IL PROCESSO PENALE AVVIO DEL PROCESSO PENALE L`alto

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IL PROCESSO PENALE AVVIO DEL PROCESSO PENALE L`alto
IL PROCESSO PENALE
AVVIO DEL PROCESSO PENALE
L’alto medioevo ha trasmesso all’età comunale due modi di persecuzione dei reati: l’accusa
privata (già prevista dal diritto romano e contemplata anche dai diritti germanici), e l’inchiesta ex
officio del giudice. La prima era la forma ordinaria di processo e piaceva particolarmente alla
popolazione, perché, una volta venuta meno la faida (la vendetta privata) di origine barbarica e col
tempo vietata dalle stesse leggi germaniche, si sentiva così investita di un mezzo legale per incitare
i pubblici poteri, tramite una denuncia, a dare all’offeso quella soddisfazione che non poteva più
prendersi da solo con l’autogiustizia.
L’inchiesta ex officio del giudice era stata praticata nel regno longobardo e in quello franco
nei confronti dei soli reati più gravi, a cominciare dalla lesa maestà, e rimase in vita nei comuni
cittadini, anche perché i consoli, all’assunzione della carica, prestavano giuramento di inquirere (di
indagare) sui reati. Questo mezzo di avvio dei processi era destinato a divenire, a partire dal 200, il
mezzo ordinario di avvio di un processo, in linea con l’acquisizione di sempre più cospicui poteri
politici da parte degli ordinamenti cittadini e delle monarchie che stavano sorgendo nel contesto
europeo.
§ Il procedimento per accusa e per denunzia
In base agli statuti cittadini più antichi l’accusa doveva essere presentata con le forme e le
caratteristiche proprie del processo civile. Così dichiaravano anche le Consuetudini di Milano del
1216: non si faceva nessuna differenza tra la richiesta di ottenere la punizione del colpevole di un
reato o la richiesta in via civile di un risarcimento del danno. Anche negli statuti di Bergamo,
Brescia e Pistoia si accomunavano (sotto le stesse rubriche) attore e accusatore, reato e negozio
giuridico. Di conseguenza il processo per accusa iniziava con la presentazione del libello
introduttivo della lite contenente la pretesa dell’accusatore e con la citazione del reo. Nel giorno
fissato per la prima udienza l’accusatore ripeteva le sue affermazioni e l’accusato rispondeva,
secondo il classico schema della litis contestatio romana.
Il libello accusatorio era concepito come quello del processo civile: Titius est fur, latro,
homicida, e venivano elencate le prove. Tuttavia queste formalità civilistiche non resistettero a
lungo e si arrivò ben presto ad un rito accusatorio speciale e semplificato per cui, in seguito alla
presentazione dell’accusa, bastava la semplice iscrizione del nome dell’imputato nel “libro dei rei”
del comune.
Non tutti potevano accusare: erano esclusi gli incapaci di intendere e di volere, gli eretici, gli
ebrei, i poveri, i malfamati per delitti commessi. Se l’accusatore in corso di causa desisteva
dall’accusa il processo non si estingueva ma veniva portato avanti dal fisco, interessato al
versamento della pena pecuniaria.
Una volta ricevuta l’accusa da parte del notaio del Comune, il messo pubblico citava il reo a
comparire, per tre volte consecutive entro 9 giorni, a voce in tribunale, o con atto scritto consegnato
al domicilio, o con citazione pubblica nella pubblica piazza o in chiesa durante la messa.
L’accusatore era tenuto a presentare le prove di quanto asserito, altrimenti veniva a sua volta
perseguito per calunnia ai danni dell’accusato. Il reo si difendeva invece con le eccezioni, di cui era
tenuto a provare il contenuto, e con le allegazioni del suo avvocato. La sentenza veniva letta
pubblicamente.
Oltre al processo per accusa, gli statuti cittadini prevedevano l’obbligo per i pubblici
ufficiali di denunciare i reati di cui erano venuti a conoscenza attraverso la denunzia.
§ Il procedimento inquisitorio o d’ufficio.
A partire dal 200 l’inquisizione venne imposta ai consoli per i reati più gravi, quali lesa
maestà, ladroni di strada, grassatori (rapinatori), lenoni, sacrileghi e falsari, ma non tardò ad
estendersi a tutti i reati.
L’inquisizione si articolava in due forme: quella singolare o speciale, contro una specifica
persona indicata per nome; quella generale, detta anche preparatoria o solenne, quando il giudice
indagava circa un reato al fine di raccogliere gli indizi e di sentire la voce pubblica affinché
emergesse il nome di un indiziato per cattiva fama (infamatus). Per provare la cattiva fama
(infamia) dell’inquisito bastavano due o tre testimoni di buona fama, e l’inquisito avrebbe poi
potuto opporre che quelle voci partivano da suoi nemici, al fine di inficiarle.
Contro l’indiziato veniva poi istruita l’inquisizione speciale, condotta per iscritto, poiché la
regola era che gli indizi, le testimonianze e la voce pubblica venissero redatti per iscritto. In una
prima fase in cui il processo accusatorio rappresentava ancora il processo ordinario, il giudice,
prima di procedere con l’inquisizione speciale doveva chiedere alla parte offesa se intendeva
procedere con l’accusa oppure no.
L’inquisito doveva essere citato e dovevano essergli consegnati i capitoli dell’inchiesta (che
ne indicavano l’oggetto). In una prima fase storica che arriva fino al XV secolo veniva comunicato
all’inquisito anche l’elenco dei nomi dei testimoni, per consentirgli di opporre le relative eccezioni
e doveva essere citato anche all’audizione dei testi per poter sollevare eccezioni anche contro le
deposizioni. Era dunque prevista una discreta serie di garanzie e un certo diritto di difesa.
L’imputato di reati particolarmente gravi (atroci) o recidivo o su cui gravavano pesanti
indizi o testimonianze di almeno due persone di buona fama veniva incarcerato, mentre negli altri
casi godeva di libertà provvisoria prestando le dovute cauzioni con cui si impegnava a non fuggire.
Nei reati più gravi, quali eresia, omicidio, furto, incendio si procedeva in tempi brevissimi:
si comunicava all’imputato l’atto di inchiesta ma non gli si comunicavano i nomi dei testimoni; non
c’era alcuna pubblicità del giudizio, tutto era coperto da segretezza, e non era neppure prevista
l’assistenza di un avvocato negli interrogatori. Soltanto prima della sentenza l’imputato poteva
presentare la sua difesa e produrre suoi testimoni.
§ Il procedimento criminale a Napoli e in Sicilia.
La dominazione normanna introdusse nell’Italia meridionale alcuni istituti procedurali tipici
della Francia settentrionale.
Il procedimento ordinario era quello accusatorio, ma i Normanni introdussero anche il
procedimento straordinario per inquisizione, visto come potere generale del giustiziere di
investigare sulle condizioni della criminalità all’interno della sua provincia: non si trattava dunque
dell’inchiesta relativa ad un singolo fatto, ma di una generalis inquisitio circa i reati commessi in
una determinata provincia: bastava la pubblica fama circa la commissione di delitti nella zona, e se
emergeva qualche notizia concreta, il giustiziere era obbligato a procedere contro l’indiziato.
Accanto a questa inquisitio generalis era poi prevista anche un’inquisitio specialis, però nei
soli casi tassativamente stabiliti dalla legge, in relazione ai reati più gravi tra cui la lesa maestà. Per
praticarla era inoltre necessario l’autorizzazione del re, al quale si dovevano comunicare gli estremi
del reato, il nome del delatore e le persone dei testimoni.
Gli Angioini e gli Aragonesi che succedettero ai Normanni sui troni ormai sdoppiati di
Napoli e di Palermo mantennero le due inquisizioni: quella generale che dovevano compiere ogni
anno i giustizieri nella loro provincia, e quella speciale che veniva disposta con ordine del re contro
gli imputati di gravi crimini, ma le estesero a tal punto da suscitare le proteste della popolazione,
spaventata da questa procedura segreta, arbitraria, che nasceva da denunce anonime e da delazione,
senza diritto alla difesa, spesso strumento di vendette personali e di persecuzioni politiche. Si può
dire che ormai l’inquisizione era divenuto il processo ordinario, a differenza da quanto sancito dalla
precedente legislazione normanna.
§ La parte civile.
L’origine dell’istituto della parte civile è certamente italiana. L’azione civile apparteneva –
come ora – al danneggiato dal reato e poteva essere esercitata davanti allo stesso giudice e nello
stesso tempo dell’esercizio dell’azione penale (in alternativa ad un’autonoma azione civile da
proporre dopo la pronuncia della sentenza penale), al fine di ottenere il risarcimento del danno a lui
derivante dal reato. Il privato danneggiato poteva intervenire non solo nel processo accusatorio ma
anche in quello avviato d’ufficio dal giudice col rito inquisitorio.
§ Il procedimento penale dal sec. XVI alla fine del sec. XVIII.
In Italia, sotto le monarchie e le dominazioni straniere che si affermano dal XVI secolo, la
giustizia penale fu dominata dalla ragione di Stato, divenne cioè onnipotente per la quasi totale
mancanza di garanzie processuali, e si rafforzò attraverso gli strumenti dell’intimidazione e della
segretezza propri del rito inquisitorio. Il processo penale risentì in sostanza di tutti i difetti tipici
degli ordinamenti di antico regime, privi di regole certe, caratterizzati dall’arbitrio dei pubblici
funzionari e dai privilegi di ceto. Ciò che occorreva era punire il delitto, ne crimina maneant
impunita.
In sostanza, dal XVI sec., dominava il principio che lo Stato dovesse difendersi e garantire
l’ordine sociale con tutti i mezzi, e principalmente con l’inquisizione segreta.
§ Avvio del processo.
Appena il reato era scoperto o denunciato, anche in forma anonima, il giudice iniziava la sua
inchiesta segreta: doveva interrogare le persone potenzialmente al corrente del reato attraverso
un’inchiesta generale da cui doveva scaturire il nome del diffamato, anche sulla base di due sole
testimonianze o della pubblica voce attestata anch’essa dalla testimonianza di due persone di buona
fama.
Si passava poi all’inquisizione speciale, nella quale si obbligavano i testimoni a presentarsi
davanti al giudice e rendere la loro deposizione: tutto ciò avveniva in segreto ma se ne redigeva
processo verbale. Sulla base delle deposizioni raccolte dai testimoni, ai quali si poteva anche
applicare la tortura se reticenti, il giudice decideva se citare il reo o disporne l’arresto.
La citazione veniva intimata con le forme proprie del processo civile. La citazione poteva
essere fatta a voce, dal giudice al reo, se questi era presente in tribunale; la regola era però quella
della comunicazione scritta della citazione presso il domicilio del reo, e ripetuta per tre volte a
intervalli regolari (in genere di 3 giorni), con indicazione del termine perentorio nel quale
comparire, in genere a distanza di 10 giorni, in un giorno non festivo. Le tre citazioni obbligatorie
potevano anche essere eseguite contestualmente, e si prestava fede alla relazione del messo
pubblico che dichiarava di averle eseguite correttamente. La citazione doveva essere eseguita in un
giorno non festivo, dall’alba al tramonto. Qualora il messo non trovasse il citando nella sua
abitazione, affiggeva l’atto di citazione sulla porta di casa. Era possibile anche la consegna dell’atto
di citazione non direttamente al reo ma a persona di famiglia presente nel domicilio del reo.
Vi era poi la citazione pubblica, detta per edictum (edictalis), cioè per proclama affisso in
luogo pubblico (alla porta del tribunale o in altro luogo pubblico), o anche letto pubblicamente nella
chiesa cattedrale o nella piazza principale, con gli stessi effetti di una comunicazione fatta al
domicilio. Questa modalità era utilizzata per citare le persone giuridiche (le associazioni di
persone), gli ecclesiastici, che venivano chiamati in giudizio con affissione della citazione in chiesa,
considerata loro domicilio, i latitanti (fuggitivi), di cui si ignorava il domicilio, e infine tutti quei
soggetti di cui era nota la prepotenza e l’aggressività, che si temeva avrebbero minacciato o
addirittura aggredito il messo pubblico in caso di citazione al domicilio.
Se il citato compariva in giudizio, il citato riceveva comunicazione dei capitoli dell’inchiesta
condotta contro di lui, dopo di che o veniva rimesso in libertà (con o senza cauzioni), oppure veniva
arrestato.
Il mandato di cattura era lasciato all’arbitrio del giudice, che poteva disporlo anche in
presenza di deboli indizi a carico dell’indagato.
A questo punto iniziava l’esame dell’inquisito, attraverso il suo interrogatorio, preceduto dal
giuramento de veritate dicenda: le domande e le risposte dovevano essere messe per iscritto in
forma non abbreviata; le domande dovevano essere formulate dal giudice in modo non suggestivo
delle risposte e senza minacce né promesse di impunità; in questa fase non si applicava la tortura.
Terminato l’interrogatorio, l’imputato, anche arrestato, poteva chiedere la libertà provvisoria
(abilitazione), salvo che il reato fosse punito con la pena di morte, il reo avesse confessato
spontaneamente durante l’interrogatorio o fosse stato preso in flagrante. La libertà provvisoria
veniva concessa dietro il versamento di una cauzione.
IL PROCESSO PENALE CONTUMACIALE
L’inosservanza della citazione a comparire in giudizio per rispondere di un delitto era
considerata una disobbedienza agli ordini del magistrato e pertanto era reputata a sua volta un
delitto e la sanzione stabilita dagli statuti comunali era in genere il bando (bannum), l’esilio.
Se il contumace colpito da bando non si presentava davanti al giudice entro 10 giorni
incorreva nella confisca dei beni. Per i citati per i crimini più gravi, quelli puniti con la pena
capitale, la mutilazione o il carcere perpetuo, e rimasti contumaci, era disposto che chiunque
potesse ucciderli impunemente perché la contumacia era equiparata a confessione; per lo stesso
motivo, se cadevano nelle mani dell’autorità, la pena nei loro confronti veniva immediatamente
eseguita. Erano perciò denominati forgiudicati, perché venivano giudicati al di fuori di ogni rito e
forma giudiziaria.
LE PROVE
§ Il giuramento purgatorio e il duello.
A partire dall’anno Mille vennero progressivamente abbandonate le prove ordaliche (i giudizi
di Dio) di origine germanica e si ritornò alle prove razionali (cioè non fondate su elementi
metafisici) già previste dal diritto romano e praticate anche nell’alto-medioevo dai tribunali della
Chiesa, che ovviamente avversava le prove ordaliche volte a strumentalizzare il potere divino e a
sollecitarne a comando una manifestazione nelle vicende umane.
Tuttavia non fu facile l’abbandono delle prove materiali, poiché rispondevano ancora alla
mentalità dominate nei primi tempi dei comuni. Si conservò così in alcune località il giuramento
purgatorio, con cui un accusato di delitto si liberava dall’accusa, se mancavano testimoni oculari del
delitto, giurando davanti a Dio la sua innocenza. Era però necessario che l’imputato non fosse di
cattiva fama e che gli indizi contro di lui fossero debolissimi, tali cioè da escludere il ricorso alla
tortura, o che questa non fosse comunque praticabile per ragioni di età o di classe sociale. Talvolta
era previsto che, insieme all’imputato, giurassero altre persone disposte a giurare circa la sua
innocenza.
Eredità del processo barbarico furono anche i giudizi di Dio tra cui il duello, ai quali fecero
ricorso specialmente le città della Lombardia fino al 300, soprattutto per i reati puniti con la pena di
morte, quali l’omicidio, il falso e l’incendio, nell’ambito del processo accusatorio. L’accusato poteva
così sfidare a duello l’accusatore il quale, per non essere punito per calunnia, doveva accettarlo.
Erano poi ancora praticate, ad esempio in Liguria, la prova ordalica del ferro rovente e quella
dell’acqua gelida, con cui l’accusato, se resisteva, si liberava dall’accusa..
Nell’Italia meridionale il duello venne invece vietato da Federico II agli inizi del 200, salvo
che ai nobili quando non fossero esperibili altri mezzi di prova.
§ La prova testimoniale.
A differenza di quanto avveniva nel processo accusatorio, nell’inquisitorio l’esame dei
testimoni rimaneva segreto all’imputato, che dunque non presenziava, come neppure il suo avvocato.
Le deposizioni dei testi rese al giudice rimanevano così segrete per tutta la durata del processo. I
testimoni reticenti venivano sottoposti a tortura.
§ Gli indizi.
Venivano poi gli indizi e le presunzioni, che, presi singolarmente erano prove semipiene,
necessitanti dunque, di essere integrati da altri elementi di prova al fine di costituire una prova piena,
in base al fondamentale principio che governava tutta la materia probatoria secondo cui “quae
singula non prosunt collecta iuvant”: singoli elementi di prova di per sé insufficienti possono
contribuire, se assommati ad altri, a creare una prova piena.
In base alla loro qualità gli indizi si distinguevano in dubitati (cioè dubbi) e indubitati (cioè
fortemente probabili: ad esempio in materia di furto si reputavano indizi indubitati il rinvenimento
presso l’indagato della refurtiva, la sua condizione di povertà e l’aver cominciato a spendere molto,
essere stato visto nascondere cose sotto i vestiti); prossimi e remoti a seconda del loro grado di
approssimazione al reato (ad es. era indizio prossimo di omicidio la presenza dell’imputato armato
sul luogo del delitto, e indizio remoto un litigio tra lui e la vittima qualche giorno prima
dell’omicidio); gravi o lievi; anteriori e posteriori al delitto; connessi alla persona dell’indiziato o al
fatto.
§ La perizia.
In caso di ferite e lesioni era previsto il ricorso a periti, cioè a persone competenti, il cui
parere veniva confrontato dal giudice con le risultanze probatorie. In realtà il perito non era
considerato fonte di prova ma un ausiliario del giudice che era libero di attenersi al responso oppure
di respingerlo.
Col tempo si affermò però l’orientamento di considerare la perizia una forma di
testimonianza, che quindi doveva sottostare alle regole relative alla prova testimoniale: erano
pertanto necessarie due perizie di due diversi periti, e in caso di discordanza il giudice poteva o
attenersi ad uno dei due, o non seguirli entrambi o nominare un terzo perito. La loro deposizione era
accompagnata da giuramento de credulitate (cioè di buona fede).
§ La confessione.
La confessione, giudiziale (quella extragiudiziale doveva essere però provata da testimoni),
aveva invece la più completa efficacia probatoria e si presentava come prova piena in pregiudizio di
chi confessava, definita pertanto “optima regina probationum”: ottenuta la confessione dell'imputato,
non era più necessario il ricorso ad altre prove. Era però necessaria la capacità di agire del soggetto,
che non doveva essere minore d’età o insano di mente.
Si può dire che il processo penale era tutto preordinato al fine di ottenere la confessione
dell’imputato: da ciò l’uso della tortura. Era però necessario che ci fossero anche degli indizi contro
l’imputato che rendeva la confessione,
La confessione, anche quella ottenuta con la tortura, doveva essere chiara, consapevole,
verosimile, probabile e specifica.
§ La tortura.
La tortura fece il suo ingresso nei processi quando papa Innocenzo IV, nel 1252, con la bolla
Ad exstirpanda, ne approvò l’uso in materia di eresia, per indurre gli eretici a confessare. Da quel
momento anche le autorità civili vi fecero ricorso per i reati più gravi, contro assassini, banditi, ladri,
per poi estenderne l’uso anche ai reati puniti con pena pecuniaria: vi si procedeva in assenza di una
prova piena (reo convinto) o se l’imputato non confessava spontaneamente durante l’interrogatorio
(reo negativo).
Per procedere alla tortura era necessaria la presenza di indizi contro l’imputato (indicia ad
torquendum), non così forti e fondati però come quelli richiesti per sostenere una sentenza di
condanna (indicia ad condemnandum): bastava ad esempio un rapporto di inimicizia personale tra
l’indagato e la vittima del reato, o aver visto l’imputato nei pressi del luogo del delitto poco prima o
poco dopo il delitto, o semplicemente la sua cattiva fama.
La tortura si divideva in gradi di durezza, a seconda della qualità del fatto, della persona e
della natura degli indizi contro l’imputato.
La tortura più praticata, specialmente dal 500, era la corda, i tratti di corda, che finivano col
comportare lo slogamento delle ossa delle braccia: si legavano le mani dell’imputato dietro la
schiena con una fune che passava attraverso una carrucola infissa nel soffitto e lo si sollevava in aria
per poi lasciarlo cadere giù di colpo, dandogli in tal modo quelli che si definivano i tratti di corda, o
scosse; per rendere il tormento più penoso si potevano anche legare ai piedi dei ferri pesanti.
Prima di procedere alla tortura, però, veniva fatta un’ammonizione, se non sortiva effetto si
passava alla territio, cioè alla semplice visione degli strumenti di tortura nella stanza dei tormenti; se
anche questa non sortiva effetto si procedeva con la tortura. Tutti i decreti di tortura dovevano essere
notificati all’imputato in quanto erano appellabili, salvo che fossero stabiliti da tribunali supremi.
Le risposte dell’imputato venivano raccolte durante il tormento, che veniva interrotto se
l’inquisito dichiarava di voler confessare. Vi assistevano il giudice, il cancelliere, un medico pronto
a curare le ossa slogate o altre ferite, ma non l’avvocato o il procuratore del reo. Il giudice doveva
tenere conto del tempo di applicazione della tortura e annotarne la durata, ma senza rendere
l’orologio visibile al torturato.
Il grado più lieve di tortura era inflitto ai minori d’età e, in caso di gravi reati, ai nobili e ai
dottori, normalmente eccettuati dall’uso della tortura: in tal caso si procedeva a tratti di corda per
sette minuti e senza sconquassamento delle braccia.
Il secondo livello veniva inflitto a persone di umile condizione o di cattiva fama, accusati di
delitti gravi e con indizi indubitati: durava da 15 a 60 minuti con sconquassamento delle braccia. Il
terzo e ultimo livello si applicava per delitti atrocissimi in presenza di gravi indizi.
In materia di tortura fu sicuramente sperimentato quanto di più crudele potesse immaginare la
mente umana: si andava dal digiuno alla veglia protratta, dal fuoco alle piante dei piedi al
soffocamento con l’acqua; c’era poi la c.d. tortura della capra che consisteva nel bagnare con acqua
salata i piedi dell’imputato che venivano così leccati da una capra fino a scarnificarli e raggiungere
le ossa; aputazione degli organi della vista e dell’udito e così via.
La confessione così estorta, però, non portava alla condanna, perché doveva essere
confermata lontano dal luogo del tormento a distanza di 24 ore, davanti al giudice. Se la confessione
veniva revocata, si procedeva nuovamente con la tortura fino ad una terza volta ma solo in presenza
di indizi indubitati; se anche a questo punto la confessione estorta non veniva ratificata, qualunque
delitto fosse, l’imputato non poteva che essere condannato ad una pena straordinaria, dunque più
mite, quale il remo o l’esilio. La pena veniva dunque ugualmente comminata perché si era in
presenza di indizi indubitati contro l’imputato.
La tortura, oltre che agli inquisiti, si applicava anche ai testimoni reticenti o sospettati di
falso, sia nel processo accusatorio che, soprattutto, in quello inquisitorio.
Non erano sottoponibili alla tortura gli anziani sopra i 63 anni, i malati e gli infermi, le donne
in stato di gravidanza o che avessero partorito da pochi mesi, gli ecclesiastici e i titolari di cariche
pubbliche.
Al reo che avesse già confessato si applicava la tortura per strappargli la confessione relativa
ad altri delitti da lui commessi o i nomi dei complici.
LE DIFESE
Una volta istruito il processo, il giudice fissava all’inquisito il termine per produrre le sue
difese, le sue prove a discolpa, termine variabile in base alla natura del delitto. Prima però di venire
alle difese, venivano ripetute le prove testimoniali contro l’indagato che assisteva (repetitio testium
requisito reo): in questa fase i testimoni ad accusa ratificavano le loro prime deposizioni, altrimenti
venivano incarcerati, torturati e puniti come spergiuri.
Una volta esaurite anche le difese dell’indagato, attraverso la produzione di mezzi di prova
(specialmente testimonianze) a sua discolpa, il processo veniva reso pubblico al difensore cosicché
potesse esaminarlo (pubblicazione del processo): gli si dava copia degli atti processuali, con le
deposizioni dei testimoni (i c.d. testimoni fiscali) e con le risposte dell’imputato all’interrogatorio
prima e durante la tortura.
La fase difensiva era talmente compromessa dall’andamento della fase istruttoria da perdere
praticamente la sua ragione d’essere: nel caso di rei confessi all’avvocato non restava che sostenere
che la confessione era stata estorta o non era sufficientemente circostanziata, e non è difficile
immaginare il successo di una simile linea difensiva... I rei negativi, cioè che non avevano
confessato nemmeno in seguito a tortura, non potevano che sperare nell’assoluzione o almeno in una
condanna a pena ordinaria, a prescindere dall’intervento dell’avvocato.
LA SENTENZA
Espletata anche questa pratica, il giudice emetteva la monitio ad sententiam, in mancanza
della quale la sentenza sarebbe stata nulla. Tale monizione conteneva l’indicazione del giorno in cui
la sentenza sarebbe stata pronunciata.
La sentenza doveva essere scritta e letta dal giudice, di giorno, pubblicamente in un’aula del
tribunale. In via consuetudinaria si affermò però la prassi di far leggere la sentenza dal cancelliere.
La condanna era alla pena ordinaria stabilita dalla legge se il giudice riteneva raggiunta la
prova legale (reo convinto) o se il reo aveva confessato in seguito alla tortura (reo confesso);
altrimenti si condannava ad una pena straordinaria più mite, stabilita dal giudice a suo arbitrio, in
casa di mancato raggiungimento della prova legale.
La sentenza doveva poi contenere la condanna alle spese processuali, poste a carico del
condannato, o dell’accusatore in caso di assoluzione. Ma la sentenza di assoluzione era molto
difficile da ottenere: dovevano esserci solo deboli indizi e assenza di confessione anche in seguito
alla tortura.
La sentenza di condanna passava immediatamente in giudicato come anche quella di
assoluzione con formula piena, cioè per provata innocenza dell’imputato: in tali casi non erano
ammessi ulteriori gradi di giudizio In caso invece di assoluzione per mancanza di prove (sentenza
absolutoria stantibus rebus prout stant, o anche absolutoria ab observatione iudicii), il processo
avrebbe potuto essere ripetuto fino a tre volte nell’arco di 10 o 20 anni a seconda dei reati e delle
previsioni statutarie in materia di prescrizione delle azioni.
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA
La motivazione della sentenza non era obbligatoria: le leggi e la dottrina, infatti, non la
richiedevano, e sarebbe stato pericoloso per il giudice formularla ugualmente, poiché la sentenza
avrebbe potuto essere dichiarata nulla in un successivo grado di giudizio se la motivazione fosse
stata trovata errata; pertanto i giudici scelsero, per lo più, di non motivare le proprie pronunce sia
nelle cause civili che in quelle penali, e qui con conseguenze ancora più devastanti per le più gravi
implicazioni.
L’obbligo della motivazione della sentenza verrà invece strenuamente sostenuto e difeso
dalla dottrina illuministica settecentesca, per liberare le parti dall’arbitrio dei giudici e per sottoporre
i giudici a controllo e alle conseguenti responsabilità per scorretta amministrazione della giustizia;
verrà così introdotto nelle legislazioni italiane e più in generale europee a partire dalle moderne
codificazioni ottocentesche.
RIMEDI CONTRO LE SENTENZE
Formalmente era prevista, sia dagli statuti che dalla dottrina processualistica, la possibilità di
appello contro la sentenza di condanna, che spettava non solo al condannato ma anche ai suoi parenti
e addirittura a chiunque fosse a conoscenza di un motivo per invalidare la sentenza, per ragioni di
solidarietà umana. E l’appello avrebbe sospeso l’esecuzione della sentenza di primo grado, ma il
condannato non sarebbe stato posto in libertà provvisoria.
Nonostante ciò fosse vero in linea di principio, la pratica negava il diritto di appello contro le
sentenze penali, per arginare la grande criminalità, perseguire spietatamente gli accusati e gli
inquisiti, per prevenire i reati attraverso l’intimidazione di condanne immediatamente eseguite.
Era invece ammesso l’appello del fisco contro le sentenze assolutorie per mancanza di prove.
LA QUERELA DI NULLITA'
Più facilmente percorribile era la via della quaerela
nullitatis, se ne ricorrevano i
presupposti.
La querela (già prevista dal diritto romano ma perfezionata nell'età del diritto comune),
veniva utilizzata nei confronti di sentenze particolarmente viziate per la presenza di errori
macroscopici, grossolani, nell'applicazione della legge o per forme e solennità obbligatorie non
osservate.
Dunque, rendevano nulla la sentenza la palese (grossolana) violazione della legge (e
l’interpretazione palesemente falsa della legge) e i vizi procedurali, quali ad esempio l’incompetenza
del giudice, la mancanza della citazione dell’imputato in giudizio, la non stesura per iscritto della
sentenza e la corruzione del giudice.
Il giudizio sulla nullità veniva proposto davanti al giudice di secondo grado, il quale poteva
quindi annullare la sentenza e sostituirla con una nuova pronuncia.
I RIMEDI STRAORDINARI CONTRO LE SENTENZE
Tra i rimedi meno usuali cui ricorrere contro le sentenze c’era la restitutio in integrum, cui
poteva ricorrere il minore d’età in relazione ad un delitto grave o gravissimo per il quale avesse
confessato, poiché non si riteneva verosimile la commissione di tali reati da parte di un minore. Ciò
però non era consentito in caso di indizi indubitati contro di lui.
Anche la revocazione era un mezzo straordinario di impugnazione, volto ad ottenere una
riforma migliorativa della sentenza di primo grado da parte dello stesso giudice che l’aveva
pronunciata: il fine era dunque quello di ottenere una pena più mite. La revocatio andava chiesta
entro due anni dalla sentenza, in presenza di nuovi elementi di prova; se ciò non sortiva l’effetto
voluto, la pena non solo veniva mantenuta ma persino aggravata.
LA GRAZIA
Il rimedio supremo contro le sentenze penali era però la gratia, come ricorso al principe, al
sovrano svincolato dall’osservanza delle leggi, dunque un rimedio dipendente dalla benignità del
sovrano. Essa trovava il suo fondamento sia nelle norme romanistiche che prevedevano il ricorso
all’imperatore quale fonte del diritto, sia in quelle canonistiche che statuivano analogamente con
riguardo ai poteri del pontefice.
Tale istituto rappresentava l’unico rimedio offerto al reo per tentare di ribaltare l’esito di
una sentenza di condanna o almeno di mitigarne la pena, posta la generale inappellabilità della
sentenza penale, coerente col ruolo di deterrenza svolto dalla macchina giudiziaria, cui faceva
difetto qualunque effettivo meccanismo di garanzia, inclusi i mezzi di impugnazione.
La grazia accordata dal principe, generalmente in seguito a supplica del condannato o di un
suo familiare, costituiva dunque il solo mezzo capace di sottrarre il reo all’esecuzione della pena,
con cui il sovrano provvedeva a ripristinare, con equità e arbitrio, le esigenze della giustizia o le
istanze etiche che l’ordinamento non era stato in grado di assicurare.
Le forme tecnicamente assunte da questo esteso potere di grazia, nelle sue molteplici
manifestazioni pubbliche, furono numerosissime: lettere di abolizione, di remissione, di perdono,
riscatto di bando e di galera, commutazione di pena e riabilitazione: una clemenza regia che
trovava particolare incremento in occasione delle felici circostanze della casa reale o del fastoso
ingresso di principi e sovrani nelle città sottoposte.
C’erano poi le concessioni di commutazione delle pene volte ad ottenere incrementi di
risorse da parte del potere regio, basti pensare alla commutazione, diffusissima in tutta Europa fino
alle soglie dell’Ottocento, tra pena e servizio militare, tra pena capitale e invio al remo sulle galere
destinate alla pirateria o alla guerra, o ancora tra pena e collaborazione alla cattura di altri rei,
spesso appartenenti a bande armate. La complicata recita del potere di stampo assolutistico, che
oscillava tra clemenza e rigore, tra esemplarità e perdono, spiega questi singolari istituti tipici della
giustizia punitiva di antico regime.
Nel Ducato di Milano, sotto la corona spagnola degli Asburgo (XVI-XVII sec.), erano tre i
protagonisti della concessione delle grazie, come chiarito anche nelle Novae Constitutiones
Dominii Medionalensis di Carlo V del 1541: il sovrano spagnolo, il Governatore del Ducato e il
Senato milanese, la suprema corte di giustizia del Ducato.
Il diritto di concedere le grazie spettava al sovrano, poiché solo lui era sciolto dal vincolo di
osservanza delle leggi. Unico limite per la concessione delle grazie da parte del sovrano era la
legge divina: le pene che trovavano il loro fondamento nella legge divina non potevano essere
condonate e questo accadeva in primo luogo in caso di omicidio premeditato.
Altro limite era quello che il sovrano non potesse concedere grazie per delitti futuri, non
ancora commessi, perché questo avrebbe costituito un chiaro invito a delinquere.
Nella pratica, nel Ducato di Milano il potere di concedere le grazie era esercitato, in luogo
del sovrano, dal Governatore, che era il rappresentante del sovrano (residente in Spagna) all’interno
del Ducato.
La richiesta di grazia rivolta al Governatore doveva innanzitutto specificare il delitto
commesso, se il delinquente si trovava in prigione e se era già stato condannato o graziato per altri
reati. Requisito fondamentale per la concessione della grazia era che il condannato avesse ottenuto
il perdono della parte offesa o dei suoi eredi: la c.d. pace privata o remissio. Era poi necessario che
la grazia non comportasse pregiudizio per terze persone e che non andasse contro l’interesse
pubblico.
Una volta ottenuta la grazia dal Governatore, l’interessato doveva presentarla al Senato
entro il termine di un anno, al fine di ottenerne l’approvazione: era questo il delicatissimo momento
dell’interinazione, attraverso cui il Senato controllava l’assenza di vizi di nullità della grazia
concessa dal Governatore: questi vizi potevano derivare o dall’inosservanza dei requisiti richiesti
per la sua concessione (assenza di premeditazione nell’omicidio, rispetto dei diritti dei terzi e del
pubblico interesse), oppure da vizi già presenti nella supplica rivolta dal condannato che potevano
consistere o in affermazioni false fatte dal supplicante (obreptio) o in omissioni di verità
(subreptio). Se venivano riscontrati vizi che rendevano la grazia nulla, il Senato non la approvava
e se il vizio era già presente nella supplica il richiedente poteva essere ucciso impunemente da
chiunque. In caso di grazia ottenuta da un omicida (purché non ci fosse premeditazione), il Senato
generalmente disponeva nei confronti del reo l’esilio annuale o biennale.