latino - Nuove Scuole
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PROGRAMMA CLASSE V LICEO CLASSICO LATINO L’ETA GIULIO CLAUDIA. FEDRO. SENECA. LUCANO. PERSIO PLINIO IL VECCHIO PETRONIO QUINTILIANO MARZIALE PLINIO IL GIOVANE TACITO APULEIO LA LETTERATURA CRISTIANA TERTULLIANO MINUCIO FELICE SANT’AGOSTINO L’Età Giulio-Claudia Tiberio Augusto non ha avuto eredi diretti poiché tutti coloro che egli designava inspiegabilmente moriva prima di potergli succedere. Così quando morì nel 14 Tiberio, figlio della terza moglie di Augusto, prese il suo posto. Il suo regno venne valutato dagli storici in maniera contraddittoria poiché Velleio Patercolo lo esaltò con toni adulatori, mentre Tacito lo descrisse come un tiranno ipocrita tenebroso e crudele. In realtà egli seguì inizialmente una politica moderata cercando un punto d’equilibrio tra le istanze del Senato e le pressioni del popolo, limitò le spese, rafforzò i confini dell’impero e inviò in Oriente contro i Parti il nipote Germanico. Si pensa infatti che Tiberio, ossessionato dal potere fece uccidere il nipote, suo successore, in modo da non avere eredi e potesse rimanere unico imperatore. Col passare del tempo infatti egli assunse posizioni sempre più rigide e arrivò addirittura ad incriminare per lesa maestà gli avversari politici in modo da poterli eliminare. Nel 27 si ritirò in isolamento volontario a Capri, ma questo fece accrescere il potere del prefetto del pretorio Seiano che volle organizzare un colpo di Stato che però venne scoperto dall’imperatore che lo fece uccidere nel 31 d.C.. Caligola Quando Tiberio morì nel 37 gli successe il figlio di Germanico Caligola che gli storici definiscono come un uomo malvagio e perverso dal comportamento instabile e stravagante. Ebbe uno scontro con il Senato tanto che pian piano gli tolse il potere che aveva e al suo posto ci fu l’esercito che sostenne l’imperatore. Caligola inoltre voleva abbandonare il principato, instaurato da Augusto, per avviare una monarchia assoluta di tipo orientale nella quale il re era anche un Dio vivente. Dopo solo 4 anni di regno fu ucciso dai pretoriani. Claudio Nel 41 i pretoriani acclamarono imperatore lo zio di Caligola, Claudio. Gli storici come Tacito lo criticano come debole di carattere indulgente ai piaceri e succube delle sue mogli come Messalina, terza moglie, e Agrippina, la quarta. Era un uomo molto colto e aveva grandi capacità organizzative: egli infatti rafforzò il dominio di Roma e ampliò l’impero con la conquista della Britannia. Inoltre snellì l’apparato burocratico imperiale, dividendolo in vari uffici, affidati ai suoi liberti di fiducia, e attuò un’intensa politica di opere pubbliche come la costruzione del porto Claudio a Ostia e il prosciugamento del lago del Fucino. Nel 48 fece giustiziare la terza moglie Messalina, bellissima ma i facili costume che congiurò contro di lui e sposò la nipote Agrippina, che gli fece adottare suo figlio Nerone, che voleva far diventare imperatore e probabilmente fu lei a ucciderlo col veleno nel 54. Nerone Quando Nerone diventò imperatore ebbe la reggenza di sua madre, Agrippina, e del filosofo Seneca e Burro, comandante dei pretoriani e infatti la sua politica restò moderata e tesa a guadagnarsi il favore sia dei senatori che del popolo. Quando ebbe l’età per governare, forse sotto il consiglio di Seneca fece uccidere la madre nel 59 e la sua prima moglie, Ottavia. Inoltre la sua politica cambiò: fece forse uccidere il prefetto del pretorio Burro, che fu sostituito da Tigellino che gli rimase sempre fedele, volle instaurare una monarchia assoluta di tipo orientale, ostacolato però dal Senato. Egli però riuscì comunque a mandare avanti iniziative degne di nota come una riforma monetario, con la quale fece abbassare il valore delle emissioni monetarie in oro e argento, aiutò le classi più povere e rilanciò le attività economiche. Tacito lo definisce come un tiranno megalomane presuntuoso e ambizioso, sadico e privo di ogni scrupolo o remora morale. Si presume sia stato lui a far appiccare l’incendio scoppiato a Roma nel 64 che distrusse gran parte della città e che fornì all’imperatore il pretesto per perseguitare i cristiani che considerava nemici del genere umano. Nel 65 i nemici dell’imperatore organizzarono una congiura mirata ad ucciderlo per sostituirlo con Pisone tanto che fu soprannominata la Congiura dei Pisoni, però Nerone ne fu informato e dei cospiratori alcuni furono giustiziati altri dovettero suicidarsi. Il malcontento però continuò a causa delle ingenti somme di denaro finalizzate alla ricostruzione di Roma e alla edificazione della reggia imperiale, la Domus Aurea, tanto che alla fine scoppiò una ribellione da parte dei governatori delle province occidentali e Nerone non potendo fuggire si fece uccidere da uno schiavo. Dall’anno dell’anarchia alla dinastia Flavia Nel 69 si colloca l’anno dell’Anarchia militare nel quale l’esercitò acclamò tre imperatori insieme: Galba, Odone e Vitellio, ma alla fine scelsero Vespasiano che diede inizio alla dinastia Flavia con i suoi due figli Tito e Vespasiano anche se quest’ultimo si comportò da tiranno. FEDRO Il suo nome greco è Φαίδρος (Phaidros); non è invece certo se il nome in lingua latina fosse Phaedrus o Phaeder. Il latinista francese Louis Havet, curatore nel 1895 di una nota edizione delle Favole, suggerì la forma Phaeder sulla scorta di alcune iscrizioni [1] ma la forma latina Phaedrus è attestata in Cicerone e, in particolare, nei titoli – sia pure aggiunti posteriormente – di tre favole e in Aviano. Egli è pertanto identificato comunemente con Phaedrus. Quanto al luogo di nascita, Fedro stesso afferma di essere nato sul monte Pierio, luogo di nascita delle Muse, che al tempo faceva parte della Macedonia; però egli sembra anche alludere alla Tracia come sua patria, vantata come terra di poeti.[6] È certo che il monte sorgeva in prossimità del confine trace e alla fine del I secolo, una rettifica dei confini delle due province lo ridusse in Tracia. Fedro nacque intorno al 15 a.C. e giunse giovanissimo a Roma come schiavo, forse a seguito della violenta repressione, operata dal console Lucio Calpurnio Pisone, della rivolta avvenuta in Tracia nel 13 a.C. La sua venuta a Roma ancora bambino è stata dedotta dalla sua affermazione [7] di aver letto da bambino il Telephus, una tragedia ora perduta di Ennio; ma non si può escludere, per quanto poco probabile, che egli abbia potuto già studiare latino in Macedonia, e pertanto la questione della data della sua venuta a Roma resta insoluta. Che egli sia stato uno schiavo familiaris, appartenente cioè alla familia di Augusto, e poi emancipato da questo imperatore è attestato nella titolazione manoscritta della sua opera, Phaedri Augusti liberti Fabulae Aesopiae; si deduce che il suo nome, dopo la liberazione, deve essere stato Gaius Iulius Phaedrus, dal momento che i liberti assumevano il praenomen e il nomen del loro patrono. Se Fedro fu effettivamente portato giovanissimo a Roma, potrebbe aver studiato alla scuola dell'erudito Verrio Flacco, tenuta nel tempio di Apollo che sorgeva sul Palatino dove studiavano anche i nipoti di Augusto, Gaio e Lucio, e di quest'ultimo, secondo un'ipotesi potrebbe esser poi divenuto pedagogo, acquisendo quei meriti che, insieme con l'ascesa sociale, lo avrebbero portato alla libertà. Come Fedro stesso ci informa, il ministro di Tiberio, Seiano, lo fece processare, sospettandolo di allusioni sgradite ai potenti. Ne uscì tuttavia indenne, forse anche per la caduta in disgrazia e la morte del prefetto, e poté continuare a scrivere indisturbato fino al regno di Claudio (41-54), a un liberto del quale, Fileto, è dedicato uno dei suoi ultimi componimenti, o forse anche fino al regno di Nerone (54-68). LE OPERE I cinque libri superstiti delle Fabulae consistono di 102 componimenti compresi in cinque diversi codici: • il codice A, o Codex Pithoeanus, cosiddetto perché già appartenente all'umanista Pierre Pithou (1539-1596), risalente al IX secolo; • il codice R, o Codex Remensis, perché proveniente da Reims, del IX secolo, è andato perduto in un incendio nel 1774; • il codice D, o Charta Danieli, perché già appartenente all'umanista Pierre Daniel (1530-1603), del IX o X secolo, frammentato, proviene dal convento di Fleury ed è conservato nella Biblioteca Vaticana; • il codice N, o Codex Neapolitanus, prodotto dall'umanista Niccolò Perotti verso il 1470 da codici perduti; • il codice V, o Codex Vaticanus Urbinas 368, del XVI secolo, derivato forse da N Altre 32 favole – non comprese nei 5 libri canonici, ma certamente autentiche - sono contenute nella cosiddetta Appendix Perottina, tratta nel XV secolo dall'umanista Niccolò Perotti da codici ora perduti. SENECA Lucio Annéo Seneca, figlio di Seneca il Vecchio, nacque a Cordoba, capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane fuori del territorio italico, in un anno di non certa determinazione; i fratelli erano Novato e Mela, padre del futuro poeta Lucano. Le possibili date attribuite dagli studiosi sono in genere tre: il 3 a.C., il 4 a.C. o l'1 a.C.; sono tutte ipotesi possibili che si fondano su vaghi accenni presenti in alcuni passi delle sue opere Particolare De tranquillitate animi e Epistulae ad Lucilium. La famiglia di Seneca, gli Annei, ha origini antiche ed è Hispaniensis, cioè non originaria della Spagna, ma discendente da immigrati italici, trasferitisi nella Hispania Romana nel II secolo a.C., durante la fase iniziale della colonizzazione della nuova provincia. La città di Cordoba, la più famosa e grande di tutta la provincia, aveva assimilato fin dalle origini l'élite economica e intellettuale della popolazione italica; intensi erano i suoi rapporti con Roma e la cultura latina. I DIALOGHI. I Dialogi di Seneca sono dieci, distribuiti in dodici libri: 1. Ad Lucilium de providentia; 2. Ad Serenum de constantia sapientis; 3. Ad Novatum De ira in tre libri; 4. Ad Marciam de consolatione; 5. Ad Gallionem de vita beata; 6. Ad Serenum de otio; 7. Ad Serenum de tranquillitate animi; 8. Ad Paulinum de brevitate vitae; 9. Ad Polybium de consolatione; 10. Ad Helviam matrem de consolatione. I TRATTATI Il De beneficiis risale al periodo 58-62 ed è scandito in sette libri, sviluppa il concetto di "beneficenza" come principio coesivo di una società fondata su una monarchia illuminata. Sembra che sia stata composta quando Seneca si era reso conto del fallimento dell'educazione morale di Nerone. Concetto fondamentale dell'opera è il seguente: il beneficium è un atto di generosità consapevole. Il "De beneficiis" è rivolto ad Ebuzio Liberale, un amico che Seneca frequentò soprattutto durante gli anni successivi al ritiro a vita privata. Seneca analizza il dare ed il ricevere, la gratitudine e l'ingratitudine; mette in luce i forti limiti connessi all'istituto tipicamente romano dei favori reciproci, determinati dai diffusi rapporti clientelari tra i cittadini, ed elabora una nuova concezione di beneficium - favore disinteressato, che possa basarsi su un sentimento di giustizia e non sulla speranza di essere ricambiati. Egli ricorda inoltre come il desiderio di vendetta debba essere estirpato dal proprio animo, poiché il vero sapiens è consapevole del fatto che sia bene restituire al prossimo ciò che da lui riceviamo tranne quando egli ci fa un torto. In tal caso, la patientia, sopportazione stoica derivante dalla propria superiorità alle questioni terrene, è la virtù da coltivare. In un passo di quest'opera egli paragona gli uomini ad un popolo di mattoni, che messi in coesione l'uno sull'altro si sostengono a vicenda e reggono la volta dell'edificio della società. Il De clementia Il De clementia ("La clemenza") fu composto tra il 55 e il 56 e ci è giunto incompleto (non è chiaro se incompiuto o mutilo). L'opera è indirizzata a Nerone, da poco divenuto imperatore, di cui Seneca elogia la moderazione e la clemenza, definita come la "moderazione d'animo di chi può vendicarsi" o l' "indulgenza", e che invita a comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Seneca non mette in discussione il potere assoluto dell'imperatore, ed anzi lo legittima come un potere di origine divina. A Nerone il destino ha assegnato il dominio sui suoi sudditi, ed egli deve svolgere questo compito senza far sentire su di loro il peso del potere. Questa tesi trova il supporto filosofico nella dottrina politica stoica, secondo cui la monarchia è la forma di governo migliore, all'unica condizione che il sovrano sia sapiente, e trattenendo i suoi sentimenti più violenti, sappia esercitare con temperanza il suo potere. Le Naturales quaestiones Sviluppate in sette libri le Naturales quaestiones, sono state composte nell'ultima parte della vita di Seneca. L'edizione a noi giunta non è integrale e differisce quasi sicuramente dall'edizione originale per ordine e composizione. Interessante è il fatto che per molti versi, Seneca appare ben poco stoico e più vicino a considerazioni di tipo platonico, anche se Seneca non rinnegherà il suo stoicismo. Principi "platonici" possono essere ritrovati soprattutto nella prefazione al primo libro, nella quale si avverte un forte contrasto tra anima e corpo (visto come prigione dell'anima) e dalla caratterizzazione trascendentale di Dio privo di corporeità e non immanente. Questi, principalmente, sono gli argomenti su cui Seneca si sofferma: • 1.libro: I fuochi - Gli specchi • 2.libro: Lampi e folgori • 3.libro: Le acque terrestri (completo) • 4.libro: il Nilo - Neve, pioggia, grandine • 5.libro: I venti • 6.libro: I terremoti • 7.libro: Le comete Innanzitutto per comprendere appieno il testo è necessario capire che lo scopo che Seneca si prefigge, non è quello di raccogliere ordinatamente ogni conoscenza dell'epoca (cosa che invece possiamo intendere almeno in parte nel Naturalis historia di Plinio il vecchio) bensì quello di liberare l'uomo dalla paura e dalla superstizione intorno i fenomeni naturali,compiendo così una operazione simile a quella di Lucrezio nel suo De rerum natura (seppur con le dovute differenze ed eccezioni). Affrontando il testo, troviamo fin dalla già citata al primo libro una chiara presa di posizione di Seneca : nella quale si scopre l'intento primo dell'opera : permettere all'uomo, una volta scevro dalle false credenze che avvolgono la natura , di ascendere ad una dimensione più divina. Di particolare importanza sono il paragrafo 8-9: Hoc est illud punctum quod tot gentes ferro et igne dividitur? O quam ridiculi sunt mortalium termini! ("È tutto qui quel punto [la Terra, ndt] che viene diviso col ferro e col fuoco fra tante popolazioni? Oh quanto ridicoli sono i confini posti dagli uomini!"), nel quale l'anima libera oramai dalla sua fisicità, comprende l'inutilità degli affanni, dell'avidità e delle guerre. Spesso quest'opera viene tacciata di poca scientificità, tuttavia viene da domandarsi se si può parlare di scientificità: anche se per certi versi Seneca mostra alcuni atteggiamenti "scientifici", quali l'osservazione diretta, la riflessione razionale posteriore ad essa e la discussione di eventuali altre teorie, per Seneca la conoscenza è solo un mezzo per elevarsi sino a Dio; molto spesso, inoltre, l'autore divaga in argomentazioni e questioni di tipo morale o religioso e non sono rare le parti propriamente "filosofiche". Le Epistole a Lucilio: la lettera filosofica come genere letterario Seneca, nella produzione successiva al ritiro dalla scena politica (62), volse la sua attenzione alla coscienza individuale. L'opera principale della sua produzione più tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di 124 lettere divise in 20 libri di differente estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento indirizzate all'amico Lucilio (personaggio di origini modeste, proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative, di buona cultura, poeta e scrittore). È un'opera sulla quale c'è una discussione se siano vere e proprie lettere inviate da Seneca a Lucilio o una finzione letterale. Verosimilmente si tratta di un epistolario reale (varie lettere richiamano quelle di Lucilio in risposta), integrato da lettere fittizie (quelle più ampie e sistematiche), inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L'opera, che è giunta incompleta e risale al periodo del disimpegno politico (62-63), sebbene l'idea di comporre lettere di carattere filosofico indirizzate ad amici viene da Platone e da Epicuro, costituisce sostanzialmente un unicum nel panorama letterario e filosofico antico, e Seneca è perfettamente consapevole di introdurre un nuovo genere nella cultura letteraria latina. Il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune pratica epistolare, anche da quella di tradizione più illustre, rappresentata da Cicerone. Seneca prende come esempio Epicuro, il quale, nelle lettere agli amici, ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le lettere di Seneca vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos dell'epistolografia antica, Seneca sostiene che lo scambio epistolare permette di istituire un colloquium con l'amico, fornendo un esempio di vita che, sul piano pedagogico, è più efficace dell'insegnamento dottrinale. Seneca, proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell'amico discepolo, lo guida al perfezionamento interiore (per lo stesso motivo, nei primi tre libri, Seneca conclude ogni lettera con una sentenza che offre uno spunto di meditazione. Le sentenze sono tratte da Epicuro, anche se Seneca non si dichiara suo seguace. Egli sostiene, infatti, che ogni massima moralmente valida è utile, da qualsiasi fonte provenga). Lo scrittore ritiene l'epistola lo strumento più adatto per la prima fase dell'educazione spirituale, fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari, più tardi, con l'accrescimento delle capacità analitiche del discendente e del suo patrimonio dottrinale, sono necessari strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi. La forma letteraria si adegua, quindi, ai diversi momenti del processo di formazione e le singole lettere, col procedere dell'epistolario, divengono sempre più simili al trattato filosofico. Non meno importante dell'aspetto teorico è l'intento esortativo: Seneca vuole non solo dimostrare una verità, ma anche invitare al bene. Il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia priva di sistematicità e incline alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti per lo più dall'esperienza quotidiana, sono svariati, e nella varietà, nell'occasionalità e nel collegamento fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità con la satira, soprattutto oraziana. Seneca parla delle norme cui il saggio si deve attenere, della sua indipendenza e autosufficienza, della sua indifferenza alle seduzioni mondane e del suo disprezzo per le opinioni correnti e propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi lo porta ad esprimere una condanna del trattamento comunemente riservato agli schiavi, con accenti di intensa pietà che hanno fatto pensare al sentimento della carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta profondamente aristocratica, e lo stoico che esprime pietà per gli schiavi maltrattati manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbrutite dagli spettacoli del circo. Nelle Epistole, l'otium è costante ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca della sapienza, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il loro benefico influsso sulla posterità. L'opera senechiana, e soprattutto le “Epistulae ad Lucillium”, si inserisce in quel momento storico durante il quale il principato con gli ultimi esponenti della famiglia Giulia stava soffocando le libertà civili e riducendo il senato, un tempo garante del diritto, a semplice strumento sottoposto alla volontà del principe. Si capisce perciò il desiderio di Seneca di scrutare entro la propria coscienza e in essa ricercare i motivi fondamentali delle virtù, e quindi della libertà interiore, attingendo al pensiero di Platone e di Aristotele, ma soprattutto di Epicuro e della scuola stoica. Un Seneca alla ricerca del superamento delle remore negative del suo tempo per proiettarsi in un'area universale, ridiventando così padrone di se stesso. Forse un pessimismo celato e rivolto all'inerzia? I critici, almeno in un primo momento, se lo sono chiesto; tuttavia non si può escludere che egli abbia operato negli anni della sua maturità per evitare gli equivoci, le contraddizioni e ogni forma di egoismo, proiettando nel contempo la persona, data la ricchezza dello spirito, oltre il tempo. Quasi un porsi nella dimensione divina, per cui i beni terreni, fonte di egoismi e di ingiustizie, vengono annullati. E al loro posto ecco la persona conscia della sua dignità. Di qui le tante lettere al suo discepolo e amico, Lucilio, quasi proiezione di se stesso, o almeno di come avrebbe voluto essere. A sostegno di tutto ciò la filosofia, vista come regola di vita. Molti i critici e gli studiosi che vedono negli ultimi scritti di Seneca un allineamento, inconsapevole, alle tesi fondamentali della dottrina paolina; e più tardi quasi ispiratori delle “Confessioni” di Sant'Agostino. Ed è significativo che il pensiero di Seneca nel tempo attuale attragga molte persone e non pochi studiosi alla ricerca di più vasti valori inerenti all'esistenza umana, così da sfuggire alle molteplici sollecitazioni che, tramite i media, cercano di spingere verso un superficiale edonismo. LE TRAGEDIE Le tragedie ritenute autentiche sono nove (qualche dubbio sussiste per l'Octavia), tutte di soggetto mitologico greco. • L'Hercules furens è costruito sul modello dell'Eracle euripideo: Giunone provoca la follia di Ercole. In conseguenza a ciò l'eroe uccide moglie e figli. Una volta rinsavito, determinato a suicidarsi, egli si lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi. • Le Troades è la contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l'Ecuba. La tragedia rappresenta la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti dì fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. • Le Phoenissae è l'unica tragedia senecana incompleta, improntata sulle Fenicie di Euripide e sull'Edipo a Colono di Sofocle. La vicenda ruota attorno al tragico destino di Edipo e all'odio che divide i suoi figli Etèocle e Polinice. • La Medea naturalmente si rifà a Euripide e forse anche a un'omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio. La tragedia narra la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui. • La Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell'Ippolito, di una tragedia perduta di Sofocle e della quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell'incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale, per vendetta, ne provoca la morte denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito. • L'Oedipus, ispirato all'Edipo Re sofocleo, narra il mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e sposo della madre Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità egli reagisce accecandosi. • L'Agamemnon, si ispira, assai liberamente, all'omonimo dramma di Eschilo. La tragedia rievoca l'assassinio del re, al ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell'amante Egisto. • Il Thyestes rappresenta una vicenda mitica già trattata in opere perdute di Sofocle, Euripide e Ennio. Atreo animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. • Nell'Hercules Oetaeus (Ercole sull'Eta, il monte su cui si svolge l'evento culminante del dramma) modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l'amore di Ercole innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d'amore e in realtà dotato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole si uccide ed è assunto fra gli dei. Le tragedie di Seneca sono le sole opere tragiche latine pervenute in forma non frammentaria, costituiscono quindi una testimonianza preziosa sia di un intero genere letterario, sia della ripresa del teatro latino tragico, dopo i vani tentativi attuati dalla politica culturale augustea per promuovere una rinascita dell'attività teatrale. In età giulio-claudia (27 a.C.–68 d.C.) e nella prima età flavia (69–96) l'élite intellettuale senatoria ricorse al teatro tragico per esprimere la propria opposizione al regime (la tragedia latina riprende ed esalta un aspetto fondamentale in quella greca classica, ossia l'ispirazione repubblicana e l'esecrazione della tirannide). Non a caso, i tragediografi di età giulio-claudia e flaviana furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana. Le tragedie di Seneca erano, forse, destinate soprattutto alla lettura, il che poteva non escludere talora la rappresentazione scenica. La macchinosità o la truce spettacolarità di alcune scene sembrerebbero presupporre una rappresentazione scenica, mentre una semplice lettura avrebbe limitato, se non annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico. Le varie vicende tragiche si configurano come scontri di forze contrastanti e conflitto fra ragione e passione. Anche se nelle tragedie sono ripresi temi e motivi delle opere filosofiche, il teatro senecano non è solo un'illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica, sia perché resta forte la matrice specificamente letteraria, sia perché, nell'universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Alle diverse vicende tragiche fa da sfondo una realtà dai toni cupi e atroci, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un rilievo particolare ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall'angoscia. Il despota offre lo spunto al dibattito etico sul potere, che è importantissimo nella riflessione di Seneca. Di quasi tutte le tragedie senecane, restano i modelli greci, nei confronti dei quali Seneca ha una grande autonomia che però presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale l'autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione nell'impianto drammatico. Il linguaggio poetico delle tragedie ha origine nella poesia augustea (cospicua la presenza di Ovidio), dalla quale Seneca mutua anche le raffinate forme metriche, come il particolare tipo di senario, già adottato dal teatro tragico augusteo. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza alla frase sentenziosa, isolata, in netto rilievo, alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi (un verso per ogni personaggio) ed in una costante influenza della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell'enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione nelle tinte fosche e macabre. Spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo scenico isolando singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (forse "pezzi di bravura" destinati ad esser letti nelle sale di recitazione). Uno stile che costituisce un documento tra i più rappresentativi del gusto letterario contemporaneo. Una decima tragedia, l'Octavia, rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone da lui ripudiata, perché innamorato di Poppea, e fatta uccidere. Sì tratta quindi di una tragedia di argomento romano, ossia una praetexta (l'unica rimasta), ma è certamente spuria, sia perché lo stesso Seneca vi compare come personaggio del dramma, sia perché la descrizione della morte di Nerone (avvenuta nel 68, tre anni dopo quella di Seneca), preannunciata dall'ombra di Agrippina, è troppo corrispondente alla realtà storica, inoltre l'autore, che mostra grande familiarità con l'intera produzione di Seneca, trasferisce nella tragedia brani versificati tratti dalle opere filosofiche. L'Octavia quindi, fu scritta in un ambiente vicino a Seneca e pochi anni dopo la sua morte (70-80 d.C.). ANALISI E RAPPRESENTAZIONE DELLE TRAGEDIE Seneca mostra nelle sue tragedie il lato forse più sconosciuto della sua personalità, l'altra faccia di quel vir sapiens et bonus suicidatosi per la giusta causa della libertà, di quel saggio stoico che andava predicando l'imperturbabilità, la giustizia e il Bene. La tragedia è un tipo di rappresentazione teatrale molto antico; l'etimologia del termine, trágos ("capro") e odé ("canto"), rimanda al canto dei capri, ovvero al coro composto dai seguaci di Dioniso mascherati da capri. Si sappia che le fattezze caprine, ma soprattutto quelle dei satiri e dei fauni, vennero prese in prestito dall'iconografia paleocristiana per la rappresentazione del demonio. Ritornando sui nostri passi, le tragedie senecane, spesso a sfondo mitico e con personaggi presi in prestito dalla tradizione mitica e tragediografa greca, si configurano infatti come uno studio oculato e preciso dei comportamenti umani, soprattutto per quanto riguarda le esperienze del Male e della morte. In esse Seneca parla infatti di uccisioni (anche all'interno del gruppo familiare o a danno di amici), di incesti e di parricidi, di rituali di magia nera, di maledizioni e di predizioni quanto mai macabre, di cerimonie di sacrificio e di atrocità d'ogni genere, di crisi d'ira e di gesti incontrollabili, di atti di cannibalismo e di azioni nefaste, di insane passioni e di un uso folle e spregiudicato della violenza. Nelle tragedie senecane domina insomma incontrastato l'irrazionale e il Male. A testimonianza di ciò si nota che Seneca non ricorre all'uso del deus ex machina (ovvero dell'entrata in scena, soprattutto sul finire dello spettacolo, di un dio "volante", sostenuto per mezzo di una fune da un complesso sistema di carrucole: da qui appunto ex machina) per mezzo del quale solitamente si aveva la risoluzione pacifica del dramma (il lieto fine) oltre che la giustificazione del Male compiuto nell'azione. Questo perché le sue tragedie ci offrono uno spaccato di vita (chiamarla quotidiana sarebbe un po' troppo azzardato) nella quale non c'è né rimedio né soluzione alle atrocità commesse. I personaggi sono, in questo senso, comunque condannati: ad esempio Fedra è inevitabilmente destinata al suicidio, in preda al rimorso per l'incesto col figliastro Ippolito. Prototipo maligno per eccellenza è però Medea, colei che invoca rabbiosa e vendicatrice le forze del Male per abbattere e distruggere ogni cosa in modo da rendersi giustizia, dopo essere stata ripudiata da Giasone che in cambio sposa Creusa. Nelle tragedie di Seneca si assiste quindi ad un completo rovesciamento dei punti di vista, secondo cui ciò che apparirebbe naturalmente privo di senso, anomalo e degenerato, finisce per apparire del tutto normale, oltre che lecito. Le anime malate che egli rappresenta sembrano inoltre aver perduto una volta per sempre il senno, ovvero la ragione, senza la quale il mondo sembra essere diventato preda di ombre e di mostri in completa balia del Male e delle forze dell'inferno. L'Apokolokyntosis Il Ludus de morte Claudii (o Divi Claudii apotheosis per saturam) è generalmente noto col nome di Apokolokyntosis, (parola che implicherebbe un riferimento a kolòkynte, cioè la zucca, forse come emblema di stupidità) parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal senato romano alla sua morte. Nel testo di Seneca non si parla di zucche e l'apoteosi non ha luogo; il termine andrebbe dunque inteso non come "trasformazione in zucca", ma come "deificazione di una zucca, di uno zuccone". Tacito (Annales, XIII 3) afferma che Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell'imperatore morto (pronunciata da Nerone), però, in occasione della divinizzazione di Claudio, che aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell'opinione pubblica, potrebbe aver dato sarcastico sfogo al risentimento contro l'imperatore che lo aveva condannato all'esilio (l'opera sarebbe del 54). Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, incontra Augusto che inizia a raccontare tutti i misfatti del suo impero e lo condannano invece a discendere, come tutti i mortali, agli inferi, dove egli finisce schiavo di Caligola e da ultimo viene assegnato da Minosse al liberto Menandro: una condanna di contrappasso per chi aveva fama di esser vissuto in mano dei suoi potenti schiavi. Allo scherno per l'imperatore defunto Seneca contrappone, all'inizio dell'opera, parole di elogio per il suo successore, preconizzando nel nuovo principato un'età di splendore e di rinnovamento. Claudio viene rappresentato come violento, claudicante e gobbo: Seneca calca la mano sui suoi difetti fisici, ribaltando l'attitudine celebrativa di certi scritti con una forma profondamente irriverente. MARCO ANNEO LUCANO Marco Anneo Lucano (Cordova, 3 novembre 39 – Roma, 30 aprile 65) è stato un poeta romano. Figlio di Marco Anneo Mela, era nipote di Lucio Anneo Seneca e, grazie all'influenza dello zio, entrò alla corte di Nerone, in onore del quale proclamò, in una gara poetica di cui risultò vincitore, le Laudes Neronis. Fu questo il periodo più lucente della vita di Lucano. Il suo poema, la Pharsalia (ma nei manoscritti è intitolato Bellum civile, "La guerra civile") fu anche acclamato. Le sorti del poeta, tuttavia, mutarono radicalmente quando cadde in disgrazia presso l'imperatore. Le cause di tale mutamento nei rapporti fra i due non sono chiare. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i motivi risiedessero in un risentimento personale; altri vi hanno visto una logica conseguenza del precedente allontanamento dello zio Seneca; altri ancora hanno imputato la causa principale alla posizione filorepubblicana assunta da Lucano nella sua opera. Nel 65 Lucano prese anche parte alla congiura di Pisone. Quando essa venne scoperta, egli fu costretto al suicidio a soli 25 anni, nonostante gli fosse stata promessa l'immunità in cambio della denuncia della madre; suo padre fu proscritto e sua madre riuscì a fuggire da Roma. Alla sua vedova, Polla Argentaria, Stazio dedicò una delle Silvae. Di Lucano resta l'opera principale, il poema epico in esametri Pharsalia (noto anche con il titolo Bellum Civile), in dieci libri, rimasto incompiuto per la morte dell'autore. Lucano utilizzò molto probabilmente come fonti storiche Tito Livio, Asinio Pollione e Seneca il Retore: tutti storiografi filo-repubblicani; anche se molti studiosi hanno riscontrato distorsioni e deformazioni dei fatti storici apportati dal poeta (soprattutto alla luce dei confronti con il De Bello Civili di Cesare). Lucano elimina del tutto l'apparato divino (in contrasto con la tradizione dei poemi epici), poiché si tratta di una vicenda storica e recupera in parte l'elemento "meraviglioso" con l'introduzione di sogni, visioni, profezie, eventi naturali, pratiche magiche. L'opera è però atipica sin dalla scelta del tema, poiché tutti i poeti latini che si erano occupati di vicende storiche lo avevano fatto con l'intento di celebrare Roma e la sua grandezza; Lucano, al contrario, presenta la guerra civile come un evento funesto che ha innescato la decadenza della Roma repubblicana. La condanna di Lucano è violenta; non si è trattato di una guerra normale, ma di una guerra plus quam civile, poiché Pompeo e Cesare sono legati da vincoli di parentela. Il numero e la varietà delle altre composizioni perdute di cui si ha notizia indicano un'eccezionale precocità artistica, unita a una notevole versatilità. Dai titoli delle opere perdute trapela l'adesione ai gusti neroniani: antichità troiane e poesia di intrattenimento, ricca di spunti occasionali e raffinata nella fattura. Pharsalia è il titolo dell'unica opera rimastaci del poeta latino Lucano. Nei manoscritti che la tramandano è sempre citata come Bellum civile ("La guerra civile"), ma il titolo esatto dovrebbe essere proprio Pharsalia, in base a quello che lo stesso Lucano dice nel IX libro: (LA) (IT) « Pharsalia nostra / vivet, et a « La nostra Pharsalia / vivrà e da nullo tenebris damnabitur aevo » nessuna epoca sarà condannata all'oblio » (Pharsalia, 985 ss.) Il poema epico di Lucano è certo incompiuto e si arresta al X libro. Argomento dell'opera è la guerra civile che oppose Cesare a Pompeo e che ebbe nella battaglia di Farsalo il suo punto culminante (raccontato da Lucano nel VII libro). Fonti di Lucano furono Tito Livio, Asinio Pollione e Seneca il Vecchio. La Pharsalia, nella letteratura latina, rappresenta un poema atipico. Innanzitutto mancano gli interventi divini nelle decisioni e nelle azioni umane, caratteristici nei poemi epici e storici precedenti. Il poeta inoltre canta un avvenimento che egli stesso condanna, e che riconosce come una tragedia nella storia di Roma: ben diversi erano i poemi precedenti che cantavano la gloria dell'Urbe. Il racconto, poi, procede senza alcuna regolarità narrativa: gli episodi vengono selezionati, diluiti o riassunti, a seconda delle necessità del poeta, che imposta quindi in maniera alquanto soggettiva (non mancano neppure i commenti ai singoli episodi) tutta la sua opera. La Pharsalia fu una delle fonti più preziose per Dante Alighieri, che spesso la citò nella Divina Commedia. PERSIO Il poeta nasce a Volterra, Etruria, intorno al 34, da una famiglia piuttosto agiata, non di nobili origini,appartenente all'ordine equestre. All'età di dodici anni si trasferisce a Roma per seguire le lezioni di celebri maestri tra cui principalmente Quinto Remmio Palemone. Dopo soli quattro anni diviene allievo del filosofo stoico Lucio Anneo Cornuto a cui si deve non solo l'impronta stoica nella futura formazione di Persio ma gli offre inoltre l'occasione di conoscere intellettuali come Lucano, Seneca, Trasea Peto, Cesio Basso i quali influiscono notevolmente sulla sua persona sotto ogni aspetto culturale. Dal carattere piuttosto sensibile e riservato, con una buona dose di forte rigore morale, si dedica completamente ai suoi studi supportato dalla madre, dalla sorella e da una zia paterna, nella sua biblioteca contenente più di settecento volumi. Nel 62 d.c muore presso una sua villa alla Spezia, secondo alcuni in seguito ad una grave malattia che colpisce lo stomaco, all'età di ventotto anni. In realtà la notizia suona per alcuni come un autoschediasma derivato dalle Satire: la circostanza della sua morte potrebbe essere semplicemente un'espressione metaforica per indicare che il poeta aborriva il vizio. La sua opera viene in seguito revisionata da Cesio Basso e Lucio Anneo Cornuto prima di essere pubblicata; molte parti, ritenute pericolose a causa del carattere fortemente polemico verso la politica neroniana, sono state di conseguenza eliminate. OPERE Del suo ampio corpus poco ci è giunto: scrisse sei satire su vari argomenti tra cui la vera religione, il conosci te stesso, ripresa dal greco Γνῶθι σεαυτόν, l'avarizia, la libertà del sapiente, la funzione della poesia, la presunzione dei potenti. • I "coliambi" (14 vv) hanno un vero e proprio valore programmatico: l’autore vi sostiene che il suo intento è quello di educare moralmente i suoi lettori, polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo, volte esclusivamente a scopo di piacere ed intrattenimento, e rivendica orgogliosamente l’originalità della sua poesia e della sua ispirazione. • Nella prima satira ripudia la consuetudine delle declamationes (esecuzioni pubbliche in cui si faceva sfoggio della propria conoscenza letteraria fine a sé stessa). • Nella seconda satira attacca le incoerenze dei religiosi che ripongono tutto nei loro Dei senza tentare essi stessi di liberarsi del male che li attanaglia. • Nella terza satira propone la necessità di studi rigidi e severi perché possano essere formativi. • Nella quarta satira sottolinea l'importanza di conoscersi secondo i principi stoici, e la futilità degli affari pubblici. • Nella quinta satira riprende i precetti stoici e da suggerimenti sul come liberarsi delle passioni. Questo è uno dei tratti caratteristici di Persio, che nelle sue satire racchiude anche una funzione pedagogica. Essa si configura come un elogio al maestro Anneo Cornuto. • Nella sesta satira afferma che la vera libertas non è un dato esteriore, proprio di un particolare ceto sociale o politico, bensì essa dipende dall'anima. Affermazione che richiama la frase di Seneca: « La libertà è affrancamento dalle passioni » (Seneca) La satira di Persio si pone dunque come fustigazione del malcostume della società del suo tempo. Auspica a un ritorno in se e manifesta l'importanza di conoscere se stessi, prima di intraprendere qualsiasi cosa e in particolare di criticare gli altri, cosa che i romani di allora sanno fare fin troppo bene. PLINIO IL VECCHIO Gaio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio (Como, 23 – Stabia, dopo l'8 settembre[1] 79), è stato uno scrittore romano. Era proprio del suo stile descrivere le cose in diretta, dal vivo, ed egli è per noi un vero cronista dell'epoca. Morì infatti tra le esalazioni sulfuree dell'eruzione vulcanica del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei, mentre cercava di osservare il fenomeno vulcanico più da vicino. In suo onore viene usato il termine di eruzione pliniana per definire una forte eruzione esplosiva, simile appunto a quella del Vesuvio in cui perse la vita. La Naturalis Historia, che conta 37 volumi, è il solo lavoro di Plinio il Vecchio che si sia conservato. Quest'opera è stata il testo di riferimento in materia di conoscenze scientifiche e tecniche per tutto il Rinascimento e anche oltre. Plinio vi ha infatti registrato tutto il sapere della sua epoca su argomenti molto diversi, quali le scienze naturali, l' astronomia, l' antropologia, la psicologia o la metallurgia. OPERE L'elenco delle opere di Plinio ci è fornito dal su o stesso nipote: • De iaculatione equestri, libro sull'arte di tirare stando a cavallo, frutto della sua esperienza di ufficiale di cavalleria. • De vita Pomponii Secundi, due libri sulla vita di Pomponio Secondo, poeta tragico a cui era legato da amicizia. • Bella Germaniae, venti libri sulle guerre di Germania, che servirono a Tacito per i suoi Annales. • Studiosus, tre libri sulla formazione dell'oratore tramite lo studio dell'eloquenza. • Dubius sermo, otto libri sui problemi di lingua e grammatica che presentavano oscillazioni ed incertezze nell'uso, tenute in gran conto dai grammatici posteriori. • A fine Aufidii Bassi, trentuno libri di storia che riprendevano la narrazione dove aveva concluso Aufidio Basso, ovvero dalla morte dell'imperatore Claudio. • Naturalis historia, trentasette libri che formavano un'opera enciclopedica di larghissimo respiro, l'unica rimastaci per intero. PETRONIO Tacito, nei suoi Annali XVI, 18-19, parla diffusamente di un certo C. Petronio, senza per altro fare alcun riferimento a lui come autore del Satyricon. « Soleva egli trascorrere il giorno dormendo, la notte negli affari o negli svaghi; la vita sfaccendata gli aveva dato fama, come ad altri l'acquista un'operosità solerte; e lo si giudicava non un gaudente e uno scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dilapidano il loro patrimonio, ma un uomo di lusso raffinato. Le sue parole e le sue azioni, quanto più erano libere da convenzioni e ostentavano una certa sprezzatura, tanto maggior simpatia acquistavano con la loro parvenza di naturalezza. Come proconsole in Bitinia tuttavia, e poi come console, egli seppe mostrarsi energico e all'altezza dei suoi compiti. Tornato poi alle sue viziose abitudini (o erano forse simulazione di vizi?) venne accolto tra i pochi intimi di Nerone, come maestro di raffinatezze, nulla stimando Nerone divertente o voluttoso, nello sfarzo della sua corte, se non avesse prima ottenuto l'approvazione di Petronio. Di qui l'odio di Tigellino, che in Petronio vedeva un rivale a lui anteposto per la consumata esperienza dei piaceri. Egli si volge quindi a eccitare la crudeltà del principe, di fronte alla quale ogni altra passione cedeva; accusa Petronio di amicizia con Scevino, dopo aver indotto con denaro un servo a denunciarlo, e avergli tolto ogni mezzo di difesa col trarre in arresto la maggior parte dei suoi schiavi » Segue la descrizione della sua morte: « In quei giorni Nerone si era spinto in Campania, e Petronio, spintosi fino a Cuma, venne qui trattenuto. Egli non sopportò di restare oltre sospeso tra la speranza e il timore; non volle tuttavia rinunciare precipitosamente alla vita; si tagliò le vene e poi le fasciò, come il capriccio gli suggeriva, aprendosele poi nuovamente e intrattenendo gli amici su temi non certo severi o tali che potessero acquistargli fama di rigida fermezza. A sua volta li ascoltava dire non teorie sull'immortalità dell'anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e versi d'amore. Quanto agli schiavi, ad alcuni fece distribuire doni, ad altri frustate. Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l'apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue donnacce e la singolarità delle sue perversioni: poi, sigillatolo, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone » (Traduzione di A. Rindi, Milano 1965) Poche altre notizie aveva dato in precedenza Plinio il Vecchio, per il quale «il consolare T. Petronio, in punto di morte, per odio di Nerone spezzò una tazza marina che gli era costata 300.000 sesterzi, per evitare che la ereditasse la mensa imperiale», mentre Plutarco riprende da Tacito la notizia del testamento di Petronio indirizzato a Nerone, nel quale rinfacciava «ai dissoluti e agli scialacquatori grettezza e sudiciume, come Tito Petronio fece con Nerone». Si tende a risolvere la discordanza del praenomen, Caius in Tacito e Titus in Plinio e Plutarco, a favore del Titus, ritenendo il Caius un errore di amanuense. Il Rose, in particolare, ritiene di identificare nello scrittore il Titus Petronius Niger che fu console suffetto nell'anno 62 o 63. [3] Né Tacito, però, né Plinio e Plutarco identificano il personaggio condannato da Nerone con l'autore del Satyricon: lo ipotizzano per primi l'umanista Giuseppe Giusto Scaligero verso il 1570 e il tipografo e libraio di Orléans Mamert Patisson nel 1575. [4] Le motivazioni addotte a favore di tale identificazione risiedono in una serie di motivi: • il cognomen «Arbiter», presente nei codici del romanzo, coincide con l'appellativo di «arbiter elegantiae» del cortigiano; • l'esser morto in una sua villa a Cuma, in Campania, conferma la famigliarità dello scrittore con questa regione, come si rileva nel romanzo; • alcuni personaggi citati - il cantante Apellete, il citareda Menecrate e il gladiatore Petraite sono personaggi realmente vissuti nella prima metà del I secolo; la lingua, i riferimenti culturali e anche la situazione sociale che emerge dal romanzo rispecchia i caratteri di quel secolo. Satyricon L'opera racconta le vicissitudini di Encolpio, il giovane protagonista, Gitone, il suo amato efebo, e dell'infido amico-nemico Ascilto. L'antefatto, soltanto deducibile, racconta di un oltraggio commesso da Encolpio nei confronti della divinità fallica Priapo, che da lì in poi lo perseguita provocando al protagonista una serie di insuccessi erotici. La narrazione tradotta si apre con una discussione tra Encolpio e il retore Agamennone sul tema della decadenza dell'eloquenza. Il protagonista poi s'allontana per cercare il suo convivente Ascilto, che ritrova in lupanare. Qui i due sono forse coinvolti in un'orgia. Scampatene, Encolpio apprende che Ascilto s'è unito col suo amato Gitone. Da qui la rivalità dei due personaggi che, separatisi, intraprendono due percorsi diversi, per poi ricongiungersi in breve tempo. I due fanno a Napoli, o forse Pozzuoli, i conti col sacrilegio commesso nel tempio di Priapo: la sacerdotessa interrotta durante il rito costringe Encolpio, Ascilto ad un'orgia come metodo di redenzione. In questa è coinvolto anche Gitone, che poi viene spinto ad unirsi con la settene Pannichide. Terminato la vicenda, ritornano tutti a casa. Il racconto da qui si sposta a casa di Trimalcione, un liberto arrichitosi immensamente attraverso l'attività commerciale. Qui s'apre la scena della "cena". Occupando quasi metà dell'intero scritto pervenutoci, l'episodio costituisce la parte centrale dell'opera. Al convivio sono ospiti, oltre ai tre giovani, anche vari personaggi dello stesso rango di Trimalchione. La portata del cibo è spettacolare e altamente coreografica, accompagnata da giochi acrobatici dei servi del padrone di casa e da racconti tra i commensali. I convitati intrattegono poi una lunga conversazione, che tocca i più svariati argomenti: la ricchezza e gli affari di Trimalcione, l'inopportunità dei bagni, la funzione del funerale, le condizioni climatiche e l'agricoltura, la religione e i giovani, i giochi pubblici, i disturbi intestinali, il valore del vetro, il destino, i monumenti funebri, i diritti umani degli schiavi. Tutto offre uno spaccato vivace e colorato, non senza punte di chiara volgarità, della vita di quel ceto sociale. In seguito, Encolpio, allontanatosi dagli altri due compagni, incontra Eumolpo, un vecchio letterato che, notato l'interesse di Encolpio per un quadro raffigurante la presa di Troia, gliene declama in versi il resoconto (è la celebre Troiae halosis). I due diventano quindi compagni di viaggio, rivali in amore a causa di Gitone e dopo una serie di avventure, che li vedono viaggiare per mare e rischiare anche la vita, si ritrovano, insieme nella città di Crotone, dove Eumolpo si finge un vecchio danaroso e senza figli, ed Encolpio e Gitone si fanno passare per i suoi servi: così essi scroccano pranzi e regali dai cacciatori di eredità. Nei frammenti successivi, Eumolpo recita un brano epico, in cui viene descritto il Bellum civile ("La guerra civile") fra Cesare e Pompeo, e successivamente si legge di Encolpio che, per l'ira di Priapo, diventato impotente, è vittima di una ricca amante che si crede disprezzata da lui e lo perseguita. Eumolpo, invece, scrive il suo testamento dove specifica che gli eredi avranno diritto alle sue ricchezze solo se faranno a pezzi il suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo. MARCO FABIO QUINTILIANO Marco Fabio Quintiliano nacque a Calagurris Iulia Nasica nella Spagna Tarraconensis all'incirca nel 30-40 d.C. Si trasferì in tenera età a Roma dove poté seguire lezioni di Remmio Palèmone e di Servilio Nonanio. Inoltre poté conoscere e quindi ascoltare il retore Domizio Afro, e Seneca. Finiti gli studi ritornò in Spagna dove poté restare fino al 68 esercitando la professione di maestro di retorica; in seguito a quella data venne ricondotto a Roma da Sulpicio Galba che in quel medesimo anno divenne imperatore. Giunto a Roma nel 68, vi esercitò probabilmente l'avvocatura e soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto. L'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando un concreto riconoscimento all'importanza dell'arte retorica nella formazione della gioventù e del futuro "ceto dirigente" in vista della creazione del consenso. Dopo vent'anni d'insegnamento, decise di abbandonare l'incarico e si dedicò alla stesura in un primo momento di un dialogo in cui espose la propria posizione sulla crescente corruzione dell'arte dell'eloquenza (l'opera perduta De causis corruptae eloquentiae), e poi dell'opera più importante, L'Institutio oratoria. Ma se la vita pubblica di Quintiliano fu abbastanza agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche, come la morte della moglie giovanissima e di due figli. Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito; Domiziano lo incaricò nel 94 dell'educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli "ornamenta consularia", ovvero il titolo di console, nonostante non avesse mai rivestito nel corso della propria vita questa carica. Morì nel 96 d.C. Instituto Oratoria Ma il suo capolavoro - dedicato a Vittorio Marcello, funzionario della corte di Domiziano per l'educazione del figlio Geta - è l'Institutio oratoria (93-96 d.C.), cioè "La formazione dell'oratore", che compendia l'esperienza di un insegnamento durato vent'anni (dal 70 al 90 ca). Il titolo dell'opera proviene dallo stesso autore, da un'espressione contenuta in una lettera al suo editore Trifone posta a premessa dell'opera. Si tratta di un vero e proprio manuale sistematico di pedagogia e di retorica, in 12 libri, pervenutoci integro. Il I libro fa parte a sé, trattando di problemi vari di pedagogia relativi all'istruzione "elementare" (una novità assoluta nel panorama culturale antico): dalla scelta del maestro, al modo di insegnare i primi elementi di scrittura e lettura, dalla questione se sia più utile l'istruzione pubblica o privata, al modo di riconoscere e invogliare le capacità dei singoli discepoli, e così via. Il II, invece, chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori "optimi", né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari a praticare declamazioni attinenti alla vita reale (e a puntare comunque alla "sostanza delle cose"), con un linguaggio semplice ed appropriato. I libri dal III al VII trattano della "inventio" e della "dispositio", cioè lo studio degli argomenti da inserire nelle cause e l'arte di distribuirli; i libri dall'VIII al X, dell' "elocutio", ovvero della scelta dello stile e dell'orazione. Il X libro insegna i modi di acquisire la "facilitas", cioè la disinvoltura nell'espressione; qui, prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Quintiliano inserisce un famoso excursus storicoletterario sugli scrittori greci e latini, preziosa testimonianza sui canoni critici dell'antichità (ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente retorico). L'XI libro parla della "memoria" e dell'"actio", cioè dell'arte di tenere a mente i discorsi e di porgerli. Il XII (la parte "longe gravissimam", "di gran lunga più impegnativa" dell'opera) presenta, infine, la figura dell'oratore ideale: le sue qualità morali, i principi del suo agire, i criteri da osservare, il vir bonus dicendi peritus di catoniana memoria. L’ORATORE TOTALE Pur nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato, Quintiliano ripropone così il modello di oratore di età repubblicana, di stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell'oratoria per un nuovo spazio di missione civile il vero scopo di Quintiliano, in cui si risolve la problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata nel XII libro e tacciata – così ingiustamente – di servilismo: ma non si dimentichi, a tal proposito, che egli doveva effettivamente molto alla dinastia Flavia (in particolare a Domiziano, addirittura osannato come sommo poeta) e che poi apparteneva a quel mondo di "provinciali" che avevano un vero e proprio culto per l'imperatore, simbolo per loro dell'ordine e del benessere. Insomma, l'oratore perfetto deve avere, secondo il nostro autore, una conoscenza a dir poco "enciclopedica" (filosofia, scienza, diritto, storia), ma dev'essere - oltre che un "tuttologo" - anche un uomo onesto, "optima sentiens optimeque dicens" [XII, 1, 25], o - come disse già Catone - "vir bonus dicendi peritus". Tuttavia, nel predicare questo ritorno a Cicerone, Quintiliano non realizzava che ciò esigeva anche il ritorno alle condizioni di libertà politica di quel tempo: in ciò sta il segno più evidente del carattere antistorico (se non "utopistico") del classicismo vagheggiato dal nostro. MARZIALE Le notizie biografiche su Marziale provengono principalmente dai numerosi cenni autobiografici contenuti nella sua opera. Sappiamo che nacque a Bilbilis, una cittadina della Spagna Tarragonese, allora assoggettata all'Impero Romano, fra il 38 e il 41 d.C. e che ebbe la sua prima educazione a Tarragona, sotto la guida di grammatici e retori. Nel 64 si recò a Roma, sperando di farvi fortuna come era accaduto ad altri letterati della regione quali Seneca, Lucano, Quintiliano. A Roma, Nella capitale imperiale, si indirizzò, secondo gli auspici dei genitori, alla professione di avvocato verso la quale provava un'insanabile avversione dedicandosi contemporaneamente alla poesia. Verso l'80, in occasione dell'inaugurazione dell'Anfiteatro flavio, Marziale pubblicò il primo libro di epigrammi detto Liber de spectaculis (sugli spettacoli del Colosseo) che gli procurò delle lodi. Grazie a questo primo successo ebbe dall'imperatore Tito lo ius trium liberorum, che comportava una serie di privilegi per i cittadini che avessero almeno tre figli, nonostante - a quanto pare - il poeta non fosse nemmeno sposato. Il successore di Tito, Domiziano, confermò i privilegi concessi dal fratello. Verso l'anno 84 o 85 comparvero altri due libri di epigrammi: "Xenia" (doni per gli ospiti) e Apophoreta (doni da portar via alla fine del banchetto), composti esclusivamente di monodistici. I primi di due libri di epigrammi delusero le aspettative del poeta che si ritirò per alcuni mesi a Forum Cornelii (Imola), ospite di un potente amico. Lì pubblicò il suo terzo libro ma poi lo riprese la nostalgia di Roma, ambiente variopinto e multiforme, fonte di ispirazione della sua poesia. Dopo l'assassinio di Domiziano nel 96, sotto i principati di Nerva e poi di Traiano si instaurò a Roma un clima morale austero. Marziale tentò di ingraziarsi i nuovi governanti, ma i suoi epigrammi mal si conciliavano con il nuovo orientamento del potere. Inoltre probabilmente egli era ormai troppo noto per i suoi passati rapporti con l'odiato predecessore di Nerva. Nel 98, infine, compì il viaggio di ritorno alla città natia. Tra il 90 e il 102 pubblicò complessivamente altri otto libri di epigrammi. Liber de spectaculis Chiamato anche Liber spectaculorum, nell'edizione del filologo Gruterus del 1602, fu pubblicato nell'80 e rappresenta la prima raccolta di epigrammi di cui abbiamo notizie (nessun epigramma giunto fino a noi sembra essere precedente a questa data). La raccolta contiene 33 o 36 epigrammi in distici elegiaci che descrivono i vari spettacoli offerti al pubblico in occasione dell'inaugurazione del Colosseo ad opera dell'imperatore Tito,figlio di Vespasiano. Xenia e Apophoreta Nell'edizione che suddivide i lavori di Marziale in quindici libri, queste due raccolte costituiscono rispettivamente il XIII e XIV libro, secondo l'ordine in cui sono riportati nei manoscritti, benché criteri interni rendano quasi certa la loro seriorità rispetto al I libro. Sono composti esclusivamente di epigrammi in distici elegiaci. I titoli (o lemmata) che menzionano l'oggetto descritto di volta in volta furono dati dall'autore stesso. I "doni per gli ospiti" (xenia) sono una raccolta di 127 (124 e 3 introduttivi) epigrammi che accompagnavano, appunto, i doni che ci si scambiava durante i Saturnali. I "doni da portar via" (apophoreta), invece, sono quelli (221 più due introduttivi) che accompagnavano i doni destinati ai commensali alla fine di un convito. Bisogna sapere che tali doni venivano sorteggiati tra gli invitati: da questo fatto potevano derivare talvolta situazioni curiose o comiche (ad esempio: un pettine assegnato a un calvo) su cui il poeta poteva sbizzarrirsi divertendo i lettori. PLINIO IL GIOVANE Plinio nacque a Como nel 61 da una famiglia di rango equestre molto ricca. Suo padre morì quando lui era ancora bambino e Plinio fu affidato ad un amico di famiglia, Virgilio Rufo. In seguito venne adottato dallo zio, Plinio il Vecchio, fratello di sua madre. Nel 83 muore anche la madre e lui eredita tutto il patrimonio di famiglia. Studia a Roma alla scuola di Quintiliano e del retore greco Nicete Sacerdote. Si dedicò principalmente alla retorica e all'avvocatura. S'interessò, grazie all'influenza dello zio, sia allo stile lineare di Cicerone che a quello magniloquente dell'asianesimo. Nel 79 assistette all'eruzione del Vesuvio dal lato opposto del Golfo di Napoli in cui perse la vita il celebre parente. Inizia così la sua carriera insieme all'amico Tacito percorrendo tutte le tappe del cursus honorum. Tra l' 89 e il 90 ricopre il Tribunato della Plebe ed entra in senato; provenendo da una famiglia di cavalieri sarà perciò il primo della sua famiglia. Sotto Domiziano non fa carriera (l'imperatore muore nel 96), mentre sotto Traiano riprenderà la sua carriera diventando soprintendente del tesoro. Nel 100 diventa console supplente e per un paio di mesi ne ricopre la carica. Tiene in senato il discorso "Panegirico Traiano", la cui successiva pubblicazione però sarà diversa dall'orazione originale, perché posta a revisione. Insieme a Tacito, nello stesso anno, sostiene un'accusa contro Mario Prisco. Nel 103 difende due ex governatori accusati di appropriazioni eccessive. Nel 105 diventa Curator: magistrato delle Acque del Tevere e della Cloaca Maxima. Probabilmente, grazie non solo al proprio talento, ma anche alla propria ricchezza e alle amicizie con i potenti, la sua carriera fu tra le più brillanti, e riuscì a diventare prefetto all'erario di Saturno, cioè uno dei cassieri dell'impero. Alla fine della sua vita fu governatore in Bitinia dal 111 al 113, anno in cui probabilmente morì. L'epistolario L'opera maggiore a noi pervenuta di Plinio il Giovane è una raccolta di epistole (247 suddivise in nove libri più 121 aggiunte in seguito in un decimo libro) scritte fra il 96 e il 109. Fra gli studiosi si è a lungo discusso sull'origine e sullo scopo di queste epistole; oggi si tende a credere che la maggior parte delle lettere non siano un artificio letterario, ma che si tratti di lettere realmente spedite, frutto di un carteggio con amici e colleghi, talvolta scritte per occasioni particolari (come notizie, raccomandazioni, ecc.), altre volte per ragioni sociali (inviti, scambi di opinione, etc.), oppure per ragioni descrittive (celeberrima è la cronaca dell'eruzione del Vesuvio del 79). L'opera è dedicata all'amico Setticio Claro: « Frequenter hortatus es, ut epistulas, si quas paulo curatius scripsissem, colligerem publicaremque. Collegi non servato temporis ordine - neque enim historiam componebam -, sed ut quaeque in manus venerat. » Plinio afferma di aver adempiuto alle richieste dell'amico che lo esortava a raccogliere le lettere scritte "paulo curatius" (con maggior cura). Si tratta dunque di un epistolario letterario, scritto nel preciso intento di pubblicarlo. Le epistole non saranno raccolte cronologicamente bensì "ut quaeque in manus venerat" (così come mi capitano sotto mano). Oltre ai primi nove libri, ne esiste un altro che contiene il carteggio che Plinio tenne con l'imperatore Traiano durante il governo della Bitinia. Questa raccolta fu pubblicata postuma, forse per iniziativa di qualche amico di Plinio, meno probabilmente grazie a Traiano stesso, che avrebbe voluto, con esso, proporre un manuale d'esempio di buona amministrazione. Il libro, che contiene anche le risposte dell'imperatore, è in ogni caso un documento eccezionale per la conoscenza dell'amministrazione provinciale in età imperiale. Fra queste lettere, sono particolarmente famose quelle relative ai cristiani (epistole 96 e 97), nelle quali Plinio parla in prima persona (essendo stato incaricato da Traiano stesso di reprimere i cristiani), informando l'imperatore sui suoi dubbi su come procedere nelle modalità d'inchiesta nei loro confronti. Plinio non prende affatto le difese dei Cristiani, come fece lo scrittore Tertulliano, ma sostiene invece la causa dei Romani. Per lui è ovvio che l'autorità dell'Impero vada rispettata, ed è altrettanto ovvio che chi si rifiuta di farlo, come facevano i cristiani, sia un pericoloso esempio di ribellione da punire senza alcuna pietà. Anzi, Plinio trova gli atti compiuti dai cristiani del tutto eccentrici e ridicoli scriverà infatti, « Li interrogavo chiedendo se fossero cristiani. [...] Vi furono altri adepti di una tale follia [...] » (Plinio, Lettere, x, 96 ) e si augura di riuscire a riportare la popolarità della religione politeista romana come nei tempi gloriosi della Repubblica, come richiesto dall'imperatore stesso. In queste lettere si trovano testimonianze del fatto che si tenevano regolari processi, oltre alle comuni pratiche di polizia (in questo caso, contro i Cristiani). Dato che Plinio era il propretore, spettava a lui l'autorità di far eseguire queste procedure nei confronti di coloro che venivano denunciati. Plinio però ammette di non avere alcuna esperienza in merito e chiede consiglio all'imperatore, affermando di non sapere se trattare diversamente i bambini dagli adulti, di interrogare più volte coloro che confessavano e poi eventualmente mandarli a morte, e di dare la possibilità agli accusati di dimostrare di non essere cristiani, venerando le immagini degli dei e facendo sacrifici a quella dell'imperatore. Riporta inoltre delle dichiarazioni dei cristiani in merito a quelle che i delatori indicavano come loro "colpe" (Plinio afferma che i cristiani dichiararono di incontrarsi in un giorno stabilito-la domenica- prima dell'alba, di cantare inni a Cristo, quindi di dividersi, per incontrarsi in seguito per mangiare del cibo e giurare di non commettere alcun tipo di delitto). Si nota che i cittadini romani avevano diritto ad essere giudicati a Roma, mentre gli altri venivano condannati direttamente sul posto. Plinio non è un persecutore spietato: sa infatti che i veri cristiani (che per lui sono quelli davvero pericolosi) non rinnegano la loro fede, e quindi lascia liberi coloro che, per paura, sono pronti a farlo. Nella lettera 96, Plinio sa che i templi ricominciano ad essere frequentati e i "sacra sollemnia" a riprendere vigore dopo una lunga interruzione. Le altre opere Di Plinio ci è pervenuto anche un Panegirico a Traiano, che venne pubblicato nel X libro: esso, originariamente, era il discorso che Plinio pronunciò per ringraziare Traiano quando fu eletto console. Il discorso effettivamente pronunciato fu poi riveduto, corretto e ampliato, tanto da occupare, da solo, quasi la metà del X libro delle epistole. Questa è l'unica delle orazioni pervenuteci di Plinio il Giovane: in essa, Plinio raccomanda ai futuri imperatori di seguire l'esempio di Traiano per agire in concordia con il Senato e il ceto equestre per il bene dell'impero. Non ci sono pervenute altre orazioni di Plinio il Giovane: sappiamo però che i suoi discorsi pronunciati in tribunale ed al Senato furono tali da essere accostati a quelli dell'amico Tacito. Plinio fu, probabilmente, anche un poeta, ma la sua collezione di liriche non è arrivata sino a noi, ad eccezione di due frammenti pubblicati fra le epistole. Probabilmente, si trattava di poesie scritte in età giovanile. TACITO Le opere di Tacito contengono molte informazioni sul suo mondo, ma i particolari sulla sua vita sono limitati. Anche il suo prenome è incerto. Quel poco che conosciamo deriva dagli indizi sparsi nel corpus del suo lavoro, dalle lettere del suo amico e ammiratore Plinio il Giovane, da un'iscrizione trovata a Mylasa in Caria e da ipotesi. Tacito nacque nel 56 o nel 57 d.C. da una famiglia equestre. Il suo praenomen è un mistero: in alcune lettere di Sidonio Apollinare ed in alcune vecchie e scritti poco importanti il suo nome è Gaius, ma nel manoscritto principale della tradizione il suo nome è Publius. L'ipotesi di Sextus non ha trovato seguito. Il luogo e la data esatti della sua nascita non sono conosciuti. Come molti altri autori latini proveniva dalle province: dall'Italia centrale (Terni), dall'Italia del Nord, dalla Gallia Narbonese o, addirittura, dall'Hispania. Il disprezzo mostrato da Tacito per gli arrampicatori sociali ha portato all'ipotesi che la sua famiglia provenisse da un ramo sconosciuto della gens patrizia Cornelia, ma nessun Cornelius si è mai chiamato Tacito. Ancora, le famiglie aristocratiche più antiche in gran parte erano state distrutte nel caos determinato dalla conclusione della Repubblica, ed è chiaro che Tacito deve la sua posizione sociale agli imperatori Flavii. L'ipotesi che egli discendesse da un liberto non ha trovato nessun supporto oltre alla sua dichiarazione, in un discorso inventato, che molti senatori e cavalieri discendono da liberti (Annales 13, 27), e tale ipotesi è stata prontamente abbandonata. Suo padre può essere il Cornelio Tacito che era procuratore della Gallia Belgica e della Germania. Un figlio di questo Cornelio Tacito è citato da Plinio il vecchio come esempio di sviluppo e di invecchiamento anormalmente veloci (Naturalis historia 7, 76), implicando una morte prematura. Ciò significa che questo figlio non era Tacito, ma il suo fratello o cugino - il Cornelius maggiore Tacito può essere uno zio, piuttosto che suo padre. Da questo legame e dall'amicizia bene attestata fra Plinio il giovane ed il Tacito più giovane, gli studiosi traggono la conclusione che le due famiglie erano di categoria, facoltà e origini simili: ceto equestre, ricchezza significativa, famiglie provinciali. La possibile origine spagnola del Fabius Iustus al quale Tacito dedica il Dialogus suggerisce un legame con la Spagna. La sua amicizia con Plinio indica nell'Italia del Nord il luogo della sua origine. Nessuna di queste prove è conclusiva. Gneo Giulio Agricola potrebbe conoscere Tacito per altri motivi. Marziale dedica un componimento a Plinio (10, 20), ma non a Tacito che era più famoso. Nessuna prova esiste che gli amici di Plinio dell'Italia del Nord abbiano conosciuto Tacito, né le lettere di Plinio suggeriscono che i due uomini abbiano condiviso una provincia. L'opposto, in effetti: la prova più forte è nella lettera 23 del libro 9, che riferisce come a Tacito sia stato chiesto se fosse italiano o provinciale e alla sua risposta poco chiara, un po' oltre gli sia stato chiesto se fosse Tacito o Plinio. Poiché Plinio proveniva dall'Italia, Tacito deve provenire da un'altra provincia e la Gallia Narbonese è l'ipotesi più probabile. La sua discendenza, la sua abilità oratoria e la sua simpatia occasionale per i barbari che hanno resistito alla lex romana (per esempio, Annales 2, 9), hanno condotto qualcuno a suggerire che provenisse da una famiglia celtica. Infine si ricorda una tradizione tarda che, rifacendosi ad un passo dell'Historia Augusta relativo alla vita dell'imperatore romano Claudio Tacito (275 - 276), attribuisce i natali dello storico alla città di Terni. Opere Cinque sono le opere attribuite a Tacito che sono sopravvissute, almeno in una parte sostanziale di esse. Le date sono approssimative e le ultime due (le sue opere "maggiori"), hanno comunque richiesto alcuni anni per essere completate: • 98: De vita et moribus Iulii Agricolae ("La vita e le usanze di Giulio Agricola") • 98: De origine et situ Germanorum ("L'origine e la posizione dei Germanici") • 102: Dialogus de oratoribus ("Dialogo sull'oratoria") • 105: Historiae ("Le storie") • 117: Annales o Ab excessu divi Augusti ("Annali") APULEIO Lucio Apuleio, o Apuleio da Madaura (Madaura, 125 – 180 circa), è stato uno scrittore, filosofo, retore, mago e alchimista romano di scuola platonica. = Nacque a Madaura, piccolo ma importante avamposto romano nell'odierna Algeria, attorno al 125 d.C. Il prenome Lucio, dato da alcuni codici, è sospetto, poiché coincide con quello del protagonista-narratore del romanzo apuleiano. Il padre, che fu anche duovir iuri dicundo (cioè console, la più alta magistratura municipale) della città, lasciò a lui e al fratello una eredità di quasi 2 milioni di sesterzi. I primi studi, grammaticali e retorici, li fece a Cartagine, dove fu forse iniziato al culto di Esculapio, corrispettivo romano del dio greco della guarigione Asclepio. Poté quindi approfondire poesie, geometria, musica, e soprattutto filosofia ad Atene, dove fu certamente iniziato a vari culti di una certa importanza tra i quali quello dei misteri Eleusini. La vita di Apuleio fu caratterizzata da un grande amore per i viaggi: brillante conferenziere e curioso d'ogni scienza, filosofia o culto, fu a lungo una specie di clericus vagans del suo tempo. Si recò a Roma dove fu iniziato al culto di Osiride e di Iside e praticò con successo l'avvocatura. Sulla via di Alessandria, Apuleio sostò a Oea (l'odierna Tripoli), dove si imbatté in un vecchio compagno di studi, Ponziano; approfittò della sua ospitalità e fu coinvolto in una storia che avrebbe lasciato un segno indelebile nella sua esistenza, sin qui felicemente errabonda. Ponziano aveva una madre, Emilia Pudentilla, vedova, non bella ma con un considerevole patrimonio: egli volle che Apuleio, fidato amico e, in quanto filosofo, indifferente alla ricchezza, la sposasse. Apuleio a lungo recalcitrò, ma alla fine cedette e sposò la donna, e alla morte di Ponziano i parenti di Pudentilla, per timore di perdere la ricca eredità, gli intentarono un processo, accusandolo di aver sedotto la donna con le sue arti di mago. Il processo si celebrò a Sabratha tra la fine del 158 e gli inizi del 159 d.C ed espose Apuleio persino al rischio della pena capitale, a causa della lex Cornelia de sicariis et veneficis. Dopo essere stato assolto grazie alla sua famosa Apologia, Apuleio fissò la sua dimora a Cartagine, dove forse rimase fino alla morte. Carico di gloria per i molti libri scritti e per le statue erette in suo onore, fu anche per un anno sacerdote della provincia: una carica di grande prestigio, religiosa e civile insieme, a cui era affidato il culto dell'imperatore e di Roma, ma anche funzioni di governo e di rappresentanza. Poiché dopo il 170 non si ebbero più sue notizie, la sua morte è avvolta nel miste Le opere Apuleio scrisse moltissimo: di tutto, in versi e in prosa, in greco e in latino, anche se molto è andato perduto. Dal punto di vista prettamente letterario, dei Carmina amatoria ci restano 2 epigrammi conservati in Apologia 9, dei Ludicra ancor meno, degli Hymi in Aesculapium e della produzione in greco non è rimasto nulla. Della prosa latina, vastamente enciclopedica, si son perse sia opere scientifiche (De arboribus, De piscibus, De re rustica, Naturales quaestiones, De musica, De arithmetica) sia di filosofia (De mundo, De Platone et eius dogmate, De deo socratis) che di varia erudizione (Quaestiones conviviales, De republica, De proverbiis, Epithome historiarum, Hermagoras), nonché una traduzione del Fedone platonico. In compenso, parte di ciò che ci è giunto sotto il suo nome non è autentico, pur rientrando nella sua ottica di indagatore curioso dei culti misterici e dei segreti della natura. Si sono salvate, tuttavia, alcune importanti opere a carattere filosofico-scientifico, una raccolta di conferenze, schede, estratti d'interesse letterario, sia narrativo che retorico neosofistico (Florida, l'Apologia, e soprattutto gli undici libri del romanzo delle metamorfosi). LA LETTERATURA CRISTIANA La letteratura cristiana consiste in quel corpus di opere originate dall'avvenimento cristiano, dalla figura di Gesù e dalla sua incidenza nella storia Nella letteratura cristiana antica convergono due distinti filoni: • la letteratura giudaica • la letteratura greco - latina della tradizione classica. Letteratura giudaica È un corpus di scritti accumulato nei secoli (non corrisponde alla Bibbia che è un concetto teologico astratto), e comprende: • la Torah, gli scritti sulla Legge, corrispondenti ai primi cinque libri dell'attuale Antico Testamento noti anche come Pentateuco; • i Libri dei Profeti o Neviìm, sviluppatisi nel corso dei secoli; • i Libri Sapienzali e i Libri Storici; • Talmud e Mishnah; • la Septuaginta o LXX o Settanta, traduzione in greco degli scritti suddetti effettuata ad Alessandria in seno alla diaspora ebraica, tra il III secolo a.C. e il II secolo a.C., ad uso della civiltà giudeoellenistica. Antiche parole greche assumono nuovi significati semantici, tra cui "giustizia" che indica l'intervento salvifico di Dio. La LXX diviene "Bibbia" per i primi cristiani delle comunità paoline, cn (non pervenute): già nel I secolo la LXX non viene più menzionata nel mondo ebraico. Anche autori come Filone di Alessandria, apprezzati dai cristiani, subirono la medesima rimozione dalle fonti giudaiche. Esistono inoltre due filoni che risentono dell'influenza ellenistica, la letteratura omiletica e la letteratura apocalittica. Letteratura omiletica Il culto sinagogale comprendeva per gli ebrei in esilio l'insegnamento delle Sacre Scritture tramite lettura in pubblico del testo, ed omelia (o commento omiletico) con funzione esegetica. L'esegesi omiletica durante la predica liturgica diverrà l'attuale Liturgia della Parola. Letteratura apocalittica La letteratura apocalittica esprime l'attesa escatologica e la conseguente apocalisse intesa cone rivelazione degli avvenimenti futuri e finali, al fine della salvezza eterna; un esempio è il Libro di Daniele, soprattutto nei capitoli finali. Si sviluppa nel tardo giudaismo del II secolo a.C., e ci testimonia la volontà ed il bisogno di conoscere il futuro da parte di un popolo oppresso e disperato. La letteratura cristiana è ricca di apocalissi, la più nota è l'Apocalisse di Giovanni, la cui escatologia differisce dalle precedenti perché associa Gesù alla figura del Messia, unto da Dio (si noti come anche Ciro II di Persia fu detto messia, poiché unto da Dio per aver liberato gli ebrei dalla schiavitù babilonese). Cosa confluisce nella letteratura cristiana Uno dei dilemmi che si posero i primi cristiani fu cosa mantenere dei libri sinora considerati di culto: mantenere la LXX? I testi giudaici servono al culto cristiano o no? Vi furono prese di posizione discordi, radicali o meno; il diteista Marcione ad esempio fu un sostenitore del rifiuto radicale, poiché sosteneva che il Dio ebreo narrato nell'Antico Testamento non fosse il il vero Dio dell'Amore, rivelato col Cristo nel Nuovo Testamento, e riteneva Paolo di Tarso unico autentico apostolo. Il canone biblico si costituisce tra il I e il II secolo, formando una Bibbia composta da AT e NT, attraverso tagli, scelte e conflitti interpretativi in particolare tra il 160 e il 180. Il cristianesimo assorbe gran parte dei testi e dei generi giudaici, tra cui il romanzo, pur mantenendo un rapporto polemico. TERTULLIANO Tertulliano nacque a Cartagine verso la metà del II secolo (intorno al 155) da genitori pagani (patre centurione proconsulari, figlio di un centurione proconsolare) e, dopo essere stato verosimilmente iniziato ai misteri di Mitra, compì gli studi di retorica e diritto nelle scuole tradizionali imparando il greco. Dopo aver esercitato la professione di avvocato dapprima in Africa e in seguito a Roma, ritornò nella città natale e probabilmente verso il 195 si convertì al cristianesimo. Nel 197 scrisse la sua prima opera, Ad nationes ("Ai pagani"). Presi gli ordini sacerdotali, adottò posizioni religiose molto intransigenti e nel 213 aderì alla setta religiosa dei montanisti, nota proprio per la sua intransigenza e il suo fanatismo. Negli ultimi anni della sua vita abbandonò il gruppo per fondarne uno nuovo, quello dei Tertullianisti. Quest'ultima setta era ancora esistente all'epoca di Sant'Agostino, che riferisce di averla fatta rientrare nell'alveo dell'ortodossia. Le ultime notizie che si possiedono su Tertulliano risalgono al 220. La sua morte si data dopo il 230. È considerato un grande teologo cristiano e introduce la teologia trinitaria attraverso una terminologia latina rigorosa. A lui si deve il concetto di "persona", fondamentale anche nella civiltà occidentale, che ci permette di vedere ogni uomo come partecipe della natura umana ma nello stesso tempo persona unica e inalienabile. Come Dio è unico e distinto in Persone divine che sono "relazioni sussistenti", il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, allo stesso modo ogni uomo partecipa alla natura umana ma è distinto nella sua dignità di persona. Questo è il germe che distruggerà le disuguaglianze "pagane" e permetterà l'invenzione cristiana degli Ospedali. Tertulliano è un grande teorico e un acuto pensatore che assume un posto di rilievo nel panorama letterario del suo tempo. È attribuita a Tertulliano la famosa locuzione latina Credo Quia Absurdum. In realtà la frase esatta è "Natus est Dei Filius; non pudet, quia pudendum est: et mortuus est Dei Filius; prorsus credibile est, quia ineptum est" (De Carne Christi) che si traduce in: "Nato Figlio di Dio; non si vergogna, perché v'è da vergognarsi: e il Figlio di Dio è morto: che è del tutto credibile, poiché è del tutto incredibile". MINUCIO FELICE Del Minucio Felice uomo sappiamo ben poco: è però certo che nacque nella Numidia, quasi sicuramente a Cirta (quindi conterraneo ed amico di Frontone, maestro di Marco Aurelio), che visse per quasi tutta la sua esistenza a Roma, che fu un avvocato molto ricco e che la sua vita si svolse nel II secolo dopo Cristo. Grande esponente della letteratura apologetica (secondo, in quanto a fama, al solo Tertulliano), scrisse il dialogo Octavius, che ci è pervenuto, e un romanzo didascalico, il De fato, che invece non è arrivato ai giorni nostri. L’OCTAVIUS l dialogo dell'Octavius si svolge sul lido di Ostia fra tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio (da qui il titolo dell'opera) e Minucio stesso. Ottavio rimprovera aspramente Cecilio per un gesto di adorazione ad una statua del Dio Serapide e Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia. Tuttavia, Minucio non esprimerà alcun giudizio perché non ce ne sarà bisogno: dopo le due orazioni (quella di Cecilio contro il Cristianesimo e quella di Ottavio in suo favore, ma contro il Paganesimo), infatti Cecilio si rende conto della pochezza e della falsità della sua tesi, ammettendo di buon grado la sconfitta. Considerazioni Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono in tutti gli apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i Cristiani non sono colpevoli dei misfatti di cui sono calunniosamente accusati dai pagani; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito. Ma Minucio, a differenza di Tertulliano, è scrittore fine e delicato perché fonda la sua argomentazione sulla logica e sulla amabile conversazione. Egli si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita con abbondanza scrittori classici, astenendosi invece dai riferimenti della Bibbia. SANT’AGOSTINO (AGOSTINO D’IPPONA) Agostino d'Ippona (latino: Aurelius Augustinus Hipponensis; Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) fu un filosofo, vescovo e teologo romano. Padre, Dottore e santo della Chiesa cattolica, è conosciuto semplicemente come sant'Agostino, detto anche Doctor Gratiae (Dottore della Grazia). Secondo Antonio Livi è stato «il massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell'umanità in assoluto La sua opera più celebre sono le Confessioni. A lui si rifanno numerose forme di vita religiosa, tra i quali l'Ordine di Sant'Agostino (OSA), chiamato degli Agostiniani: diffusi in tutto il mondo, insieme agli Agostiniani scalzi (OAD) e agli Agostiniani Recolletti (OAR), costituiscono nella Chiesa cattolica la principale eredità spirituale del santo di Ippona, alla cui Regola di vita si ispirano anche numerose altre congregazioni, oltre ai Canonici Regolari di Sant'Agostino. Alcune Chiese scismatiche africane, fenomeni a metà tra le cosiddette Piccole Chiese ed il sincretismo (in particolare quelle fornite di successione apostolica), sorte nel corso del XIX e del XX secolo, si sono auto-definite Agostiniste, in considerazione della origine africana del santo. De civitate Dei L'opera (il cui titolo tradotto letteralmente significa:"Riguardo la città di Dio) fu scritta dopo l' evento storico che sconvolse il mondo romano ovvero il Sacco di Roma da parte dei visigoti guidati da Alarico I nel 410; Il mondo civile accoglie l'evento come una inaudita profanazione, con stupore e paura. Agostino apprese la notizia mentre faceva la spola tra Cartagine, dove si stava svolgendo un concilio, ed Ippona, la sua sede episcopale. Presto gli arrivarono alle sue orecchie le accuse dei pagani contro il Dio cristiano che non ha saputo difendere l'Urbe, ed assistette all'arrivo dei profughi con i loro racconti raccapriccianti. La grande occasione data dall'evento lo sollecita a riflettere con tutte le facoltà di pensiero e di immaginazione sul senso della vita e della storia. E nel 412 comincia appunto l'opera che lo impegnerà per una dozzina di anni e diverrà uno dei pilastri della cultura occidentale. L'opera appare come il primo tentativo di costruire una visione organica della storia dal punto di vista cristiano, principalmente per controbattere le accuse della società pagana contro i cristiani. In essa, vengono messe a confronto le due città, una celeste (appunto la Città di Dio) e una terrena (la Città del Uomo) , l'una uniformata ai principi del cristianesimo, l'altra impregnata di paganesimo, per dimostrare la superiorità e sostenere l'inevitabile trionfo finale della prima sulla seconda.