Vela, che passione! - Lega Navale Italiana

Transcript

Vela, che passione! - Lega Navale Italiana
Vela,
che passione!
di Silvano Malagugini
I
Le ponderate parole
di chi non si è arreso
alla difficoltà,
ma ha fatto del mare
la propria palestra
ncontravo Giacomo spesso. E quasi
ogni volta Giacomo
mi ripeteva, col suo
stretto genovese, “mia,
questu u lè u sport pè ti ”.
Giacomo aveva iniziato
a dedicarsi alla vela di
recente, e la sua passione per quelle barche era
nel periodo più contagioso. Sapeva che amavo la competizione - avevo una bella esperienza di
rally - ed il mare, avendo appena iniziato un corso
da sub.
Io, dal canto mio, avevo molte perplessità a riguardo, anche perché le ore della giornata, tra lavoro e
sport vari, cominciavano a sembrarmi troppo poche. Ma cosa potevo fare? Cambiare percorso?
Mandarlo a quel paese? Ho preferito non perdere
un amico, e fu così che incontrai la Vela.
Iniziai il corso alla fine dell’inverno del 1992, con
il cielo terso e frizzante delle belle giornate di ottobre e l’attrezzatura provvisoria di chi pensa di
non appassionarsi più di tanto. Dopo circa un ora
di teoria a base di terminologie marinaresche assolutamente incomprensibili, salii per la prima
volta sulla barca, una 2.4 S.I. inaffondabile, con
fiocco e randa e che, a detta del mio eccellente
istruttore, non scuffiava. Nei sei giorni del corso
nacque fra me e lei una grande storia d’amore, assolutamente non prevedibile, come spesso accade
con gli amori veri.
Ora che la terminologia marinaresca non è più per
me quell’oscuro linguaggio per iniziati che mi era
parso, parlo volentieri della 2.4 S.I., una barca ec-
38
settembre-ottobre 2015
cezionale, molto tecnica e sicura che ti permette, se la conosci bene e hai un po’ di coraggio e un po’ di incoscienza, di provare sensazioni inimmaginabili.
La 2.4 S.I. deriva dai 12
metri stazza internazionale usati durante l’America’s Cup a Newport
negli anni 80, quando
tre brillanti designer, Peter Norlin, Old Lindquist e
Haan Soedergren l’hanno disegnata applicando
appunto le regole dei 12 metri.
In Italia la classe 2.4 è presente dal 1990 ed è riconosciuta dall’IYRU e dalla FIV.
L’equipaggio è composto da una sola persona e lo
sbandamento è compensato da una zavorra di 180
Kg posta nella chiglia. L’imbarcazione armata ha
un peso di Kg 260 c.a. con randa e fiocco, albero
con un ordine di crocette, strallo e paterazzo. Le riserve di galleggiamento sistemate a prua e a poppa,
permettono alla barca di galleggiare anche piena
d’acqua. L’attrezzatura prevede barber per il punto
di scotta del fiocco, regolazioni del cunningham, tesa base, vang per la randa. Le particolari caratteristiche tecniche di questa imbarcazione consentono
anche a persone con disabilità motorie di regatare
ad armi pari con persone normodotate.
Rincontrai Giacomo, che mi aspettava al solito bar
con un sorriso sornione: non solo non avevo perso un amico, ma avevo trovato una grande passione. La sorpresa più incredibile venne però dal mio
istruttore: vedendo in me, probabilmente, quella
scintilla che mi avrebbe legato a questo sport per
sempre, mi chiese se mi sarebbe
piaciuto entrare nel gruppo
agonistico che stava preparando. La possibilità di regatare in
tutta Italia e in futuro anche all’estero, confrontandomi con
gli altri velisti: per me fu come
toccare il cielo con un dito.
In quel giorno indimenticabile,
entrai ufficialmente nel mondo
della vela agonistica col numero velico ITA 16, numero che
mantenni orgogliosamente fino al 2001, quando cambiai
barca e classe.
La mia prima regata è stata nel
1992, sulle acque blu intenso
del lago di Caldonazzo, nei dintorni di Trento. Il lago, a differenza del mare, ha le
onde corte e il vento cambia in prossimità delle
vallate. Chi è del posto è sicuramente avvantaggiato. Mi accontentai di un dignitoso sesto posto
su dieci, più che onorevole visto che era la mia
prima uscita ufficiale.
Sulla mia barca avevo curato personalmente le
modifiche che mi erano necessarie, e me la cavavo
bene con le riparazioni, anche dello scafo in vetroresina. Al mio ritorno a Genova, il mio istruttore
mi chiese se ero disposto ad aiutarlo in questo
compito perché ormai le barche erano diventate
cinque e mantenerle in efficienza da solo per lui
era complicato.
Non mi sembrò vero di avere l’opportunità di dedicare il mio tempo libero, dopo il lavoro, a sistemare e preparare le barche per le prossime regate.
Regate che sarebbero diventate tante nell’arco di
anni che va dal 1992 al 2001: Otto, dieci regate all’anno, ciascuna dalle tre alle nove prove e sempre
più impegnative.
Ricordo una regata a Livorno nel 1994. Mio figlio
allora aveva otto anni mi seguiva su un gommone
ed io, in prossimità dall’arrivo, ero impegnato a
tentare di superare una barca della marina militare. Eravamo vicinissimi; fra gli scafi c’era meno di
un metro; io ero sopravento, posizione buona per
poter superare l’avversario nel momento in cui lui
entra nei tuoi rifiuti e tende a rallentare. Improvvisamente, la testa del mio albero, dove è inserito
il segnavento, tocca l’albero della barca vicina. Il
mio segnavento salta e si rompe. La voce di mio figlio che esclama “ma Pa’!” mi scuote, ed io istintivamente orzo un po’ per cercare di allontanarmi
dall’altra barca ma anche per cercare quei pochi
centimetri che alla fine mi avrebbero permesso di
tagliare il traguardo davanti all’avversario.
Nello stesso 1994, durante la consueta assemblea, la
dottoressa che era la presidente dell’associazione,
disse che nelle altre nazioni si erano organizzati con
un camioncino e un carrello ed andavano a fare le
regate in giro per l’Europa. Anche noi avremmo potuto fare lo stesso, se solo ci fossero stati dati gli
strumenti, fu la mia risposta.
La presidente mi prese sul serio, ci fornì di un Ford
Transit e un carrello che poteva portare le cinque
barche e noi andammo in giro per l’Italia e l’Europa per sei formidabili anni con le nostre cinque
2.4, a dimostrare che non eravamo secondi a nessuno anzi, forse, avevamo da insegnare qualcosa.
Qualche ricordo “de puia” – come direbbe l’amico
Giacomo – non manca. E sempre l’infido lago, con le
sue onde corte che ormai conoscevo ma ancora non
domavo, mi regalò qualche emozione un po’ forte.
Era una giornata bella, ma ventosa, 20 – 22 nodi
(che per una barca di due metri e diciotto centimetri, vi assicuro, non sono pochi). Sul lago di Como
a Lecco, durante una virata sicuramente sbagliata,
fatta troppo lentamente, la prua della mia 2.4 ITA
16 si ferma un attimo al vento rallentando, e due
onde, che aspettavano proprio me, mi riempiono
il pozzetto. La barca affonda, ma fortunatamente
si ferma a pelo dell’acqua. I soccorsi sono arrivati
subito, trainandomi a terra dove abbiamo svuotato la barca e ho potuto riprendere le regate. Eravamo ad aprile, l’acqua era gelata.
Nello stesso 1995, a luglio, mi trovavo a Santa
Margherita di Caorle. All’uscita del canale che por-
settembre-ottobre 2015
39
ta in mare si formano delle onde che superano i
due metri, ma io purtroppo, non sapendo quanta
profondità ci fosse, mi areno con la barca inclinata su un lato. Di nuovo sono dovuti intervenire i
soccorsi col gommone a trainarmi fuori da quella
secca e portarmi sul campo di regata.
Ogni uscita, in vela, regala emozioni imprevedibili, e nel 1995 non ne mancarono certo: oltre al
quarto campionato Italiano, ad Alassio ci sarebbero stati i campionati Europei, con la partecipazione di un velista eccezionale, il mitico Soldini. Il
campionato si concluse con un risultato che ancora mi riempie di orgoglio: io undicesimo e Soldini
quattordicesimo.
L’anno successivo, il 1996, dal 5 al 12 Ottobre, a
Cannes, vissi invece la grande esperienza dei campionati mondiali, con 96 partecipanti che rappresentavano oltre venti nazioni.
Novantasei barche alla partenza, con la linea immaginaria fra la barca giuria e la boa di partenza di oltre trecento metri. Novantasei barche avanti e indietro, per cinque “interminabili” minuti, novantasei barche tutte assieme, chi va in un senso e chi
nell’altro, cercando sempre di evitarsi. Teso come
una corda di violino per cercare la posizione migliore al via, all’ultimo minuto prima del “vai” vedo un
norvegese che mi si affianca sul lato sinistro e cerca
di orzarmi contro per buttarmi fuori dalla riga ipotetica di partenza. Resisto e non mi faccio buttare
fuori, anche perché se al “vai” sei fuori della riga devi rientrare dagli estremi e quindi parti quasi sicuramente ultimo. Il norvegese mi urla “protest, protest”
e io, di rimando a lui: “protest, protest”, tirando fuori
la bandiera rossa. Poi il via: si parte.
Non so cosa il norvegese abbia pensato, so solo
che non mi ha protestato e io all’arrivo, con ancora tutta l’adrenalina della gara e l’emozione della
40
settembre-ottobre 2015
sfida, non ricordavo neppure quello che era successo. Per la cronaca sono arrivato sessantesimo su
novantasei partecipanti.
Nello stesso anno, iniziai anche il primo corso di
vela d’altura. Appassionante la teoria, ma la sensazione più grande fu quella di timonare una barca
di dieci metri.
Abituato ad essere al timone da solo, in una barca di
poco più di due metri, ora mi trovavo al timone di
una Alpa 33 di nome Aldebaran, con quattro membri di equipaggio da coordinare durante le manovre.
Cambiava tutto: i tempi delle manovre, la lunghezza della barca, gli incroci, i giri di boa e soprattutto
le partenze nelle regate, quando sei a stretto contatto con le altre barche. Lì ti rendi conto che davvero
non puoi sbagliare, perché sbagliare vuol dire scontrarsi con una altra barca, farti e fare del male. Stai
portando una barca che pesa dai tre ai quattromila
chili, la responsabilità è tanta, l’adrenalina a mille.
Affinai le capacità come timoniere con un secondo corso, mentre continuavo con le regate nella
classe 2.4. Ormai ero il responsabile di cinque imbarcazioni.
Ricordo una regata nel 1997 a Dervio, nel lago di
Como, dove la Sezione di Milano ha un bellissimo
porticciolo immerso nel verde.
La partenza è alle dieci, il vento è di 8 -10 nodi,
ideale per la regata. Due minuti prima del fischio
un 2.4 mi punta, il timoniere è distratto, gli grido:
“acqua!”. Ma non mi sente e finisce con la sua
prua nel mio fianco. Il tempo di contare sino a tre
e sono affondato.
I soccorsi della Croce Rossa sono arrivati immediatamente, più agitati di me. Spiego quello che
avrebbero dovuto fare e andiamo a terra. La barca
aveva un buco non riparabile nell’immediato e ho
dovuto rassegnarmi a veder regatare gli altri.
Per quanto riguarda l’inaffondabilità, avevo già
collaudato a mie spese la barca, ma mi mancava la
prova che non scuffiasse. Ed eccomi accontentato.
Siamo nel 1998, alla LNI di Salerno si tengono i
campionati Italiani, il vento è forte, teso, 20 nodi,
al limite per quell’imbarcazione. Dopo la prima
prova, mentre si aspettava che tutte le barche tagliassero il traguardo, all’improvviso una raffica di
vento più forte mi fa sbandare, la randa tocca l’acqua, io non so cosa fare, l’acqua riempie il pozzetto, ma la barca fortunatamente si raddrizza. Ecco,
se avessi avuto ancora qualche dubbio, era sicuramente svanito.
In questi anni, ho avuto un’esperienza nuova e
meravigliosa di cui devo ringraziare mio figlio Si-
mone, che solitamente mi seguiva nelle regate e
che alla fine saliva a bordo per rientrare in porto
insieme. Simone col tempo aveva finito con appassionarsi alla vela anche lui e feci in modo che
potesse partecipare alle regate su una barca. Regatare padre contro figlio, uniti dallo stesso entusiasmo, è una delle emozioni più grandi.
Per alcuni anni siamo stati avversari, nel vero senso della parola, perché nessuno dei due voleva
concedere niente all’altro. Durante una regata, però, sull’ormai familiare lago di Caldonazzo, mi stavo giocando il terzo posto. Simone era quinto e all’ultimo incrocio, nonostante avesse la precedenza, ha poggiato, passandomi dietro e lasciandomi
la rotta, permettendomi così di concludere la regata sul podio.
Iniziarono le regate con le barche d’altura su uno
Show 29. Io, come timoniere, con l’amico Enzo a
prua, iniziammo a fare coppia fissa. Entrambi
competitivi, entrambi con esperienza sulle mitiche 2.4 entrambi un po’ incoscienti, entrambi
amanti della vela.
Il 15 gennaio del 2000 era una mattina tersa e limpida che mi ricordava le prime uscite in vela di
tanti anni prima. Con l’amico Enzo avevamo deciso di partecipare a una regata ad Arenzano con
l’ALPA 33. Pur con un vento debole, 3/4 nodi, la
regata si svolge piacevolmente e concludiamo al
quarto posto. Sono ormai le 14.30 ed è tempo di
rientrare. Puntiamo la prua verso Genova, soddisfatti della bella giornata. Sembra essere questione
di un momento: il cielo comincia a coprirsi di nuvole scure, mentre il vento prende a soffiare sempre più forte. Comincia a piovere mentre il mare
ingrossa rapidamente. Decidiamo di dare una mano di terzaroli e ridurre il fiocco con il rulla fiocco.
Siamo a circa due miglia fuori Vesima, stiamo tentando di avvicinarci a terra ma la tramontana e le
onde ci ostacolano; riduciamo il fiocco a tormentina e diamo la seconda mano di terzaroli. Abbiamo
poca tela, solo quella che serve per poter governare
la barca che si sta comportando davvero bene. Io come sempre sono al timone e gli spruzzi misti di vento e acqua sono come aghi. Ringrazio mentalmente
di aver una barca, seppur datata, solida e fidata.
Intanto è calato il buio. Per aiutarci a risalire quelle due miglia accendiamo il motore, ma a questo
punto il mare è veramente grosso, la prua si alza
poi si abbassa, scende, entra nelle onde. Una gigantesca secchiata d’acqua ci investe: è gelata. È
buio, non sento più le dita, il naso e le orecchie
sono di ghiaccio.
L’equipaggio è formato da quattro persone: l’armatore, io al timone, Enzo come prodiere, per fortuna un compagno capace ed esperto. Il quarto è
un ragazzo nuovo, è venuto per fare una esperienza, non l’abbiamo mai più visto.
Siamo abbastanza vicini all’imboccatura del porto
di Voltri e decidiamo di chiamare la Capitaneria
chiedendo il permesso di entrare in porto perché
siamo in difficoltà e non riusciremmo ad andare
all’imboccatura del porto di Genova centro.
La risposta è positiva e puntiamo la prua all’imboccatura, ci dicono che le raffiche di vento superano i quarantacinque nodi. In mare, al buio, con
dei muri d’acqua di 3 metri che ti vengono incontro, non hai tempo per avere paura, né per sentire
il freddo. Sei solo concentrato a non commettere
errori che potrebbero essere fatali.
Finalmente imbocchiamo il porto. Secondo l’armatore dovremmo tenerci a destra vicino alla diga, io replico che se stiamo troppo vicini alla diga
il vento ci fa scarrocciare e rischiamo di andare
contro al molo. Non c’è tempo per discutere, mi
tengo più possibile a sinistra, così da stare sicuro.
A terra, poi, mi dirà “menomale che non hai fatto
quello che ti ho detto”.
Riusciamo finalmente ad ormeggiare. Scendiamo
infreddoliti, bagnati sino al midollo. Come dei
fantasmi ci guardiamo e ridiamo, di una risata tesa
ma trionfante e liberatoria. Ci diciamo “anche questa è fatta”, chiamiamo un taxi e ci facciamo portare a Genova.
Pochi mesi dopo questa memorabile notte, ricevetti la comunicazione che sarei stato iscritto al corso
di istruttore federale dalla mia Sezione della LNI.
Mi chiamò alcuni giorni dopo l’allora presidente
della FIV in persona “ci hai messo in difficoltà” disse
“devi avere pazienza un po’perche non ci è mai perve-
settembre-ottobre 2015
41
acqua!”, ma la barca, un otto metri, si avvicina
sempre più.
È ormai a dieci metri da noi e non accenna a virare o a poggiare.
Posso fare solo una cosa, e grido “viriamo viriamo!”, ma mentre viriamo la barca che sopraggiunge mi centra in pieno fra la falchetta e il candeliere
dove sono seduto al timone.
Buca lo scafo all’altezza della falchetta: vedo la
prua della barca a 50 centimetri dal mio viso. Grido al timoniere della barca di mettere la prua al
vento per sapere chi fossero e sentirci a terra. Ma il
timoniere che era anche l’armatore non riesce a
mettere la prua al vento. Questo fa capire che chi
va per mare non sempre è all’altezza di farlo.
Quella volta, bloccato in quella posizione al timone senza potermi muovere, ho sentito veramente
la paura, in tutta la sua solida concretezza.
Ricordo una regata: il Trofeo Marchi della LNI di
Sestri Ponente. L’avevamo vinta due volte consecutive a novembre del 2005 e a novembre del
2006. Nel 2007, avevamo deciso di provare a vincere per la terza volta. L’armatore mi dice che un
socio nostro amico, anche lui velista, gli aveva
nuta una richiesta da un circolo per un caso come il
tuo. Si deve riunire il consiglio e decidere”.
Dopo pochi giorni ebbi la risposta positiva e fui
ammesso al corso istruttori federali. Il corso fu interessante, forse meno temibile di quanto mi
aspettassi. Comunque un altro obiettivo era stato
raggiunto. Ero diventato istruttore.
Sempre con l’aiuto del mio amico Enzo, iniziai a
tenere corsi di vela.
Sullo Show 29 continuo e vinco parecchie regate:
Millevele, Intercircoli, Trofeo Marchi, Lui lei e Per
Tutti, Regata costiera del Salone Nautico.
La paura vera l’ho vissuta in una regata, la Millevele del 2005. Alla partenza ci sono oltre 70 barche di diverse lunghezze e partiamo tutti assieme,
con un vento sostenuto di 15 - 18 nodi e molta
onda. Sono di bolina e ho il boma sul lato sinistro,
quindi ho la precedenza su tutte le barche che incrocio e che vengono da terra e vanno verso il largo. A un certo punto, vedo una imbarcazione che
incrocia la mia rotta con mure a sinistra. Io ho
mure a dritta e ho la precedenza, grido “acqua! acqua!”. Niente, continua ad avvicinarsi. A questo
punto tutto l’equipaggio si mette a gridare “acqua!
42
settembre-ottobre 2015
chiesto di venire con noi perche voleva vedere come mai vinciamo così spesso.
Non mi piaceva. Era una regata particolarmente
importante per me e non mi pareva opportuno ci
fossero a bordo membri dell’equipaggio non affiatati. Ma ormai la parola era data.
Partiamo e al giro di boa di bolina siamo primi. Il
nuovo membro dell’equipaggio con entusiasmo
propone di mettere lo spi. Non è il momento per gli
esperimenti, ribatto seccato, ma di continuare come abbiamo sempre fatto cioè tangonare il fiocco.
Noi lo spi lo mettiamo raramente perche siamo in
tre e per essere veloci si deve essere almeno in quattro o cinque. Quindi non abbiamo molta dimestichezza e ciò vuol dire perdere tempo e posizioni,
ma lui insiste, l’armatore si convince e dice “proviamo”. Si predispone il sacco dello spi, quindi si cazza
la drizza, ma nella manovra una cima si attorciglia
alla gamba di questo amico che c’è ma non doveva
esserci, nella foga del momento gli tirano su la
gamba e il poveretto rimane appeso a testa in giù.
Ingoio amaro a vedere le altre barche, che con tan-
ta fatica eravamo riusciti a tenere dietro, superarci
in tre. Da primi che eravamo arriviamo quarti e
vedo sfumare la terza vittoria consecutiva al Trofeo Marchi.
In questi anni non ho più fatto molte regate sul
2.4, l’ultima è stata nel 2011 a Savona, conclusasi
con una bella vittoria. Ero stato chiamato dalla
Presidenza Nazionale della LNI di Roma, dove mi
si chiedeva di andare appunto a Savona presso la
LNI e provare la nuova barca Access 303 (Hansa
303) e fare una relazione da inviare a Roma.
L’Access 303 è stata una sorpresa. Questa nuova
barca è semplice, ha le manovre essenziali ed è ottima per insegnare. È armata con fiocco e randa
rullabili, scotte del fiocco e scotta della randa, tesa
base randa, strozzatori delle scotte fiocco che fun-
gono da barber. Come il 2.4 non scuffia e non affonda e, avendo la deriva mobile con trenta Kg di
peso, la si può alare come una deriva.
Ne abbiamo presa una alla LNI di Genova ed è con
quella che faccio i corsi.
L’anno più bello e pieno di soddisfazioni “veliche”
è stato il 2012; con lo Show 29 abbiamo vinto tutte le sei regate della nostra classe cui abbiamo partecipato, dando al secondo classificato dai nove
minuti agli undici.
Ora ho deciso di rallentare, di partecipare solo ad
alcune regate.
Nel maggio del 2013 ho avuto una ulteriore soddisfazione: essere riuscito a portare al campionato
italiano, a Garniano, sul lago di Garda, un ragazzo
di otto anni con dei problemi fisici.
settembre-ottobre 2015
43
Sento di non dover più dimostrare niente a nessuno, né agli altri né a me stesso. Mio figlio continua
con la stessa passione e ne sono felice.
Attualmente, oltre a continuare i corsi di vela con la
nuova barca Access 303, vado sempre con lo Show
29 e con altre due barche: un Mudi 33, naturalmente come timoniere, e un Elan 37 come tattico.
I corsi mi danno grande soddisfazione. È sempre
entusiasmante trasmettere e cercare di spiegare il
mistero di un grande amore. I miei corsi prendono
spunto dalla mia esperienza, quindi non mi è molto difficile insegnare, dico solo quello che so perché l’ho provato prima io. Semplice.
Le prime volte che vincevo ed andavo a ritirare il
premio, notavo perplessità mista a incredulità nei
concorrenti che vedevano uno in carrozzina ritirare la coppa e venire a sapere che non era un semplice membro dell’equipaggio ma il timoniere.
Così, ogni tanto, qualche allievo ancora mi guarda
perplesso, quando mi vede arrivare per la prima
volta con la mia carrozzella. Ma è solo un attimo.
Quando sei sul mare, è facile capire che ciò che
conta, più delle gambe, è il cuore.
Ed è una verità che la vela mi insegna, ogni giorno
■
che esco in mare, da 22 anni.
44
settembre-ottobre 2015
La vela è un dono
del Signore ai suoi figli più belli.
Il giorno in cui ve ne innamorate
ringraziatelo:
poiché al mondo avranno momenti
più puliti e liberi.
Sarete dannati dalla fatica,
spierete per mesi un attimo di vento,
farete bagni fuori stagione
e avrete le mani scorticate,
ma un giorno di vela
vi sembrerà un compenso anche troppo alto,
perché vi farà toccare
da un sentimento nuovo:
la gioia.
A.Vannini