra viventi di atto che incide sul diritto integrità della persona, come diritto della personalità, con effetti eventuali, ma possibili, di natura psicologica, sul "donatore", che si sottopone a rigorosi accertamenti di varia natura al punto che: a) il Pretore può rifiutare il nulla osta anche in presenza di parere favorevole; b) il Pretore deve accertare che la procedura seguita sia stata rigorosa e non sbrigativa; c) il consenso del "donatore" può essere revocato fino a poco prima dell'intervento. Quindi, il provvedimento giudiziale è un provvedimento non di mera delibazione, ma penetrante nella regolarità, non solo formale, di una procedura sanitaria complessa e completa e che fa ragionevolmente presumere, essendo autorizzatorio, che tutti gi ostacoli prevedibili e possibili siano stati esclusi "allo stato", ossia che tutto si sia svolto nel pieno rispetto del "protocollo" previsto, con l'effetto che il giudice avrà fatto presente al donatore le caratteristiche del suo atto e delle conseguenze che gliene possono derivare sulla base del giudizio formato dal collegio medico. In altri termini, la presenza del giudice in questa vicenda non è una presenza rogante, ma una presenza di assunzione di responsabilità dell'atto da parte dell'organo giudiziario a fronte di una realtà che,comunque motivata, non è indifferente alla collettività, che non può tollerare arbitri, leggerezze, ragioni di ogni genere che possano arrecare danni alla persona umana, che, anche se eroica, ha comunque il diritto, non disponibile, a viver in modo integro dal punto di vista psicofisico. Nel bilanciamento tra spinta di alta solidarietà sociale (artt. 2 e 3 Cost.) e diritto alla salute (art. 32 Cost.), quest'ultimo inteso come diritto alla integrità fisica del proprio corpo, in quanto facente parte dei diritti della personalità, la prudentia legislatoris propende per la seconda, senza disdegnare di favorire la prima, affidando al giudice, che, per sua natura, è il garante dei dritti, così come dell'adempimento dei doveri, non una mera attività rogante bensì coinvolgendolo nella sua funzione istituzionale, per cui il suo provvedimento, se favorevole, non è reclamabile, per la presunzione juris et de jure della sua conformità ai rigidi parametri legislativamente previsti, ma non per questo può essere ignorato dal "donatore" fino a poco prima dell'intervento, diversamente da quanto avviene in caso di rifiuto del nulla osta. In tal senso, il diritto del "donatore" a revocare il suo consenso alla donazione esercitabile anche poco prima dell'intervento, e legislativamente previsto, è emblematico della sovranità attribuita dalla legge alla sua autodeterminazione libera e consapevole circa l'esercizio del diritto all'integrità psicofisica del disporre del suo corpo. 5.8.- Con il settimo motivo (violazione e falsa applicazione dei principi di cui all'art. 106 c.p.c., e della chiamata in garanzia della società di assicurazione, nonchè del generale principio di economia dei giudizi e di economia delle attività processuali, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3) la Università lamenta che il giudice dell'appello abbia respinto la domanda di manleva da essa proposta nel confronti dell'INA ASSITALIA. La censura è infondata, per la semplice ragione che, come si è verificato, sebbene autorizzata a chiamare in causa la Compagnia Assicuratrice, la Università non aveva chiamato in garanzia la suddetta compagnia entro il termine di cui all'art. 163 bis c.p.c.. Nel caso in esame si tratta di garanzia impropria, perchè fondata su di un titolo distinto da quello relativo alla domanda principale, il cui collegamento con il rapporto principale è meramente occasionale ed estrinseco, ferma restando la opportunità di un simultaneus processus, che per la suddetta attività omissiva, è rimasto precluso (Cass. 10210/01). Conclusivamente i due riuniti ricorsi vanno respinti e le spese vanno interamente compensate tra le parti, ricorrendovi giusti motivi, dati dalla peculiarità della vicenda, dalla novità delle questioni affrontate. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 ottobre 2012. Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2013 Cassazione civile, sez. III 14/05/2012 n. 7499 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETTI Giovanni Battista - Presidente Dott. UCCELLA Fulvio - rel. Consigliere Dott. CARLEO Giovanni - Consigliere Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il 3 settembre 2009, decidendo su rinvio disposto da questa Corte con sentenza n. 18163/07, la Corte di appello di Firenze condannava Be.Lu., Be.Le. e la Fondiaria SAI al pagamento in favore di F.F., C.M.L. e F. D. della complessiva somma di Euro 1.500/00, comprensiva del danno biologico e di quello morale, loro spettante a seguito del sinistro stradale avvenuto il (OMISSIS) al loro congiunto F.M., che dopo alcune ore decedette, oltre interessi legali e spese del giudizio e di quelle di cassazione. Avverso siffatta decisione propongono ricorso per cassazione F. F., C.M.L. e F.D., affidandosi ad un unico articolato motivo. Nessuna attività difensiva hanno svolto gli altri intimati. MOTIVI DELLA DECISIONE Con l'unico ed articolato motivo (violazione ed errata applicazione di norme di legge per errata valutazione del danno subito in proprio dalla vittima F.M.) i ricorrenti in buona sostanza si dolgono che la liquidazione operata dal giudice dell'appello sia "irrisoria" in riferimento alla fattispecie concreta. Osserva il Collegio che la doglianza è fondata nei limiti delle seguenti considerazioni. Dalla sentenza impugnata risulta che il quantum risarcitorio è stato determinato "tenuto conto delle peculiarità della fattispecie concreta, che possono riassumersi nella bravissima sopravvivenza del F.M. all'evento lesivo (appena dodici ore) nonchè della gravità delle lesioni personali cui conseguì la morte che escludono una concreta percezione del proprio stato di malattia durante la sopravvivenza" (p. 5 sentenza impugnata). Adottando il criterio equitativo, come forma di liquidazione, il giudice dell'appello ha determinato la somma risarcitoria del danno biologico patito dal F.M. in Euro mille, con aggiunta di interessi al tasso legale dalla data del sinistro alla data dell'effettivo pagamento e quella del danno morale, pari alla metà del danno biologico risarcito (p. 6 sentenza impugnata). In tal modo statuendo il giudice dell'appello: a) non ha tenuto conto dei fattori di personalizzazione che in tal caso debbono valere in modo assai elevato, perchè si verte in tema di lesioni di valori inerenti alla persona ed in quanto tali privi di contenuto economico; b) non ha considerato l'intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza ed ogni altra utile circostanza, quali l'abitudine di vita, l'età della vittima e dei singoli superstiti, mostrando, invece, di privilegiare, in ordine al risarcimento in tal modo da liquidare, una sua funzione reintegratrice di una diminuzione patrimoniale e non già, come è, la sua funzione compensativa del pregiudizio non economico. Peraltro, la scarna motivazione adottata dal giudice a quo glissa il suo dovere di dare conto, a tali fini, delle circostanze di fatto da lui da considerare nel compiere la valutazione equitativa e della congruità e ragionevolezza dell'iter logico che lo ha condotto a quel determinato risultato. In tal senso, quanto affermato in motivazione dalla sentenza rescindente di questa Corte non è stato affatto preso in considerazione. Infatti, con la sentenza n. 18163/07 questa Corte accoglieva il ricorso affermando che andava riconosciuto il danno biologico terminale subito dalla vittima, ponendo in rilievo che la quantificazione in via equitativa andava operata in relazione al pregiudizio sofferto, le cui caratteristiche peculiari consistono nel fatto che si tratta di un danno alla salute, che sebbene temporaneo è massimo nella sua identità ed intensità (la decisione richiama Cass. n. 7632/03). Nel caso in esame il 24 ottobre 1991 perse la vita F.M., dopo dodici ore dal verificarsi del sinistro. Il giudice del rinvio ha ritenuto "brevissima la sopravvivenza" del F.M. (dodici ore) e sulla base della "gravità delle lesioni personali riportate" ha escluso una cosciente percezione da parte della vittima del proprio stato di malattia durante la sopravvivenza. Di qui la "determinazione equitativa", che non regge, per il semplice motivo che effettivamente è irrisoria e, quindi,non congrua dal punto di vista logico-giuridico solo che si tenga presente che esso va pur sempre quantificato in riferimento al sitz im leben della vittima, al fine di non rivelarsi meramente simbolica. In altri termini, la quantificazione equitativa, come già precisato da questa Corte con giurisprudenza costante per casi del genere (v. Cass. n. 7632/03; Cass. n. 4980/06), va operata avendo presenti sia il criterio equitativo puro sia il criterio di liquidazione tabellare, purchè essi criteri siano dal giudice adeguatamente personalizzati, ovvero adeguati al caso concreto. Dall'altro, per il danno morale va affermato quanto segue. Con la sentenza n. 26972/08 le Sezioni Unite di questa Corte, componendo un contrasto verificatosi tra le Sezioni, hanno avuto modo di statuire che quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale inteso quale sofferenza fisica soggettiva causata dal reato, che si trasmette agli eredi. Tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo (circostanze delle quali occorre tener conto in sede di liquidazione, ma irrilevante ai fini della risarcibilità) e può sussistere sia da solo sia unitamente ad. altri tipi di pregiudizi non patrimoniali (come quelli derivanti da lesioni personali e, come in questo caso, dalla morte di un congiunto). Si tratta, infatti, di danno che si configura nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica (par. 2.10, in motivazione), per cui nella categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata, sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell'esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento. Questo orientamento ormai costituisce jus reception (da ultimo Cass. n. 7064/11) e va ribadito, per cui alla luce di esso si deve ritenere che non può giungersi a quantificazioni simboliche anche laddove le tabelle relative al danno biologico, che, per il caso di specie, stante la statuizione di questa Corte contenuta nella sentenza rescindente, va tenuto fermo, non costituiscano o non possono costituire il risultato minimo conseguibile derivante dalla applicazione delle tabelle stesse. Peraltro, il giudice dell'appello non ha considerato che sia il danno biologico che quello morale, che ormai costituiscono una sola categoria di danno non patrimoniale, comprendono anche le sofferenze fisiche e morali sopportate dalla vittima che in questo caso è sopravvissuta dodici ore dal verificarsi del sinistro e con una sbrigativa motivazione ha desunto (v.p. 5 sentenza impugnata) che n la brevissima sopravvivenza del F.M. all'evento lesivo (appena dodici ore) nonchè la gravità delle lesioni personali cui conseguì la morte" escludessero "una cosciente percezione del proprio stato di malattia durante la sopravvivenza", trascurando di considerare il pregiudizio sofferto e di cui, invece, si sono fatte carico le Sezioni Unite, in quel lasso di tempo da parte della vittima ed il pregiudizio morale soggettivo derivato ai suoi prossimi congiunti. Pertanto, la sbrigativa motivazione che si rinviene nella sentenza impugnata sui punti censurati dal ricorso non corrisponde, quindi, agli indirizzi ermeneutici esplicitati da questa Corte, per cui la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello in diversa composizione, che provvederà alla luce delle superiori considerazioni, a decidere in merito nonchè sulle spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 marzo 2012. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2012 Cassazione civile , sez. III 23/09/2013 n. 21715 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SEGRETO Antonio - Presidente Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Consigliere Dott. SCARANO Luigi Alessandro - Consigliere Dott. LANZILLO Raffaella - rel. Consigliere Dott. D'AMICO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato il 19.12.1996 C.T. e P.G., in proprio e quali esercenti la potestà sul figlio minore e interdetto, C., hanno convenuto davanti al Tribunale di Fermo l'Azienda Sanitaria n. (OMISSIS), chiedendo il risarcimento dei gravissimi danni subiti dal minore alla nascita, il (OMISSIS), presso l'Ospedale di (OMISSIS), allorchè - presentatosi con tre giri di cordone intorno al collo - si erano attese tre ore prima di procedere al taglio cesareo, con conseguente ipossia perinatale, che ha provocato al neonato uno stato vegetativo al 90-95%. L'Azienda sanitaria ha chiamato in causa la compagnia assicuratrice, s.p.a. La Fondiaria, e la causa è stata riunita ad altra, promossa dai P. contro la Regione Marche, con atto di citazione notificato il 5 agosto 1997. Le convenute hanno resistito, eccependo fra l'altro la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni. Il Tribunale, con sentenza n. 627/2000, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Asl ed ha accolto l'eccezione di prescrizione sollevata dalla Regione. Proposto appello dai danneggiati, la Corte di appello di Ancona - con sentenza n. 249, depositata il 16.6.2007 - ha respinto l'eccezione di prescrizione; ha ravvisato la responsabilità del personale ospedaliere ed ha condannato la Regione Marche al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 329.045,69, oltre rivalutazione ed interessi, in favore del minore; in Euro 36.939,91 per danni morali ed in Euro 51.645,57 in rimborso spese, in favore dei genitori in proprio; sempre con rivalutazione ed interessi; oltre alle spese processuali relative ai due gradi del giudizio. La Regione Marche propone quattro motivi di ricorso per cassazione. Resistono gli intimati con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1.- Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 2935 e 2946 cod. civ., nonchè vizi di motivazione, la ricorrente rileva che il danno si è verificato alla nascita del minore, cioè il 28 febbraio 1983, e che la prima richiesta di risarcimento dei danni è stata inviata dai danneggiati nel novembre 1993, oltre il termine di prescrizione di dieci anni. Censura la motivazione della Corte di appello, secondo cui i danneggiati hanno acquisito sicura conoscenza delle lesioni riportate dal figlio solo nel 1984, a seguito del ricovero del bambino presso l'Ospedale (OMISSIS). Assume che la Corte di merito ha trascurato di considerare che la perizia medica esperita nel corso del giudizio dichiara che il danno subito dal minore deve aver dato segno di sè già a partire dal terzo - quarto mese di vita; che il bambino fu sottoposto ad elettroencefalogramma nel luglio del 1993 e che i ricorrenti non hanno mai prodotto in giudizio il documento nel quale è da ritenere che si fosse evidenziato il danno cerebrale; che in ogni caso il termine decennale di prescrizione è decorso anteriormente al primo atto di costituzione in mora. 2.- Il motivo non è fondato. Va premesso che l'accertamento circa la data in cui si sono evidenziati in modo sicuro i segni dell'affezione cerebrale subita dal minore durante il parto costituisce accertamento in fatto, che la Corte di appello ha congruamente e logicamente motivato, sulla base di tutte le risultanze probatorie acquisite al giudizio. La questione, pertanto, non è suscettibile di riesame in questa sede di legittimità. In ogni caso la sentenza impugnata si è uniformata al principio giurisprudenziale per cui - in relazione alle malattie lungolatenti - la prescrizione comincia a decorrere non dal momento in cui si verifica la causa del danno (nella specie, dalla data della nascita), ma dal momento in cui le conseguenze dannose si manifestano all'esterno. La motivazione della Corte di appello deve essere piuttosto corretta, ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ., nel senso che non è neppur sufficiente a far decorrere la prescrizione la mera esteriorizzazione della malattia latente, ma occorre anche che il soggetto leso abbia acquisito conoscenza o sia stato posto in grado di acquisire conoscenza - della riferibilità causale dell'evento dannoso al comportamento colposo di un soggetto determinato (o determinabile). Vale a dire, a norma dell'art. 2935 cod. civ., il termine di prescrizione comincia a decorrere non dal giorno in cui il comportamento del terzo pone in essere la causa del danno, nè dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì solo dalla data in cui la malattia viene percepita, o può essere percepita mediante l'uso dell'ordinaria diligenza, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo (Cass. Civ. S.U., 11 gennaio 2008 n. 576-581; Cass. Civ. Sez. 3, 23 maggio 2011 n. 11301, ed altre; nonchè - con specifico riferimento alla responsabilità contrattuale - Cass. Civ. Sez. 3, 8 maggio 2006 n. 10493; Idem, 15 luglio 2009 n. 16463, ed altre). La Corte, con valutazione di merito correttamente motivata, come si è detto, ha accertato che solo nel 1984 i ricorrenti hanno avuto sicura conoscenza della patologia da cui è rimasto affetto il loro figlio. Solo successivamente a tale data, pertanto, gli attori in giudizio poterono acquisire consapevolezza della riferibilità causale dell'infermità non ad un evento naturale, ma al comportamento umano, ed in particolare al comportamento del personale ospedaliero, che ha ingiustificatamente tardato di almeno tre ore l'intervento di taglio cesareo (a causa, pare, della difficoltà di reperire un anestesista). 2.1.- E' appena il caso di soggiungere che le censure di vizio di motivazione sono inammissibili per l'omessa formulazione di un momento di sintesi, analogo al quesito di diritto, da cui risulti la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione è da ritenere omessa, insufficiente o contraddittoria, ovvero l'indicazione delle ragioni per cui la motivazione è inidonea a giustificare la decisione (cfr. Cass. civ. Sez. Un. 1 ottobre 2007 n. 20603 e 18 giugno 2008 n. 16258; Cass. Civ. Sez. 3, 4 febbraio 2008 n. 2652; Cass. Civ. Sez. 3, 7 aprile 2008 n. 8897, n. 4646/2008 e n. 4719/2008, fra le tante). Si ricorda poi che il quesito sui vizi di motivazione va formulato separatamente dal quesito di diritto (Cass. Civ. Sez. 5, 29 febbraio 2008 n. 5471). 3.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 2697 cod. civ. ed ancora vizi di motivazione, nel capo in cui la Corte di appello ha posto a carico di colui che eccepisca la prescrizione l'onere di dimostrare non solo la decorrenza del termine di legge, ma anche il momento iniziale da cui il termine deve farsi decorrere (nella specie, la data in cui i danneggiati hanno acquisito conoscenza della malattia). Assume che - dimostrato il decorso del termine di legge fra l'evento di danno e la domanda di risarcimento - è onere del danneggiato che intenda dimostrare la tempestività della domanda fornire la prova di avere avuto conoscenza del danno in data successiva al suo verificarsi. 3.1.- Il motivo è inammissibile sotto più di un aspetto. In primo luogo perchè manca il quesito in relazione ai vizi di motivazione (v. sopra, 2.1). In secondo luogo e soprattutto perchè la censura è irrilevante in relazione alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha respinto l'eccezione di prescrizione non per mancanza di prova della data da cui far decorrere il termine, ma per avere concretamente accertato che i danneggiati hanno acquisito conoscenza del danno prima della scadenza del termine stesso. Il richiamo all'onere della prova rappresenta un mero obiter dictum, diretto a rafforzare la decisione, ma privo di rilevanza determinante ai fini della decisione. 4.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 374 cod. civ. e vizi di motivazione, per il fatto che l'appello è stato notificato dai genitori, in rappresentanza dell'infortunato, mentre questi è divenuto maggiorenne nelle more fra il deposito della sentenza di primo grado e la proposizione dell'appello, ed il tutore successivamente nominato è bensì intervenuto in giudizio dichiarando di ratificare l'impugnazione, ma non ha dimostrato di avere conseguito l'autorizzazione del giudice tutelare ad agire in giudizio; sicchè la Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare il difetto di legittimazione ad agire in capo al tutore. 4.1.- Il motivo è inammissibile per l'inidoneità del quesito di diritto formulato ai sensi dell'art. 366bis cod. proc. civ. e per la mancanza di ogni quesito sugli asseriti vizi di motivazione. Il quesito di diritto (Dica la Corte se ai sensi dell'art. 374 cod. civ. il tutore, privo della necessaria autorizzazione del giudice tutelare, possa ratificare la precedente attività difensiva svolta in difetto di legittimazione processuale), è generico, astratto e non congruente con le ragioni della decisione. Non richiama la fattispecie oggetto di giudizio, nè il principio di diritto che si assume erroneamente enunciato dalla Corte di merito, nè quello diverso che si vorrebbe venisse affermato in sua vece, sì da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di applicazione anche in casi ulteriori, rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Neppure è congruente con la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha motivato la sua decisione in base al rilievo che l'autorizzazione del giudice tutelare è necessaria solo quando si debba iniziare un nuovo giudizio; non quando si tratti soltanto di coltivare in appello un giudizio già iniziato, com'è avvenuto nel caso in esame. La ricorrente pone pertanto un problema diverso da quello oggetto di decisione ed un falso problema: cioè chiede se occorra l'autorizzazione del giudice tutelare per ratificare l'operato del genitore che ebbe a proporre l'appello, laddove la soluzione della questione dipende dalla natura degli atti di cui si chiede la ratifica. Se il tutore ha il potere di proporre l'impugnazione senza autorizzazione - come ha affermato la Corte di appello - ha anche il potere di ratificare l'impugnazione altrui. Il quesito pertanto non è in termini, rispetto alla questione decisa, ed è anche sotto questo profilo inammissibile. 5.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione degli art. 1176, 2236, 1218, 1223, 2697 cod. civ. e vizi di motivazione, quanto all'accertamento della Corte di appello secondo cui la lesione subita dal minore è conseguenza di un errore dei medici e non deriva da altra causa, quale in ipotesi una sofferenza fetale verificatasi nel corso della gravidanza, come ipotizzato nella CTU esperita nel corso del giudizio. La ricorrente assume che la Corte di appello ha addebitato la responsabilità ai sanitari sulla base di un giudizio meramente probabilistico, traendo argomento dall'incompletezza della cartella clinica, e richiama i principi enunciati dalla giurisprudenza penale, secondo cui il giudice deve sempre accertare la sussistenza del nesso causale; e l'insufficienza delle prove sul punto impedisce di formulare un giudizio di condanna. 5.1.- Il motivo è inammissibile per l'assoluta inidoneità del quesito di diritto e per la mancanza della sintesi delle censure di vizio di motivazione. Il quesito di diritto ("Dica la Corte se ......l'impugnata sentenza abbia operato un'adeguata ripartizione dell'onere della prova, ritenendo assolto quello incombente su parte appellante e non quello incombente su parte resistente"), oltre che essere formulato in termini generici e astratti, come specificato in precedenza, demanda a questa Corte non la soluzione di un problema giuridico, come prescritto dall'art. 360 cod. proc. civ. nello specificare tassativamente i motivi per i quali può essere proposto ricorso per cassazione, ma la pronuncia di una decisione sul merito (se le parti abbiano o meno adempiuto agli oneri di prova a loro carico): decisione inammissibile in questa sede di legittimità. Vanno comunque ricordati i principi più volte enunciati da questa Corte, per cui in tema di responsabilità civile per danni, il nesso causale è regolato dagli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i quali un evento è da ritenere causato da un altro se non si sarebbe verificato in mancanza di questo; nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili. Resta ferma peraltro, pur con riferimento alle medesime disposizioni di legge, la diversità del regime probatorio applicabile in sede civile ed in sede penale, nell'accertamento del nesso causale, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi. In tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi. Nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non". Nel processo penale, per contro, la prova del nesso causale deve essere fornita "oltre il ragionevole dubbio" (Cass. Civ. S.U. 11 gennaio 2008 n. 576, Idem, n. 581/2008). La Corte di appello ha correttamente applicato i principi che regolano il processo civile, con motivazione che non presta il fianco a censure di sorta. 6.- Il ricorso deve essere respinto. 7.- Le spese del presente giudizio, liquidate nel dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 20.200,00, di cui Euro 200,00 per spese ed Euro 20.000,00 per compensi; oltre agli accessori previdenziali e fiscali di legge. Così deciso in Roma, il 5 giugno 2013. Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2013 Corte di Cassazione, Sezione 3 civile Sentenza 20 agosto 2013, n. 19220 Integrale IGIENE E SANITÀ - RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETTI Giovanni Battista - Presidente Dott. UCCELLA Fulvio - Consigliere Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. SCRIMA Antonietta - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 2621/2008 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza del 16 maggio 2002 il Tribunale di Roma rigettava la domanda di risarcimento dei danni, che l'attore assumeva determinati dall'errore ascrivibile a colpa professionale medica, proposta da (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS). Il giudice di primo grado escludeva che l'esito dell'intervento medico di fotoablazione corneale ad entrambi gli occhi eseguito dal Dott. (OMISSIS) potesse essere collegato eziologicamente a colpa professionale ritenendo che fosse, invece, da collegare a fattori estranei alla prestazione medica. Avverso tale decisione il (OMISSIS) proponeva appello, cui resisteva l'appellato. In particolare, l'appellante censurava la decisione di primo grado per erronea ricostruzione dei fatti, non essendo state riscontrate le varie manchevolezze poste in essere dal professionista prima (mancanza del consenso informato), durante (esecuzione contemporanea dell'intervento con laser su entrambi gli occhi) e dopo la prestazione (mancato controllo della fase post intervento). La Corte di appello di Roma, con sentenza del 30 novembre 2006, rigettava il gravame e compensava le spese del grado. Avverso la sentenza della Corte di merito il (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, il primo del quale è articolato a sua volta in tre profili. Ha resistito con controricorso il (OMISSIS). Il ricorrente ha depositato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Al ricorso in esame si applica il disposto di cui all'articolo 366 bis c.p.c. - inserito nel codice di rito dal Decreto Legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, articolo 6, applicabile, ai sensi dell'articolo 27, comma 2, del medesimo D.Lgs., ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati dalla data di entrata in vigore dello stesso (2 marzo 2006) e successivamente abrogata dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69, articolo 47, comma 1, lettera d), a decorrere dal 4 luglio 2009 - in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata (30 novembre 2006). 2. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia "omesso esame di un punto decisivo della controversia mancata rilevazione degli errori del chirurgo prima, durante e dopo l'operazione - contraddittorietà della motivazione". 2.1. Lamenta il (OMISSIS) che nella fase anteriore all'operazione il chirurgo avrebbe commesso due gravissimi errori, stante la mancanza di un consensoinformato e dei preventivi esami di laboratorio e di routine necessari ed opportuni prima dell'intervento chirurgico e censura sostanzialmente la sentenza impugnata per insufficiente motivazione. 2.2. In relazione al primo profilo, deduce il ricorrente che nella motivazione della sentenza impugnata viene evidenziato che vi sarebbe stata da parte del chirurgo una informazione dei benefici, delle modalità d'intervento, della eventuale possibilità di scelta tra diverse tecniche operatorie e dei rischi prevedibili in sede operatoria avendo lo stesso (OMISSIS) rappresentato in citazione "di aver sottoscritto il foglio contenente l'informativa relativo all'intervento oculistico", senza tuttavia considerare che tale foglio non era stato mai allegato agli atti del giudizio. Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che quello prestato dal (OMISSIS) fosse un consenso cosciente, in quanto "proprio l'attività di avvocato svolta dal (OMISSIS), deve ragionevolmente far presumere che il predetto prima di apporre la sottoscrizione abbia vagliato tutte le conseguenze, essendo pienamente edotto sull'importanza di tale sottoscrizione nell'economia del contratto di prestazione sanitaria". Assume il (OMISSIS) che, in realtà, nel caso all'esame, gli fu fatto sottoscrivere da una segretaria, nella penombra di una sala d'aspetto, un foglio prestampato senza che nulla gli fosse stato comunicato in relazione alla possibilità di un esito negativo dell'intervento, con conseguente limitazione della vista. Contesta, pertanto, che si sia in presenza di un consenso informato e globale tale da indirizzare il paziente verso una scelta consapevole ed evidenzia che l'obbligo di informazione assume un contenuto autonomo rispetto all'obbligo principale della prestazione operatoria e va compreso tra gli obblighi di prestazione del chirurgo, sicchè la sua violazione ha autonomo rilievo. 2.3. Il ricorrente censura inoltre la sentenza impugnata per non aver preso in considerazione le sue doglianze in ordine alla mancata esecuzione, da parte del chirurgo, di preventivi esami di laboratorio e di routine necessari ed opportuni prima dell'intervento e per non aver tenuto conto della grave negligenza del chirurgo, posta in rilievo dal consulente di parte, consistita nella mancanza di una cartella clinica. 2.4. Ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., il (OMISSIS) ha evidenziato che "la mancanza del consenso informato e la mancanza di esami di laboratorio preoperatori e della relativa cartella clinica costituiscono il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa e contraddittoria e comunque carente". 2.5. Va evidenziato che il riportato c.d. quesito di fatto risulta sufficientemente articolato in relazione solo al dedotto mancato consenso, non risultando idoneo nel resto, stante l'estrema genericità della formulazione e rilevato che il ricorrente ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, trascrivendone pure il contenuto o le parti essenziali di esso rilevanti ai fini della decisione da adottarsi in sede di legittimità, onde dare modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (v., ex plurimis, Cass. 22 gennaio 2013, n. 1435 (v. anche in motivazione); nè risulta indicato in ricorso (unico atto cui occorre far riferimento in ordine al requisito di cui all'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, v.Cass. 3 luglio 2009, n. 15628; Cass. 7 febbraio 2011, 2966) quando sono state prodotte la consulenza di parte del prof. (OMISSIS) e le note critiche dello stesso e neppure sono riportati i brani di tali atti, cui si fa riferimento nell'illustrazione del motivo, relativi alle deficienze lamentate in ordine a preventivi esami e alla mancanza di una cartella clinica. 2.6. In relazione alle censure di cui al primo profilo del motivo all'esame, attinenti al lamentato difetto di consenso informato, osserva il Collegio che, secondo l'orientamento costante di questa Corte, costituisce violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione (articoli 2 e 3 Cost., e articolo 32 Cost., comma 2) l'inadempimento da parte del sanitario dell'obbligo di richiedere il consenso informato al paziente nei casi previsti (v. Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847). Come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 438 del 2008, il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'articolo 2 della Carta costituzionale, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della medesima Carta, i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la libertà personale è inviolabile", e che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge". Afferma, inoltre, il Giudice delle leggi che numerose norme internazionali prevedono la necessità del consensoinformato del paziente nell'ambito dei trattamenti medici (v. articolo 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con Legge 27 maggio 1991, n. 176; articolo 5 della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con Legge 28 marzo 2001, n. 145; articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000). La necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico si evince, altresì, da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche (v. Legge 21 ottobre 2005, n. 219, articolo 3, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati; Legge 19 febbraio 2004, n. 40, articolo 6, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; Legge 23 dicembre 1978, n. 833, articolo 33, Istituzione del servizio sanitario nazionale), il quale in particolare prevede che le cure sono, di norma, volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto da una legge). Il diritto al consenso informato trova altresì fondamento, oltre che nell'articolo 31 del Codice deontologico del giugno del 1995 (v. poi articolo 30 del predetto codice del 3 ottobre 1998 e articolo 35 di quello del 16 dicembre 2006), soprattutto nell'a priori della dignità di ogni essere umano, che ha trovato consacrazione anche a livello internazionale nell'articolo 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla biomedicina del 12 gennaio 1998, n. 168 (v. Cass. 26 luglio 2007, n. 16543). Come ha sottolineato la Corte Costituzionale nella già richiamata sentenza, la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli2, 13 e 32 Cost., pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'articolo 32 Cost., comma 2. Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute. 2.7. La responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo del consensoinformato discende a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto b) dal verificarsi – in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Non assume, invece, alcuna influenza, ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, la circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Sotto tale profilo, infatti, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (v. Cass. 27 novembre 2012, n. 20984; Cass. 28 luglio 2011, n. 16543). In ordine alle modalità e ai caratteri del consenso, è stato affermato che il consenso deve essere, anzitutto, personale, deve, quindi essere prestato dal paziente (ad esclusione evidentemente dei casi di incapacità di intendere e volere del paziente); deve poi essere specifico e esplicito (Cass. 23 maggio 2001, n. 7027); deve essere, inoltre, reale ed effettivo, sicchè non è consentito il consenso presunto; e deve essere, altresì, anche attuale, nei casi in cui ciò sia possibile (v. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748). Infine, il consenso deve essere pienamente consapevole, ossia deve essere "informato", dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico. Tale consenso implica, quindi, la piena conoscenza della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative (Cass. 23 maggio 2001, n. 7027). 2.9. Essendo questi i principi da applicarsi in materia di consenso informato, risulta evidente che la motivazione al riguardo espressa dalla Corte di merito, in quanto sostanzialmente fondata soltanto su un argomento di natura presuntiva (l'attività di avvocato svolta dal (OMISSIS) dovrebbe, ad avviso della Corte territoriale, far presumere che lo stesso prima di apporre la sottoscrizione al modulo abbia vagliato tutte le conseguenze, essendo pienamente edotto sull'importanza di tale sottoscrizione nell'economia del contratto di prestazione sanitaria), non risulta assolutamente sufficiente, tenuto conto che da tale circostanza non può desumersi che il consensoprestato sia stato nella specie effettivamente informato nel senso sopra evidenziato, cioè prestato sulla base di una adeguata ed esplicita informazione, anche alla luce delle circostanze del caso concreto, in cui, in particolare, il foglio prestampato contenente l'informativa relativa all'intervento pacificamente non è stato prodotto agli atti, sicchè non è dato conoscerne il contenuto, ed è statò fatto sottoscrivere da una segretaria nell'imminenza dell'operazione. Si osserva che la finalità dell'informazione che il medico è tenuto a dare è, come si rileva da quanto già in precedenza posto in rilievo, quella di assicurare il diritto all'autodeterminazione del paziente, il quale sarà libero di accettare o rifiutare la prestazione medica (v. anche Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847). È, pertanto, irrilevante la qualità del paziente al fine di stabilire se vi sia stato o meno consenso informato, potendo essa incidere solo sulle modalità di informazione, in quanto l'informazione deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone. Il consenso deve però essere sempre completo, effettivo e consapevole ed è onere del medico provare di aver adempiuto tale obbligazione, a fronte dell'allegazione di inadempimento da parte del paziente (Cass. 27 novembre 2012, n. 20984; Cass.28 luglio 2011, n. 16453 e Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847). 2.10. Le doglianze del ricorrente di cui al primo motivo lettera A) sono, quindi, fondate in relazione a tale solo profilo, non essendo condivisibili le argomentazioni in base alle quali la Corte di merito ha ritenuto nella specie sussistente un consenso informato e, soprattutto, non essendo le stesse idonee e sufficienti a sorreggere la decisione adottata al riguardo, sicchè il Giudice del rinvio dovrà riesaminare la vicenda in questione con riferimento al predetto ambito. 3. Risultano, invece, inammissibili le ulteriori doglianze rappresentante dal ricorrente nel primo motivo alla lettera B), in cui si lamenta un altro grave errore asseritamente commesso dal prof. (OMISSIS) nell'aver il predetto eseguito l'intervento contemporaneamente ad entrambi gli occhi e si censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto di quanto evidenziato al riguardo dal consulente di parte, prof. (OMISSIS), nonchè alla lettera C), in cui si deduce la mancata assistenza postoperatoria, avendo il (OMISSIS), andato in vacanza, affidato il paziente ad un giovane assistente che avrebbe prescritto una terapia cortisonica locale che, secondo il predetto consulente di parte, avrebbe provocato solo risultati negativi. 3.1. Entrambe le censure, infatti, non sono assistite da un idoneo c.d. quesito di fatto, avendo il ricorrente, ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., in relazione alla prima, indicato che "il precedente paragrafo evidenza il fatto controverso in relazione al quale si assume il vizio di motivazione della sentenza impugnata" e, in relazione alla seconda, precisato che "la mancata assistenza postoperatoria costituisce il fatto controverso in relazione alla quale la motivazione si assume omessa, insufficiente e controversa". 3.2. Ed invero è stato affermato da questa Corte che è inammissibile, ai sensi dell'articolo 366 bis c.p.c., per le cause - come quella all'esame - ancora ad esso soggette ratione temporis, il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, qualora non sia stato formulato il c.d. quesito di fatto, mancando la conclusione a mezzo di apposito momento di sintesi, anche quando l'indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, attesa la ratio che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso alla suprema Corte, la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l'errore commesso dal giudice di merito (v. Cass., 18 novembre 2011, n. 24255). Nel caso di specie il requisito di cui all'articolo 366 bis c.p.c., risulta solo apparentemente rispettato, mancando, in relazione a quanto dedotto sotto la lettera B), perfino la chiara indicazione sintetica, evidente ed autonoma (indicata invece dal ricorrente per relationem) del fatto controverso rispetto al quale si assume che la motivazione della sentenza sia viziata, e difettando, rispetto ad entrambe le doglianze all'esame, l'indicazione delle ragioni per le quali i dedotti vizi della motivazione renderebbero quest'ultima inidonea a giustificare la decisione, necessitando a tal fine, in particolare, la enucleazione conclusiva e riassuntiva di uno specifico passaggio espositivo del ricorso nel quale ciò risulti in modo non equivoco. 3.3. A tanto deve aggiungersi che le censure di cui alle predette lettere B) e C) del primo motivo diricorso difettano anche di autosufficienza, non essendo stato indicato in quali atti il consulente diparte, prof. (OMISSIS), abbia evidenziato le circostanze evidenziate nelle medesime censure, nèquando tali atti siano stati prodotti e neppure sono stati riportati i brani degli stessi relativi allequestioni cui si fa riferimento nell'illustrazione del motivo. 4. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta insufficienza e contraddittorietà della motivazionenella parte in cui esclude l'esistenza del nesso causale. 4.1. Il motivo è inammissibile. 4.2. A conclusione dell'illustrazione del motivo all'esame il ricorrente si è limitato ad affermare che"il paragrafo che precede contiene il requisito di inammissibilità del presente motivo di ricorso per cassazione richiesto dall'articolo 366 bis c.p.c.".Manca, quindi, la formulazione del c.d. quesito di fatto e vanno in questa sede reiterate le osservazioni già espresse nel 3.3. 5. Con il terzo motivo il ricorrente deduce che, "tenuto presente il principio della soccombenza ed avuto riguardo al comportamento processuale delle parti, l'accoglimento del ricorso comporterà necessariamente la condanna del resistente alle spese di tutti i gradi del giudizio". 5.1. Il motivo, peraltro privo del quesito ex articolo 366 bis c.p.c., va disatteso in quanto non muove censure alla sentenza impugnata ma fa riferimento ad un ipotizzato e sperato accoglimento del ricorso e, quindi, ad una ipotizzata e sperata cassazione della sentenza impugnata che, oltre tutto, travolgerebbe la pronuncia sulle spese. Ed invero il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta la necessità dell'esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e dell'esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (Cass. 25 settembre 2009, n. 20652). Tali requisiti difettano nel caso di specie per quanto sopra evidenziato. 6. Conclusivamente, va accolto, nei limiti sopra indicati, il solo primo motivo, mentre vanno rigettatele ulteriori doglianze sollevate con il ricorso all'esame. La sentenza impugnata è cassata in relazione alla censura accolta. La causa è rinviata alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione. Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, per quanto di ragione; rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione. Cassazione civile, sez. III 31/07/2013 n. 18334 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - Presidente Dott. CARLEO Giovanni - rel. Consigliere Dott. AMBROSIO Annamaria - Consigliere Dott. ARMANO Uliana - Consigliere Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato il 2.10.1997, D.A. A. conveniva in giudizio la dott.ssa S.L., il prof. M.R., l'Azienda Ospedaliera Policlinico S. Orsola - Malpighi e la Regione Emilia Romagna al fine di ottenerne la condanna in solido al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di plurimi interventi chirurgici, cui si era sottoposto presso l'Azienda Ospedaliera, esattamente presso il reparto di ottica fisiopatologica, diretta dal M., alla quale era stato indirizzato dalla S., anch'essa operante presso quella struttura specializzata, cui aveva, in sede di visita privata, rappresentato la condizione patologica di cataratta presenile per la quale già nella metà degli anni ottanta si era sottoposto ad asportazione bilaterale del cristallino. A seguito dell'impianto secondario di cristallino, effettuato il (OMISSIS), aveva subito il distacco della retina in entrambi gli occhi, e dopo reiterati tentativi messi in atto senza esito dai medici di quel reparto al fine di restituirgli lo vista, si era rivolto altrove, infine rassegnandosi, dopo ennesimo intervento presso altro ospedale, all'attuale condizione di pressochè totale cecità. Nel corso del giudizio, si costituivano i convenuti, medici ed Azienda, negando lo propria responsabilità, la Regione eccependo la propria carenza di legittimazione nonchè la prescrizione della pretesa risarcitoria intervenuta per decorso del quinquennio, e le compagnie assicuratrici invocate da ciascuno di essi a garanzia, deducendo l'infondatezza della pretesa. Esaurita l'istruzione, articolatasi in prove per interrogatorio e testi nonchè nell'espletamento di perizia medico legale, in accoglimento di istanza proposta dal D., ai sensi dell'art. 186 quater c.p.c., il Tribunale disponeva con ordinanza il pagamento di circa 800 mila Euro, a titolo di danno biologico permanente e -temporaneo - danno morale e danno emergente, a carico solidale dei due medici e della Regione, tenuti indenni dalle rispettive assicuratrici. Avverso il provvedimento, previa comunicazione e deposito della rinuncia alla definizione con sentenza, proponevano appello principale l'Unipol Spa, Compagnia assicuratrice della Regione, ed appello incidentale la Regione, la S., il D., l'Azienda Ospedaliera ed il M.. In esito al giudizio, la Corte di Appello di Bologna con sentenza depositata in data 27 luglio 2009 revocava l'ordinanza, rigettava la domanda attrice e compensava le spese del doppio grado. Avverso la detta sentenza il D. ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in un unico motivo, illustrato da memoria. Resistono con controricorso la UGF Assicurazioni Spa, già Unipol Spa, l'Azienda Ospedaliera, la S., il M., la Fondiaria Sai Spa, la Regione Emilia e Romagna, la quale ha altresì depositato memoria illustrativa. MOTIVI DELLA DECISIONE Con un'unica doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1176, 1218, 1223 e 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. nonchè l'omissione insufficiente e contraddittoria, il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver la Corte di Appello totalmente disatteso i risultati della consulenza tecnica espletata senza fornire la minima spiegazione delle ragioni per le quali ha ritenuto di discostarsene. Ciò, con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità tra il mancato adempimento dell'obbligo informativo ed il danno subito dal paziente, nonchè con riguardo alla prevedibilità dell'effetto disastroso dell'intervento manipolativo, cui il D. fu indotto a sottoporsi nel 1992, alla scarsa diligenza dei sanitari nella valutazione dei segnali di pericolo,che avrebbero dovuto invitare ad un approfondimento del problema e ad un'approfondita discussione con il paziente stesso sui rischi di un eventuale intervento. La doglianza merita attenzione. A riguardo, corre l'obbligo di premettere che il giudice di prime cure ha ravvisato nel comportamento dei convenuti due profili di responsabilità: un primo profilo di negligenza, consistito nel fatto di non aver fornito al paziente un'adeguata informazione sul rischio di distacco della retina e sui possibili rischi degli interventi chirurgici di inserzione di un cristallino artificiale; un secondo profilo, consistito nel fatto di non aver prestato sufficiente attenzione alla storia clinica del paziente stesso e di aver sottovalutato una serie di elementi indicativi di un elevato grado di rischio nel prodursi del distacco della retina. Le considerazioni, poste dal giudice di primo grado a base della decisione, erano perfettamente in linea con la relazione peritale elaborata dal CTU, il quale aveva evidenziato che, già all'atto della prima visita nel gennaio 1992, nell'esame obiettivo dettato dalla dr.ssa S. risultavano descritti piccoli segnali che, valutati insieme, avrebbero dovuto mettere sull'avviso i sanitari. Ed invero, il paziente già prima dell'intervento presentava una serie di elementi patologici, oltre l'opacità del cristallino, quali le alterazioni a carico dell'iride e la sublussazione del cristallino, le quali essendo presenti in un soggetto poco più che quarantenne e quindi affetto da una cataratta giovanile in istato avanzato, avrebbero dovuto invitare cogentemente ad un approfondimento del problema, ad una richiesta di visione della cartella relativa ai pregressi interventi, ad una approfondita discussione con il paziente stesso sul bilancio costi/benefici, rischi/vantaggi di un eventuale intervento per concludere sconsigliando il malato a farsi mettere le mani su occhi così problematici. Infatti, una cataratta giovanile che arriva ad uno stato avanzato senza l'intervento di riconoscibili fattori patologici locali (uveiti, pregressi distacchi di retina, terapie steroidee ecc) o generali (diabete, dermatopatie ecc) è chiaramente indice di uno stato meiopragico dell'occhio. Pertanto, tutti quei fattori "regmatogeni", capaci cioè di provocare un distacco di retina, sconsigliavano l'intervento; e la prudenza andava raddoppiata, triplicata, eseguendosi un intervento non strettamente necessario, che faceva prevedere le gravi complicazioni vitreo-retiniche poi realizzatesi. La valutazione dei fattori di rischio avrebbe dovuto essere, allora, ancora più stringente e mai come in quel caso - così continuava il CTU - sarebbe stata necessaria una chiara esposizione dei vantaggi ma anche dei pericoli che una seconda apertura del bulbo oculare avrebbe comportato. Al contrario, nel caso di specie, l'argomento fu affrontato solo molto rapidamente e superficialmente, come confermato dal fatto sul primo stampato fatto firmare non venne neppure indicato il tipo di intervento che sarebbe stato effettuato il giorno successivo. Infine, era necessario sottolineare che la patologia retino-vitreale era stata "chiaramente ed inequivocabilmente conseguenza della esecuzione degli interventi di impianto secondario di lente intraoculare, effettuati nell'aprile 1992. I distacchi di retina, che non si erano presentati per otto anni dopo i primi interventi, eseguiti nel 1984/85 presso l'ospedale Oftalmico di Roma, si verificarono invece dopo un mese e dopo meno di un anno in seguito agli interventi del 1992. Ed in nessun articolo o testo - così continua il CTU - si può leggere che non sia necessario tener conto dello stato del vitreo e della retina per decidere una riapertura della camera anteriore salvi i casi di forza maggiore. Ora, a fronte di tali articolatissime considerazioni, rassegnate dal perito d'ufficio e fatte proprie dal giudice di prime cure, la Corte di merito ha omesso di spiegare le ragioni per cui le considerazioni del CTU non meritassero di essere condivise. E ciò, sia con riferimento al profilo di negligenza, consistito nel fatto di non aver fornito al paziente un'adeguata informazione sul rischio di distacco della retina e sui possibili rischi degli interventi chirurgici di inserzione di un cristallino artificiale, sia con rifermento al profilo, consistito nel fatto di non aver prestato sufficiente attenzione alla storia clinica del paziente stesso e di aver sottovalutato una serie di elementi indicativi di un elevato grado di rischio nel prodursi del distacco della retina. In particolare, con riferimento al primo dei due profili sopra evidenziati, non è inopportuno sottolineare che, come ha già statuito questa Corte (tra le altre, Cass. n. 10741/2009 e n. 24791/2008), il professionista sanitario ha l'obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all'intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve sottoporre al paziente, perchè lo sottoscriva un modulo non generico, dal quale sia possibile desumere con certezza l'ottenimento in modo esaustivo da parte del paziente di dette informazioni. Con la conseguenza che il medico-chirurgo viene meno all'obbligo a suo carico in ordine all'ottenimento del c.d. consenso informato ove non fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili sull'intervento chirurgico, che intende eseguire, e soprattutto sul bilancio rischi/vantaggi dell'intervento: obbligo che a fortiori va assolto in un'ipotesi come quella in esame, la quale evidenziava non pochi fattori "regmatogeni", capaci di provocare un distacco di retina, che sconsigliavano l'intervento, peraltro neppure cogentemente necessario. Con la conseguenza che sarebbe stata indispensabile una accurata esposizione sia dei vantaggi sia, e soprattutto, dei pericoli che una seconda apertura del bulbo oculare avrebbe comportato. La Corte di merito,invece, si è ben guardata dall'approfondire questo aspetto, posto dal giudice di prime cure a base della decisione; non ha affatto approfondito la problematica relativa all'osservanza o meno dell'obbligo di informare il paziente sul bilancio rischi-vantaggi derivante dall'intervento e, soprattutto, ha omesso di verificare se l'adempimento da parte dei sanitari dei loro doveri informativi in termini di maggiore e più adeguata completezza avrebbe prodotto con ragionevole certezza l'effetto di non eseguire l'intervento chirurgico dal quale è poi derivato lo stato patologico al D.. Ugualmente, si è ben guardata dal chiarire perchè, nella vicenda in esame, non sarebbe stato possibile conoscere ex ante i fattori "regmatogeni" sopra specificati e di prevedere secondo diligenza qualificata, in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, le conseguenze pregiudizievoli poi realizzatesi. E ciò, benchè già all'atto della prima visita nel gennaio 1992, nell'esame obiettivo dettato dalla dr.ssa S. risultavano descritti quei segnali che, valutati insieme, avrebbero potuto e dovuto mettere sull'avviso i sanitari. Senza considerare che la Corte di merito ha inoltre omesso di spiegare in maniera non solo esaustiva ma anche chiara e comprensibile, in ordine al nesso di consequenzialità necessaria, quali sarebbero "le plurime interferenze, talune innominate o frammentariamente indicate, sia pregresse che successive" tali da incidere sul criterio di imputazione delle conseguenze lesive riscontrate. La Corte di merito ha infatti fondato la revoca dell'ordinanza di primo grado essenzialmente sulla considerazione che nella vicenda in esame "difetta nella relativa argomentazione motiva........l'acclaramento ex ante della conoscibilità e quindi della relativa comunicazione informativa di quel grado di compromissione emerso nella illustrazione postuma del C.t.u. che potesse imporsi come ostativo rispetto ai conformi e collaudati protocolli terapeutici adottati dalla struttura particolarmente specializzata e che dovesse pertanto necessariamente condurre al diniego della prestazione per la quale il paziente vi si era rivolto anzichè ad un mero incremento di allerta nell'approntamento operativo che risulta invece ampiamente riconosciuto. Suppletivamente, quanto al nesso di consequenzialità necessaria come si è detto, non appare soddisfatto il criterio di immediata e diretta imputazione delle conseguenze lesive riscontrate, variamente inquinato all'origine...............da plurime interferenze, talune innominate o frammentariamente indicate, sia pregresse che successive, consistite in ripetuti trattamenti presso numerose strutture analogamente specializzate, la cui incidenza non può essere ignorata...........". Risulta evidente che la Corte di merito non ha affatto provveduto ad una specifica confutazione degli argomenti, svolti dal CTU e fatti propri dal giudice di primo grado, ed ha omesso ogni specifico approfondimento dei significativi elementi evidenziati, limitandosi ad una motivazione assai generica, al limite della motivazione apparente, inidonea, in quanto tale, a spiegare nello specifico le ragioni per le quali se ne è discostata. Ora, è appena il caso di sottolineare che sussiste il vizio di motivazione, sotto il profilo dell'omissione e/o dell'insufficienza, dedotto dalle ricorrenti, quando nel ragionamento del giudice di merito sia rinvenibile come nella specie traccia evidente del mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti. Ne deriva che nella specie l'omesso compimento degli accertamenti sopra indicati inficia la correttezza del ragionamento svolto dalla Corte di merito e ne determina la sua censurabilità. Il ricorso per cassazione, siccome fondato, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata. Con l'ulteriore conseguenza che, occorrendo un rinnovato esame da condursi nell'osservanza del principio richiamato, la causa va rinviata alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, che provvedere anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, che provvedere anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2013. Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2013 Cassazione civile, sez. III 04/06/2013 n. 14024 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PETTI Giovanni Battista - Presidente Dott. MASSERA Maurizio - Consigliere Dott. TRAVAGLINO Giacomo - rel. Consigliere Dott. BARRECA Giuseppina Luciana - Consigliere Dott. CIRILLO Francesco Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Nel giugno del 1998, Am.Ci. evocò in giudizio, dinanzi al tribunale di Napoli, l'ospedale (OMISSIS) e la gestione liquidatoria dell'USL (OMISSIS) Napoli (OMISSIS), e ne chiese la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito di un intervento chirurgico, esponendo, in sintesi: - che, nel (OMISSIS), era stato ricoverato presso l'ospedale (OMISSIS) con diagnosi di "ascesso gluteo destro", successivamente specificata in "ascesso perianale - fistola sacrococcigea. Ascessualizzato"; - che, nonostante avesse firmato il modulo di c.d. "consenso informato" (rectius, informazione acconsentita) riferito ad un intervento di "fistola sacrococcigea", era stato invece operato di "fistola perianale trans-sfinterica", riportando, come complicazione, un'incontinenza (ancora attuale) alle feci solide; - che tali complicazioni, pur se normalmente previste a seguito dell'intervento subito, non lo erano, invece, per l'intervento cui egli aveva prestato il proprio consenso. Integrato il contraddittorio nei confronti della regione Campania, disposta ed esperita CTU, il giudice di primo grado respinse la domanda. La corte di appello di Napoli, investita del gravame proposto dall'attore soccombente - che sostenne, con il conforto del giudizio espresso dal consulente d'ufficio, di aver subito un intervento chirurgico diverso da quello per il quale aveva prestato il proprio consenso, e per il quale nessuna informazione e nessun consenso potevano dirsi legittimamente espressi - lo rigettò, ritenendo che il paziente, a seguito della modifica della diagnosi, fosse stato pur sempre reso edotto dell'esistenza di una patologia nella regione ano- rettale e della necessità di eseguire un intervento che, seppur a lui rappresentato come "di drenaggio ascesso perianale", implicava all'occorrenza anche la rimozione di una fistola come causa e complicanza dell'ascesso; ed opinando ancora, sotto altro profilo, che la diagnosi precisa fosse stata eseguita necessitatis causa solo in sede di intervento chirurgico (consistito nella asportazione mediante bisturi elettrico del tessuto fistoloso sino ad arrivare ai fasci dello sfintere esterno), onde, a fronte di tale complicanza, i medici non avrebbero potuto interrompere l'intervento per munirsi di un più esplicito e dettagliato consenso. Osserverà ancora la corte territoriale che, ove il paziente - che aveva sottoscritto il consenso all'intervento suddetto - non fosse stato messo al corrente dei relativi rischi e delle possibili complicanze, avrebbe dovuto egli stesso fornirne la relativa prova. Di qui, la non condivisione, da parte della corte partenopea, delle diverse conclusioni rassegnate dal CTU, ed il conseguente rigetto dell'impugnazione. La sentenza è stata impugnata da Am.Ci. con ricorso per cassazione sorretto da tre motivi di doglianza e illustrato da memoria. Resiste la regione Campania con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso è fondato. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, per omessa o insufficiente su fatti decisivi del giudizio. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Si chiede alla Suprema Corte se la sentenza n. 4361 della corte di appello di Napoli ha realizzato una violazione dell'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, nella parte in cui si discosta dalle conclusioni e dalle motivazioni del CTU in assenza di contestazioni delle altre parti, omettendo di motivare adeguatamente tale dissenso, astenendosi dall'addurre elementi di contenuto scientifico altrettanto validi rispetto a quelli addotti dal CTU ed astenendosi, nel motivare il proprio contrario avviso, dall'evidenziare eventuali vizi logici insiti nel ragionamento del CTU. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e/o mancata applicazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost., e dell'art. 3 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea approvata dal Consiglio Europeo il 7.12.2000), dell'art. 1218, 1176, 2230 e 2236 c.c., nonchè della L. n. 833 del 1978, art. 33, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il motivo si conclude con la formulazione del quesito di diritto che segue: Si chiede alla suprema corte se la corte di appello di Napoli, con la sentenza n. 4361/08, ha realizzato una violazione e/o mancata applicazione (delle norme indicate) nella parte in cui ritiene lecito e legittimo che il sig. Am.Ci. sia stato sottoposto ad un intervento chirurgico di "fistulectomia perianale" che ha comportato una incompetenza fecale cronica, in presenza di un consenso informato prestato per "drenaggio ascesso perianale" che non prevede particolari rischi e complicanze e in ogni caso non contempla la possibilità che si verifichi una incontinenza fecale come è accaduto nel caso de quo. Con il terzo motivo, si denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il motivo si conclude con la seguente sintesi espositiva (correttamente formulata ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c.): Si chiede alla corte suprema se la sentenza n. 4361 della corte di appello di Napoli è contraddittoria nella parte in cui sostiene che è legittimo il comportamento dei sanitari dell'ospedale (OMISSIS) che, dopo aver individuato con una fistolografia la presenza di una fistola perianale, hanno fatto sottoscrivere ad Am. un consenso informato per drenaggio ascesso perianale operandolo di fistolectomia perianale, aggiungendo la sentenza che tale drenaggio "implicava all'occorrenza la rimozione della fistola come causa e complicanza (ulteriore contraddizione logico-semantica) dell'ascesso: d'altra parte la diagnosi precisa fu eseguita in sede di intervento chirurgico". I motivi (che possono essere esaminati congiuntamente, attesane la intrinseca connessione logicogiuridica) sono, nel loro complesso, fondati. Gravemente carente appare, difatti, la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, pur discostandosi dalle conclusioni raggiunte dal CTU, ritiene, invero apoditticamente, "estendersi" ad un intervento diverso (e dalle diverse, possibili conseguenze) la manifestazione di consenso prestata dal paziente a quello invece previsto, opinando, del tutto immotivatamente (ed immotivatamente sostituendo il proprio convincimento alle considerazioni espresse su base scientifiche dal perito d'ufficio), che la diversa operazione - ed i ben diversi rischi ad essa sottesi - potessero ritenersi "ricompresi" nell'iniziale informazione (e ciò è a dirsi a prescindere dal criterio di riparto dell'onere probatorio così come predicato al folio 7, righi 3^/6^ della sentenza oggi impugnata, anch'esso oggetto di error iuris da parte del giudice territoriale - vertendosi in tema di responsabilità da contatto sociale - ma non esplicitamente censurato in questa sede). Il ricorso deve, pertanto, essere accolto, con conseguente rinvio del procedimento alla corte di appello di Napoli, che provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Napoli in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2013. Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2013 Cassazione Penale – Sez. IV; Sent. n. 39165 del 23.09.2013 omissis RITENUTO IN FATTO 1. E. E. veniva ricoverata il 27 gennaio 2004 presso il presidio ospedaliero di X. per essere sottoposta a trattamento chirurgico di un’affezione cardiovascolare. Il 3 febbraio veniva sottoposta ad intervento chirurgico e il 5 febbraio, constatata la stabilizzazione del quadro postoperatorio, la E. veniva trasferita presso il reparto di cardiochirurgia. Alle 10,30 del 6 febbraio veniva trasferita nuovamente presso l'unità operativa di terapia intensiva cardiochirurgica e alle ore 8,08 del 7 febbraio ne veniva constatato il decesso. Decesso che - risultava accertato senza contestazione alcuna - era stato provocato da una ischemia del miocardio scaturita dalla trombosi completa del lume della vena safena autologa, che a sua volta era stata determinata dalla perdita ematica acuta causata dalla deconnessione del catetere venoso centrale giugulare che era stato applicato alla paziente. In conclusione, la perdita ematica coagendo con altri fattori aveva determinato la trombosi. 2. Tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di X. per rispondere del reato di omicidio colposo in danno della E., W. W. W, medico di guardia presso il reparto di cardiochirurgia, nonché K. K. K. e Z. Z., infermiere professionali, e J. J., infermiere generico. Il primo veniva mandato assolto mentre i secondi venivano giudicati responsabili e condannati alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno, pena condizionalmente sospesa, nonché al risarcimento dei danni e alla rifusione alle spese in favore della costituita parte civile X. X. Di X.. Ad avviso del Tribunale il decesso era da ascriversi agli infermieri perché essi avevano omesso di controllare con la dovuta attenzione l'avvitamento del catetere alla rubinetteria, avevano omesso di fare il giro del capezzale della paziente per verificare che il catetere non si fosse deconnesso e non avevano avvisato il medico di guardia dell'accaduto, posto che questi (il W) aveva avuto conoscenza della deconnessione solo alle ore 7,45 in occasione della visita della paziente. Siffatte condotte colpose venivano ritenute eziologicamente incidenti sull'evento luttuoso poiché avevano determinato il prodursi della perdita ematica che aveva innescato la trombosi e quindi l'ischemia acuta del miocardio. 3. La Corte di Appello di L'Aquila, con la sentenza indicata in epigrafe, ha ribaltato il giudice di primo grado pronunciando l'assoluzione degli imputati ai sensi dell'articolo 530, co. 2 cod. proc. pen., perché il fatto non costituisce reato. Dopo aver convenuto con il primo giudice sul fatto che la deconnessione del catetere venoso centrale giugulare era stato l'antecedente penalmente rilevante della morte della paziente, il Collegio distrettuale ha però escluso che il mancato avviso al medico di guardia avesse assunto una qualche efficienza causale, in considerazione del fatto che "lo stesso consulente del pubblico ministero non ha rilevato da parte del personale medico o paramedico condotte omissive nè condotte poste in essere intempestivamente...''. Ciò posto, la Corte di Appello ha ritenuto non accertata la causa della deconnessione del catetere e quindi non rinvenibili profili di colpa nella condotta degli imputati. Da un canto ha giudicato atto medico l'innesto del catetere venoso (rimarcando che nella fattispecie esso era stato eseguito in un reparto diverso da quello dove prestavano servizio gli imputati), di talché non gravava sugli stessi l'onere della sua corretta applicazione. Dall'altro, pur avendo ritenuto gli odierni imputati tenuti a controllare II corretto funzionamento dell'apparecchio, il Collegio territoriale ha rilevato che il mancato accertamento della specifica causa del distacco (ha ricordato, al riguardo, che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva definito il distacco come accidentale) rende impossibile affermare che esso fu dovuto allo scorretto avvitamento del catetere; da ciò ha tratto la conseguenza che non può ascriversi agli imputati di non essersi accorti di una circostanza di incerta verificazione (il cattivo avvitamento). La Corte di Appello ha poi preso in esame anche l'omessa vigilanza della paziente, evidenziando che ciò che davvero rileva è l'eventuale omessa assistenza infermieristica tra le 6,00 (orario dell'ultimo intervento infermieristico acciarato) e le 7,00 (epoca in cui si era manifestata la deconnessione del catetere venoso centrale giugulare in quanto se n'era avveduto un amico giunto in vìsita alla paziente) e pertanto "nel lasso temporale intercorso tra il distacco del catetere venoso ed i momenti in cui l'emorragia ebbe l'assumere un carattere di irreversibilità". Ritenuto che la durata del sanguinamento seguito alla deconnessione era stata di circa 15-20 minuti, considerato che la paziente non era ad elevato indice di assistenza e che comunque risultava sottoposta a monitoraggio elettronico al fine di evidenziare eventuali modificazioni della frequenza cardiaca e della saturazione arteriosa di ossigeno, il Collegio territoriale è pervenuto alla conclusione che non può ritenersi connotata dagli estremi di colpa la condotta degli imputati che omisero il controllo de visu della paziente per il breve tempo, non potendosi qualificare come dovuta la condotta omessa né essendo questa esigibile in ragione delle modalità di organizzazione del reparto. 4. Ricorre per cassazione nell'interesse della parte civile Di X. X. X. il difensore di fiducia avv. Aleandro Equizi. 4.1. Con un primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio motivazionale per non essere stata acquisita e quindi valutata la relazione del consulente tecnico d'ufficio espletata nell‘ambito del giudizio civile che l'odierna parte civile aveva instaurato nei confronti dell'ASL di X., la cui acquisizione pure era stata richiesta. 4.2. Un secondo motivo di ricorso lamenta la violazione dell'articolo 590 cod. proc. pen. per non essere stati trasmessi alla Corte di Appello tutti gli atti del procedimento in particolare per non essere stato trasmesso il catetere venoso centrale giugulare la cui visione, ad avviso del ricorrente, avrebbe permesso al giudice di considerare e di valutare anche la principale prova della sussistenza del fatto contestato e della penale responsabilità degli appellanti. L'esponente sostiene anche che la decisione è manifestamente in contrasto con le risultanze istruttorie laddove afferma che il distacco sarebbe stato accidentale e non ne sarebbe stata individuata una specifica causa. Tuttavia tale affermazione, che risale al consulente del pubblico ministero, non starebbe a significare che la deconnessione fu dovuta al caso ma solo che non era stata voluta dagli imputati o provocata dalla vittima. Richiamando le dichiarazioni del teste Cecchini, così come utilizzate dalla sentenza di primo grado, si prospetta sia pure implicitamente il seguente percorso logico: poiché il catetere venoso centrale giugulare era deconnesso all'altezza della rubinetteria esso non era stato correttamente avvitato. Quanto al fatto che la paziente non era ad elevato indice di assistenza bensì paziente che necessitava di un’assistenza subintensiva il ricorrente ravvisa una lettura incompleta, errata e fuorviante dei risultati probatori, atteso che il consulente tecnico del pubblico ministero ebbe a riferire che assistenza subintensiva sta a significare che si trattava di una paziente sicuramente da vigilare attentamente nei parametri vitali. Da ciò il ricorrente deriva il convincimento che il giudice di seconde cure sia incorso in travisamento del fatto. Il ricorrente non conviene neppure sul giudizio per il quale l'omesso avviso del medico di turno non avrebbe esplicato efficienza eziologica rispetto all'evento rinvenendo una intrinseca contraddizione nella motivazione posto che essa afferma che la perdita ematica ove immediatamente percepita e tamponata avrebbe con elevato grado di probabilità scongiurato l'exitus. 4.3. Un terzo motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell'art. 43 cod. pen., lamenta il fatto che il giudizio di imprevedibilità dell'evento dannoso, ovvero della deconnessione del catetere a causa del mancato controllo del suo corretto avvitamento e la mancata tempestiva percezione della perdita ematica, non è stato compiuto utilizzando il criterio dell'agente modello e che anche il giudizio di imprevedibilità dell'evento risulta errato. 4.4. In data 27 febbraio 2013 sono stati depositati 'motivi nuovi'; con essi si deduce violazione ed erronea applicazione delle norme penali e vizio di motivazione, sostenendo che il giudizio della Corte di Appello contravviene ai valori del giusto processo, i quali presuppongono una valutazione diretta delle prove che nel caso è mancata, non essendo stata acquisita ed utilizzata la relazione tecnica redatta dai consulenti tecnici d'ufficio nel parallelo processo civile e non essendo stato trasmesso il catetere venoso per l’acquisizione agli atti. Si ribadisce poi che la perdita ematica aveva determinato una situazione di eccezionale emergenza che imponeva al personale infermieristico di informare senza ritardo il medico di guardia. Con un secondo motivo si ritorna sulla violazione dell'art. 43 cod. pen., prospettando anche vizio motivazionale, che si sarebbe concretizzato laddove la Corte di Appello è giunta a conclusioni diverse da quelle cui era pervenuto il giudice di primo grado, senza però aver previamente scardinato i singoli passaggi del nucleo giustificativo della prima decisione e senza aver analiticamente confutato gli elementi di prova posti a fondamento della decisione di primo grado. Si osserva altresì che agli imputati non è contestato semplicemente di aver omesso di fare il giro del capezzale della vittima ma piuttosto di aver tenuto una condotta contraria alle linee guida del reparto. Si insiste sul fatto che gli imputati hanno omesso di controllare il corretto avvitamento del catetere e del sistema di rubinetteria e la sua regolare chiusura. Non esistono ad avviso dell'esponente altri credibili spiegazioni razionali rispetto alla cattiva installazione del catetere e la diversa affermazione della corte secondo la quale non sarebbe stata assolutamente individuata una specifica causa del distacco non è sorretta da alcun elemento di prova né da massima di esperienza né da tesi scientifiche sicché risulta un affermazione manifestamente illogica. Infine richiamando l'intervenuta modifica del concetto di colpa mediche penalmente rilevante, operata dall'articolo 3, co. 1 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, si rileva che nel caso concreto tale innovazione non ha alcun effetto in quanto la colpa degli imputati non è lieve ma grave e gli imputati hanno violato le linee guida del reparto tenendo un comportamento contrario non solo alle buone pratiche della comunità scientifica ma anche alle più elementari regole cautelari suggerite dalla comune esperienza. Si sostiene che le linee guida del reparto avrebbero dovuto essere assunte come specifica fonte dell'obbligo giuridico di sorveglianza, controllo ed impedimento ed altresì come parametro di riferimento per verificare la violazione della regola cautelare da parte degli imputati. Per contro la sentenza impugnata svilisce le linee guida a parametri di riferimento valevoli esclusivamente rispetto in relazione alla mancata percezione del cospicuo sanguinamento. 5. Con atto depositato il 4.6.2013 sono state presentate 'note difensive’ nell'interesse degli imputati, con le quali si argomenta la richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 6. Il ricorso è infondato. 6.1. Non sussiste la pretesa violazione di legge e l'asserito vizio motivazionale per non essere stata acquisita e quindi valutata la relazione del consulente tecnico d'ufficio espletata nell'ambito del giudizio civile che l'odierna parte civile aveva instaurato nei confronti dell'AsI di X.. Non può dubitarsi che la menzionata relazione - come ricordato dal ricorrente - sia documento, nell'accezione valevole ai sensi e agli effetti dell'art. 234 cod. proc. pen. Ma l’omessa acquisizione della medesima può avere rilievo in sede di legittimità unicamente in quanto il documento si appalesi come prova decisiva. Orbene, posto che valore decisivo può avere solo quella prova che può determinare una decisione più favorevole al ricorrente, va rimarcato come proprio quest'ultimo affermi che la relazione del c.t.u. confermava alcuni elementi "già comunque provati in atti"; inoltre, i passi della relazione riportati in ricorso non attengono ai dati valorizzati dal giudice per escludere la responsabilità degli imputati bensì alla esistenza di un nesso causale tra l'omesso controllo del catetere e quanto si determinò per effetto della deconnessione, ovvero un profilo del tutto pacifico. Quanto alle ulteriori affermazioni della consulenza tecnica di ufficio concernenti la non accurata gestione e controllo del catetere venoso centrale giugulare da parte del personale infermieristico cui spettava il compito di sorveglianza della paziente, esse non possono ritenersi contributo utilizzabile della consulenza medesima, non avendo contenuto tecnico ma sovrapponendosi al giudizio che compete al giudice all'esito della valutazione del complessivo materiale probatorio acquisito. Il motivo è quindi infondato. Lo è anche sotto il diverso profilo della lamentata violazione dei principi del giusto processo, per non aver la Corte territoriale effettuato una 'valutazione diretta della prova' (cfr. 'motivi nuovi'). Il ricorrente ha evocato al riguardo la giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo. Orbene, secondo tale giurisprudenza "le modalità di applicazione dell'articolo 6 ai procedimenti davanti alle Corti d'Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione; si deve tener conto dell'insieme del procedimento nell'ordinamento giuridico interno e del ruolo delle Corti d'Appello in merito (vedi Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996, § 39, Reports 19961). Se una Corte d'Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell'innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove (vedi Popovici c. Moldavia, nn. 289/04 e 41194/04, § 68, 27 novembre 2007; Constantinescu c. Romania, n. 28871/95, § 55, CEDU 2000-VIII e Marcos Barrios c. Spagna, n. 17122/07, § 32, 21 settembre 2010)" (Cedu, Dan c. Moldavia, n. 8999/07, 5.7.2011). Deve però trattarsi delle prove sulle quali si fonda la pronuncia di condanna; nel caso esaminato nella causa Dan c. Moldavia, ad esempio, la Corte sovranazionale ha distinto tra prove principali e 'prove indirette che non potevano condurre da sole alla condanna del ricorrente' per ribadire che solo per le prime si poneva il tema del rispetto della regola della valutazione diretta delle prove. Calando tali principi nel caso che occupa appare evidente, da un canto, che il concetto di 'valutazione diretta delle prove' non è incompatibile con la disamina di una riproduzione fotografica dell'oggettoprova; dall'altro, che la (mancata) diretta osservazione dell'apparecchio non assume alcun valore decisivo nella formazione del giudizio della Corte di Appello, che ha avuto modo di rendersi conto delle caratteristiche del medesimo sia attraverso il corredo fotografico disponibile in atti, sia attraverso la mediazione degli esperti che si sono dilungati sulle caratteristiche strutturali e funzionali del catetere venoso centrale giugulare, come evidenziato anche dagli allegati prodotti dal ricorrente medesimo. 6.2. A mente dell'art. 590 cod. proc. pen. "al giudice della impugnazione sono trasmessi senza ritardo il provvedimento impugnato, l'atto di impugnazione e gli atti del procedimento". La violazione della disposizione non è assistita da specifica sanzione di nullità; ciò non di meno la mancata trasmissione degli atti può configurare una nullità generale ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen., ove si concretizzi una lesione dei diritti difensivi all'intervento nel processo d'appello, o ex art. 178 lett. b) cod. proc. pen., ove la lesione attenga ai diritti del p.m. di partecipare con piena cognizione al giudizio di appello. Ma siffatta concreta lesione dei diritti processuali delle parti deve essere positivamente provata dalla parte che la invoca (da ultimo, Sez. 5, n. 37370 del 07/06/2011 - dep. 17/10/2011, Bianchi e altri, Rv. 250490). Nel caso che occupa il ricorrente si è limitato ad affermare che la disponibilità dell'oggetto avrebbe consentito al giudice di affermare quale era stata la causa della deconnessione. 6.3. Le scansioni fondamentali del giudizio formulato dalla Corte di Appello possono essere così riassunte: - l'accertamento processuale non ha permesso di identificare con certezza la causa della deconnessione del catetere, aH'interno di un ventaglio di alternative che si riduce all'erroneo impianto dell'apparecchio da parte dei medici che ebbero in cura la E. prima che questa giungesse nel reparto di cardio-chirurgia ed il distacco 'accidentale'; - non sono ravvisabili profili di colpa rispetto ad alcuno degli obblighi gravanti sul personale infermieristico, tra i quali non si annovera il controllo del corretto innesto del catetere venoso centrale giugulare, perché atto medico: a) non rispetto all'obbligo di controllare il funzionamento dell'apparecchio, perché la mancata individuazione della causa del distacco non permette di affermare che quello non funzionasse correttamente; b) non rispetto all'obbligo di vigilanza della paziente, perché in relazione alle caratteristiche della medesima essa risultava adeguatamente vigilata, perché non poteva comunque identificarsi un obbligo di vigilanza a frequenza così ridotta da rendere inosservante un controllo eseguito con intervalli temporali più ampi; perché non era esigibile un controllo continuativo; c) non rispetto all'obbligo di dare immediato avviso della perdita ematica al medico del reparto per la assenza di rilevanza causale della sua violazione. 6.4. A fronte di ciò il ricorso critica la valutazione della prova operata dalla Corte di Appello, assumendo che il catetere era stato avvitato in modo non corretto. Tanto sulla base di una diversa lettura dei materiali di prova; ovverosia la deposizione resa dal teste Cecchini, che aveva riferito di un catetere staccato dalla rubinetteria, e le osservazioni degli esperti intervenuti nel processo. Per tale decisivo profilo del ricorso è opportuno rammentare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata, oppure dall'aver assunto dati inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Cass. Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Cass. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Cass. Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Cass. Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989). Nulla di tutto ciò è nella prospettazione del ricorrente; il quale neppure lamenta un travisamento della prova, rappresentando piuttosto di non concordare con il significato attribuito ad essa dal Collegio distrettuale. La motivazione della Corte di Appello sul punto non appare manifestamente illogica o contraddittoria. In effetti, il giudizio conclusivo è per l'impossibilità di ascrivere agli infermieri una negligenza o una imperizia nel controllo del catatere perché non accertato se lo stesso era stato avvitato in modo non corretto o comunque in un modo che rendesse percepibile al personale infermieristico l'anomalo funzionamento e la perdita ematica. Si tratta di una motivazione che sfugge al sindacato di questa Corte e che non pare in aperta contraddizione con i materiali di prova, i quali delineano una ricostruzione ipotetica non preclusiva di diverse opzioni parimenti ragionevoli. 6.5. Ad identiche conclusioni deve pervenirsi anche per quanto concerne il giudizio formulato dalla Corte di Appello quanto alla prevedibilità della deconnessione, per quanto 'accidentale', del catetere, in rapporto all'obbligo di vigilanza sulla paziente. In effetti la Corte di Appello si è interrogata sulla prevedibilità di una eventuale deconnessione, alla ricerca di una regola di condotta che imponesse il controllo diretto e continuativo del catetere venoso centrale giugulare in un arco temporale significativo perché idoneo a rendere salvifico l'eventuale intervento degli infermieri. La risposta che si è data il Collegio distrettuale appare non manifestamente illogica, perché perviene ad escludere tale prevedibilità sulla scorta della qualificazione della paziente come necessitante una 'assistenza sub-intensiva' e non già come paziente 'ad elevato indice di assistenza', ma soprattutto sulla base del fatto che la Ekert "risultava comunque sottoposta a monitoraggio elettronico al fine di evidenziarne eventuali modificazioni della frequenza cardiaca e della saturazione arteriosa di ossigeno e permettere i necessari conseguenti interventi immediati...". Il ricorrente censura le implicazioni che il Collegio territoriale ha ritenuto di poter individuare nella evocazione del concetto di 'assistenza sub-intensiva'; una volta ancora, però, non è ravvisabile né travisamento della prova (leggasi la deposizione del c.t. del P.M., riportata in ricorso) né manifesta illogicità. Quanto al rilievo accordato al monitoraggio della paziente, anche questo passo della decisione è stato contestato dal ricorrente, il quale però non è giunto ad affermare e a dare dimostrazione che la Corte territoriale ha assunto un dato non vero, rilevando piuttosto che "la circostanza non è affatto certo (sic!)...". 6.6. Quanto alla valenza delle 'linee guida', evocate dal ricorrente quale "specifica fonte dell'obbligo giuridico di sorveglianza/controllo/impedimento violato dagli imputati", va in primo luogo rimarcato che la locuzione risulta utilizzata in maniera invero ingiustificata. Nella specie, per stessa ammissione del ricorrente, si tratta di un documento sequestrato presso il nosocomio di X., di paternità e provenienza non enunciata, la cui funzione sembra essere quella di rammentare al personale infermieristico la necessità di operare un frequente controllo notturno dei pazienti, con particolare attenzione ai malati gravi, agli operati in prima e seconda giornata. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che nell'applicazione dell'art. 3 d.l. n. 128/2012, con riferimento alle linee guida, è necessario "valutare le caratteristiche del soggetto o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza da interessi economici condizionanti. Rilevano altresì il metodo dal quale la guida è scaturita, nonché l'ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla direttiva". Ciò in quanto le linee guida presentano "varietà delle fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico. Alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni sanitarie di vario genere. La diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l'impostazione delle direttive: alcune hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti. Tali diversità rendono subito chiaro che, come si è accennato, per il terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità" (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013 - dep. 09/04/2013, Cantore, Rv. 255105). Ancor più a monte, prima ancora del giudizio di affidabilità, va però rimarcata la necessità di definire il tipo 'linee guida', al fine di evitare che si propongano come tali documenti di tutt'altro genere: memorandum destinati ad un ristretto numero di soggetti, indicazioni a fini didattici, programmi operativi in fase di ideazione o di sperimentazione e così seguitando. Il meno che possa dirsi, in questa sede, è che il ricorrente non ha dato dimostrazione alcuna che trattasi di 'linee guida'. Peraltro, è infondata anche la pretesa di considerare le linee guida fonti di regole cautelari la cui inosservanza può, di per sé, fondare un addebito per colpa. Questa Corte ha precisato che "in tema di responsabilità medica, le linee guida - provenienti da fonti autorevoli, conformi alle regole della miglior scienza medica e non ispirate ad esclusiva logica di economicità – possono svolgere un ruolo importante quale atto di indirizzo per il medico; esse, tuttavia, avuto riguardo all'esercizio dell'attività medica che sfugge a regole rigorose e predeterminate, non possono assurgere al rango di fonti di regole cautelari codificate, rientranti nel paradigma dell'art. 43 cod. pen. (leggi, regolamenti, ordini o discipline), non essendo né tassative né vincolanti e, comunque, non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la migliore soluzione per il paziente. D'altro canto, le linee guida, pur rappresentando un utile parametro nell'accertamento dei profili di colpa riconducibili alla condotta del medico, non eliminano la discrezionalità giudiziale insita nel giudizio di colpa; il giudice resta, infatti, libero di valutare se le circostanze concrete esigano una condotta diversa da quella prescritta dalle stesse linee guida. Pertanto, qualora il medico non rispetti le linee guida il giudice deve accertare, anche con l'ausilio di consulenza preordinata a verificare eventuali peculiarità del caso concreto, se tale inosservanza sia stata determinante nella causazione dell'evento lesivo o se questo, avuto riguardo alla complessiva condizione del paziente, fosse, comunque, inevitabile e, pertanto, ascrivibile al caso fortuito" (Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012 - dep. 19/09/2012, p.c. in proc. Ingrassia, Rv. 254618). 6.7. Per ciò che concerne il giudizio espresso dalla Corte di Appello in ordine alla irrilevanza causale dell'omesso tempestivo avviso al personale medico (che ha ritenuto accertato), il ricorrente ne segnala la contraddittorietà per la presenza, in motivazione, dell'affermazione secondo la quale la perdita ematica "qualora immediatamente percepita e tamponata avrebbe, con elevato grado di probabilità scongiurato l'exitus della E.". Si tratta di un'affermazione infondata, posto che quest'ultima asserzione fa riferimento alla valenza impeditivi dell'intervento eseguito quando le condizioni di salute della paziente non fossero state già compromesse in modo irreversibile (e la Corte distrettuale rimarca più volte che ciò accadde al più in venti minuti dall'inizio della perdita ematica); ma per il Collegio territoriale non è stato possibile accertare il momento in cui si ebbe tale irreversibilità, di talché non è possibile neppure affermare che il comportamento alternativo lecito sarebbe stato in grado di evitare l'evento luttuoso. 6.8. Tanto ritenuto, va aggiunto che il Collegio territoriale, dopo aver affermato che "non può ritenersi connotata dagli estremi della colpa la condotta degli imputati ... non potendosi la condotta positiva omessa qualificarsi dovuta", ha anche giudicato non esigibile la condotta doverosa "in ragione della acciarpata organizzazione del reparto". Pertanto il giudice di secondo grado ha comunque ritenuto non rimproverabile agli imputati l'omissione di un controllo scandito da frequenze temporali più ravvicinate, perché concretamente non attuabile e per cause non disponibili agli imputati medesimi. Questo specifico profilo dell'ascrizione colposa, che si è manifestato nella sua centralità nella scelta della formula assolutoria ("il fatto non costituisce reato") non è stato minimamente considerato dal ricorrente e pertanto rimane incontestato il giudizio espresso al riguardo dalla Corte di Appello. 7. Segue al rigetto del ricorso, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18/6/2013. Depositato in Cancelleria 23 set. 2013