irene storniolo dàimones 1

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irene storniolo dàimones 1
IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
INDICE
1. Introduzione: demonologia e dàimones:
Il concetto di dàimon
Platone e il dàimon socratico (greco)
gli Stoici e Plutarco (greco)
Apuleio (latino)
Agostino (latino)
Blake (inglese)
gli Illuminati (storia)
Arthur Schopenhauer: la natura "demoniaca" (filosofia)
Demoni "sui generis":
Callimaco e i Telchini (greco)
il diavoletto di Maxwell e l'entropia (fisica)
pag. 2
pag. 2
pag. 4
pag. 5
pag. 6
pag. 8
pag. 10
pag. 12
pag. 16
pag. 16
pag. 23
2. Spiritismo e satanismo:
Dante Gabriel Rossetti e le sedute spiritiche (storia dell'arte)
Chi è Lucifero? (religione) *
Padre Amorth e gli esorcismi (religione)
Il pianeta "luciferino": Venere (scienze)
Filostrato II: Apollonio di Tiana e la vampira (greco)
lo spiritismo in Pirandello e Svevo (italiano)
Edgar Allan Poe, Ligeia (inglese)
pag. 9
pag. 28
pag. 29
pag. 31
pag. 36
pag. 39
pag. 41
3. Magia e alchimia:
Hermes Trismegisto (religione-greco) *
il Corpus Hermeticum (greco)
Asclepius (latino)
Hitler e il nazismo magico (storia) *
pag. 43
pag. 45
pag. 48
pag. 50
4. La donna come demone:
Fosca, la donna-vampiro (italiano)
il mito di Salomè:
Franz Von Stuck (storia dell'arte)
Aubrey Beardsley (storia dell'arte)
Gustav Klimt (storia dell'arte)
Oscar Wilde, Salomè (inglese)
J.K. Huysmans (italiano)
Gustave Moreau (storia dell'arte)
D'Annunzio e Lucrezia-Salomè (italiano)
pag. 59
pag. 63
pag. 63
pag. 66
pag. 67
pag. 69
pag. 72
pag. 72
pag. 75
5. Il "caso" Dalì:
"L'ultima cena" (storia dell'arte)
la sezione aurea (matematica)
il pentagramma e il teorema della corda (matematica)
pag. 79
pag. 81
pag. 92
Bibliografia e sitografia:
pag. 95
N.B.: gli argomenti contrassegnati con un asterisco sono stati svolti tramite un lavoro di
gruppo.
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IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
1. INTRODUZIONE
DEMONOLOGIA E δαίμονες
IL CONCETTO DI δαίμων
Di etimologia incerta, il termine δαίμων è forse legato al verbo δαίομαι, "spartire", "distribuire", e quindi
significherebbe "chi assegna o distribuisce il destino"; Platone invece, nel Cratilo (398 b), lo fa derivare da
δαήμων, "sapiente", ma l'etimologia è improbabile; la verità è che si tratta di un termine dal significato oscuro
e spesso ambiguo.
Già in Omero si nota una differenza nell'uso di questo vocabolo; esso infatti nell'Iliade designa al plurale
(δαίμονες) l'insieme degli dei olimpici, oppure singole divinità come Afrodite; nell'Odissea, invece,
individua talvolta una potenza oscura e malvagia che si impossessa dell'uomo. Più frequentemente e
genericamente, esso esprime però un potere divino che, anche se in certi casi viene a coincidere con qualche
specifica divinità, non può essere con quella confusa: δαίμων non è intercambiabile con ϑεός, "dio".
Forse per la sua stessa genericità e nebulosità
semantica, la nozione di δαίμων descrive una
potenza anonima che suscita angoscia,
invisibile
e
non
rappresentabile
plasticamente.
La religione orfica, erede di tradizioni
antichissime, probabilmente di origine
mediorientale, considera il dèmone come
l'essenza stessa dell'anima, imprigionata nel
corpo per una colpa compiuta e da cui cerca
di liberarsi; vedremo come anche Platone sia
portavoce di una concezione dell'anima simile
a questa (è il famoso concetto di σῶμα-σῆμα,
"corpo-tomba", ovvero corpo come carcere
dell'anima, espressa soprattutto nel Fedone).
A partire da Esiodo i δαίμονες cominciano a
configurarsi come potenze intermedie tra gli
dei, gli eroi e i mortali, e tale concezione si
mantiene pressoché invariata fino a Socrate e
a Platone, dove viene però ulteriormente
sviluppata: il δαίμων è anche il compagno
scelto nell'Ade dall'uomo prima di cominciare
la sua esistenza terrena e che, dopo la morte,
Phanes, l'Eros orfico, nascente dall'Uovo cosmico
guida l'anima sino al luogo in cui deve essere
giudicata.
Inoltre Socrate parla di un δαίμων o spirito-guida che lo assiste in ogni sua decisione (si veda ad esempio
l'Apologia di Socrate platonica). Si discute da tempo sull'esatto significato di questo termine: secondo Paolo De
Bernardi (Socrate, il demone e il risveglio, in «Sapienza», vol. 45, editrice Domenicana Italiana, Napoli 1992,
pagg. 425-43) esso sembra essere metafora dell'autentica natura dell'anima umana, della sua ritrovata
coscienza di sé, mentre per Gregory Vlastos (Socrate il filosofo dell'ironia complessa, Firenze, La Nuova Italia,
1998; ed.originale: Socrates: Ironist, and Moral Philosopher, 1991) il δαίμων ha la funzione di stimolare la
ragione di Socrate a fare la scelta più opportuna; Giovanni Reale ritiene che il δαίμων esprima il sommo
grado dell'ironia socratica anche nella dimensione religiosa (Socrate, Milano, Rizzoli, 2000).
Tutto questo non solo non illumina la figura del dèmone socratico, ma rende, se possibile, ancor più oscura la
materia; tanto più che Platone afferma chiaramente che si tratta di una presenza che si fa avvertire non già
per indurre Socrate a compiere certe azioni, ma solo per distoglierlo: «C'è dentro di me non so che spirito
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divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è
come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade
da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte» (Apologia di Socrate, 31 d).
Per Platone il dèmone più importante è tuttavia Eros, che secondo il mito è figlio di Penìa (= Povertà) e di
Pòros (= Espediente): esso infatti è quella forza soprannaturale che innesca nell'uomo il meccanismo
dell'anàmnesi (= reminiscenza) e gli consente di elevarsi verso il mondo delle idee e verso l'idea che assomma
in sé tutte le altre: quella del Bello, che è anche Bene (in sostanza è Dio).
Innamorarsi (spiega Platone sia nel Simposio che nel Fedro) significa né più né meno riconoscere in qualche
essere materiale la scintilla divina del Bello; questo porta con sé un risveglio della memoria, il ridestarsi di un
sapere già presente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato nel momento in cui l'anima
era precipitata nella materia (cioè al momento della nascita) ed era perciò inconscio. Per Platone e i
neoplatonici, conoscere significa ricordare; e l'unica forza che consenta di ricordare è appunto Eros, "un
demone grande", come lo definisce la sacerdotessa Diotima (Simposio 202, d-e). E ribadisce che "tutto ciò che è
demonico è intermedio fra Dio e mortale" ed "opera un completamento, in modo che il tutto sia ben
collegato con sé medesimo", in questo allineandosi, come si diceva, alla visione del dèmone propria di
Esiodo.
La concezione platonica dell'eros, attraverso la mediazione del neoplatonismo, sarà alla base di larga parte
della cultura occidentale, a partire dalla riscoperta di Platone da parte di Marsilio Ficino e Pico della
Mirandola in epoca umanistica. Di essa rimane una potente traccia nel romanzo di Apuleio, le Metamorfosi,
in particolare nella favola di Amore e Psiche che ne occupa la parte centrale.
Sidney Harold Meteyard, Eros, 1900
Senòcrate, discepolo di Platone, ne approfondisce il pensiero sui dèmoni, che considera intermediari tra gli
uomini e gli dèi, più potenti dei primi ma meno dei secondi; inoltre, a differenza di questi ultimi che sono
sempre buoni, tra i dèmoni ve ne sono anche di cattivi: quando gli antichi miti narrano di dèi in lotta fra loro
coinvolti in passioni umane, questi, per Senocrate, parlano di dèmoni, non di dèi. I dèmoni per Senocrate
sono anime umane liberate dai corpi dopo la morte, e poiché permane in loro il conflitto tra bene e male,
essi lo trasferiscono dalla Terra al mondo celeste.
Nel Medioplatonismo la figura del dèmone viene inserita come terzo aspetto della gerarchia del divino
dopo il Dio supremo e gli dèi secondari. Così Plutarco: «Platone, Pitagora, Senocrate, Crisippo, seguaci dei
primitivi scrittori di cose sacre, affermano che i dèmoni sono dotati di forza sovrumana, anzi sorpassano di
molto per estensione di potenza la nostra natura, ma non posseggono, per altro, l'elemento divino puro e
incontaminato, bensì partecipe, a un tempo, di una duplice sorte, in quanto ad una natura spirituale e
sensazione corporea, onde accoglie piacere e travaglio; e tale elemento misto è appunto la sorgente del
turbamento, maggiore in alcuni, minore in altri. Così è che anche tra i dèmoni, né più né meno che tra gli
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uomini, sorgono differenze nella gradazione del bene e del male» (Plutarco, De Iside et Osiride, 25).
Anche gli Stoici sostengono l'esistenza dei dèmoni, che concepiscono come entità che vigilano sugli uomini
condividendone i sentimenti. Così Diogene Laerzio: «Gli stoici dicono, poi, che esistono anche alcuni
dèmoni che hanno simpatia per gli uomini, che vigilano sulle cose umane, e anche che esistono eroi, ossia le
anime sopravvissute dei virtuosi» (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi VII, 151).
E' interessante approfondire la concezione del demone propria di Plutarco (I secolo d.C.) ed in particolare la
sua polemica con gli stoici proprio a questo riguardo: come osserva Roberto Radice nella prefazione a
Plutarco e lo stoicismo di Daniel Babut (Vita e Pensiero 2003), sia nel De genio Socratis che nel De defectu
oraculorum, nel De Iside et Osiride e nel De facie in orbe lunae (tutti saggi facenti parte dei Moralia), Plutarco si
pone in netta contrapposizione con la demonologia degli stoici, rifiutando la loro visione del mondo
monistica e proponendone una dualistica, in cui i demoni hanno il ruolo di mediatori tra il mondo e la
divinità, la quale però non è affatto immanente, come per gli stoici, ma si situa nella trascendenza.
Statua di Plutarco a Delfi
Osserva il Babut (pagg. 488-9): "rispetto agli stoici, per Plutarco la demonologia rappresenta nello stesso
tempo di più e di meno [...] poiché i demoni sono gli intermediari indispensabili tra cielo e terra, mentre il
sistema stoico potrebbe a rigori farne a meno"; tuttavia, dal suo punto di vista, "i demoni non risolvono
nessun problema."
Per Plutarco, insomma, i demoni non hanno alcun senso se sono "le potenze oscure e capricciose della
credenza popolare o le divinità di secondo livello della concezione stoica"; al contrario, essi sono per lui
"esseri misti, tutte le manifestazioni dei quali - benigne o maligne - si inscrivono nell'ordine generale di un
universo diviso tra due potenze", in un'ottica quindi pienamente dualistica. In questa concezione
plutarchea, come si diceva, il divino è totalmente trascendente, mentre spetta proprio ai demoni il compito di
fungere da anello di congiunzione tra il divino e il resto del mondo. Inoltre per Plutarco i δαίμονες sono
soggetti a mutazione ed inseriti in un ciclo di trasformazioni che, da anime mortali, li promuove infine al
rango di divinità.
In questo senso Plutarco è chiaramente anticipatore delle posizioni neoplatoniche e gnostiche.
Marco Aurelio, pur essendo un esponente di spicco della Terza Stoà, ha una concezione del dèmone che si
discosta alquanto da quella stoica: il δαίμων per lui è l'anima intellettiva, che bisogna evitare di turbare con
impressioni di origine sensibile: «inoltre rimane la cura di non insozzare il dèmone che ha preso dimora nel
nostro petto, la cura di non turbarlo con impressioni confuse e molteplici; di mantenerlo sereno e benigno,
tributandogli rituale e onore come a un Dio; e non dire nulla che sia contrario al vero; non far nulla contro
giustizia» (Marco Aurelio, A se stesso III, 16).
All'incirca nello stesso periodo di Marco Aurelio (II secolo d.C.), sulla scia del De genio Socratis di Plutarco,
Apuleio pubblicò nel De deo Socratis la sua teoria sul δαίμων.
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Egli parte dal presupposto che gli dei della
religione ufficiale sono troppo lontani dagli
uomini per occuparsi veramente di loro; l'uomo
perciò resta solo di fronte all'ignoto e non può
portare davanti agli dei le sue preoccupazioni e
le sue pene. A questo punto intervengono i
δαίμονες, concepiti da lui in modo positivo,
come forze benigne, modelli archetipici di
quelli che saranno gli angeli nel Cristianesimo:
messaggeri, portatori delle preghiere degli
uomini, intermediari e ambasciatori tra il cielo
e la terra.
Ogni individuo ha il suo proprio δαίμων,
termine che Apuleio traduce con la parola latina
genius: una sorta di anticipazione dell'angelo
custode.
Nella concezione latina era proprio il genius a
rendere genialis, e se una persona riusciva a
coltivarlo durante la sua vita, lo stesso, dopo la
morte, si evolveva in una forma più nobile
chiamata Lare, divinità domestica, benefica e
protettrice. In caso contrario, esso diventava
una Larva o spirito malvagio.
Apuleio
Apuleio afferma che certe personalità eccezionali, come Socrate o Esculapio, raffinarono il proprio δαίμων al
punto che esso finì per diventare una parte autonoma e visibile di loro stessi, acquistando dopo la loro
morte i caratteri di una divinità locale o collettiva.
Il neoplatonismo, del quale Apuleio è esponente precoce, si pone sulle sue stesse posizioni, ma non sempre
ne deduce le stesse indicazioni di comportamento: Plotino ad esempio (III secolo d.C.) fa coincidere angeli e
dèmoni, considerandoli entrambi portatori di rivelazioni, guide delle anime preesistenti nel viaggio verso
l’incarnazione sulla terra, partecipi della creazione, ma ritiene il loro culto indegno del filosofo, il cui
sguardo dev'essere rivolto a cose spirituali di gran lunga superiori ed il cui scopo fondamentale, la visione
mistica, è in totale contraddizione con la volgarità e la grossolanità delle pratiche magiche atte ad evocare i
δαίμονες (si veda ad esempio John M. Rist, Eros e Psyche, Vita e Pensiero, Milano 1995).
Proprio alla concezione positiva del δαίμων espressa da Apuleio e dai neoplatonici si oppone
fermamente Sant'Agostino, che, pur stimando sia Platone che Apuleio, ritiene che essi siano gravemente in
errore nella concezione dei demoni. Come abbiamo visto, infatti, i demoni erano ritenuti da Platone e dai
neoplatonici intermediari benevoli, ed in una scala di prestigio si trovano sotto Dio ma sopra gli uomini.
Agostino, nel De civitate dei (VIII, 14 segg. e IX passim) parte proprio dalla confutazione di questa
concezione per arrivare alla sua definizione dei demoni, decisamente negativa: è da questo momento in
avanti che i dèmoni diventano demòni, potenze maligne dell'occulto con le quali è possibile, anche a parere
di Agostino, mettersi in contatto, ma soltanto per ricavarne del male.
Ecco i passi fondamentali in cui Agostino spiega il suo pensiero:
14.1. "Si dà, dicono i platonici, una tripartizione di tutti i viventi che hanno l'anima ragionevole, cioè in dèi,
uomini e demoni. Gli dèi occupano la sfera più alta, gli uomini la più bassa, i demoni quella di mezzo. Infatti
la sede degli dèi è nel cielo, degli uomini in terra, dei demoni nell'aria. Come hanno una differente dignità
della sfera, così anche dell'essere.
Perciò gli dèi sono superiori ai demoni e agli uomini, gli uomini sono posti sotto agli dèi e ai demoni tanto
nel grado degli elementi come per differenza di perfezioni. Quindi i demoni sono al mezzo, e come sono da
considerare inferiori agli dèi perché hanno dimora al di sotto di essi, così sono da considerare superiori agli
uomini perché hanno dimora al di sopra.
Hanno infatti comune con gli dèi l'immortalità del
corpo e con gli uomini le passioni dello spirito.
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Dunque non c'è da meravigliarsi, dicono, se godono
dell'oscenità degli spettacoli e delle favole dei poeti,
perché sono soggetti alle inclinazioni umane,
mentre gli dèi ne sono ben lontani e immuni in tutti
i sensi. Se ne conclude che Platone, riprovando e
proibendo le favole poetiche, non privò del piacere
degli spettacoli teatrali gli dèi, che sono tutti buoni
ed eccelsi, ma i demoni."
Ma Agostino corregge Platone, affermando che
non è certo l'occupare un posto più alto che rende
migliori. Infatti:
17.1. "Rimane dunque che i demoni, come pure gli
uomini, sono soggetti alla passione perché sono
viventi non felici ma infelici. 17.2. Per quale
dissennatezza dunque, o piuttosto forsennatezza,
dovremmo renderci schiavi mediante una religione
ai demoni, quando mediante la vera religione siamo
liberati dall'imperfezione in cui siamo loro simili? I
demoni infatti sono mossi all'ira [...]: a noi invece la
vera religione comanda di non essere dominati
dall'ira, ma piuttosto di resisterle.
Mentre i demoni sono blanditi dai doni, a noi la
vera religione comanda di non favorire alcuno
Benozzo Gozzoli, Agostino che legge San Paolo, 1463
dietro accettazione di doni. Mentre i demoni sono
(affresco della chiesa di Sant'Agostino
allettati dagli onori, a noi la vera religione comanda
a San Gimignano)
di non lasciarci in alcuna maniera attirare da essi
[...].
Quale motivo c'è dunque, se non una insipienza ed errore miserevole, di renderti schiavo col culto a uno da
cui desideri esser diverso nella condotta e di adorare con la religione uno che ti rifiuti d'imitare, quando
l'essenza stessa della religione è imitare l'essere che adori?"
I demoni secondo Agostino, dunque, devono essere presi per ciò che sono, cioè esseri malvagi che tramano
contro l'uomo:
20. "[I demoni] sono spiriti smaniosi di fare il male, completamente alieni dalla giustizia, tronfi di
superbia, lividi d'invidia, astuti nell'inganno. Abitano, è vero, nell'aria, ma solo perché, cacciati dalla
sublimità del cielo più alto, sono stati condannati a causa di una caduta senza ritorno a questo, per così dire,
carcere per loro conveniente. Non per il fatto, poi, che l'aria ha la sfera superiore alla terra e all'acqua
essi sono superiori agli uomini in perfezione. Gli uomini anzi li superano di molto, non certo perché hanno
un corpo terreno, ma in quanto hanno, scegliendo il vero Dio in aiuto, una coscienza religiosa.
Essi però dominano come prigionieri e schiavi molti che non sono degni della partecipazione alla vera
religione, e hanno convinto la maggior parte di costoro di esser dèi con fatti meravigliosi e false predizioni.
Tuttavia non sono riusciti a persuadere di esser dèi alcuni individui che erano più attenti e perspicaci
nell'intuire la loro immoralità; allora hanno dato ad intendere di essere intermediari e intercessori di favori
fra gli dèi e gli uomini. Così alcuni individui ritennero di dover loro tributare per lo meno questo onore. Essi
non credevano che fossero dèi, perché sapevano che sono malvagi e ritenevano che tutti gli dèi fossero buoni,
ma non osarono ritenerli completamente indegni dell'onore divino, soprattutto per non contrariare i cittadini
dai quali, come essi osservavano, per inveterata superstizione si offriva il servizio mediante tanti riti sacri e
templi."
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Agostino non potrebbe esprimere nel più chiaro dei
modi il suo disprezzo per queste entità intermedie, le
quali, nella sua concezione, sono al di sotto dell'essere
umano, nella misura in cui entrambi hanno in
comune con Dio una qualità, ma quella che l'uomo
possiede è di livello superiore: infatti l'incorporeità
che i demoni posseggono è inferiore alla razionalità e
alla moralità che possiede l'uomo.
L'uomo è dunque più vicino a Dio di quanto lo
siano i dèmoni, e da parte sua l'affidarsi ad essi è
suprema stoltezza.
Agostino tuttavia crede nell'esistenza di potenze
intermedie benevole e positive, gli angeli, ma ne
chiarisce bene le caratteristiche nel libro X del De
civitate Dei, precisando che la loro natura originaria è
esattamente la stessa dei dèmoni, perché nella sua
visione rigorosamente monistica non esiste che il
principio del Bene (Dio), e le differenze determinatesi
in seguito sono dovute unicamente alla libera scelta
di alcuni di essi di allontanarsi dal Bene. Ecco quanto
afferma Agostino a proposito degli angeli:
7.1. "Dunque gli spiriti immortali e felici, stabiliti nelle
sedi del cielo, che godono della partecipazione del
loro Creatore, perché sono stabili della sua eternità,
certi della sua verità, santi nel suo servizio, usano
misericordia nell'amare noi mortali e infelici, affinché
diveniamo immortali e felici.
Giustamente quindi non vogliono che noi
sacrifichiamo a loro, ma a colui del quale sanno di
essere sacrificio assieme a noi. Assieme a loro infatti
siamo un'unica città di Dio. [...] Una sua parte è esule
in noi, l'altra ci viene in soccorso con loro.
Benozzo Gozzoli, San Gerolamo appare
a Sant'Agostino, 1463
(affresco della chiesa di Sant'Agostino a San
Gimignano)
Dalla città celeste, in cui la volontà di Dio è legge intelligibile e immutabile, da essa che in certo senso è la
curia celeste, perché in essa si ha cura di noi, proviene a noi, somministrata mediante gli angeli santi, la
Scrittura che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto. Grandi prodigi hanno comprovato
questo passo della Scrittura, questa legge, simili comandamenti. È manifesto dunque a chi vogliono che noi
sacrifichiamo gli spiriti eternamente felici, i quali desiderano per noi il medesimo bene che per se stessi."
La differenza tra dèmoni (malvagi) ed angeli (buoni) è dunque facilmente comprensibile: i primi chiedono
onore e venerazione per sé, i secondi invece per Dio.
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La concezione agostiniana ha influenzato tutto il
pensiero occidentale, e quello cristiano in
particolare, per i secoli a venire.
E' opportuno tuttavia precisare che l'idea e la
percezione del δαίμων sembra comunque attestata
in tutte le culture antiche, riuscendo a
incorporarsi (centralmente o perifericamente) nelle
grandi religioni tradizionali. Nell'Induismo, per
esempio, è noto col nome di Atman, l'aspetto
individuale di Brahman, o Sé universale.
Uscendo
da
una
prospettiva
religiosa,
nell'Occidente laico moderno il concetto di
δαίμων è giunto attraverso due principali
medium: quello scientifico-umanistico e quello
artistico.
Numerosissimi sono gli artisti che sono stati
suggestionati dall'idea dei dèmoni, non solo intesi
metaforicamente, come nella concezione della
donna-demone o donna-vampiro tipica del
Decadentismo (che cito solo di passaggio perché
questa prospettiva esula dalle intenzioni della mia
ricerca), ma anche considerati come presenze
reali, positive o negative a seconda dei casi.
William Blake, Il Grande Drago Rosso
e la donna vestita di sole (1806-1809)
Fra i casi più interessanti cito quello di William Blake, il grande pittore e poeta vissuto tra il XVIII e il XIX
secolo, profondamente religioso, ma di una religiosità assolutamente distante da quella ufficiale: egli era
infatti convinto che la religione praticata nel mondo fosse in realtà un culto demoniaco. Era convinto che i
cristiani, anche a causa del loro rifiuto della gioia terrena, in realtà adorassero Satana; egli concepiva Satana
come un errore e come uno stato di morte, per cui riteneva che il modo migliore per adorare Dio fosse quello
di accogliere in sé tutta la gioia possibile.
Si leggano ad esempio questi versi della poesia The Garden of Love: «And priests in black gowns were walking
their rounds, And binding with briars my joys and desires» («e preti in vesti nere vi giravano attorno,
e incatenavano con rovi le mie gioie e i miei desideri»).
Egli quindi si opponeva ai sofismi teologici che giustificano il dolore, ammettono il male e trovano
pretesti per lasciare l'ingiustizia impunita.
Blake sostenne di aver avuto visioni per tutta la vita, e di esse lascia traccia evidente nei suoi dipinti.
Inoltre Blake affermava di ricevere personalmente istruzioni ed incoraggiamento dagli Arcangeli per creare
le sue opere. Di lui William Wordsworth ha scritto: «Non c'è dubbio che questo poveraccio fosse pazzo, ma
c'è qualcosa nella sua pazzia che attira il mio interesse più dell'equilibrio di Lord Byron e Walter Scott».
Un altro caso ben noto è quello di Edgar Allan Poe, i cui Racconti del terrore mettono in scena visioni
inquietanti di non-morti o di strani ectoplasmi, lasciando spesso il lettore in dubbio sulla loro natura (reale o
originata dalla fantasia malata del protagonista?), come nel caso di Ligeia, La maschera della morte rossa o
Morella.
Ma anche scrittori come Pirandello o Svevo hanno ceduto alle suggestioni del mondo demònico, dando
spazio nei loro romanzi (Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno) a sedute spiritiche, sulle quali ironizzano
cautamente, lasciando intendere che potrebbe esserci del vero.
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Se spesso gli artisti hanno fatto oggetto della propria arte i dèmoni, ben più inquietante è il caso di coloro che
si sono personalmente dedicati ad attività occultistiche, divenendo talvolta adepti di sette sataniche o
entrando a far parte di società segrete in vario modo connesse con l'evocazione dei dèmoni.
E' il caso ad esempio di Dante Gabriel Rossetti, caposcuola dei Preraffaelliti, che, ossessionato dalla moglie
suicidatasi per causa sua, Elizabeth Siddal, tentò ripetutamente di mettersi in contatto con lei attraverso
sedute spiritiche e ne fece perfino disseppellire il cadavere, finendo per ridursi in condizioni di quasi totale
dissesto psichico; e, in tempi più recenti, di Salvador Dalì, di cui si dice che sia stato l'ultimo "Ormus" (=
Grande Maestro) dei Rosacroce, notoriamente dedito a pratiche magiche, soprattutto a causa dell'influsso
(qualcuno dice "plagio") esercitato su di lui dalla moglie Gala. Di questa sua attività resta traccia evidente in
alcuni suoi dipinti; uno di questi è, a mio parere, particolarmente interessante in tal senso, e ad esso ho
dedicato un intero capitolo. Si tratta dell'Ultima Cena conservata alla National Gallery of Art di Washington,
del 1955.9
Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70
(la modella è la moglie Elizabeth Siddal, morta nel 1862)
Il concetto di dèmone è stato immediatamente recepito anche dalla psicoanalisi, dove è stato di volta in volta
identificato con i concetti di "anima", "animus", "ombra", "alter-ego", "doppio" o "sé". Una lettura junghiana lo
definirebbe come la forma preconscia dell'individualità, intesa come "io" preconscio e "sé" preconscio insieme,
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ossia come il nocciolo della personalità totale. J. Hillman, ne Il codice dell'anima, rielabora e amplifica la
trattazione platonica esistente al riguardo denominandola "teoria della ghianda": la ghianda è l'immagine
guida del nostro destino, che l'anima si sceglie prima di nascere affidandola non al nostro "io", ma a un
"altro", il δαίμων appunto, che ha il compito di renderla operante, liberandola al momento opportuno e
sfruttando allo scopo ogni possibile situazione, buona o cattiva che sia. "L’io non è padrone in casa sua",
diceva sgomento Freud; "Je est un autre" (io è un altro), diceva esaltato Rimbaud, in accordo con Verlaine:
concetto ripreso da Picasso, che lo riferiva a sé come il suo demone creativo, tormento ed estasi della sua vita
(insieme alle donne).
E' appena il caso di ricordare, poi, che in tempi recentissimi il tema è stato riportato potentemente in auge da
Dan Brown: proprio Angeli e dèmoni è il titolo di un suo celebre best-seller del 2000, dal quale nel 2009 è
stato ricavato anche un film di successo; in esso il concetto del δαίμων viene strettamente collegato con le
pratiche occulte (e, ovviamente, inconoscibili) della setta degli Illuminati, in origine società segreta bavarese
del XVIII secolo, che nella contemporaneità sembra adombrare diverse società massoniche (la cosiddetta
"massoneria deviata"). Queste società segrete, secondo l'opinione di molti, sarebbero di una estrema
pericolosità, non solo perché dedite a pratiche sataniche (le loro filiazioni sataniche più note sarebbero la
Rosa Rossa e la Croce d'Oro, collegate ad alcuni delitti efferati rimasti inspiegati, ad esempio quelli del
"mostro di Firenze", di Erba e di Cogne), ma anche e soprattutto perché riunirebbero fra i loro adepti le
famiglie economicamente più potenti - e quindi politicamente più influenti - del mondo (in totale, si dice,
diciassette: tredici "ufficiali" e quattro "affiliate", fra cui la famiglia Disney); la loro finalità sarebbe il controllo
sulle menti della gente (mind control) attraverso svariati strumenti, principalmente i mass media, il cinema
per bambini, la musica pop, la moda e la pubblicità, allo scopo di produrre una regressione intellettuale e
morale del genere umano ed assicurarsi così il potere assoluto sul mondo, riducendo gli uomini ad una
massa di imbecilli plagiati fin da piccoli (si veda Lady Gaga, i cui video sono disseminati di riferimenti fin
troppo trasparenti agli Illuminati: è il caso ad esempio di quello di Paparazzi, che contiene fra l'altro
un'evidente allusione alla Disney, attraverso il personaggio di Mickey Mouse).
E', né più né meno, la realizzazione dello scenario distopico delineato già da Ray Bradbury in Fahrenheit 451
e da George Orwell in 1984.
Lady Gaga compie un gesto ricorrente nei suoi video,
allusivo alla setta degli Illuminati
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DÀIMONES
In anni recenti anche la filosofia, sia pure "debolmente", è sembrata aprirsi all'accoglimento di questo mistero
"psicospirituale" con un testo di Massimo Cacciari (il filosofo più noto come politico ed ex-sindaco di
Venezia), L'angelo necessario, in cui però l'autore distingue nettamente l'angelo dal δαίμων: quest'ultimo
chiama dall'idea alla forma, e per questo è perentorio; l'angelo chiama invece dalla forma all'idea, e per
questo è leggiadro.
Da buon filosofo, Cacciari vede l'oltre solo nell'angelo, mentre da un punto di vista simbolico-contemplativo
sono entrambe figure-ponte tra il visibile e l'invisibile, due aspetti di una medesima realtà dello spirito in
rapporto all’anima, sia pure polarizzati in senso opposto. Ma non esiste l'uno senza l'altro, fermo restando
che è comunque il δαίμων che spinge all’individuazione (il compimento, secondo Jung, del proprio
compito nel mondo).
A questo proposito, osserva Baldo Lami, "sarebbe interessante e molto educativo per tutti noi poter rileggere
la storia di Gesù come la storia archetipica del soggetto umano in grado di trascendere la sua finitudine
grazie alla doppia interlocuzione con l'angelo-δαίμων.
Potrebbe sembrare una cosa riservata solo a pochi "eletti", ma l'esperienza del δαίμων è veramente molto più
comune di quel che non si creda": basti pensare che Eros, come si è detto, è considerato da Platone un
δαίμων, e dell'amore prima o poi facciamo esperienza tutti, solo che, conclude Lami, "viene poi confinato e
riferito soltanto a quello specifico vissuto, oltretutto molto episodico, dell'innamoramento, anziché
considerarlo un esempio di trascendenza a variabili infinite nello spazio e nel tempo".
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DÀIMONES
SCHOPENHAUER: LA NATURA "DEMONIACA"
E' noto che la filosofia di Arthur Schopenhauer (1788-1860) prende le mosse dall'opposizione
all'identificazione hegeliana tra realtà e razionalità. Schopenhauer riprende, pur con alcune differenze, la
concezione kantiana secondo la quale i fenomeni esistono solo in quanto oggetti della percezione,
dissentendo però da Kant sul fatto che la "cosa-in-sé" sia un limite irraggiungibile, posto oltre l'esperienza;
egli la identifica invece con la volontà (Wille).
La volontà non si identifica affatto con l'azione consapevole, come nell'accezione corrente del termine: tutta
l'esperienza del sé, comprese le inconsapevoli funzioni fisiologiche, è volontà. La volontà è l'intima natura
del proprio corpo, che è "rappresentazione", cioè apparenza fenomenica nel tempo e nello spazio.
Schopenhauer concluse che l'essenza del mondo materiale, cioè della natura, è un'unica volontà
universale.
L'uomo può percepire soltanto i fenomeni nel mondo e non la "cosa in sé", ovvero come il mondo realmente
è, a causa del velo di Maya, il velo dell'illusione che ottenebra le pupille dei mortali.
Sollevato il velo di Maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguardo, dietro l'apparenza razionale
del fenomeno, cioè del mondo come rappresentazione, è lo spettacolo di una volontà cieca e irrazionale, che
non si propone altro scopo che la propria autoaffermazione. La volontà vuole se stessa: è una volontà di
vivere cieca e astuta, che sfrutta ogni occasione per affermarsi, senza avere di mira uno scopo razionale.
È questo per Schopenhauer il volto vero e demoniaco del mondo, il mondo come volontà.
Ludwig Sigismund Ruhl, Ritratto di Schopenhauer, 1815
Per Schopenhauer il tragico dell'esistenza scaturisce dalla caratteristica della volontà di vita di spingere
l'individuo al raggiungimento di mete successive senza potersi mai placare, poiché la volontà è infinita.
Essa conduce pertanto l'individuo al dolore, alla sofferenza e alla morte e in un ciclo infinito di nascita, morte
e rinascita.
L'attività della volontà può essere portata alla cessazione mediante un atteggiamento ascetico, nel quale la
ragione governa la volontà cercando di placare la lotta. Questo atteggiamento viene definito noluntas,
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IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
termine che sta ad indicare la condizione della volontà liberata, non più cieca volontà di vivere, ma sua
catarsi definitiva, non più propriamente "volontà", ma "non volontà".
Il tema della morte in Schopenhauer ci introduce nel più chiaro dei modi a questa visione della natura come
concretizzazione del Wille. Questa visione oscilla tra due polarità opposte: la concezione della natura come
produttrice di forme di bellezza e la denuncia della sua essenza demoniaca e cannibale.
Egli parte dalla considerazi Schopenhauer rifiuta di collegare semplicisticamente noncuranza e terrore come
se la prima fosse un modo di reagire e di rimuovere questo terrore sempre incombente, quindi come se vi
fosse tra entrambi un nesso puramente psicologico; e nemmeno accetta una spiegazione razionale, come se
cioè la noncuranza fosse il risultato di una riflessione e di un ragionamento implicito sull'ineluttabilità della
morte. Si tratta piuttosto di scoprire le radici metafisiche di questi sentimenti: esse rimandano all'essenza
del reale che è volontà, e nello stesso tempo al superamento del momento empirico-fenomenico.
Nel terrore di fronte alla morte parla in realtà la voce stessa della natura, intesa come concretizzazione
della volontà, che è essenzialmente volontà di vivere. E proprio questo sentimento attesta che «tutto il nostro
essere in se stesso è già volontà di vita, a cui questa deve valere come il sommo bene, per quanto
amareggiata, breve ed incerta essa sia» (Supplementi, II, XLI, p. 482). E poiché la volontà non è affatto
distribuita e spezzettata fra gli individui, ma è presente nella sua totalità in ciascun individuo, allora si
comprende che l'orrore della morte è orrore che il principio metafisico stesso manifesta di fronte all'idea
della propria autodistruzione.
Caspar David Friedrich, Il naufragio della Speranza, 1823-24
«Nel linguaggio della natura la morte significa annientamento» (ivi, p. 481) - ed è significativo che
l'annientamento sia anzitutto annientamento del corpo che è «oggettivazione immediata della volontà». Ma
anche la noncuranza è, alle sue radifici, noncuranza della natura: la morte - dice Schopenhauer - «dissipa
l'illusione che separa la coscienza individuale da quella universale» (M 324), ricongiungendo la mia vita
alla totalità vivente del mondo. Ed allora possiamo veramente essere noncuranti della morte, e in un senso
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profondo, che può arrivare alla piena consapevolezza dell'intramontabilità del presente che è anche
l'intramontabilità della vita. Il presente è allora paragonabile ad un «eterno mezzogiorno al quale non mai
succede la sera, o come il vero sole che arde ininterrottamente benché sembri tuffarsi nel seno della notte»
(Mondo, 1985, p. 324).
Sullo sfondo di ciò vi certamente sempre il pensiero dell'effimero. Ma questo pensiero deve essere pensato
attraverso l'idea di una ricongiunzione con la totalità, da cui l'individualità è stata scissa per entrare nel
vortice di un mondo che è mera apparenza. In questa totalità la morte è, non meno della nascita, una vicenda
interna della vita, essa appartiene alla vita immortale della natura (Mondo, 1985, § 54, p. 317). Un concetto
non molto lontano da quello di mors immortalis di Lucrezio.
Questa vitalità della natura ha nel ciclo corporeo il proprio modello elementare: in esso vi è acquisizione
ed espulsione di materia e tra acquisizione ed espulsione generazione continua di cellule vitali. E così nello
sviluppo della pianta la foglie e i fiori caduti a terra rappresenteranno il suo concime. La «fresca esistenza»
di ciascuno è «pagata con la vecchiezza e la morte di un defunto, il quale è perito, ma che conteneva il
germe indistruttibile dal quale è nato questo nuovo essere: essi sono un essere solo» (Supplementi, 1986, II,
XLI, p. 521).
one che l'atteggiamento quotidiano dell'uomo nei confronti della morte altalena tra noncuranza e terrore. Di
questi stati affettivi Schopenhauer propone una notevole spiegazione psicologico-metafisica.
La morte incombe su ciascun individuo come un evento che può intervenire in ogni istante in modo più o
meno inatteso, più o meno fortuito. Eppure ciascuno, nella misura del possibile, vive lietamente «come se la
morte non ci fosse» (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1985, p. 324). Non appena però ci si trova
realmente faccia a faccia con la morte o anche soltanto ci si immagina di esserlo, a questa noncuranza
subentra il terrore di essa: l'individuo cerca allora con ogni mezzo di fuggirla.
Caratteristica primaria del Wille nella sua immediata concretizzazione naturale è la produzione spontanea di
bellezza. «Ogni pezzetto di terra non coltivato ed inselvatichito, - scrive Schopenhauer - cioè abbandonato
liberamente a se stesso, per quanto sia piccolo, purché la zampa dell'uomo ne resti lontana, si decora
immediatamente nel modo più bello, si veste di piante, di fiori e di cespugli, il cui spontaneo essere, la cui
grazia naturale e il vago raggruppamento dimostrano che non sono cresciuti sotto la sferza del grande
egoista e che la natura ha potuto liberamente svilupparsi. Ogni pezzo abbandonato diviene
immediatamente bello. Su ciò si fonda il principio del giardino inglese, il quale consiste nel nascondere il
più possibile l'arte, in modo da fare apparire che qui la natura ha liberamente dominato. Perché solo allora
essa è perfettamente bella, cioè mostra nella più grande chiarezza l'obbiettivazione della volontà alla vita
ancor priva di conoscenza che qui si dispiega con la più grande ingenuità, perché le forme non sono
determinate, come nel mondo animale, da scopi esteriori, ma solo immediatamente dal suolo, dal clima e da
un misterioso terzo in grazia del quale tante piante, che sono sorte dallo stesso suolo e nello stesso clima,
pure mostrano forme e caratteri così diversi» (Supplementi, 1986, II, XXXIII, p. 418).
Ma vi è in ogni caso, al di sotto di questa spontanea manifestazione di bellezza, un aspetto demoniaco della
natura, che ha le sue radici proprio nella volontà di vivere come principio metafisico. "Non divina, ma
demoniaca merita di essere chiamata la natura" - cita Schopenhauer da Aristotele (Supplementi, I, 1986, p.
362) . E questo demonismo viene fissato da un'immagine terribile: quella di una natura in cui si riversa una
fame insaziabile, della vita universale come un pasto immane, in cui tutti divorano tutti, «ogni individuo è
preda e nutrimento dell'altro», cosicché infine «la volontà di vivere si nutre della sua propria sostanza e fa
di sé in diverse forme il suo nutrimento» (Mondo, 1985, § 27, p. 185).
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Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, 181923
Simeon Solomon, Dioniso, 1867
La natura, sotto la maschera splendida e sorridente di Dioniso, nasconde le orribili fattezze del Saturno di
Goya (1820-1823), immagine perfetta del cannibalismo della Volontà.
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DÀIMONES
DEMONI "SUI GENERIS"
CALLIMACO E I TELCHINI
Callimaco (Cirene, 305 a.C. - Alessandria d'Egitto, 240 a.C.) è il teorizzatore del nuovo modo di intendere la
poesia che si affermò nel III secolo a.C.; com'è noto, nei suoi scritti egli diede ampio spazio alle dichiarazioni
di poetica.
Tra i suoi testi superstiti, quelli da cui ricaviamo i caratteri principali della sua poetica sono i seguenti:
Primo prologo degli Àitia: contiene il racconto dell'investitura poetica di Callimaco da parte delle Muse,
avvenuta in sogno; rimanda allusivamente al prologo della Teogonia di Esiodo, la cui poesia è implicitamente
anteposta all'altisonante epos omerico.
Secondo prologo degli Àitia: contiene la celebre invettiva contro i "Telchini", dèmoni maligni che
adombrano i suoi detrattori. Essi gli rimproverano di non saper comporre grandi poemi: Callimaco si difende
affermando il concetto che "l'arte si misura con l'arte, non con la pertica persiana".
Finale dell'Inno II (ad Apollo): Apollo scaccia con una pedata il demone dell'invidia, Φθόνος (Phthònos), il
quale sostiene che è bella solo la poesia "grande come il mare", contrapponendola ovviamente alle opere di
Callimaco; Apollo, dio della poesia e quindi giudice inappellabile, replica che perfettamente pura è solo
l'acqua che sgorga da una piccola sorgente, mentre l'Eufrate trascina con sé detriti di ogni sorta. Di queste
parole di ricorderà Orazio (Satire 1, 4, 11) nel criticare il suo predecessore Lucilio, di cui dirà che lutulentus
fluebat, "scorreva fangoso".
Presunto ritratto di Callimaco
Epigramma 43: esprime profonda avversione per il ποίημα τὸ κυκλικόν e per "l'amante che a tutti si dona"
(la poesia volgare).
Frammento 398 (epigramma): deride la "Lide" di Antìmaco di Colofone definendola "una grossa donna"
(avversione verso le opere di grandi dimensioni).
Frammento 456 (non identificato): dice testualmente: τὸ μέγα βιβλίον... ἴσον τῷ μεγάλῳ κακῷ (più o
meno "grande libro uguale grande schifezza").
Giambo IV (contesa tra l'alloro e l'ulivo): adombra una contesa letteraria di cui ci sfuggono i termini esatti.
Nella contesa fra le due piante, che rappresentano modi opposti di concepire la poesia (probabilmente l'epos
e la poesia didascalica), ma hanno entrambe una certa dignità, s'intromette un rovo che cerca di dire la sua,
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IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
ma viene messo seccamente a tacere.
Giambo XIII: Callimaco difende la sua Musa dagli attacchi dei detrattori, riallacciandosi alla tradizione di
Ipponatte e Mimnermo.
Epigramma 21: epitafio per il padre del poeta, in cui Callimaco afferma di avere vinto la βασκανίη (=
maligna invidia).
Epigramma 525:
ancora per il padre morto. Callimaco afferma di avere composto carmi κρείσσονα
βασκανίης ("più forti dell'invidia").
Ibis:
era tutto (pare) una feroce invettiva contro un avversario ignoto (forse Apollonio Rodio), paragonato,
per motivi che non conosciamo ma che si possono facilmente intuire, all'uccello egiziano dalle discutibili
abitudini igieniche (lo si riteneva coprofago). Lo imitò Ovidio nell'omonimo componimento.
"Contro Prassìfane": opuscolo perduto contro Prassìfane, discepolo di Aristotele, in difesa della propria
poetica.
Il testo di gran lunga più importante è il cosiddetto "proemio dei Telchini", ovvero il secondo proemio
degli Àitia.
Esso è ispirato da un'evidente intenzione polemica nei confronti dei suoi detrattori, definiti appunto
"Telchini" per motivi che chiarirò in seguito, i quali avevano mal giudicato la prima edizione degli Àitia, in
due libri; le accuse vertevano, pare, sulla disorganicità e sulla mancanza di unitarietà dell'opera, composta di
elegie staccate e prive di un centro unificatore, eccezion fatta per il tenue fil rouge costituito dalla finzione
delle domande poste da Callimaco alle Muse che gli erano apparse in sogno nel proemio "esiodeo": ogni
domanda verteva sulle origini o sulle antiche cause di un qualche fenomeno contemporaneo, da cui il titolo
di Àitia, "Origini" o "Cause"; a tali domande le Muse rispondevano soddisfacendo la curiosità del poeta. Si
trattava dunque di poesia "eziologica" (letteralmente: "che ricerca le cause").
Callimaco risponde da par suo alla stroncatura di questi critici: non solo non fa ammenda delle "colpe"
riconosciutegli, ma peggiora la situazione dando alla luce una seconda edizione dell'opera, in quattro libri,
nella quale non solo mantiene intatte le caratteristiche della prima edizione, ma addirittura sopprime la
finzione del botta-e-risposta con le Muse, eliminando così il già sottilissimo legame tra le varie elegie. E' a
questo punto che aggiunge un secondo proemio, senza eliminare il primo: si tratta appunto del "proemio
dei Telchini".
Gustave Moreau, Esiodo e la Musa, 1891
Questo proemio, in aperta polemica con gli avversari del poeta, espone tutti i principi essenziali della
poetica di Callimaco, che sarà fatta propria dall'intero alessandrinismo e più tardi, in Roma, dai poeti
preneoterici (il "circolo di Lutazio Catulo", fiorito verso la fine del II secolo a.C.) e dai poëtae novi, chiamati
ironicamente da Cicerone neoteroi (comparativo assoluto: "abbastanza nuovi"), attivi in Roma nel I secolo a.C.
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IRENE STORNIOLO
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e per noi rappresentati quasi solo da Catullo; non a caso questi principi sono noti attraverso la sintetica
formula latina brevitas atque ars e la terminologia in uso per definirli è latina: levitas, brevitas, novitas, ars
(o labor limae), doctrina, varietas.
Più in dettaglio si tratta di questo:
a. insofferenza per l'impegno ideologico e per la retorica; di conseguenza, ricerca del disimpegno e della
leggerezza (levitas, λεπτότης) e concezione della poesia come "gioco" (lusus, παίγνιον);
b. avversione per i componimenti "grossi" (cioè estesi: caso tipico il poema epico-ciclico) e ricerca della
brevitas;
c. disprezzo per il passato poetico della Grecia (dal quale restano esclusi Esiodo, qualche lirico come
Ipponatte e, con riserva, Omero), in una ricerca esasperata della novitas;
d. svalutazione del contenuto rispetto alla forma (poesia "pura" o "verbale") e produzione di
componimenti ricercatissimi sul piano formale, al limite anche astrusi (ars, labor limae);
e. ostentazione dell'erudizione, vero e proprio segno di riconoscimento fra intellettuali, teso ad escludere
dalla fruizione dell'opera la massa degli zotici, ovvero di tutti coloro che non sono in possesso dei mezzi atti
alla decifrazione dell'allusione colta (doctrina);
f. dal punto di vista del contenuto, tendenza al realismo (sia pure, spesso, di maniera), al quotidiano, al
sentimentalismo, oppure alla ricerca di temi mitologici peregrini o marginali, svuotati di ogni pregnanza
ideologica (il mito diventa mitologia, semplice repertorio di favole), nella esasperata rincorsa di una varietas
che renda piacevole e mai noiosa la lettura.
Riporto di seguito il testo del proemio così come si trova nei papiri, con la traduzione di Giuseppe Rosati a
fianco, sottolineando i punti in cui Callimaco espone la sua poetica ed indicando a fianco le lettere che
corrispondono ai princìpi di poetica prima elencati:
Un buffo giocattolo che rappresenta un Telchino
(è evidente la sua natura anfibia)
Spesso i Telchini mormorano contro la mia arte,
ignoranti, che della Musa non nacquero amici,
perché non un solo canto continuato o di re
a gloria in molte migliaia di versi ho compiuto
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a.
b.
IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
certo sì io ero poeta di pochi versi, ma supera
di molto la lunga *** la feconda Demetra (1).
E delle due opere, che Mimnermo fu un dolce poeta,
i carmi brevi, non la grande donna (2)
ce l'hanno mostrato. Lungi verso la Tracia dall'Egitto voli
del sangue dei Pigmei godendo la gru,
e i Massàgeti (3) lungi lancino il dardo contro
il Medo; ma più dolci così sono gli usignoli.
Alla malora, funesta stirpe della Maldicenza, e in avvenire
con l'arte giudicate, non con la pertica persiana, la mia
poesia, né da me cercate che un canto molto risonante
nasca; tuonare non spetta a me, ma a Zeus.
Quando infatti la prima volta la tavoletta posi sulle mie
ginocchia, così mi disse Apollo Licio:
«La vittima, o diletto cantore, il più possibile grassa
bisogna allevarla, ma la Musa, o mio caro, sottile.
Inoltre anche questo voglio consigliarti: le vie che non
battono i carri devi calcare, né sulle stesse orme di altri
spingere il cocchio né per largo cammino, ma per sentieri
non calcati, anche se per una via più angusta dovrai
guidarlo». A lui porsi ascolto: ché fra quelli cantiamo che
l'armonioso canto della cicala amano, non il raglio degli
asini. Al modo stesso dell'orecchiuto animale levi il suo
raglio un altro, io sia invece l'esile, l'alata (4),
ah sì in tutto, perché la vecchiaia perché la rugiada: questa
(5) io canti sorbendola, mattutino alimento, dal divino
etere, di quella (6) poi mi spogli, che con tanto peso mi
sovrasta come la tricuspide isola sullo sventurato Encelado
(7). Ma non mi curo: quanti infatti da fanciulli le Muse
guardarono con occhio benigno, da vecchi, a lor cari, non li
abbandonano.
b.
b.
b.
b.
b.
d.
d., b.
a.
a.
a.
a., b.
c.,e.,f.
c.,e.,f.
c.,e.,f.
b., d.
b., d.
b., d.
b., d.
a.
a.
(1) Probabile allusione alla Demetra di Filita di Cos, poeta elegiaco di poco precedente rispetto a Callimaco e
molto stimato dagli Alessandrini; la lacuna conteneva il nome di un'opera non apprezzata da Callimaco,
forse la Lide di Antìmaco; (2) forse la Smirneide (o la Nannò) di Mimnermo, opere comunque perdute; (3) la
gru e i Massàgeti designano metaforicamente la forma "lunga" della poesia epico-ciclica; (4) la cicala,
ovviamente; (5) la rugiada; (6) la vecchiaia; (7) Encèlado era un gigante che, secondo il mito, stava disteso
sotto l'Etna.
Ma chi erano esattamente i Telchini?
La questione ha due aspetti ben distinti: trattandosi infatti di una metafora, ovvero di un tropo, al
significato letterale si sovrappone un significato figurato: da una parte occorre perciò comprendere chi siano
i Telchini come creature mitiche (significato letterale), dall'altra a chi alluda metaforicamente Callimaco
(significato figurato).
Stranamente, è più facile dare una risposta a questa seconda domanda, dal momento che un papiro noto
come "Scolio fiorentino" ce ne riporta l'elenco. I nemici di Callimaco adombrati come "Telchini" risultano
essere i seguenti:
1. I due Dionisii (?);
2. Asclepiade di Samo;
3. Posidippo di Pella;
4. Prassìfane di Mitilene.
L'identità dei "due Dionisii" non è nota; ovvia la presenza dell'aristotelico Prassìfane, con cui sappiamo che
Callimaco era in polemica; ma abbiamo una doppia sorpresa: la presenza nella lista di Asclepiade e
Posidippo, epigrammatisti, che a noi sembrano condividere pienamente i princìpi di poetica di Callimaco, e
soprattutto l'assenza di Apollonio Rodio, l'allievo "degenere" di Callimaco.
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IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
Eppure è lui il primo al quale avremmo pensato, sia perché i Telchini sono originari di Rodi, sia perché
sappiamo che Apollonio era entrato in aspro conflitto con il maestro dopo che gli era stata attribuita l'ambìta
carica di epistàtes della Biblioteca di Alessandria, carica che ben più sensatamente avrebbe dovuto essere
attribuita a Callimaco. Proprio Apollonio, pare, costituiva il bersaglio dell'Ibis.
Ma non è questo che importa dal punto di vista della mia ricerca: di gran lunga più interessante è capire chi
erano i Telchini secondo il mito.
Un Telchino nella fantasia di un cartoonist giapponese
In genere la loro figura viene ricostruita così: i Telchini erano dèmoni originari dell’isola di Rodi, protettori
dell’arte siderurgica e molto gelosi della loro arte, terribilmente invidiosi di chi era più bravo di loro e capaci
di fare del male con il potere dello sguardo.
Essi erano messi in rapporto con il dio del mare Posidone, che essi avevano allevato, così come i Cureti (con i
quali hanno molti aspetti in comune) avevano allevato Zeus. Una evidente primordialità caratterizza i
Telchini, che risultano anfibi, con tratti marini e terrestri, e ambivalenti. Oltre che anfibi erano anche
polimorfi, avendo la facoltà di cambiare forma. L'ambivalenza si esprime nel fatto che, pur avendo una
potenza malefica nello sguardo (il "malocchio", appunto), erano anche inventori e artisti; e potevano far
cadere la pioggia, sia benefica sia distruttiva.
I Telchini erano diciassette in tutto: Aktaios (Actaeus), Argyron, Atabyrius, Chalcon, Chryson, Hormenius,
Lykos (Lycus ou Lyktos, l'eroe eponimo della Licia), Megalesius, Mylas, Nicon, Simon, Zenob, Skelmis,
Damnameneus, Damon (Demonax), Megalesios, Ormenos.
Ma ancor più interessante e insolito è ciò che trovo nel libro di un autore albanese, Aristidh Kola, intitolato
Gjuha e perëndive: egli infatti fa notare come i Telchini facciano parte della mitologia albanese (!).
Vediamo come e perché, attraverso le parole di un sito internet dedicato a questo insolito argomento.
"I Telchini (in albanese Telhinë) sono demoni che vivono sotto la superficie terrestre, ma anche nelle
profondità del mare e sulla terraferma. A causa di questa loro molteplice dislocazione, li consideriamo come
esseri anfibi che hanno forme strane e illimitate possibilità di trasformazione. Nell’isola di Rodi, che è
considerata la loro patria, li chiamavano maghi. Erano proprio loro [i Telchini] che, secondo le leggende,
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fecero sprofondare sul fondo del mare l’isola di Rodi, facendola poi riemergere in superficie molto più tardi
delle altre isole.
Il mito dei Telchini è collegato con quello del fuoco. Gli studiosi li considerano una personificazione delle
forze vulcaniche marine; nell'antichità erano indicati come la causa principale dei terremoti nelle terre
isolane. [...] Erano considerati maestri nella lavorazione dei metalli."
A questo punto l'autore avanza un'ipotesi etimologica che fa risalire il nome "Telchini" alla lingua albanese:
"Telchino è un nome la cui prima parte deriva dal verbo albanese del (uscire), e la cui seconda dall’altro verbo
albanese hin (entrare). In questa maniera un Telchin (Telhin) è colui che entra ed esce (dall’acqua), cioè un
essere anfibio; oppure, secondo un’interpretazione ugualmente valida, una figura mitologica in grado di
causare lo sprofondamento negli abissi di un’isola oppure il suo riemergere. La parola poi è stata
trasformata da delhin (telchin) in telhin."
Ma non è finita: c'è un'altra ipotesi: "P. Karolide, nella sua introduzione dell’opera “La storia del popolo
greco” di K. Papariguli (prima parte, p.96), collega la parola Telhi alla parola armena del (medicina)."
Un'ulteriore curiosità è poi costituita dall'affinità che, secondo l'autore, esiste tra delfino e Telchino: "la
parola delfino, in albanese delfin, potrebbe aver avuto origina da del (esce) e fus (entra), rispecchiando il
comportamento del delfino che [...] entra ed esce (dall’acqua)."
Bassorilievo raffigurante Anfitrite, Posidone e creature marine
Altre ipotesi etimologiche vengono avanzate da Robert Graves nel suo libro “La mitologia greca”, a pagina
215:
"Telchin (Telhin): i grammatici greci riconducevano questa parola al termine ϕέλγειν (fèlghein), che significa
attrarre, stregare. Ma visto che la donna, il cane e il pesce rappresentavano motivi ricorrenti nei dipinti della
Scilla Tirrena, così come in quelli di Creta, oppure anche nelle figure delle polene delle navi Tirrene, questa
parola può essere intesa come variante della parola “Tirin”, oppure “Tirsin”. Sembra che i Telchi fossero
divinità adorate da un antico popolo della Grecia, di Creta, della Lidia e delle varie isole del mar Egeo, nelle
quali vigeva un regime matriarcale, e che gli aggressori greci, organizzati viceversa in uno stato patriarcale, li
avessero costretti ad emigrare verso nord. L’origine di questo popolo sembra di essere quindi riconducibile
all’Africa Orientale."
L'interpretazione di Graves viene giudicata assurda dall'autore dell'articolo. Personalmente non saprei per
quale di queste ipotesi propendere: mi pare che l'unico dato su cui tutti concordano sia quello della
definizione dei Telchini (qualunque sia la loro origine e l'etimologia del loro nome) come dèmoni maligni,
legati sia al mare che alla terra, la cui cattiveria si manifesta soprattutto attraverso lo sguardo.
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IRENE STORNIOLO
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Quest'ultimo dettaglio è il più interessante: nella cultura greca è ben raro incontrare il "malocchio", cioè il
potere di attirare il male contro una persona odiata usando lo sguardo. E' un concetto molto più tipico della
cultura latina, notoriamente superstiziosa (si veda ad esempio Catullo, carme 5): e proprio al potere dello
sguardo è etimologicamente collegato il verbo latino invidere (letteralmente "guardare contro").
L'invidia dunque, tanto per i greci quanto per i latini, è una forma di odio e di cattiveria molto pericolosa,
perché ha la capacità di danneggiare qualcuno attirando la sfortuna contro di lui, e lo strumento attraverso il
quale viene attirata la sfortuna è lo sguardo, da cui etimologicamente "mal-occhio".
La metafora è chiara: gli avversari di Callimaco, essendo fabbri, non sono in grado di lavorare i
metalli preziosi e compensano la scarsa qualità con la grande quantità (i molti versi che compongono, che
però sono vile ferraglia). L'"orefice" Callimaco invece crea gioielli preziosi e raffinati, necessariamente di
piccole dimensioni, perché l'oro è un metallo raro e non si trova in abbondanza in natura. I "Telchini" sono
malvagi e calunniatori come i loro progenitori mitici e come Φθόνος, il dèmone dell'invidia, che compare
nel finale dell'Inno II ad Apollo, sostiene tesi analoghe a quelle dei Telchini e viene allontanato con una
pedata dal dio.
I "Telchini" quindi, non potendo essi stessi raggiungere le vette della poesia, si comportano come tutti gli
invidiosi: ovvero si sforzano di danneggire chi è migliore di loro, nel tentativo di sminuire la sua fortuna e il
suo successo e di ridurlo al loro infimo livello.
La loro azione non va mai sottovalutata: nell'invidia infatti c'è la volontà del male e l'invidioso fa il male
intenzionalmente, godendo del dolore causato ad altri; proprio per questo è un individuo spregevole, ben
degno di essere classificato come un dèmone.
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IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
IL DIAVOLETTO DI MAXWELL E L'ENTROPIA
«Se concepiamo un essere con una vista così acuta
da poter seguire ogni molecola nel suo movimento,
pur avendo le medesime nostre limitazioni
per quanto riguarda altri attributi,
questi potrebbe fare ciò che a noi oggi è impossibile»
(James Clerk Maxwell)
Il diavoletto di Maxwell, detto anche demone di Maxwell, è una minuscola creatura immaginaria che può
controllare una botola in un gas per separare gli atomi caldi da quelli freddi. Maxwell propose questo
esperimento intellettuale circa 150 anni fa come una sorta di sfida, per verificare se il secondo principio della
termidinamica sia veramente un principio, e come tale inviolabile.
L'esperimento infatti sembrava offrire un modo piuttosto semplice di violarlo, producendo una variazione
di temperatura tra due corpi senza alcuna spesa di energia e riducendo così l'entropia1 in un sistema
isolato2.
Esistono molte formulazioni equivalenti del secondo principio della termodinamica; quelle storicamente
più importanti sono le seguenti:
1) È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo
più freddo a uno più caldo (formulazione di Clausius).
2) È impossibile realizzare una trasformazione ciclica il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di
tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea (formulazione di Kelvin-Planck).
3) Non è possibile - nemmeno in linea di principio - realizzare una macchina termica il cui rendimento sia
pari al 100%.
4) In un sistema isolato l'entropia è una funzione non decrescente nel tempo.
Nella fisica moderna la formulazione più ampiamente usata è quest'ultima.
(1) L'entropia è una grandezza che viene interpretata come una misura del caos in un sistema fisico o più in
generale nell'universo; descrive il fenomeno per il quale le trasformazioni fisiche avvengono invariabilmente
in una direzione sola, ovvero quella verso il maggior disordine.
(2) Un sistema si dice isolato se non permette un flusso né di energia né di massa con l'ambiente esterno.
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Il ben noto teorema di Carnot impone una limitazione essenziale nella resa di un motore termico ciclico: il
motore può trasformare solo una parte del calore in energia meccanica e il rendimento non è mai del
100%.
Naturalmente nulla va perduto: lo vieta il primo principio della termodinamica, detto della conservazione
di energia, il quale afferma che la quantità totale di energia di un sistema isolato è costante, cioè che il suo valore
si mantiene immutato nel tempo.
Tuttavia una parte dell'energia assume la forma di calore degradato, che si disperde nell'atmosfera e non può
più essere riutilizzato.
In sintesi: nessuna trasformazione di energia da una forma in un’altra presenta un rendimento del 100%;
una certa quantità va sempre perduta in una forma inutilizzabile, rappresentata dal calore che viene
disperso nell’atmosfera.
L'energia complessiva di un sistema, quindi, per il primo principio della termodinamica, si conserva
indefinitamente, ma si trasforma da energia nobile a energia termica sempre più degradata, fino a non
poter più essere utilizzata per ottenere lavoro.
La misura della non disponibilità di un sistema a compiere lavoro si chiama entropia; essa può essere
interpretata come una misura del disordine: quanto maggiore è l'entropia di un sistema, tanto più grande è
il suo disordine.
In definitiva, nel caso di sistemi isolati, chiamata S l'entropia, B il sistema nello stato finale della
trasformazione e A il sistema nello stato iniziale, si ottiene:
per qualunque trasformazione termodinamica nel sistema.
Quest'ultima espressione è precisamente l'espressione del secondo principio in termini di entropia: nei sistemi
isolati l'entropia è una funzione non decrescente, ovvero può solo aumentare o rimanere inalterata.
Questo fatto viene talvolta indicato in meccanica statistica come morte termodinamica dei sistemi isolati:
infatti, per tempi lunghi, l'entropia tende a raggiungere un valore massimo, che corrisponde a una
temperatura uniforme ovunque nel sistema. In questo caso, il sistema non è più in grado di compiere alcun
lavoro.
Le implicazioni del secondo principio sono di importanza cruciale per comprendere le sorti dell'universo, in
quanto, considerando l'universo come un sistema chiuso1, si ha che l'entropia dell'universo aumenta nel
tempo, mentre l'energia disponibile diminuisce. Questo conduce inevitabilmente al caos e al disordine, ed
alla fine alla morte.
Un'immagine della "morte termodinamica" dell'universo
(1) Un sistema si dice chiuso se consente un flusso di energia ma non di massa con l'ambiente esterno,
attraverso il suo confine (tramite calore e/o lavoro e/o altra forma di energia); ne è un esempio una bombola
tenuta chiusa da una valvola, che può scaldarsi o raffreddarsi ma non perde massa.
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Alla fine di tutte le trasformazioni energetiche possibili, il calore si distribuirà in modo uniforme, non
consentendo il funzionamento di alcuna macchina, e non esisterà nemmeno la vita.
This is the way the world ends
This is the way the world ends
This is the way the world ends
Not with a bang but a whimper
Così finisce il mondo
Così finisce il mondo
Così finisce il mondo
Non con fragore ma con un gemito
scrive il poeta e drammaturgo statunitense naturalizzato inglese Thomas Stearns Eliot (1888-1965) nella
poesia The Hollow Men ("Gli uomini vuoti") del 1925; i versi fanno riferimento alla teoria del Big Bang, lo
scoppio fragoroso da cui avrebbe avuto origine l'universo, ed ipotizzano che tutto si concluda con il gemito
silenzioso prodotto dal massimo di entropia irreversibile.
Ma torniamo al diavoletto.
La sfida lanciata da Maxwell era basata sul fatto che il secondo principio, a differenza del primo, ha
carattere statistico.
Se si descrive un gas (o in generale un corpo macroscopico) come un insieme di particelle, si può
reinterpretare lo stato di equilibrio termodinamico di un sistema chiuso come quello più probabile, e quindi
quello più di frequente realizzato dalle particelle, quello al quale le particelle tendono. Nulla però vieta, in
linea di principio, l'esistenza di fluttuazioni termodinamiche che possono portare il sistema in uno stato
diverso da quello di equilibrio: esse sono escluse solo sulla base della loro improbabilità, non per ragioni
fisiche codificate dalle leggi della meccanica. E dunque nulla vieta che il diavoletto possa agire nel rispetto di
tali leggi.
Può farcela? In apparenza sì, e in modo assai semplice.
Si immaginino infatti due contenitori A e B, riempiti con un gas identico e alle stesse temperature, posti uno
a fianco dell'altro, separati solamente da una piccola botola che ne permette la comunicazione.
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Il piccolo diavoletto sta a guardia della botola, mantenendola chiusa e osservando le molecole nei due diversi
contenitori. Quando una molecola più veloce delle altre si dirige verso la botola, il diavoletto la apre e lascia
che la molecola passi dal contenitore A al contenitore B.
La velocità media delle molecole in B quindi è aumentata, mentre quella delle molecole in A è diminuita.
Ora, all'aumento della velocità media delle molecole corrisponde un aumento della temperatura: la
temperatura in A è infatti diminuita, mentre la temperatura in B è aumentata, e questo senza dispendio di
energia: ed ecco la smentita del secondo principio della termodinamica.
Semplice, no?
Peccato che, quando dalla teoria si passa alla pratica, le cose cambino completamente aspetto.
Fin dai tempi di Maxwell sono state proposte numerose versioni del diavoletto termodinamico, la più
semplice delle quali prevede di produrre una differenza di pressione consentendo a tutte le molecole,
indipendentemente dalla loro velocità, di passare da A a B, ma impedendone il passaggio nel verso
opposto. Dopo un breve intervallo di tempo, la maggior parte delle molecole si sarà concentrata in B, mentre
in A si produrrà un vuoto parziale. Ad un aumento di pressione corrisponde un aumento di temperatura, ed
ecco che il diavoletto avrebbe ottenuto il suo scopo.
Questo diavoletto appare molto più verosimile della creatura originale di Maxwell, dato che non è necessario
che sia in grado di vedere e di pensare. Non vi è motivo immediatamente evidente che impedisca di
realizzarlo, ad esempio con una valvola a flusso unidirezionale per le molecole, utilizzando dispositivi
inanimati, come un minuscolo battente a molla. Come il diavoletto di Maxwell, questo dispositivo a
pressione potrebbe costituire una sorgente illimitata di energia per molte macchine.
Non appena si scende nel concreto, però, cercando di produrre un modello reale del diavoletto, ci si scontra
con una serie di problemi che rendono evidente la natura fondamentale del secondo principio, che quindi
non è violabile con trucchetti di questo genere.
Uno di questi problemi è legato al fatto che è necessario individuare le particelle (determinare ad esempio
se provengono da un lato o dall'altro) tramite qualche meccanismo, che a sua volta richiede energia (ad
esempio l'invio di un fotone) e che è necessario implementare una struttura decisionale che consenta al
"diavoletto" di agire in modo diverso a seconda del verso di provenienza della molecola: il diavoletto va
quindi modellizzato come un computer, che necessita a sua volta di energia per poter funzionare.
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Inoltre il demone, così come è stato concepito da Maxwell, dovrebbe aprire e chiudere la botola ad istanti ben
precisi; per fare ciò egli dovrebbe essere in grado di conoscere posizione e velocità di ogni atomo in ogni
momento, in evidente contrasto con il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale a
livello subatomico la velocità e la posizione di una particella in movimento sono sempre del tutto
indeterminate, cioè rimangono sempre indefinite: quanto maggiore è l'accuratezza nella misurazione della
posizione di una particella subatomica, tanto minore è la precisione inerente alla misurazione della
velocità e viceversa.
Il diavoletto di Maxwell, dunque, non sembra avere alcuna chance.
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2. SPIRITISMO E SATANISMO
CHI È LUCIFERO?
E' noto che Dante pone Lucifero, il Principe di tutti i dèmoni (o per meglio dire, cristianamente, demònii), al
centro della terra; il suo ombelico corrisponde al centro dell'universo dantesco, che come sappiamo
è tolemaico.
Nel XXXIV canto dell'Inferno il poeta, giunto con Virgilio al termine della prima parte del suo viaggio, si
trova al cospetto di Satana, raffigurato come un mostro con tre volti e sei ali (com'è tipico dei Serafini) che,
immobile al centro della ghiaccia di Cocìto, mastica pensosamente Giuda, Bruto e Cassio e non sembra
accorgersi della presenza dei due viandanti, con i quali non interagisce minimamente.
Appigliandosi al busto villoso di Lucifero, e risalendo lungo le sue cosce, Dante e Virgilio si ritrovano
nell'emisfero australe, all'interno di una grotta naturale (la "natural burella") attraverso la quale potranno
uscire "a riveder le stelle" fra 21 ore (il viaggio nell'Inferno è infatti durato 24 ore dal tramonto nella selva
oscura e ne occorreranno altre 21 per risalire verso la superficie terrestre, dal mattino alla notte successiva,
con l'arrivo poco prima dell'alba al monte del Purgatorio).
Gustave Doré, Lucifero al centro della terra, illustrazione per la Divina Commedia (1861-68)
Mentre i due riprendono il cammino Dante chiede a Virgilio di dirimergli qualche dubbio, cosa che
Virgilio farà puntualmente (vv. 100-126): che fine abbia fatto il ghiaccio, perché Satana sia conficcato
sottosopra e come mai in poco tempo il sole abbia fatto il tragitto dalla sera alla mattina di circa dodici ore.
Virgilio inizia la sua spiegazione dicendo a Dante che essi sono nel nuovo emisfero, poiché essi hanno
oltrepassato il punto al quale tendono tutti i pesi, ovvero il centro della terra. Il ghiaccio è sparito perché essi
ora camminano su una piccola sfera che copre l'altra faccia della Giudecca, dell'ultima zona del lago
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ghiacciato; riguardo alla terza domanda spiega che quando di là è notte di qua è mattino (man); e che
Lucifero, infine, sta esattamente come stava prima.
Spiega quindi perché Lucifero si trovi laggiù: egli, quale angelo ribelle, quando cadde dal cielo sprofondò
da questo emisfero a testa all'ingiù, e la terra, per non toccarlo, si nascose sotto al mare, sporgendo tutta
dall'altro emisfero e creando la montagna del Purgatorio; il Diavolo rimase conficcato al centro della terra e
ciò che gli stava intorno, per fuggire ulteriormente, si spostò fuggendo verso l'emisfero australe, facendo il
vuoto attorno a Lucifero.
Ma chi è Lucifero? La domanda è tutt'altro che banale e presenta risvolti a dir poco inquietanti.
Notoriamente la tradizione cattolica, alla quale Dante si allinea, lo identifica con Satana e vede in lui il
principio stesso del Male; secondo molti interpreti biblici tuttavia si tratta di due entità diverse, di cui Satana
è più potente ed è malvagio fin dal principio, mentre Lucifero (la cui natura è peraltro superiore a quella di
Satana) no. Essi corrisponderebbero a due angeli diversi: Sataniel e Helel.
Anche il più celebre esorcista del mondo, padre Amorth, sostiene la stessa cosa: i diavoli che egli scaccia
dagli indemoniati, a suo dire, appartengono a due schiere diverse, quella di Satana e quella di Lucifero, e si
distinguono anche solo per il fatto che le persone invasate dall'uno hanno il globo oculare ruotato verso
l'alto, mentre quelli infestati dall'altro lo hanno verso il basso.
Guillaume Geefs (1805-1883), statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio)
Ma la sorpresa più sconcertante si ha quando si scopre che nessun testo biblico parla della caduta degli
angeli ribelli!
Si tratta, a quanto pare, di erronee interpretazioni di due passi biblici (Isaia ed Enoch), portate avanti
esclusivamente dai Padri della Chiesa.
Se cerchiamo di far luce (è proprio il caso di dirlo) sulla questione, rischiamo di confonderci ulteriormente le
idee; e tuttavia voglio provarci.
Nella mitologia romana, Lucifer è una divinità corrispondente alla divinità greca Eosforo (o "Torcia
dell'Aurora"), nome dato alla "Stella del mattino". Era figlio di Eos (l'Aurora) e di Astreo e fu padre di Ceice
(Ceyx), re di Tessaglia, e di Dedalione. Infatti il termine Lucifer in latino significa semplicemente "Portatore di
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Luce", ed era anche il nome che gli antichi diedero al pianeta Venere, perché era la prima luce che anticipava
il sole.
Abbiamo quindi appurato che il termine "Lucifero" esisteva molto prima della cristianizzazione; ma c'è di
peggio.
Accanto alla tradizione teologica e letteraria "classica" riguardo a Lucifero si sviluppò, già nei primi tempi di
fioritura e di espansione delle dottrine cristiane, una corrente gnostica che tentò la reinterpretazione della
figura luciferina in chiave salvifica e liberatrice per l'uomo dalla tirannia del Dio Creatore, identificato
dagli Gnostici con il malvagio Demiurgo: secondo tale dottrina, che ha radici tanto nel Marcionismo quanto
nel Manicheismo, il serpente/Lucifero descritto nella Genesi sarebbe colui che ha indotto l'uomo alla
conoscenza, la scientia boni et mali, e dunque ha consentito l'elevazione dell'uomo a divinità, pur contro la
volontà del Dio supremo, che avrebbe voluto invece mantenere l'uomo quale suo suddito e schiavo, cioè
quale essere inferiore.
In tale dottrina il nome Satana scompare quasi del tutto in favore di Lucifero, che viene interpretato alla
lettera come "Portatore di luce" e viene perciò eletto quale salvatore dell'uomo.
Tutto ciò è in evidente antitesi con la concezione classica del Cristianesimo, secondo la quale invece
l'aspetto luminoso di Satana è solo un mascheramento e uno strumento di seduzione. San Paolo per primo
afferma infatti che "anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi
servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere» (2 Corinzi 11,14-15).
Non resta quindi che sospendere il giudizio. Interessante è comunque l'identificazione pagana di Lucifer con
il pianeta Venere, al quale ho accennato anche a proposito della "sezione aurea" o phi, perché questo pianeta
traccia ogni otto anni sulla sua eclittica un Pentacolo perfetto:
Non è certamente un caso che il pentacolo, figura sacra ai Pitagorici, sia diventato uno degli emblemi
luciferini per eccellenza (soprattutto nella sua variante "rovesciata").
Vorrei quindi dedicare un'attenzione più approfondita, e soprattutto più scientifica, a questo pianeta.
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IRENE STORNIOLO
DÀIMONES
IL PIANETA"LUCIFERINO": VENERE
Venere è il secondo pianeta del Sistema Solare in ordine di distanza dal Sole, con un'orbita della durata di
224,7 giorni terrestri. Il suo simbolo astronomico è la rappresentazione stilizzata della mano della dea Venere
che sorregge uno specchio ( ).
È l'oggetto naturale più luminoso nel cielo notturno, con l'eccezione della Luna, raggiungendo una
magnitudine apparente di -4.6. Venere raggiunge la sua massima brillantezza poco prima dell'alba o poco
dopo il tramonto, e per questa ragione è spesso chiamata impropriamente la "Stella del Mattino" o la "Stella
della Sera". E' a volte è definito il "pianeta gemello" della Terra, poiché i due mondi sono molto simili per
quanto riguarda criteri quali dimensioni e massa. Tutto il resto però è drammaticamente differente, per cui
Venere risulterebbe per noi un pianeta assolutamente invivibile.
♀
Confronto delle dimensioni dei quattro pianeti terrestri: da sinistra, Mercurio, Venere, la Terra e Marte.
Venere è uno dei quattro pianeti terrestri del sistema solare, il che significa che, come la Terra, è un corpo
roccioso.
In dimensioni e massa, come dicevo sopra, è molto simile alla Terra, ed inoltre sta subendo la stessa
evoluzione che ha avuto la Terra nella sua formazione.
Il diametro di Venere è inferiore a quello terrestre di soli 650 km, e la sua massa è l'81,5% di quella terrestre.
A causa di questa differenza di massa, sulla superficie di Venere l'accelerazione di gravità è mediamente pari
a 0,88 volte quella terrestre. A titolo di esempio, si potrebbe affermare che un uomo dalla massa di 70 kg che
misurasse il proprio peso su Venere, facendo uso di una bilancia tarata sull'accelerazione di gravità terrestre,
registrerebbe un valore pari a circa 61,6 kg.
Tuttavia, a dispetto di queste somiglianze, le condizioni sulla superficie venusiana sono molto differenti da
quelle terrestri, a causa della sua atmosfera, molto spessa e composta essenzialmente di biossido di carbonio
o anidride carbonica. La massa dell'atmosfera di Venere, infatti, è costituita per il 96,5% da biossido di
carbonio, mentre il restante 3,5% è composto soprattutto da azoto.
Venere ha l'atmosfera più densa tra tutti i pianeti terrestri; la notevole percentuale di biossido di carbonio è
dovuta al fatto che Venere non ha un ciclo del carbonio per incorporare nuovamente questo elemento nelle
rocce e nelle strutture di superficie, né una vita organica che lo possa assorbire in biomassa. È proprio il
biossido di carbonio ad aver generato un potentissimo effetto serra, a causa del quale il pianeta è divenuto
così caldo che si ritiene che gli antichi oceani di Venere siano evaporati, lasciando una asciutta superficie
desertica con molte formazioni rocciose. Il vapor acqueo si è poi dissociato a causa dell'alta temperatura e
l'idrogeno è stato diffuso nello spazio interplanetario dal vento solare.
L'effetto serra ha fatto aumentare la temperatura alla superficie fino a 400 K (127° C), con punte di 740 K
(467° C, abbastanza per fondere il piombo). Questo ci toglie ogni speranza di poter rendere "vivibile"
Venere, almeno in un prossimo futuro.
Paradossalmente, quindi, la superficie di Venere è dunque più calda di quella di Mercurio, sebbene sia
quasi due volte più distante dal Sole.
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La pressione atmosferica sulla superficie del pianeta è altissima, pari a 92 volte quella della Terra, ed è data,
appunto, per la maggior parte dal biossido di carbonio e da altri gas serra. Il pianeta è inoltre ricoperto da un
opaco strato di nuvole composte da acido solforico, altamente riflettenti, che, insieme alle nubi dello strato
inferiore, impediscono alla sua superficie di essere visibile dallo spazio; l'apparenza del pianeta è infatti
molto ingannevole, tanto da dare l'impressione di un pianeta gassoso:
L'impenetrabilità delle nubi che circondano il pianeta ha originato molteplici discussioni, perdurate fino a
quando i segreti del suolo di Venere furono rivelati dalla planetologia nel ventesimo secolo. Ecco la
superficie di Venere quale essa è in realtà:
La superficie di Venere è stata mappata nel dettaglio solo nel corso degli ultimi venti anni; il progetto
Magellano ha elencato circa un migliaio di crateri di meteoriti: un numero sorprendentemente basso se
confrontato a quello della Terra.
Si è quindi scoperto che circa l'80% della superficie di Venere è formata da lisce pianure vulcaniche. Il resto
è costituito da due altipiani definiti continenti, uno nell'emisfero nord del pianeta e l'altro appena a sud
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dell'equatore. Il continente più a nord è chiamato Ishtar Terra, da Ishtar, la dea babilonese dell'amore, e ha
circa le dimensioni dell'Australia. I Monti Maxwell, il più alto massiccio montuoso su Venere, si trovano su
Ishtar Terra. Nel punto più alto i monti raggiungono gli 11 km al di sopra dell'altezza media della superficie
del pianeta. Il continente a sud è chiamato Aphrodite Terra, dalla dea Greca dell'amore, e ha circa le
dimensioni del Sud America. La maggior parte di questo continente è ricoperta da un intrico di fratture e di
faglie.
Mappa topografica di Venere
Oltre a crateri da impatto, montagne e valli, comuni ai pianeti rocciosi, Venere è caratterizzata da alcune
strutture di superficie assolutamente peculiari. Fra queste vi sono: strutture vulcaniche chiamate farra,
larghe da 20 a 50 km e alte da 100 a 1000 m; fratture radiali, a forma di stella chiamate novae; strutture con
fratture sia radiali sia concentriche chiamate aracnoidi per la loro somiglianza con le tele di ragno; e infine le
coronae, anelli circolari di fratture a volte circondate da una depressione. Tutte queste strutture hanno
un'origine vulcanica. In effetti, la superficie di Venere appare geologicamente molto giovane, i fenomeni
vulcanici sono molto estesi, e lo zolfo nell'atmosfera dimostrerebbe, secondo alcuni esperti, l'esistenza di
fenomeni vulcanici attivi ancora oggi. Tuttavia, questo solleva un enigma: l'assenza di tracce del passaggio
di lava che accompagni una caldera tra quelle visibili.
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Anche se vi sono poche informazioni dirette sulla sua struttura interna, si ritiene che Venere avere una
struttura interna simile a quella della Terra: un nucleo, un mantello e una crosta.
Le dimensioni leggermente inferiori di Venere suggeriscono che le pressioni siano più basse nella parte
interna rispetto a quelle terrestri.
Il nucleo interno di Venere si pensa sia ferroso, appunto perché il pianeta è molto simile alla Terra sia in
struttura che dimensioni, e sia allo stato fuso perché ne viene data conferma da un pur debole campo
magnetico, a parte quello indotto dall'effetto del vento solare.
Si ritiene che il nucleo abbia uno spessore di circa 3000 km ed il mantello di circa 2900 km, mentre la crosta
dovrebbe essere di poco inferiore a quella terrestre, cioè circa 60 km. Le analisi compiute dalle sonde
sovietiche indicano che la struttura della crosta e della superficie è simile al granito ed al basalto.
A causa della convezione del mantello sulla superficie si producono alcune anomalie (corrugamenti,
rigonfiamenti, spaccature ecc.) che sono però concentrate in piccole zone e non al limite delle zolle tettoniche.
Il decadimento radioattivo all'interno del pianeta genera calore che arriva all'esterno tramite forme di
vulcanismo e zone dove la crosta è sottile generando caratteristiche formazioni dette duomi.
Venere non ha satelliti naturali, sebbene l'asteroide 2002 VE68 attualmente mantenga una relazione quasi
orbitale col pianeta e una ricerca del 2006 di Alex Alemi e David Stevenson del California Institute of
Technology, sui modelli del Sistema Solare primordiale, faccia ipotizzare che Venere avesse inizialmente
almeno una luna, creata da un gigantesco evento da impatto, come similmente si ipotizza per la formazione
della luna terrestre. Questo satellite si sarebbe inizialmente allontanato per via delle interazioni mareali, allo
stesso modo della Luna, ma un secondo gigantesco impatto avrebbe rallentato, se non invertito la
rotazione di Venere, portando la luna venusiana a riavvicinarsi e infine collidere col pianeta.
Una spiegazione alternativa alla mancanza di satelliti è costituita dai forti effetti mareali del Sole, che
potrebbe destabilizzare grossi satelliti che orbitino attorno i pianeti terrestri interni.
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Venere in transito rispetto al Sole
L'orbita di Venere è quasi circolare e le variazioni della sua elongazione massima (cioè l'angolo formato tra
il Sole e il pianeta, visto dalla Terra) sono dovute più alla variazione della distanza tra Terra e Sole che alla
forma dell'orbita di Venere. Queste misurano sempre un angolo compreso tra 45º e 47º, dando al pianeta una
visibilità più prolungata prima del sorgere del Sole o dopo il tramonto. Quando l'elongazione è massima,
Venere può restare visibile per diverse ore.
La rotazione di Venere è retrograda e molto lenta: un giorno dura circa 243 giorni terrestri. Alcune ipotesi
sostengono che la causa sia da ricercarsi nell'impatto con un asteroide di dimensioni ragguardevoli. A causa
della rotazione retrograda, il moto apparente del Sole è opposto a quello terrestre; quindi, chi si trovasse su
Venere, vedrebbe l'alba a ovest e il tramonto a est.
Siccome il pianeta impiega 225 giorni terresti per compiere un'intera rivoluzione attorno al Sole, su Venere
il giorno è più lungo dell'anno. Tuttavia, tra un'alba e l'altra trascorrono soltanto 117 giorni terrestri,
perché, mentre il pianeta ruota su se stesso in senso retrogrado, esso si sposta anche lungo la propria orbita,
compiendo il moto di rivoluzione, che procede in senso opposto rispetto a quello di rotazione; ne deriva che
lo stesso punto della superficie si viene a trovare nella stessa posizione rispetto al Sole ogni 117 giorni
terrestri.
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APOLLONIO DI TIANA E LA VAMPIRA
Fra i contatti "paranormali" dell'antichità classica i più noti sono senz'altro l'incontro ravvicinato del filosofo
Atenodoro con un fantasma, narrato da Plinio il Giovane in una sua lettera (VII, 27, 5-11) e la storia del lupo
mannaro raccontata da uno dei commensali della Cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio (61-62).
Meno nota, ma non meno interessante, è la storia della vampira narrata da Filostrato II, uno dei principali
rappresentanti della Seconda Sofistica, nella biografia elogiativa del celebre santone e taumaturgo
Apollonio di Tiana, esponente del neopitagorismo.
Questi, vissuto nel I secolo d.C., ebbe fama di uomo straordinariamente buono e giusto, in grado di compiere
veri e propri miracoli, alcuni dei quali analoghi a quelli di Gesù Cristo: si dice ad esempio che abbia
risuscitato una ragazza morta a Roma.
Nel quarto capitolo della Vita di Apollonio di Tiana Filostrato narra la storia incredibile di un tal Menippo di
Licia, un bellissimo venticinquenne che fu concupito da un dèmone di sesso femminile, una vampira,
tecnicamente una Làmia.
Le Làmie, nel mito greco, erano figure in parte umane e in parte animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi
seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne.
Lamia era la bellissima regina della Libia, figlia di Belo, amata da Zeus, dal quale ebbe il dono di levarsi gli
occhi dalle orbite e rimetterli a proprio piacere. Era si vendicò del tradimento uccidendo quasi tutti i figli che
suo marito ebbe da Lamia. Questa, lacerata dal dolore, iniziò a divorare i bambini delle altre madri, dei quali
succhiava il sangue. Così facendo si trasformò in un essere di orribile aspetto, capace però di mutare forma e
apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di berne il sangue. Per questo motivo la lamia viene
considerata una sorta di vampiro ante litteram.
Herbert James Draper, Lamia, 1909
Le Làmie venivano spesso chiamate anche Empuse, sebbene queste ultime, figlie o serve di Ecate, fossero
alquanto differenti: erano infatti mostri soprannaturali femminili, che terrorizzavano i viaggiatori divorando
coloro che percorrevano i sentieri o le strade da esse frequentati. Le Empuse potevano assumere qualsiasi
forma: le più ricorrenti erano quelle di cagna o di vacca e, per attirare le proprie vittime, potevano mutare
l'aspetto in quello di donne deboli o seducenti; in quest'ultimo caso si potevano intrufolare nei letti dei
giovani. L'aspetto più inquietante del mito è il fatto che, se le si osservava attentamente, le Empuse
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rivelavano ancora caratteri mostruosi o bizzarri, come una gamba di sterco d'asina e una di bronzo, oppure il
retro d'asina e sandali di bronzo.
Il giovane di cui Filostrato narra la storia, perdutamente innamorato della sua demoniessa, fu salvato in
extremis da Apollonio, che avvertì intorno a lui un'aura negativa e subodorò immediatamente la presenza di
una creatura diabolica.
Leggiamo la stranissima vicenda:
"Tra i discepoli di Demetrio di Corinto v'era Menippo di Licia, giovine di venticinque anni, eletto di spirito e
bellissimo di forme, simile a un atleta per bellezza e portamento. Si credeva che Menippo fosse amato da una
donna straniera,e questa donna era detta bellissima e stravagante, oltre che molto ricca: ma non era nessuna
di queste cose, se non pura apparenza.
"Un giorno che Menippo camminava da solo lungo la strada che reca a Cenchrae, un fantasma d'aspetto
femminile gli era apparso, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto d'amarlo da molto tempo. Aveva
aggiunto d'essere fenicia, e di vivere in un sobborgo di Corinto.
Dicendogli il nome del sobborgo, aveva aggiunto: Vieni a trovarmi questo pomeriggio e mi ascolterai
cantare.Ti offrirò da bere un vino quale non hai mai gustato. Non avrai rivali sulla tua strada, e vivremo
insieme felici: io che sono bella, e tu che lo sei quanto me. Il giovane si lasciò lusingare da queste parole
perchè, pur avendo abbracciato la filosofia, purtuttavia era dominato da Eros.
John William Waterhouse, La Lamia e il soldato, 1905
"Andò quel pomeriggio alla casa indicata, e per molto tempo frequentò la donna come amante, senza mai
dubitare che non donna fosse, ma uno spirito immondo. Un giorno, Apollonio prese a scrutare Menippo
misurandolo con lo sguardo come fa uno scultore, e dopo averlo studiato a lungo, gli disse:Sai tu, che sei
bello e desiderato dalle donne più belle, che abbracci una serpe, ed è una serpe che ti abbraccia?
Menippo rimase attonito, e Apollonio seguitò: "Tu hai una donna che non è tua moglie: ma pensi forse che lei
ti ami?
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"Certamente!, rispose il giovine. Lei si comporta con me come fa una donna che ama.
"Intendi sposarla?
"Sì: è fonte di gioia sposare una donna che ama.
"Apollonio replicò: Quando celebrerai le nozze?
"Presto, rispose il giovane, forse domani stesso.
"Apollonio attese il giorno della festa nuziale e, quando i convitati furono giuinti, entrò anch'egli nella sala.
"Dov'è la bella per la quale siamo venuti?, chiese.
"Qui, disse Menippo alzandosi e arrossendo in volto.
"E di chi sono l'oro, l'argento e tutti gli ornamenti di questa sala?
"Di mia moglie, rispose il giovane, io non possiedo che questo, e mostrò il suo mantello.
"Apollonio, rivolgendosi allora a tutti, chiese: Conoscete il giardino di Tantalo, che a un tempo esiste e non
esiste?
"Sì, risposero gli ospiti, lo abbiamo letto in Omero, perché non siamo mai scesi nell'Ade.
"Lasciatemi dire, allora, proseguì Apollonio, che queste decorazioni sono simili a esso:sono soltanto
l'apparenza insostanziale di una sostanza.Perché possiate comprendere meglio, sappiate che la seducente
fidanzata è un Vampiro, una di quelle Empuse che il popolo chiama Lamie o Mormolyce. Anche i Vampiri
sono attratti dal sesso: ma ancor più amano il sangue e la carne umana, e usano il sesso per intrappolare
coloro che vogliono divorare.
"La donna allora gridò: Taci e vattene via!, e si mostrò indignata per quelle insinuazioni, scagliandosi contro
il filosofo e chiamandolo insensato. Ma, all'improvviso, le coppe che sembravano d'oro e i vasi che
sembravano d'argento svanirono tutti; scomparvero anche, dopo il discorso di Apollonio, tutti i coppieri, i
cuochi e i servi.
"Allora lo spirito immondo finse di piangere, supplicando di far cessare i tormenti che l'avrebbero costretto a
rivelare la sua vera natura. Ma Apollonio insistè finchè quello non confessò di essere un Vampiro che aveva
invischiato Menippo coi piaceri del sesso per poterne poi divorare il corpo. Infatti, per nutrirsi, lei sceglieva
sempre i giovani belli e forti, perché hanno il sangue assai fresco.
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LO SPIRITISMO IN PIRANDELLO E SVEVO
Sia Pirandello sia Svevo descrivono una seduta spiritica; in entrambi i casi i loro protagonisti approfittano
dell'occasione per fini sentimentali, ma gli autori lasciano emergere chiaramente la loro opinione sullo
spiritismo.
Ne “Il fu Mattia Pascal” Adriano Meis (alias Mattia Pascal) riesce a baciare nell’oscurità la sua amata
Adriana: “Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca, poi, non contento mi
chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato tra noi”.
Disegno raffigurante Luigi Pirandello
Il personaggio di Pirandello, nonostante si renda conto che la seduta sia stata organizzata da Papiano per
loschi fini (egli infatti durante la seduta deruba Mattia di ben 12.000 lire), alla fine è colpito e turbato, pieno
di dubbi: "Se, come sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla luce, sotto
gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente, questo spirito non era quello di Max:
bastava guardar Papiano e la signorina Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro.
Chi dunque aveva agito? Chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile?".
L'interessamento per fatti inspiegabili alla luce della ragione e della scienza, come lo spiritismo, delinea in
Pirandello la crisi del razionalismo positivista, che sottrae all'uomo ogni rassicurante certezza.
Il tono di Svevo è molto diverso: durante la seduta spiritica in casa Malfenti, che vede come medium il suo
rivale in amore Guido, Zeno mantiene un atteggiamento cinico e distaccato: “io non ho alcun’avversione per
i tentativi di qualunque genere di spiare il mondo di là”, pensa, e conclude: “ero anzi seccato di non avere
introdotto io in casa di Giovanni quel tavolino giacché vi otteneva tale successo”.
Come per Mattia-Adriano, il suo interesse non è rivolto alla seduta spiritica, ma alla conquista dell'amata
Ada; sennonché si verifica un grottesco equivoco: infatti Zeno approfitta del buio per farle la sua
dichiarazione: “Io vi amo Ada! - dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire
meglio”, ma ecco la sorpresa: “La fanciulla non rispose subito. Poi con un soffio di voce, però quella di
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Augusta, mi disse: perché non veniste per tanto tempo?”.
Italo Svevo in una caricatura
Zeno manifesta per le pratiche esoteriche un assoluto scetticismo, pienamente condiviso da Svevo; egli
manipola continuamente la seduta per ridicolizzare Guido, suo rivale in amore, fino alla brutale rivelazione
del trucco: “Dovete scusarmi, signor Guido, mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere. Sono stato io
che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome”.
Lo scetticismo è del resto tipico di Zeno, perennemente in dubbio su tutto, ma sempre autoironico. Zeno,
proprio grazie al disagio che vive, al suo sentirsi "inetto", è distaccato da tutto, "estraneo a se stesso", come
dichiara il suo stesso nome, che deriva da ξένος, "straniero".
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EDGAR ALLAN POE, LIGEIA
"Ligeia" is an early short story by American writer Edgar Allan Poe, first published in 1838.
The unnamed narrator describes the qualities of Ligeia, a beautiful, passionate and intellectual woman,
raven-haired and dark-eyed, that he thinks he remembers meeting "in some large, old decaying city near the
Rhine." He is unable to recall anything about the history of Ligeia, including her family's name, but
remembers her beautiful appearance.
Her beauty, however, is not conventional. He describes her as emaciated, with some "strangeness". He
describes her face in detail, from her "faultless" forehead to the "divine orbs" of her eyes. They marry, and
Ligeia impresses her husband with her immense knowledge of physical and mathematical science, and her
proficiency in classical languages. She begins to show her husband her knowledge of metaphysical and
"forbidden" wisdom.
Ligeia by Harry Clarke,1919
After an unspecified length of time, Ligeia becomes ill, struggles internally with human mortality, and
ultimately dies. The narrator, grief-stricken, buys and refurbishes an abbey in England. He soon enters into a
loveless marriage with "the fair-haired and blue-eyed Lady Rowena Trevanion, of Tremaine."
In the second month of the marriage, Rowena begins to suffer from worsening fever and anxiety. One
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night, when she is about to faint, the narrator pours her a goblet of wine. Drugged with opium, he sees (or
thinks he sees) drops of "a brilliant and ruby colored fluid" fall into the goblet. Her condition rapidly
worsens, and a few days later she dies and her body is wrapped for burial.
As the narrator keeps vigil overnight, he notices a brief return of color to Rowena's cheeks. She repeatedly
shows signs of reviving, before relapsing into apparent death. As he attempts resuscitation, the revivals
become progressively stronger, but the relapses more final. As dawn breaks, and the narrator is sitting
emotionally exhausted from the night's struggle, the shrouded body revives once more, stands and walks
into the middle of the room. When he touches the figure, its head bandages fall away to reveal masses of
raven hair and dark eyes: Rowena has transformed into Ligeia.
The story is supposed to be the narrator's opium-induced hallucination and there is debate whether it was a
satire or not. After the story's first publication in The American Museum, it was heavily revised and reprinted
throughout Poe's life.
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3. MAGIA E ALCHIMIA
HERMES TRISMEGISTO
Con il termine ermetismo, come chiarisce il sito dell'Università di Siena (sezione Hermes latinus), si usa
denotare una forma di pensiero filosofico e tecnico-operativo caratterizzato da una spiccata sensibilità
religiosa, che affonda le sue origini nell'antico Egitto e che, a contatto con la civiltà greca classica, apre la
strada ad una riflessione che darà origine ad una vasta produzione di carattere filosofico e teologico, che
investirà anche l’astrologia, la magia e soprattutto l'alchimia.
Alla figura di Hermes Trismegisto, e ad altri personaggi mitici con cui egli viene talvolta identificato, come
Germa Babiloniensis, Enoch, o ancora a suoi discepoli, come Aristoteles, Belenus, Flaccus Africus,
Harpocration, Thoz Graecus, Thabit, vengono attribuiti diversi scritti, che saranno poi classificati nel Corpus
Hermeticum.
Hermes Trismegisto non sarebbe altri che il dio egizio Thoth o Theuth "tre volte grandissimo" ("trismegisto"
in greco significa appunto questo), lo stesso di cui parla Platone nel Fedro attribuendogli l'invenzione di tutto
ciò che porta all'evoluzione della civiltà umana, dal gioco degli scacchi alla scrittura.
La sua identificazione con il dio greco Hermes si spiega alla luce del sincretismo religioso determinatosi in
seguito alla conquista dell'Oriente da parte di Alessandro Magno ed alla fondazione di Alessandria d'Egitto,
vero e proprio crogiolo di culture diverse e principale polo culturale della prima età ellenistica.
Hermes Trismegisto in un mosaico del Duomo di Siena
L’idea fondamentale dei testi ermetici è quella dell’unità del tutto, sulla quale si fondava una visione olistica
della realtà, espressa nella dottrina cosiddetta della sympàtheia universale, presente anche nella dottrina
dello stoico Posidonio di Apamea e ripresa nella Tabula Smaragdina, testo fondamentale dell’alchimia.
Gli autori dei testi ermetici si definiscono filosofi, ma conferiscono al termine filosofia un significato più
ampio rispetto a quello di comprensione razionale della realtà. Come abbiamo visto, infatti, la filosofia
ermetica presenta i tratti di un’antica tradizione sapienziale, in cui il sapere è trasmesso come una
rivelazione dal maestro al discepolo (spesso gli scritti hanno la forma di dialoghi) o per illuminazione
immediata dal dio Ermete, per poi tradursi in una operatività che mira alla trasformazione della realtà.
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Nel Medioevo tuttavia, come si accennava, questo articolato insieme di saperi, che conoscerà ampia fortuna
nel Rinascimento, non fu trasmesso, e buona parte delle informazioni che circolarono su Hermes furono
ricavate da autori cristiani tardoantichi, che assunsero atteggiamenti diversi nei confronti dell’ermetismo:
Agostino attaccò duramente questa forma di religione pagana, mentre positivi furono i giudizi di Lattanzio e
Quodvultdeus, discepolo di Agostino e autore di un trattatello Adversus quinque haereses, che fecero di Ermete
un precursore della rivelazione cristiana.
Il Corpus Hermeticum rappresentò invece la fonte di ispirazione di tutto il pensiero ermetico e neoplatonico
rinascimentale a partire dalla sua riscoperta, dovuta a Cosimo de' Medici ed alla traduzione da lui
commissionata nel 1460 a Marsilio Ficino, ed ha continuato ad influenzare la cultura occidentale anche nei
secoli successivi, attraverso la trasmissione occulta avvenuta in seno a numerose sette esoteriche.
Ricostruzione della "porta ermetica" del Marchese Palombara a Roma
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IL CORPUS HERMETICUM
Il Corpus hermeticum, così come era noto agli studiosi in età
medievale, era composto da 17 trattati, numerati da 1 a 14 e
da 16 a 18 (il quindicesimo trattato, inserito nel corpus nel
1554 dal filologo Adriano Turnebus, era in realtà un insieme
di tre estratti dell'antologia di Stobeo).
Si tratta di una serie di testi raggruppati ed ordinati in età
bizantina, scelti probabilmente per la loro ispirazione
filosofica e l’assonanza delle dottrine ivi presentate con gli
elementi della cultura cristiana. Da questa collezione
risultano infatti eliminati, o comunque sensibilmente
ridotti, quegli aspetti legati alle pratiche occulte (magia,
astrologia, alchimia) che spiccavano invece nei titoli delle
più antiche testimonianze greche attribuite ad Hermes che ci
sono pervenute. Alla scomparsa (o meglio, all'occultamento)
della letteratura ermetica contribuì in modo decisivo
l'attacco sferrato contro di essa da molti filosofi e dai Padri
della Chiesa, tanto che il Cristianesimo definì l'ermetismo
una dottrina eretica, mettendo al bando definitivamente
ogni tipo di trattato di matrice ermetica.
Hermes Trismegisto
Passò quindi molto tempo prima che si sentisse ancora parlare di ermetismo, tanto più essendo sparito tutto
il corpus dei trattati. Gli scritti di magia, medicina magica ed astrologica, alchimia che in età medievale
circolarono sotto l’attribuzione ad Hermes, furono in gran parte tradotti dall’arabo, sebbene originariamente
costituiti da materiali risalenti all’età ellenistica.
Fu Michele Psello, uno studioso bizantino vissuto a cavallo del XI secolo, a dare nuova vita alla dottrina
ermetica e al Corpus Hermeticum, che però rimase ignoto in Occidente. L'esistenza del testo venne
probabilmente resa nota in occasione del concilio tenutosi a Firenze sotto Cosimo de' Medici nel 1438 nel
tentativo di sanare lo scisma d'Oriente.
La data del 1438 è veramente epocale, perché in quell'occasione l'imperatore Giovanni VIII di Bisanzio e il
patriarca di Costantinopoli Gennadio II arrivarono in Italia con un seguito di ben 650 studiosi, eruditi ed
ecclesiastici. Fra i testi resi noti in quell'anno c'è anche il Timeo di Platone, fino ad allora sconosciuto.
Nel 1460 Cosimo riuscì a procurarsi la copia originale appartenuta a Michele Psello ed ordinò a Marsilio
Ficino di tradurre immediatamente il Corpus. Ficino completò il suo lavoro nell'arco di tre anni (in realtà
tradusse solo i primi 14 trattati) ed ebbe come premio una villa.
La raccolta dei 17 trattati (logoi) che formano il Corpus Hermeticum rimase intatta fino al momento in cui
alcuni editori del XVI secolo decisero di metterci mano; il primo, nel 1554, fu Turnèbe, che pensò bene di
aggiungere alla fine del XIV logos altri tre brani ermetici (in realtà si trattava solo di frammenti) scritti da
Stobeo.
Vent'anni dopo fu la volta di Flussas, che aggiunse a sua volta un brano tratto dalla "Suda"; per staccare
questi ultimi quattro logoi del corpus originale, ne fece un logos a parte, ordinando il Corpus Hermeticum in
18 trattati - da a I a XVIII - dei quali l'aggiunta costituiva il XIV.
In seguito i logoi tornarono a essere 17, ma senza che fosse rimaneggiato il contenuto: fu semplicemente
deciso di escludere dalle successive pubblicazioni il XIV, così da passare direttamente dal XIII al XV.
Esistono tuttavia molti altri trattati ermetici che non fanno parte del Corpus: col passare del tempo, infatti,
prese corpo una raccolta di testi e riferimenti a opere note agli eruditi, scritti in varie epoche. Si venne così a
delineare una vera e propria raccolta secondaria di trattati ermetici, la cui origine affondava perfino negli
scritti dell'imperatore Giuliano "L'Apostata" e di Sant'Agostino.
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Tra le opere ermetiche di Giovanni Stobeo vanno ricordate "La Vergine del Mondo" e il Florilegium
(un'antologia dove Stobeo aveva inserito ben 27 brani ermetici raccolti negli anni).
Un'immagine del dio Thoth
L'Asclepius - tra tutti - è considerato quello di maggiore rilevanza dopo il Corpus Hermeticum, tanto da venire
considerato una sua appendice. Aggiunto alla raccolta di scritti di Lucio Apuleio - il cosiddetto "Corpus
Apuleianum" - l'Asclepius veniva considerato una parte fondamentale della tradizione ermetica e si riteneva
che Apuleio ne fosse stato il traduttore o addirittura l'autore.
Sparito in Occidente dopo la morte di Sant'Agostino, l'Asclepius riapparve solo verso il XII secolo; ma durante
questo lungo periodo la sua esistenza è fuori discussione, essendo documentata da tutti gli autori che ne
parlano nei loro trattati ed alimentando la corrente ermetica durante tutto il Medioevo.
All'epoca del Ficino il Corpus era attribuito all'antichità egizia ed era ritenuto addirittura precedente a Mosè:
lo si riteneva opera di Hermes Trismegisto ed era spesso interpretato come preannuncio del Cristianesimo.
In seguito però Isaac Casaubon, nel De rebus sacris et ecclesiasticis (1614), datò la composizione del
Corpus all'epoca tardo-ellenistica e mise in dubbio la reale esistenza storica del suo autore. In effetti, come si
diceva prima, il nome stesso di Hermes Trismegisto sembra risalire ad un'epoca non antecedente a quella
alessandrina e non si spiega se non con il sincretismo religioso e culturale tipico dell'età ellenistica; ma il
problema della cronologia del nome e della formazione del Corpus non necessariamente è legato con quello
della datazione dei contenuti.
Oggi infatti la tesi di Casaubon è generalmente accettata per la composizione del Corpus hermeticum, che
dunque è di età ellenistica, mentre rimane tuttora irrisolto il problema della cronologia dei contenuti, che
potrebbero essere di gran lunga precedenti alla sua redazione; lo studioso Martin Bernal, ad esempio, ha
contestato i risultati di Casaubon e riaffermato con forza l'origine egiziana del Corpus hermeticum.
E' da notare infine che alcuni dei testi appartenenti al Corpus sono stati rinvenuti anche tra i Codici di Nag
Hammâdi, scoperti nel 1945; essi risalgono al IV secolo d.C. circa.
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Il testo a noi noto è probabilmente frutto di un rimaneggiamento compiuto da Michele Psello verso il 1050; è
plausibile che egli abbia eliminato elementi magici e alchemici per rendere il Corpus più accettabile per la
Chiesa ortodossa.
Ancora l'ingegnoso dio Thoth
Il Corpus viene generalmente diviso in due parti:
Pimander o Poimandres: è la parte tradotta nel 1463 da Marsilio Ficino, consta di quattordici trattati e
riguarda la creazione.
Asclepius: già circolante in epoca medievale, come si diceva, nella versione latina attribuita ad Apuleio, è un
trattato di magia nel quale si espongono le pratiche dei sacerdoti egizi volte all'animazione di statue, tramite
il coinvolgimento di forze sovrannaturali (δαίμονες).
Dal mio punto di vista è di particolare interesse questa parte del corpus; tuttavia è opportuno dedicare
attenzione anche alla parte restante.
Poimandres, ovvero Pimandro, significa "uomo pastore", o forse, più appropriatamente, "pastore di
uomini", e questo potrebbe forse spiegare il motivo per cui i primi custodi di questa antica tradizione
esoterica amavano raffigurarsi come pastori (cfr. Poussin e il mito dell'Arcadia). Il Poimandres è una sorta di
cammino iniziatico attraverso il quale il fedele viene condotto alla comprensione del nous ed alla rinascita in
Dio, mediante l'insegnamento del suo messaggero Hermes Trismegisto. Tutto ciò in ossequio ad uno dei
principi cardine della dottrina ermetica: l'uomo deve compiere un viaggio per liberare dai vincoli terreni la
sua parte divina (l'intelletto) e giungere così alla salvezza, rappresentata dal lògos, la verità del Poimandres.
Non tutti però saranno in grado di compiere questo percorso, riservato a pochi eletti.
Al Poimandres e all'Asclepius si è aggiunto, in epoca recente, il cosiddetto Kybalion, vero e proprio compendio
della sapienza ermetica e - ammesso ovviamente che sia da considerare autentico - complemento del Corpus
Hermeticum, in particolare della parte di esso chiamata Tabula Smaragdina.
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L'ASCLEPIUS
L’unica opera filosofica attribuita ad Hermes Trismegisto che fu letta e commentata nel Medioevo è
l’Asclepius, traduzione di un originale greco che ci è pervenuto in modo frammentario attraverso l’opera del
cristiano Lattanzio, dal titolo Logos teleios (= "Discorso perfetto"), datato solitamente intorno al III secolo.
Inserito nel "Corpus Apuleianum", l'Asclepius veniva ricondotto ad Apuleio di Madaura: si diceva che ne fosse
stato il traduttore o addirittura l'autore.
Scopo dichiarato di quest'opera è l’insegnamento, ottenuto mediante rivelazione, di un mysterium che
permetterà l'accesso del discepolo alla gnosi.
Il testo ha uno stile oscuro e solenne, che solo gli iniziati possono comprendere, e un carattere asistematico
che crea agli interpreti non poche difficoltà di comprensione. Il messaggio che si riesce a cogliere è che il
concetto di gnosi è strettamente correlato ad una visione complessiva di Dio, del mondo e dell’uomo, che
viene esposta al discepolo.
Dio è l’essere privo di nomi che allo stesso tempo li possiede tutti, è padre ma è maschio e femmina; è
onnipotente (primipotens, ‘potente tra i primi’) e buono, ma non è il Sommo Bene dei platonici; è conoscibile
per l’essere umano solo attraverso l’intelletto ed esprime la sua potenza nella creazione del mondo, che poi
governa mediante la provvidenza.
L’Asclepius afferma l’unità di creatore e creatura in questi termini: “Non ho detto infatti che tutto è uno e uno
è tutto, cosicché nel creatore c’erano tutte le cose prima che tutte le creasse? Non è detto male affermare che
egli è tutto, poiché le sue membra sono tutte le cose”.
In una visione cosmologica piena di punti oscuri, il primo Dio è presentato come il signore dell’eternità;
secondo è il cosmo, terzo viene l’uomo.
František Kupka, La via ermetica, 1903
Tra Dio e il mondo è istituito un complesso rapporto di mediazione, rappresentato da una gerarchia di dèi
minori e di dèmoni: la fede nell'esistenza dei dèmoni conduce alla teurgia (magia rituale): addirittura si
afferma che gli uomini possano introdurre nelle statue da loro fabbricate il principio divino, per dar loro il
dono della profezia. Proprio questo è il motivo per cui Sant'Agostino esprime un giudizio negativo su
Hermes Trismegisto, che considera un profeta ispirato dai dèmoni e portatore di un culto pagano
idolatrico.
L’antropologia dell’Asclepius è profondamente ottimistica: pur ribadendo il dualismo tra anima e corpo, e la
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superiorità della prima, che ha una natura divina, sul secondo, considera positiva questa doppia natura
dell'essere umano: grazie ad essa, infatti, questi, come un microcosmo, contiene in sé tutti gli aspetti della
realtà, e di conseguenza ha la capacità di governare il mondo, che gli esseri puramente spirituali non hanno.
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HITLER E IL "NAZISMO MAGICO"
Il cosiddetto "hitlerismo esoterico" o "nazismo magico", il cui principale rappresentante fu Heinrich
Himmler ed il cui esito più noto fu la costituzione, nel 1935, della cosiddetta Ahnenerbe ("Società di ricerca
ed insegnamento dell'eredità ancestrale"), affonda le sue radici in alcuni movimenti neotemplari e neocatari
formatisi a partire dall'inizio del Novecento.
Ripercorriamo le fasi essenziali del fenomeno.
1. Jörg Lanz Von Liebenfels.
Nel 1907 Jörg Lanz Von Liebenfels, un monaco cistercense espulso in seguito dall’Ordine, fondò, in una
fortezza sul Danubio, l'Ordine dei Nuovi Templari; al nuovo Ordine affiancò una rivista, Ostara, organo
ufficiale per la diffusione di una nuova dottrina, l'Ariofilosofia, che predicava, tra l'altro, la superiorità della
razza germanica. Il tutto derivava da una personale interpretazione dei testi biblici in base alla quale il
termine Angelo veniva letto Euroariano ed i popoli dei fiumi mesopotamici venivano fatti discendere
direttamente da una razza subumana chiamata Pagutu.
Jörg Lanz Von Liebenfels
L’idea di Von Liebenfels diede lo sprone alla nascita di nuovi gruppi, tutti dai nomi vagamente marziali
quali Armen Order, Ordo Novi Templi, Germanen Order e la famigerata Società Thule. Il primo a
riconoscere in questi eventi una materializzazione oscura fu Carl Gustav Jung, il quale ribattezzò il
proliferare di questi movimenti come "l’Archetipo Wotan", mettendo tutti in guardia contro i pericoli che ne
sarebbero potuti derivare.
2. La Thule Gesellschaft, i Superiori Sconosciuti e la Terra cava.
I "Nuovi Templari" non erano l'unica società esoterica della Germania prenazista. Tra il 1900 e il 1930, come
sempre accade nei periodi di crisi e di confusione ideologica, molti tedeschi cercavano nel soprannaturale
quelle certezze e quell'identità venute a mancare nel mondo reale.
Sulla scia delle dottrine predicate dall'americana "Società Teosofica Internazionale" (fondata a New York il
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17 Novembre 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, nobildonna russa nonché celebre medium e occultista, e
dal colonnello americano H.S. Olcott) e dall'inglese "Golden Dawn" (fondata nel 1887 e diretta in questo
periodo dal sinistro Aleister Crowley), e, forse, ispirati anche da una cattiva interpretazione della filosofia del
"Superuomo" di Nietzsche, videro la luce molti "ordini" caratterizzati dall'idea ossessiva della necessità della
rifondazione di una Razza Superiore originata millenni addietro dai "Superiori (o Maestri) Sconosciuti".
Questi ultimi erano concepiti come semidei che controllavano i destini del mondo standosene nascosti - a
seconda dei casi - nelle viscere della terra, in profonde gallerie scavate nell'Himalaya o in altri luoghi
inaccessibili.
Madame Blavatsky
Nel 1910 fu fondata la "Società di Thule" (Thule Gesellschaft), la quale identificava l'origine della razza ariana
nell'antica Thule di cui parla il geografo greco Pytheas (IV sec. a.C.), forse l'attuale Islanda; questa razza era
costituita da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, che un tempo dominavano il
mondo, successivamente perso per aver consumato relazioni sessuali con membri di altre razze, inferiori,
subumane e in parte animali. In effetti, nel mito thuleano di una terra abitata da una razza umana sotto certi
aspetti "superiore", identificata sovente con il popolo degli Iperbòrei, organizzata in una società pressoché
perfetta, si possono facilmente ritrovare alcune della basi del mito - accolto e divulgato dal nazismo - della
razza ariana, superiore a qualsiasi altra e dunque inevitabilmente dominante sul mondo.
La "Società di Thule" attinse a piene mani dalle teorie di Von Liebenfels e di Madame Blavatsky, la quale
sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi "Superiori sconosciuti". Essi, che a suo dire erano i
sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra Tibet e Nepal, si sarebbero rifugiati in seguito a una spaventosa
catastrofe nelle viscere della terra, dove avrebbero fondato una straordinaria civiltà sotterranea, la mitica
Agarthi. I superstiti rimasti sulla superficie terrestre si sarebbero trasferiti parte in Tibet, parte nel nord
Europa, dando origine alla razza ariana (la riprova sarebbe l'analogia tra il nome del regno degli Dei nordici,
Asgard, e Agarthi, nome del mitico centro spirituale nascosto in Tibet).
Anche per la "Società del Vril" (il Vril è l'enorme quantità di energia che possediamo e di cui non utilizziamo
che una piccolissima parte nella vita quotidiana, il nucleo della nostra potenziale divinità) i
Superiori Sconosciuti si trovavano nelle viscere della terra, ed era possibile diventare simili a loro soltanto
purificando la razza.
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Thule (qui indicata come Tile) in una carta di Olao Magno del 1539
Un "ingegnere" autodidatta, Hans Hörbiger, formulò nel 1925 una teoria sul "mondo di ghiaccio", secondo la
quale l'universo sarebbe nato dalla collisione di blocchi di "ghiaccio cosmico" dotati di movimento a spirale
con enormi masse di fuoco. Dal ghiaccio, che tempra corpi e spirito, sarebbero nati sulla terra i Superiori
Sconosciuti, dispersi in vari cataclismi tra cui quello di Atlantide, ma destinati a riorganizzarsi in una nazione
germanica.
Queste società fecero entusiasticamente propria la "teoria della Terra cava" dell'americano Symmes: quale
miglior nascondiglio dell'interno della Terra, per una civiltà superiore di origine ariana?
Non mancò chi, come Bender, fondatore del gruppo della "Hohl Welt Lehre", sostenne che l'umanità vivrebbe
addirittura all'interno di una sfera di cui il Sole costituisce il centro. Sappiamo che Hitler fu un convinto
sostenitore delle teorie di Hörbiger e di Bender.
Una straordinaria "mappa della terra cava" realizzata per un gioco
da Exile Game Studio nel 2005
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3. La personalità di Hitler fra mistico e maniaco.
Alfredo Castelli, creatore di Martin Mystère, racconta in un suo sito che secondo August Kubizek, uno dei
pochi amici di Hitler durante la sua giovinezza a Linz, in Austria, le ossessioni magico-politico-razziali del
futuro Führer si rivelarono d'improvviso attorno al 1904, quando Hitler aveva quindici anni. Dopo aver
assistito a Rienzi, un'opera di Wagner impregnata d'esoterismo dedicata al tribuno Cola di Rienzo, il giovane
Hitler cominciò a parlare di "una missione che il destino gli aveva riservato" e che "avrebbe affrancato la sua
razza dalla servitù". Sempre secondo Kubizek, in quell'occasione Hitler parlò per la prima volta con quella
voce frammentata e caratterizzata da violenti toni d'ira che sarebbe divenuta tristemente famosa grazie ai
suoi discorsi, e che però - fatto singolare, noto solo agli intimi - non era la voce "normale" con cui si esprimeva
quotidianamente. "Pareva lui stesso stupito" scrisse Kubizek - "come se sentisse le parole di un altro uscire
dalla propria bocca".
C'è chi vede in questo i primi sintomi di una forma di schizofrenia che l'avrebbe accompagnato per tutta la
vita, chi invece azzarda l'ipotesi di una vera e propria possessione demoniaca.
Adolf Hitler
Sta di fatto che da quel momento Hitler cominciò a occuparsi, quasi a tempo pieno, di misticismo orientale, di
astrologia, di ipnosi, di mitologia germanica, di occultismo. Era morbosamente affascinato dalle tematiche
esoteriche delle opere di Wagner, di cui presto scoprì la fonte di ispirazione: la poesia medioevale di Wolfram
Von Eschenbach, autore di un Parsifal dalla complessa simbologia ermetica. Un personaggio del poema lo
colpì in modo particolare. Si trattava di un certo Klingsor che, secondo Hitler, era la trasposizione letteraria
di una persona realmente esistita, il tiranno Landolfo II di Capua, scomunicato nell'875 per aver praticato la
magia nera con l'intento di acquisire il potere assoluto. Con ogni probabilità Hitler si identificò con lui, anche
perché soffriva della stessa anomalia fisica: erano entrambi monorchidi, ovvero dotati di un solo testicolo (si
sa infatti che gli Alleati cantavano una marcetta, "Hitler has only got one ball", su un'aria simile a quella di
Colonel Bogey, forse inventata dallo stesso Servizio Segreto Inglese a scopo denigratorio).
Hermann Rauschning descrive così le stranezze del comportamento di Hitler: «Una persona di quelle della
sua intimità mi disse che egli si sveglia la notte lanciando grida convulse. Chiama aiuto. Seduto sull’orlo del
letto, si trova come paralizzato. E’ preso da un panico che lo fa tremare al punto che il letto si scuote.
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Proferisce vociferazioni confuse e incomprensibili. Si affanna come se fosse sul punto di soffocare. La stessa
persona mi raccontò di una di queste crisi con particolari che io mi rifiuterei di credere se la fonte non fosse
così sicura. Hitler era in piedi in camera sua, barcollando e guardando intorno a sè con un’aria allucinata. "E’
lui! E’ lui! Lo vedo qui!" egli borbottava. Le sue labbra erano azzurre. Il sudore scorreva in grosse gocce.
Repentinamente pronunciò delle cifre senza senso alcuno, poi parole, pezzi di frase. Era orribile. Egli
impiegava termini bizzarramente allineati, completamente estranei. Dopo tornò nuovamente silenzioso
continuando però a muovere le labbra. Gli si fecero frizioni, gli si diede da bere una bevanda. Poi,
improvvisamente, egli ruggì: "Lì, lì! Nell’angolo. Cosa c'è lì?" Batteva il piede sul pavimento di legno e urlava.
Gli assicurarono che non succedeva niente di straordinario e allora egli, a poco, a poco, si calmò» (Hermann
Rauschning, "Hitler m’a dit", in "Hitler et la Tradition Cathare", Parigi 1939).
Una celebre fotografia di Adolf Hitler
"Seguo il cammino che la provvidenza mi indica con la sicurezza di un sonnambulo", diceva Hitler: il che
conferma la sua convinzione di disporre di poteri paranormali. Ma da dove avrebbe egli ricevuto tali poteri?
Dalla Società Thule che lo aveva iniziato all’esoterismo orientale? Dal misterioso "monaco dai guanti verdi"
inviato dai saggi del Tibet? O da una rivelazione più antica?
Fra l’altro, per quanto possa sembrare paradossale, Hitler odiava i cacciatori: credeva nella reincarnazione
delle anime in corpi di animali, proprio come i buddisti e i catari. Un giorno dichiarò: «Chi si suicida ritorna
fatalmente alla natura-corpo, anima e spirito» (Hitler Adolf, "Libres Prepos", Flammarion, Paris, in "Hitler et
la Tradition Cathare"); dichiarazione in totale contrasto con la scelta del suicidio che attuò nel 1945.
Sapendo tutto questo, non c'è da stupirsi che già nel lontano 1909, a vent'anni, Hitler abbia preso contatto con
Von Liebenfels, e che 1919 sia stato iniziato alla Società Thule da Dietrich Eckart, che in quel periodo ne era
il leader, rimanendo profondamente e durevolmente influenzato da tutte le teorie sopra descritte.
4. Hitler e l'esoterismo.
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Difficile comprendere se sia stata l'ossessione di Hitler per queste teorie esoterico-razziali a fargli
intraprendere la sua carriera politica, in modo da poterle mettere in pratica, oppure le abbia adottate "a
posteriori" come base filosofica della sua politica; con ogni probabilità le due ossessioni interagirono. Sta di
fatto che Adolf Hitler fece sua questa accozzaglia di dottrine.
Che ci credesse sul serio o, come si suol dire, "ci marciasse" (ma la prima ipotesi è la più attendibile), Hitler si
circondò di legioni di maghi, astrologi, occultisti, ricercatori psichici, alchimisti. Non a caso, nel 1920, scelse
un simbolo magico, la svastica, come marchio del partito nazionalsocialista. Gliel'aveva suggerito Friedrich
Krohn, un occultista del gruppo "Germanenorder", ma Hitler aveva preteso una modifica: la direzione delle
braccia della svastica fu invertita, trasformando questo antico simbolo solare e positivo in un simbolo
notturno e negativo.
Uno stupefacente disegno di Boris Artzybasheff apparso su Life,
raffigurante gli incubi di Hitler (tutti a forma di svastica!)
Paradossalmente, l'occultista più seguito da parte di Hitler era un ebreo, tal Erik Jan Hanussen, che non solo
gl'impartì lezioni di oratoria, ma anche curò la teatralità dei gesti del futuro dittatore. A far data dal 1932
(sebbene altri futuri alti gerarchi nazisti abbiano fatto ricorso al medium già a partire dal 1924) Hitler ricorse
più volte alle "cure" di Hanussen ogni qual volta doveva prendere decisioni importanti o si sentiva deluso dai
risultati elettorali, tanto che nel 1932 l'esoterista, a quel tempo secondo solo ad Harry Houdini per fama, gli
preannunciò la conquista del potere per l'anno seguente, il che effettivamente si verificò nella data
prestabilita, in quanto "questo hanno deciso le potenze celesti e nulla potrà mutare tale verdetto se scritto nel
destino". Nel corso di un'intervista, Hanussen ebbe modo di affermare circa Hitler ed il nazismo: "Hitler? Sì,
un ottimo direttore d'orchestra! Però, lo spartito... - rammentate bene - ebbene quello l'ho scritto io!".
Hanussen morì un anno esatto dopo aver predetto la vittoria hitleriana, nella primavera del 1933, ma
sembra ormai accertato che Hitler non fosse coinvolto nel suo omicidio; lo erano piuttosto, pare, Himmler e
Gōring. Hanussen infatti aveva predetto a Göring la caduta del Terzo Reich, e questa fu una delle probabili
cause della sua morte.
Il giorno prima di morire Hanussen scrisse con l'inchiostro simpatico una lettera all'ex segretario Juhn: "Tu
non credi nell'occulto, ma il nuovo padrone della Germania ci crede eccome! Leggi quanto profetizza il mio
collega, il profeta Daniele nel capitolo 8 ("13. Udii parlare un santo e un altro santo dire a quello che parlava:
«Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la trasgressione devastante, il santuario
e la milizia calpestati?». 14. Gli rispose: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario sarà resa
giustizia»"). Calcola bene gli anni e saprai quando cadrà l'uomo malvagio che cerca di sottomettere il mondo
con la forza bruta. Calcola gli anni da quando cento sinagoghe saranno distrutte in un'unica sera ("Notte
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dei cristalli", 1938) e saprai quando cesserà il suo barbaro sogno".
Il giorno dopo Hanussen morì in circostanze oscure.
Hanussen a parte, molti episodi del nazismo rimangono non del tutto chiariti. Ad esempio l'operazione che
passò alla storia col nome de "La Notte dei Lunghi Coltelli" (1934), voluta da Hitler, dal ministro degli
Interni Göring e dal leader delle SS, Himmler, potrebbe essere, secondo alcuni, un regolamento di conti a
sfondo non solo politico, ma anche esoterico.
5. Himmler e il neo-paganesimo.
Nel 1933, con il beneplacito di Hitler, il Reichsführer e fondatore delle SS (Schutz Staffel, "Forza Protettiva"),
Heinrich Himmler, noto per la sua devozione maniacale alle arti magiche, mise insieme una vera e propria
religione neo-pagana.
Tutte le organizzazioni occulte furono obbligate a sospendere le loro pratiche per ordine di Himmler, il quale
si riteneva unico depositario dell’ermetismo nazista; rimase in vita solo il famigerato Ordine Nero da lui
fondato, un movimento occulto nato con l’unico scopo di contrastare gli alleati servendosi di pratiche
magiche. Contemporaneamente Hitler fece eliminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi,
esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze, iniziò a divulgare nuove teorie ed ordinò
l’insegnamento delle prime nozioni misteriosofiche ad una speciale sezione delle S.S. dedita esclusivamente
all'esoterismo.
Come centri di culto furono scelti Exernsteine, considerata la Stonehenge tedesca, e, soprattutto,
Wewelsburg, dove venne edificata una vera e propria cattedrale esoterica, con una Tavola Rotonda per
tredici commensali (Himmler e i suoi "dodici apostoli") attorno alla quale venivano progettati i genocidi delle
"razze inferiori" e degli omosessuali. Qui le giovani SS (la cui genealogia era stata controllata fino al 1750, per
appurare che in loro non scorresse sangue ebreo) subivano un rito di iniziazione, dopo il quale potevano
indossare la divisa nera con il teschio d'argento.
La sala di Wewelsburg, con il "sole nero" sul pavimento
Himmler si occupava anche di cerimonie scaramantiche contro simboli o monumenti che riteneva di cattivo
auspicio; durante la guerra fu ossessionato dall'idea di sabotare le campane di Oxford, presso Londra, che
secondo lui portavano sfortuna alla Luftwaffe, l'aviazione tedesca, impedendole di colpire a fondo sul
territorio inglese.
Nel 1938, in occasione dell'Anschluss, ovvero l'annessione forzata dell'Austria, Hitler si affrettò a
impadronirsi dell'Heilige Lanze, la "Lancia Sacra" con cui, secondo la leggenda, il pretoriano Longino aveva
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trafitto il costato di Cristo crocifisso, custodita nel palazzo Hofburg di Vienna. Hitler la riteneva un
potentissimo talismano e la fece portare a Norimberga, il centro principale del Partito Nazista. Qui essa venne
provvisoriamente collocata nella chiesa di Santa Caterina, dove venne allestito un vero e proprio santuario
mistico-esoterico, e presentata come simbolo della sacralità della missione germanica, ricollegandovi
nuovamente un mito di invincibilità. In seguito Hitler la fece murare in un bunker segreto.
La "Lancia Sacra", oggi conservata a Vienna
Sempre agli anni immediatamente antecedenti al
conflitto risalirebbero alcune esplorazioni in Tibet,
allo scopo di identificare la mitica Agarthi, e la ricerca
del Santo Graal. A quest'ultima vicenda è legata la
misteriosa morte dell'archeologo Otto Rahn.
Rahn, colonnello delle SS, e il filosofo Alfred
Rosenberg, amico di Hitler, furono incaricati di
cercare il Graal. Indagarono a Montségur e in altre
fortezze catare. Subito dopo le ricerche, di cui mai si
seppe alcun risultato, il 13 Marzo del 1939 il corpo di
Rahn venne ritrovato in fondo ad una scarpata tra le
montagne dell'Austria, a Kitzbühel. L'episodio non fu
mai ben chiarito: le tesi ufficiali parlano di suicidio,
ma si è ipotizzato che si trattasse di un'esecuzione.
Otto Rahn
Ne "Il Mattino dei Maghi" Jacques Bergier sostiene che le spedizioni continuarono fino al 1943, ma la loro
realtà non è storicamente accertata. Si sa però che nel giugno del 1944 la II divisione delle S.S. "Das Reich"
mise a ferro e fuoco il paese di Oradour-sur-Gland, massacrandone gran parte della popolazione, rea di aver
occultato, a suo dire, la reliquia che Hitler aveva cercato disperatamente per mezza Europa. E' confermato
anche il fatto che, dopo la caduta di Berlino, i sovietici rinvennero i cadaveri di molti tibetani in uniforme
tedesca. Chi erano, e cosa facevano nella capitale del Reich?
Nel frattempo Hitler continuava la sua frequentazione di veggenti: nel 1942 si recò in Bulgaria a consultare
la celebre Vangelia Pandeva ("Baba Vanga"), che viveva nella città di Petrich.
Probabilmente l'incontro non fu dei più felici, giacché Hitler fu visto uscire scuro in volto. Si faceva anche
commentare da un sedicente esoterista, tal Ludwig Birzer, i passi di Nostradamus, della Monaca di Dresda, di
San Malachia, Mother Shipton e dell'anonimo monaco tedesco noto con lo pseudonimo de "Il Ragno Nero" (in
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tedesco "der Schwarze Spinne").
6. Ipotesi e interrogativi.
Questi i fatti accertati. Ma secondo alcuni studiosi Hitler non era soltanto un paranoico ossessionato dalla
magia, bensì un iniziato "di mano sinistra", un lucido e potentissimo "mago nero" che aveva stretto un patto
con oscure potenze, a cui offriva sacrifici rituali in cambio del potere assoluto, come il suo ideale
predecessore Landolfo II di Capua. Quest'alleanza spiegherebbe la sua fulminea carriera e l'inspiegabile
carisma che il Führer, pur essendo fisicamente insignificante, riusciva ad esercitare a livello quasi ipnotico su
sterminate moltitudini di concittadini.
Ancor più inquietante l'ipotesi che lo stregone non fosse Hitler, ma qualcun altro che teneva nascostamente
le fila e lo usava come fantoccio. Ma ci fu davvero qualcuno al disopra di Hitler? E se sì, chi era e che fine ha
fatto?
Nel volume "La Guerra Segreta", lo storico e narratore inglese Dennis Wheatley afferma che tra il '40 e il '45
potenti maghi "bianchi" di tutte le nazionalità si sarebbero coalizzati contro Hitler e i suoi stregoni,
attaccandoli sul piano psichico. In Inghilterra le attività dei "maghi bianchi" sarebbero state coordinate da
un'apposita sezione del Servizio Segreto, sorta con il beneplacito di Winston Churchill; tra i più potenti
"oppositori psichici" di Hitler in Italia c'era - si dice - lo stesso Padre Pio di Pietralcina.
Un giovanissimo Padre Pio
In Germania (e questa notizia è storicamente sicura) il pranoterapista personale di Himmler, Felix Kernsten,
un potente sensitivo di cui il Reichsführer delle SS era letteralmente dipendente, riuscì a "influenzarlo
mentalmente" salvando la vita a centinaia di ebrei (Kernsten venne di seguito decorato dagli Alleati per aver
reso "servigi così preziosi da non poter essere comparati con nessun precedente").
Sintomatico il fatto che, come si è detto, una volta preso il potere, Hitler si sia subito premurato di far
sterminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue
strettissime dipendenze.
Ma, evidentemente, questa precauzione non bastava: Hitler non riuscì a sfuggire al destino che, come nel
mito di Faust, attende chi stringe un'alleanza con il Maligno. Chiuso in un bunker sotto una Berlino rasa al
suolo dalle bombe e devastata dagli incendi, il Führer attese il 30 aprile 1945 prima di suicidarsi: era il
giorno che si conclude con la notte di Valpurga, la notte in cui i poteri delle tenebre celebrano la loro festa
trionfale.
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4. LA DONNA COME DEMONE
FOSCA, LA DONNA-VAMPIRO
Vorrei essere un’iena, addentrarmi nei sepolcri e pascermi delle ossa dei morti.
A questo mondo io non vedo che teschi e stinchi. Se una donna mi bacia, io non sento che freddo;
se mi sorride, vedo i suoi denti muoversi senza gengive, minacciando di uscire di bocca; se mi abbraccia,
non ho che la sensazione di un corpo stringente e pesante come la creta.
(Iginio Ugo Tarchetti, da Pensiero)
Iginio Ugo Tarchetti nacque a San Salvatore Monferrato, vicino ad Alessandria, nel 1839. Studiò a Casale e a
Valenza, e si arruolò giovane nell'esercito. Le cronache del suo tempo ci descrivono Tarchetti come un
giovane alto all'incirca un metro e ottantaquattro, con volto ovale, il naso diritto, gli occhi azzurri. Un
bell'uomo, capace di provare e scatenare grandi passioni.
Ugo Iginio Tarchetti
Un aspetto di re merovingio avea […] un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava, spesso, in segno di
ammirazione, qual saluto mattutino, de’ fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: qualche
critico oggi lo chiamerebbe un “féministe”. Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti, d’Alessandria, nato nel 1841; il quale
proclamava al pari d’un altro sconfinato ingegno, Carlo Bini: “La virtù del sacrificio e dell’amore non ha limiti nel cuore
della donna” non pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di giovani onesti e d’oneste
famiglie: ma quante altre sventurate (è vero) sono spinte al male da noi!
(Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Treves)
Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava
superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla
confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. Le
donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una
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gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua
idealità d’artista.
(Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N.)
Verso il mese di novembre dell'anno 1865 Tarchetti si trovava a Parma, ove aveva incarichi militari. Nella
città emiliana Tarchetti conobbe una donna, una certa Carolina (o Angiolina, sul nome c'è incertezza),
parente di un suo superiore. Essa era malata di epilessia e prossima alla morte. Pur non essendo bella, ella
suscitò subito un'attrazione da parte dello scrittore, forse per i grandissimi occhi neri e le trecce color ebano.
Tarchetti stesso ci descrive la donna: "Quell’infelice mi ama perdutamente… il medico mi disse che morrà
fra sei o sette mesi, ciò mi lacera l'anima, vorrei consolarla e non ho il coraggio, vorrei abbellire d'una misera
e fuggevole felicità i suoi ultimi giorni e v'ha la natura che mi respinge da lei".
La relazione fra i due fu uno scandalo, ma la donna fu l'ispirazione più diretta di Tarchetti per la creazione
del personaggio di Fosca.
Nel 1865 Tarchetti abbandonò la vita militare, adducendo la ragione a motivi di salute, e si trasferì a Milano,
dove entrò in contatto con gli ambienti della Scapigliatura. Nel capoluogo lombardo trascorse i suoi ultimi
anni conducendo una frenetica attività letteraria, scrivendo articoli, romanzi, racconti e poesie.
Malfermo di salute, morì di tifo nel 1869, a soli trent’anni. La sua morte precedette quella della malata
Carolina, la quale sopravvisse a Tarchetti e onorò la scomparsa del poeta mandando fiori alla sua lapide il
novembre di ogni anno.
Iginio Ugo Tarchetti è oggi sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano.
Fosca è considerato la prova migliore di Tarchetti, che lavorò a questo romanzo fino alla morte. Non riuscì
però a completarlo: stese i due capitoli conclusivi, ma la parte mancante, la notte d’amore di Giorgio e
Fosca, venne scritta dall’amico Salvatore Farina per permettere la pubblicazione dell’opera, che uscì a
puntate sul «Pungolo», quello stesso anno.
La vicenda, nella finzione narrativa, trae origine da un manoscritto (espediente manzoniano) in cui Giorgio,
un giovane ufficiale, racconta in prima persona le due passioni amorose, risalenti a cinque anni prima, che
hanno profondamente segnato la sua vita.
Egli, ritiratosi dalla vita militare a causa di una malattia al cuore, si reca a Milano, dove incontra Clara, il cui
"nome parlante" allude alla natura chiara e solare di questa donna giovane e bella, sposata, con la quale vive
una intensa relazione d’amore.
Dopo appena due mesi di inebriante felicità, Giorgio, risanato nel corpo e nello spirito, viene richiamato in
attività e destinato a una monotona cittadina di provincia circondata da una landa desolata. Qui avviene
l’incontro con Fosca, la cugina del suo colonnello; anche in questo caso il "nome parlante" ha una diretta
corrispondenza con l'aspetto fisico e la personalità di questa donna, non bella, di orribile magrezza, consunta
da una non meglio identificata malattia psicofisica.
Da questo momento, mentre l’immagine di Clara diviene via via più remota, Fosca entra sempre più
prepotentemente nella vita e nella mente di Giorgio, fino a contagiarlo con il suo morbo.
Il tema dell’amore è presente nel romanzo secondo due modelli contrapposti: da una parte quello
romantico, con l’adulterio che assume il valore di conflitto con le regole sociali, dall’altra il modello, tipico
della Scapigliatura, dell’amore visto nei suoi risvolti morbosi, patologici, associato alla malattia e alla morte.
È così, infatti, che Tarchetti-Giorgio descrive il rapporto con Fosca: «Più che l’analisi di un affetto, che il
racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho
sentito, l’ho subito».
Ed è di questo amore che il protagonista vuole scrivere: le parti che fanno capo a Clara, infatti, sono soltanto
brevemente evocate, come ricordi sereni ma statici, chiusi, di un tempo felice.
Il contrasto fra le due donne, che attiene non solo al loro aspetto fisico, ma altresì alla realtà che le circonda,
è messo in evidenza già nel modo in cui ci vengono presentate.
Clara, giovane, serena, d’una bellezza florida e sana, sembra permeare di sé tutti gli elementi che
interagiscono con lei. Il rapporto Giorgio-Clara è raffigurato sulla pagina come una sorta di cammeo, dove
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tutto è perfetto e in sé compiuto: il tempo è quello della primavera, gli spazi sono quelli aperti di prati in
fiore attraversati da limpidi ruscelli, oppure quelli chiusi di una capanna disabitata, “il loro tabernacolo”,
custode della loro intimità. Clara rappresenta la luce e la vita, è colei che con la sua forza e insieme la sua
dolcezza risana e rigenera: emblematica è a questo proposito l’assimilazione tra la bellezza di lei e quella che
doveva aver avuto la madre di Giorgio quand'egli nacque.
Edvard Munch, Vampiro, 1893-94
L’entrata in scena di Fosca, invece, è preceduta da un alone di inquietante mistero che induce nel lettore
una crescente suspense: ci viene presentata attraverso le parole del cugino, del medico, ma intanto è lì, in
absentia, il suo posto a tavola, sempre accanto a quello di Giorgio, contrassegnato da un fiore. Prima ancora
di “vederla”, poi, assistiamo improvvisamente alla parossistica manifestazione della sua terribile
malattia: urla acute, strazianti e prolungate echeggiano nella sala e richiamano alla mente di Giorgio, per la
prima volta, l’idea della morte. Infine Fosca appare, straordinariamente orribile e insieme intensamente
attraente: la descrizione del volto, con gli zigomi e le ossa delle tempie spaventosamente sporgenti, rimanda
all’immagine di un teschio; il pallore del volto contrasta con i capelli d’ebano, folti e lucentissimi, e con gli
occhi grandi, nerissimi e vividi; la sua persona, alta e scheletrica, prodotto del dolore fisico e delle malattie,
ha però una grazia e un’eleganza sorprendenti.
Fosca incarna la malattia, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali, dietro alla quale si cela la morte,
evocata attraverso immagini di sapore espressionistico, violentemente contrapposte: l’orrore che quel corpo
già incadaverito suscita nel protagonista mentre lo avvinghia come se volesse trascinarlo con sé nella tomba,
e il fascino che, nelle scene notturne, promana da quel volto come trasfigurato.
Si avverte potentemente, in queste immagini, l'influsso di Edgar Allan Poe, autore molto amato da Tarchetti,
e specialmente quello del racconto Ligeia (leggibile in traduzione italiana qui), del 1838: in esso infatti
Poe contrappone due donne dalle caratteristiche fisiche assai simili a quelle di Fosca e Clara: Lady Ligeia,
l'amatissima prima moglie del narratore, dai capelli corvini e dai meravigliosi occhi neri, donna di
grandissimo fascino e di straordinaria cultura, con spiccati interessi esoterici, che ricambia l'amore del marito
con una "devozione piu' che appassionata" che "sfiora l'idolatria", ma dalla salute malferma che la conduce
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presto alla morte; e Lady Rowena, la seconda moglie, una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli biondi,
giudicata insignificante e banale dal marito, che non riuscirà mai ad amarla.
Valeria D'Obici interpreta Fosca nel film "Passione d'amore" del 1981,
tratto dal romanzo di Tarchetti
Dopo appena un mese di matrimonio Lady Rowena si ammala a sua volta, e quando il marito le somministra
un vino medicamentoso ha la visione di alcune gocce di una sostanza misteriosa che cadono nel bicchiere. La
donna beve il vino, peggiora ed in breve muore.
Durante la veglia funebre il marito ha più volte l'impressione di notare segni di vita nel corpo della defunta.
Alla fine il cadavere, avvolto nel sudario, si alza, si pone al centro della stanza, e, di fronte all'uomo
sconvolto, si toglie le bende dalla testa: ed ecco apparire le chiome corvine di Ligeia, ecco aprirsi i suoi
occhi nerissimi. Ligeia è tornata dalla morte per amore del marito, impadronendosi del corpo di Lady
Rowena.
Le analogie fra le due vicende sono evidenti: anche Fosca, come Ligeia, è una creatura malata e
inquietante, intimamente connessa con l'idea della morte, una creatura quasi demoniaca che incute terrore ed
orrore; ed anche lei è disposta a tutto per amore del suo uomo. In entrambi i casi la rivale non ha la benché
minima chance: sia Clara che Lady Rowena sono troppo "normali", troppo graziose e femminilmente
rassicuranti, per poter fare breccia nell'animo dei due protagonisti, profondamente attratti dal macabro e dal
fascino malsano della morte.
Ciò che rende Fosca attuale per il lettore moderno è, in ultima analisi, l’inquietudine che l’attraversa, il
dubbio, le dicotomie fra le opposte realtà della vita e dell’io, espresse non solo nello sdoppiamento ClaraFosca, ma anche nella duplicità che caratterizza Fosca in se stessa: l'oscillazione continua fra logica e
desiderio, razionale e irrazionale, luce e ombra.
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IL MITO DI SALOMÈ
Masolino D’Amico, nel saggio che accompagna una recente edizione della Salomè di Oscar Wilde (ES 2010),
definisce Salomè "il personaggio femminile più emblematico per la sensibilità della cosiddetta decadenza.
Salomè è infatti l’ultima incarnazione del mito romantico della donna fatale, corrotta e innocente al tempo
stesso, irresistibile e distruttrice; un mito che si incarna di volta in volta nella Belle Dame Sans Merci di Keats,
nella Carmen di Merimée, nella Monna Lisa di Leonardo descritta da Walter Pater. In Salomè questa femme
fatale assume i connotati estremi nel segno della decadenza: estrema è la crudeltà (e allo stesso tempo,
l’innocenza); estrema è la giovinezza (già nel Medioevo Salomè viene rappresentata come poco più di una
bambina); estrema è la carica sacrilega del mito, ed estrema è la componente erotica (la danza discinta, il
sangue)».
Franz Von Stuck, Salomè e la danza dei sette veli, 1906
Artisti e letterati di ogni epoca hanno subito il fascino di questo archetipo femminile, ma senza dubbio la
corrente letteraria che ne risentì maggiormente fu il Decadentismo, come testimonia bene l'arte figurativa: il
solo Gustave Moreau dedicò a Salomè numerosi dipinti, due dei quali celebrati con toni entusiastici da
Huysmans in À Rebours.
Salomè è dunque la femme fatale per definizione, personificazione stessa della donna dèmone o donna
vampiro che così irresistibilmente attrae gli uomini alla ricerca di sensazioni forti, la perfetta sintesi di eros e
thanatos di cui la sensibilità malata dell'esteta decadente ha bisogno per vincere la noia che lo attanaglia e gli
fa sembrare vuote e prevedibili le donne "normali".
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DÀIMONES
La vicenda biblica
I personaggi implicati nell’episodio della decollazione di Giovanni Battista sono quattro:
- Erode Antipa (figlio di Erode il Grande e fratello di Erode Filippo);
- Erodiade (nipote di Erode il Grande, moglie di Erode Filippo e madre di Salomè);
- Salomè, nata dal matrimonio fra Erodiade e Erode Filippo ma figlia adottiva di Erode Antipa in seguito al
secondo matrimonio della madre;
- Giovanni Battista, il profeta che annuncia la venuta di Cristo.
Erodiade, contravvenendo alla legge ebraica, sposò in seconde nozze Erode Antipa: ella infatti, già moglie di
Erode Filippo, aveva abbandonato assieme alla figlia la corte romana, preferendo a questa quella giudaica.
La legge ebraica permetteva di sposare in seconde nozze il fratello del proprio marito solo in caso di
avvenuta morte di questi o di sterilità dello stesso; proprio la contravvenzione alla suddetta legge fu
motivo di conflitto fra il profeta Giovanni Battista e la regina Erodiade.
In occasione dei festeggiamenti del genetliaco di Erode Antipa, la diabolica regina organizzò un piano di
vendetta: fece in modo che l'affascinante figlia, figliastra del festeggiato, si esibisse in una seducente danza
d’intrattenimento (la "danza dei sette veli"); deliziato ed eccitato dall'esibizione della giovane, Erode promise
all’abile danzatrice qualsiasi dono, finanche “metà del proprio regno”.
L’ingenua fanciulla, istigata dalla madre, chiese la testa del Battista su un piatto d’argento. Suo malgrado il
tetrarca, vincolato alla promessa fatta, acconsentì alla richiesta.
Il racconto biblico si conclude con l’allontanamento dalla reggia degli adepti del profeta che trasportano fuori
il corpo del martire decollato.
Léon Herbo, Salome, 1889
Le testimonianze bibliche
Presento qui di seguito i passi biblici in cui compare Salomè (Vangelo secondo Matteo 14,1-12 e Vangelo
secondo Marco 6,14-29), chiamata, come si vede, non col proprio nome, bensì con l’appellativo “figlia di
Erodiade”. E’ solo con lo storico Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche XVIII 136-139) che si viene a
conoscenza del nome della “figlia di Erodiade”, Salomè.
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Matteo 14, 1-12
«In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: "Costui è
Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui". Erode aveva arrestato
Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade, moglie di Filippo suo
fratello. Giovanni infatti gli diceva: "Non ti è lecito tenerla!". Benché Erode volesse farlo morire, temeva il
popolo perché lo considerava un profeta. Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in
pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse
domandato. Ed essa, istigata dalla madre, disse: "Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista". Il
re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data e mandò a
decapitare Giovanni nel carcere. La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la
portò a sua madre. I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne
Gesù».
Marco 6, 14-29
«Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: "Giovanni il
Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui". Altri invece dicevano: "E` Elia";
altri dicevano ancora: "E` un profeta, come uno dei profeti". Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: "Quel
Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!". Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva
messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva
a Erode: "Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello". Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe
voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su
di lui; e anche se nell`ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno
propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i
notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora
il re disse alla ragazza: "Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò". E le fece questo giuramento: "Qualsiasi cosa
mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno". La ragazza uscì e disse alla madre: "Che cosa
devo chiedere?". Quella rispose: "La testa di Giovanni il Battista". Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta
dicendo: "Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista". Il re ne fu rattristato;
tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una
guardia con l`ordine che gli fosse portata la testa. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su
un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputa la cosa,
vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro».
Salomè nella letteratura e nell'arte
E' Charles Baudelaire a dare il La all'interesse del Decadentismo per la figura di Salomè, ispirando le liriche
27 e 28 della sezione 'Spleen et Idéal', contenuta ne Les Fleurs du Mal del 1857, alle figure di Erodiade e della
figlia, ma concentrando la propria attenzione soprattutto su quest'ultima. Più labile è il nesso con il
personaggio nel poema incompiuto Hérodiade di Stéphane Mallarmé del 1866, incentrato particolarmente
sulla figura della madre.
Nel 1876 viene esposto al Salon International il dipinto Salomè danza davanti ad Erode di Gustave Moreau
(tempera alla quale seguirà a breve il dipinto a olio L’Apparition). L'interpretazione che Moreau dà della
figura di Salomè è del tutto particolare: la ragazza è vista non come una creatura carnale e sensuale, ma al
contrario come un essere quasi androgino, la cui apparenza pura ed innocente fa un sinistro contrasto con il
suo ruolo perverso, i cui gesti composti e ieratici la ritraggono come una inconsapevole sacerdotessa del
Male, un simbolo dell'ineluttabilità del destino che piomba inesorabile sull'uomo: una sorta di angelo caduto,
insomma un vero e proprio dèmone. Questa "lettura" così nuova del personaggio farà scalpore e desterà
un'eco profonda soprattutto nella sensibilità di Joris Karl Huysmans, che nel suo À rebours del 1884, vera e
propria "Bibbia" del Decadentismo, dedica a questi dipinti una lunga digressione, che ho riportato qui. Ma
già l'anno successivo, nel 1877, Flaubert compone l’Hérodias, con ogni probabilità ispirato proprio dai
dipinti di Moreau. Nel racconto flaubertiano Erodiade viene descritta come una donna dominante, mentre
Erode è dipinto come un esteta inesperto ma raffinato. La figlia Salomè appare come uno strumento usato
astutamente dalla madre per raggiungere i propri fini.
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Il passo successivo è compiuto da Oscar Wilde, che nel 1891, nella sua Salome composta in francese ed
arricchita dalle celebri illustrazioni di Audrey Beardsley, attribuisce a Salomè, e non più ad Erodiade, la
volontà della decapitazione di Giovanni Battista: la principessa infatti si è innamorata perdutamente del
profeta, ma non è corrisposta; la decapitazione è quindi la sua vendetta, e nel contempo la soddisfazione
della sua perversa libidine (alla fine Salomè bacia la bocca del decapitato). All'opera di Wilde ho dedicato un
capitolo a parte.
Aubrey Beardsley, The stomach dance, 1893
La variante proposta da Wilde per la verità non è nuova: ha radici nel poema Atta Troll scritto nel 1843 dal
poeta tedesco Heine. Nel componimento heiniano l’autore racconta di avere assistito in sogno ad una parata
di personaggi illustri in forma di "caccia all'orso", nella quale si staglia la figura della regina Erodiade
accompagnata da Diana, dea della caccia, e dalla fata Abunde. La descrizione dell’episodio onirico si
conclude con l’immagine di Erodiade tornata fanciulla (rappresentata come Salomè) mentre si diletta di
baciare la testa del profeta martire e di giocare con essa.
Anche nella letteratura italiana di quel periodo è presente il mito della femme fatale; notoriamente, chi ne
enfatizza maggiormente i tratti demonici è Gabriele D’Annunzio. Basti ricordare il romanzo Il Piacere, in
cui Elena Muti, una delle protagoniste femminili del testo, induce il protagonista Andrea Sperelli ad un
completo asservimento. Ma il personaggio di Salomè vive nella fantasia dello scrittore abruzzese anche in
senso proprio, e non metaforico, attraverso l'enorme suggestione esercitata su di lui da Lucrezia Buti, una
suora (!) che aveva "posato" come modella per la Salomè di Filippo Lippi, e della quale D'Annunzio asserisce
di essersi perdutamente innamorato: la singolare vicenda è descritta in questa sezione.
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Oltre a Gustave Moreau, molti altri pittori di questo periodo dipinsero la figura di Salomè, per lo più però
fornendone un'interpretazione "tradizionale", cioè raffigurandola come una donna lasciva, sensuale e
perversa, anche un po' volgare. Ho riportato in apertura, come esempio, la Salomè di Franz Von Stuck del
1906, che si dice fosse particolarmente apprezzata da Hitler, ma molti altri artisti si cimentarono su questo
soggetto.
Fra questi merita senz'altro di essere ricordato Henri Régnault, che nel 1870 dipinse la Salomè
orientaleggiante riprodotta qui sotto, che destò notevole ammirazione:
Gustav Klimt ritorna invece a dare di questo mito un'interpretazione raffinata ed elegante, fondendo il mito
di Salomè con quello di Giuditta e rappresentandola non più come ragazza, ma come una donna matura, in
linea con le preferenze degli esteti decadenti, che prediligono la donna esperta nella perversione e nella
seduzione. I dipinti da lui dedicati a questo mito sono due, uno del 1901 e l'altro del 1909.
Per quanto riguarda il teatro, dal dramma di Wilde fu tratto il libretto dell'opera omonima, musicata da
Richard Strauss nel 1905. Anche il poeta portoghese Eugenio de Castro scrisse nel 1896 una Salomè.
In seguito il mito di Salomè declina inesorabilmente: sono poche le eccezioni, e due delle più significative
sono proprio italiane.
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Gustav Klimt, Giuditta Salomè
1909
Gustav Klimt, Salomè
(Giuditta e Oloferne)
1901
Tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, infatti, il grande Carmelo Bene riportò in scena il mito di
Salomè, dandone un'interpretazione triviale che richiama da vicino le atmosfere del Satyricon di Petronio.
Poco o nulla invece aggiunge al panorama complessivo la recente prova operistica allestita da Giorgio
Albertazzi nel gennaio 2007, che tanto scalpore ha suscitato a livello mediatico, più per le nudità portate in
scena dalle protagoniste che per intrinseci pregi artistici (il testo di partenza era ancora una volta quello di
Wilde).
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OSCAR WILDE, SALOMÈ
La Salomè di Oscar Wilde è un dramma in atto unico dedicato a Pierre Louÿs e scritto in lingua francese
appositamente per l'attrice Sarah Bernhardt, la quale però non interpretò mai il personaggio sulla scena.
Fu pubblicato nel 1893 con le celebri illustrazioni liberty di Aubrey Beardsley: la traduzione in lingua inglese
venne affidata all'amante di Oscar Wilde, Lord Alfred Douglas (detto Bosie o Bosey), ma il ragazzo non si
rivelò all'altezza del compito. Benché la sua traduzione sia stata sostituita con una di autore ignoto, nella
prima edizione Wilde cavallerescamente volle che la dedica fosse comunque "A Lord Alfred Douglas,
traduttore della mia commedia".
La trama del dramma è la seguente:
Erode Antipa, che convive con la ex moglie del fratello Filippo, Erodiade, ed è invaghito della figlia di lei, la
bellissima Salomè, ha organizzato un banchetto invitandovi ospiti giudei, romani, egiziani.
L'opera si apre sulla terrazza del palazzo, dove due soldati discutono sulla bellezza della luna e della
principessa Salomè.
Il tetrarca Erode ha fatto rinchiudere Iokanaan (= Giovanni Battista) in una grande cisterna al centro del
salone, spaventato dalle sue profezie sull'avvento del Messia e dalle sue accuse contro la corruzione che
regna a corte.
Oscar Wilde in un celebre ritratto
Salomè, infastidita dalle attenzioni di Erode e attratta da Iokanaan, chiede alle guardie di potergli parlare.
Iokanaan esce dalla cisterna proferendo parole di sdegno contro Erode ed Erodiade, ma Salomè
rimane affascinata dall'uomo, tanto che gli rivela il suo desiderio di baciarlo: «Bacerò la tua bocca, Iokanaan;
bacerò la tua bocca».
Iokanaan è del tutto indifferente alle profferte erotiche della ragazza, mentre il capitano delle guardie,
segretamente innamorato di Salomè, addirittura si uccide dopo avere sentito queste parole.
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Giungono sulla terrazza Erode ed Erodiade; Erode continua ad infastidire Salomè, mentre Iokanaan
denuncia la dissolutezza di Erodiade, la quale, sdegnata, si rende conto che Erode è troppo preso dalla
bellezza di Salomè per pensare a difenderla.
Erode le chiede di danzare per lui, offrendosi di esaudire qualsiasi suo desiderio. Salomè accetta, si prepara
per l'esibizione ed esegue la danza dei sette veli sul sangue del capo delle guardie morto per amor suo.
Finita l'esecuzione, esprime il suo desiderio: «Dammi la testa di Iokanaan».
Erode non vorrebbe uccidere il profeta, ma non può venir meno alla sua promessa: Iokanaan viene
decapitato e la sua testa viene portata, in un bacile d'argento, a Salomè, che finalmente può coronare il suo
macabro sogno: baciare le labbra di Iokanaan.
Erodiade, vedendo il suo accusatore morto, esulta, ma Erode, improvvisamente tornato in sé ed inorridito
dalla ragazza, ne ordina l'uccisione da parte dei soldati.
Questi obbediscono e schiacciano sotto i loro scudi Salomè, uccidendola come uno scarafaggio.
Al singolare dramma decadente di Wilde è stata spesso rimproverata la debolezza dell'impianto
drammaturgico e più in generale quel non so che di sovraccarico che lo caratterizza.
Lord Alfred Douglas, detto Bosie
Una curiosità: nel 1988 il regista Ken Russell portò sul grande schermo la Salomè wildiana in uno strano film
intitolato Salome's Last Dance, a sua volta molto criticato, che dà l'impressione di essere una sorta di
grottesca parodia dell'originale, a cominciare dal fatto di essere ambientato in un bordello e di avere per
protagonista Wilde stesso, mentre nei panni di Giovanni Battista c'è l'amato Bosie.
Ecco la recensione del film (tutt'altro che positiva) di Tullio Kezich (Il filmnovanta: cinque anni al cinema:
1986-1990, Mondadori, Milano, 1990): "La sera del 5 novembre 1892 Oscar Wilde va con il suo protetto Alfred
Douglas, detto Bosie, nel bordello gestito da un certo Taylor, che lo fa assistere alla prima della Salomè,
opera vietata nei teatri pubblici dal Lord Ciambellano.
La sorpresa è la presenza in scena di Bosie nella parte di Giovanni Battista. Sicché la scena in cui Salomè
bacia la testa mozza del profeta spinge l'autore all'identificazione commuovendolo fino alle lacrime. Poi
arriva la polizia, con accuse di atti osceni aggravati, e schiaffa dentro tutti; e c'è di peggio: in una confusione
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pirandelliana fra Vita e Forma, la protagonista è stata realmente sacrificata alla lancia di un pretoriano.
Tranne la prima e l'ultima scena, tutto il film è rinserrato nel salone del bordello dove si svolge lo spettacolo.
Un calapranzi serve da ascensore per il pozzo del Battista, gli armigeri sono due scaricatori pronti a
ripassarsi Erodiade fra le quinte, il settimino degli ebrei è ridotto a tre nani sessualmente prevaricati dalla
sbirraglia femminile della reggia e l'inviato di Roma è il maggiordomo che si scatena in rutti e scorregge.
In un simile contesto non solo latita il buon gusto, ma non c'è neppure gran traccia dell'estro pirico
dell'autore de I diavoli: tanto che si sarebbe tentati di attribuire la flebile operina a qualche suo imitatore.
L'unica invenzione è Imogen Millais-Scott, una Salomè miniaturizzata che recita come nei disegni animati:
una vivente ironizzazione, a tratti corrosiva, dell'erotismo in stile Lolita."
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JORIS KARL HUYSMANS: SALOMÈ
J. K. Huysmans, in À rebours, così descrive la passione del protagonista Des Esseintes per la pittura di
Moreau e la figura di Salomè:
"Via via che diveniva più acuto il suo desiderio di sottrarsi a un’odiosa epoca di tangheri indegni, diveniva
per lui dispotico il bisogno di non più vedere quadri che rappresentassero l’umana effigie almanaccante
entro quattro mura del centro di Parigi e sguinzagliata per le strade in cerca di denaro.
Dopo essersi disinteressato dell’esistenza contemporanea, aveva deciso di non introdurre nella sua cellula
larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva dunque voluto una pittura sottile e squisita che attingesse in un
antico sogno, in una corruzione vetusta, lungi dai nostri costumi e dai nostri giorni.
Aveva voluto, per diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in
un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con
eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente atroci.
Fra tutti, v’era un’artista il cui talento lo rapiva in lunghe estasi: Gustave Moreau.
Gustave Moreau, Salomè danza davanti ad Erode, 1874-6
Aveva acquistato i suoi due capolavori e, per notti intere, sognava davanti a uno di essi, il quadro di Salomé
così concepito: sorgeva un trono simile all’altare maggiore d’una cattedrale, sotto innumerevoli volte
sprizzanti da colonne tarchiate come pilastri romanici, smaltate di mattonelle policrome, incrostate di
mosaici, incastonate di lapislazzuli e di sardoniche, in un palazzo simile a una basilica, di un'architettura a
un tempo musulmana e bizantina. Al centro del tabernacolo che sormontava l’altare preceduto da gradini a
semicerchio, era seduto il tetrarca Erode, con una tiara in testa, le gambe riunite, le mani sulle ginocchia. Il
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volto era giallo, incartapecorito, pieno di rughe, devastato dall’età, la sua lunga barba fluttuava come una
nuvola bianca sulle stelle di pietre preziose che costellavano la stoffa ricamata d’oro sul suo petto.
Intorno a questa statua, immobile, fissata in una posa ieratica da divinità indù, bruciavano profumi levando
nubi di vapori, forati, come da occhi fosforescenti di felini, dal fuoco delle gemme incastonate nelle pareti del
trono. Poi il vapore saliva e si stendeva sotto le arcate, dove il fumo bianco si frammischiava alla polvere
d’oro dei grandi fasci di luce che cadevano dalle cupole.
Nell’odore perverso dei profumi, nell’atmosfera surriscaldata di quella chiesa, Salomé, col braccio sinistro
teso in un gesto di comando, il braccio destro piegato, tenendo all’altezza del volto un grande loto, si avanza
lentamente sulle punte, agli accordi di una chitarra di cui una donna rannicchiata pizzica le corde.
Col volto raccolto, solenne, quasi augusto, ella comincia la lubrica danza che deve risvegliare i sensi assopiti
del vecchio Erode; i seni le ondeggiano e, al contatto delle collane agitate, le loro punte si ergono; sul madore
della pelle, i diamanti aderenti scintillano; i braccialetti, le cinture, gli anelli sprizzano faville; sulla veste
trionfale, intessuta di perle, ricamata d’argento, laminata d’oro, la corazza delle oreficerie di cui ogni maglia
è una gemma, entra in combustione, intreccia serpenti di fuoco, fa formicolare sulla carne opaca, sulla pelle
rosa tea, quasi degli splendidi insetti dalle elitre sfolgoranti, venate di carminio, punteggiate di giallo aurora,
screziate di azzurra acciaio, tigrate di verde pavone. Concentrata con gli occhi fissi, simile a una sonnambula,
ella non vede né il tetrarca che freme, né sua madre, la feroce Erodiade, che la sorveglia, né l’ermafrodito o
l’eunuco che sta, con la sciabola in pugno, ai piedi del trono, una terribile figura velata fino alle gote, la cui
mammella di castrato pende con una fiasca sulla tunica variegata di arancione. Il personaggio di Salomé, così
ossessivo per gli artisti e per i poeti, tormentava da anni Des Esseintes. Quante volte aveva letto nella vecchia
Bibbia di Pietro Variquet, tradotta dai dottori di teologia dell’Università di Lovanio, il Vangelo di San Matteo
che racconta in ingenue e brevi frasi la decollazione del Precursore; quante volte aveva sognato su queste
righe:
Il giorno della festa della nascita di Erode, la figlia di Erodiade danzò nel mezzo della stanza e piacque a Erode. Per
questo le promise, con giuramento, di darle tutto quello che le avrebbe domandato. Ella dunque, indotta da sua madre,
disse: – dammi su un piatto la testa di Giovanni Battista. E il re fu turbato, ma a causa del giuramento e di quelli che
erano seduti a tavola con lui, comandò che le fosse consegnata. E mandò a decapitare Giovanni nella prigione. E la testa
di lui fu portata in un piatto e data alla figlia; ed ella la presentò a sua madre.
Ma né San Matteo, né San Marco, né San Luca, né gli altri Evangelisti indugiavano sul delirante fascino, sulle
attive depravazioni della danzatrice. Essa restava cancellata, si perdeva, in misterioso deliquio, nella lontana
nebbia dei secoli, inafferrabile per gli spiriti precisi e terra terra, accessibile solo ai cervelli scossi, aguzzati,
resi quasi visionari dalla nevrosi; ribelle ai pittori della carne, a Rubens, che la trasformò in una macellaia
fiamminga, incomprensibile per tutti gli scrittori che non hanno mai potuto rendere l’inquietante esaltazione
della danzatrice, la raffinata grandezza dell’assassina.
Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva
finalmente realizzata questa Salomé sovrumana e strana che aveva sognato. Non era più la ballerina che
strappa a un vecchio, con una corrotta torsione delle reni, un grido di desiderio e di gioia; che spezza
l’energia, fiacca la volontà di un re con un agitar di seni, un guizzar del ventre, un brivido della coscia;
diveniva in qualche modo la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la
Bellezza maledetta, scelta fra tutte dalla Catalessia che le irrigidiva le carni e le induriva i muscoli; la Bestia
mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelenava, come Elena greca, tutto ciò che
avvicinava, tutto ciò che vedeva, tutto ciò che toccava. [...]
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Eppure l'acquarello intitolato “L'Apparizione” era forse anche più inquietante. [..] Qui Salomé era
femmina veramente; obbediva al suo temperamento di donna ardente e crudele; era viva d'una vita più
raffinata e selvaggia, più esecrabile e più squisita; più imperiosamente ridestava i sensi in letargo dell'uomo;
ne stregava, ne domava meglio la volontà col suo fascino di grande fiore venereo, nato in amplessi sacrileghi,
allevato in empie serre." (À rebours, capitolo V)
Gustave Moreau, L'apparizione, 1874-6
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D'ANNUNZIO E LUCREZIA-SALOMÈ
Il mito di Salomè influenzò anche D'annunzio: non solo si coglie una sorta di allusione antifrastica ad
esso nella Francesca da Rimini, ma alla figura di Salomè sono indirettamente ispirate alcune indimenticabili
figure di femme fatale come la Elena Muti de Il piacere.
Questo personaggio biblico esercitò poi il suo fascino su D'Annunzio anche attraverso la mediazione di una
donna la cui storia colpì profondamente il poeta: Lucrezia Buti (si noti come il cognome delle due donne sia
simile).
S'intitola proprio Il secondo amante di Lucrezia Buti la sezione più ampia della raccolta Le faville del maglio
del 1924, frutto di un raptus creativo che D'Annunzio descrive così: «Sono, nel tempo medesimo, beato e
disperato. M'è impossibile di arrestare la vena» (lettera del 4 giugno all'editore).
Il "secondo amante" cui fa riferimento il titolo è D'Annunzio stesso, il quale aveva avuto, per così dire, un
colpo di fulmine per la modella di un dipinto di fra Filippo Lippi (il primo - e unico - amante reale di
Lucrezia) dopo averla vista ritratta appunto nelle sembianze di Salomè.
Gabriele D'Annunzio
La storia di Lucrezia e Filippo, che ai suoi tempi aveva fatto molto scalpore, ci è nota attraverso il Vasari:
frate Filippo Lippi conobbe Lucrezia, monaca nel monastero di Santa Caterina di Prato, nel 1456, quando
stava lavorando alla tavola della e ne rimase subito folgorato.
Pretese ed ottenne dalle monache di averla come modella per il dMadonna che dà la Cintola a san Tommaso,
ipinto, in cui probabilmente Lucrezia prestò il suo volto alla santa Margherita che si vede a sinistra.
Filippo, del tutto incurante della loro condizione di religiosi, la rapì in occasione della processione della Sacra
Cintola, come ricorda il Vasari: "E con questa occasione (del dipinto) innamoratosi maggiormente, fece poi
tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia dalle monache, e la menò via il giorno appunto
ch'ella andava a veder mostrare la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello" (Vita di fra'
Filippo Lippi).
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DÀIMONES
Dalla loro unione nacque Filippino Lippi nel 1457 e nel 1465 la figlia Alessandra Lippi. La coppia
scandalosa, grazie all'interessamento di Cosimo il Vecchio de' Medici, ottenne una dispensa dai voti da Pio
II per potersi sposare, ma, come riporta Vasari, i due continuarono a convivere more uxorio, aumentando lo
scandalo.
Filippo Lippi, Madonna che dà la Cintola a san Tommaso, 1456
L'eco di questa storia fu così vasta che se ne trova traccia non solo nella novella LVIII della raccolta del
Bandello, ma anche nel poemetto Fra' Lippo Lippi del poeta romantico Robert Browning e in almeno due
opere di Gabriele D'Annunzio.
La bellissima Lucrezia, ritratta nella celebre Lippina degli Uffizi e probabilmente, come si diceva sopra, nella
Salomè affrescata da Lippi nell'abside centrale della Cattedrale di S. Stefano a Prato, produsse
un'impressione così profonda sulla sensibilità esasperata del poeta, che egli espresse il desiderio di essere il
secondo amante della splendida monaca e ne cantò il fascino anche nell'Elettra.
"Quanto mi piacevano le mie ore mattutine di duomo! Forse quanto a fra' Filippo Lippi non nel mentre
dipingeva a fresco le Esequie di S. Stefano ma nel mentre lavorava il Convito di Erode inebriandosi di
Lucrezia Buti. (...)
Io volgevo il capo indietro per pascermi di Salomè, per saziarmi di Erodiana, per discogliere anche una volta
nella mia avidità il miele e la cera insieme. E anche una volta mi deliziavo nel tormento della scelta. "Chi
delle due sei tu, Lucrezia Buti? Suor Lucrezia agostina, sei tu quella che danza, simile a un fior numeroso
dalla cintola in giù, simile a un fior voluttuoso fatto di pieghe in vece di petali, ora chiuso ora socchiuso ora
dischiuso? O sei quella che seduta alla mensa fa il gesto pacato e spietato verso la testa mozza, o sei quella
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dalla chioma a grappoli, coronata dell'uva d'engaddi come una baccante giudea che su la mezzanotte attenda
l'evoè convertito in osanna? O veramente tu sei più vera nel palagio comunale, nella tavola di fra' Filippo,
non la Vergine della Cintola ma quella dolce Santa che pone la mano sul capo d'una suora inginocchiata
che certo è Bartolomea de' Bovacchiesi, la tua badessa del tempo di tuo peccato? Non una sei ma tre pel mio
amore, Lucrezia Buti".
O Lucrezia, Lucrezia, dimmi che Filippino non è il tuo figliuolo, dimmi che non sei madre, dimmi che sei
Salomè, non Erodiana! Mi par d'averla sottratta io medesimo al tamburo degli Ufficiali de' Monasteri, con
la mano tremante, col cuore balzante.
Tu non sei madre, tu non sei la madre di Filippino, tu che tanto lieve danzi e con tanto doloso candore nel
convito del Tetrarca. (...) Filippino del Tabernacolo in sul canto a Mercatale non può esser figliuolo se non
della Primavera, o Lucrezia Buti; che, quando passo, ogni volta m'è nova maraviglia la sua freschezza in
campo di splendore. (...)
Gli parlavo dell'agostina fuggiasca con tanta abbondanza e con tanto ardore ch'egli esclamò: "Ma tu m'hai
tutta l'aria del secondo amante di Lucrezia Buti!"
Erodiana e Salomè discendevano dal muro per il confronto e per il giudizio.
Aveva il frescante ritratto Lucrezia in Erodiana o in Salomè?
Rideva graziosamente impazientito il buon maestro, con il mano la pennellessa intrisa nella cera liquefatta.
"Agnolo benedetto, in tutt'e due, non soltanto, ma in tutte le donne del convito, come nella Madonna della
Cintola tutte le persone divine, tranne i Vescovi e la badessa de' Bovacchiesi, hanno l'aria di Lucrezia, sono
del sangue di Lucrezia Buti. Guardale bene."
Afflitto mi lamentavo: "E' vero! E' vero!"
(...) Ora tutte le immagini balenavano, e si dissolvevano per ribalenare. Anche la mia fiamma si divideva in
tante lingue vermiglie come d'un'avventurosa Pentecosta. Tutte le pennellate rosse del Lippi assumevano
una maligna forza dominante, nelle pareti del Coro, e sanguinavano e risanguinavano. Tutto il Duomo, dal
battistero al presbiterio, dalla cappella della Cintola al Tabernacolo dell'Olivo, dal cancello di Bruno Mazzei
all'arca di Simon Bardi, per tutta la crociera, per tutte le tre navate, culminava negli ardimenti del Pisano; si
sveltiva e s'areava dalle arcate minori all'arco massimo; s'appuntava nel sesto acuto verso l'azzurro
meridiano conteso dalle volte, e col serpentino delle sue colonne e de' suoi pilastri si profondava a rifarsi
terrestre nelle cave del Monferrato." (Gabriele D'Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti)
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O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti,
chiusa città, forte nella memoria,
ove al fanciul compiacquero la Gloria
e la figliuola di Francesco Buti!
(...)
La figlia di Erodiade, apparita
al Tetrarca, in sua frode e in sua melode
magica ondeggia: entro il bacino s'ode
bollire il sangue della gran ferita.
Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita
danza come colei davanti a Erode,
voluttuosa; e il tuo desio si gode
d'ogni piacer quand'ella ti convita.
Ma il Dolore guardar sai fisamente
e la Morte, e le lacrime, e lo strazio
delle bocche e l'orror de' volti muti.
Io ti vedea sopra la sabbia ardente
schiavo in catene; e ti vedea poi sazio
dormir sul seno di Lucrezia Buti.
(...)
Particolare del Banchetto di Erode
affrescato da Filippo Lippi nel 1452
Filippino, in sul canto a Mercatale
quante volte intravidi pe' razzanti
vetri del Tabernacolo i tuoi Santi
come i fiori d'un orto angelicale!
Fiori tu dèsti alla città natale:
freschi petali i volti, aiuole i manti.
E intorno alla Maria le tue spiranti
grazie non ebber mai si lievi l'ale.
Vedevi, oprando, la materna porta
ove l'antica suora in atti umili
pregava pel figliuol del suo peccato.
Demoniaco segno, il seggio porta
al piede, come l'ara dei Gentili,
testa bicorne di capron barbato.
Autoritratto di Filippino Lippi
figlio di Filippo Lippi e Lucrezia Buti
(Gabriele D'Annunzio, Elettra)
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5. IL "CASO" DALÌ
"L'ULTIMA CENA"
L'Ultima Cena, olio su tela di 167 × 268 cm realizzato nel 1955 e conservato alla National Gallery of Art di
Washington, è un chiaro esempio del modo di affrontare il sacro di Salvador Dalì: la sua pittura oscilla fra il
mistico e il blasfemo, sconvolge l'iconografia tradizionale ed utilizza simboli esoterici di difficile
interpretazione.
Questo approccio dissacratorio, particolarmente evidente in relazione ad un tema topico dell'arte sacra, che
richiama immediatamente alla mente il notissimo affresco di Leonardo e quelli di altri celebri artisti, risulta
sconcertante per tutti, credenti e non. Una così intima familiarità con la simbologia religiosa, infatti, è tipica
degli ambienti occultistici, in cui i dogmi e i riti della religione vengono imitati e stravolti; si pensi ad
esempio alle "messe nere" o alle accuse di blasfemia che già venivano mosse ai Templari (accusati per
esempio di sputare sul crocifisso e di calpestare l'ostia).
Le pratiche sataniche utilizzano i simboli cristiani capovolgendo il significato dei simboli, attribuendo
loro una valenza negativa, distorta.
Che sia questa l'intenzione di Dalì, notoriamente dedito all'occultismo?
Proviamo ad analizzare il dipinto.
La prima provocazione consiste nell'aver dato a Gesù sembianze androgine, attribuendogli per di più i
lineamenti di Gala, la donna di Dalì, nota ninfomane. Questo fu considerato blasfemo e suscitò un
comprensibile scandalo all'esposizone dell'opera.
Osservando il dipinto si nota che la figura del Cristo è quasi trasparente e si sta letteralmente dissolvendo
sul paesaggio alle sue spalle, che rappresenta la baia a Port Lligat, vicino alla casa di Dalì. Egli è solo
apparentemente seduto a tavola con i discepoli: in realtà è immerso nell'acqua, con una barca di fronte, ed
indica Dio in alto, lasciando intendere di essere in partenza per il Cielo. Gesù dunque sta lasciando gli
apostoli ben prima della crocifissione.
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Sembra di capire che Dalì aderisca a quella corrente di pensiero legata con i Rosacroce o il
fantomatico Priorato di Sion, il cui Gran Priore risulta essere in quegli anni Jean Cocteau, secondo la quale
Cristo non fu mai crocifisso, ma si mise in salvo (pare in Francia) ed al suo posto fu crocifisso un altro.
Inoltre egli sta compiendo un gesto di cui non è facile comprendere il significato: con la mano sinistra
accenna a se stesso, mentre con la destra sembra indicare Dio sopra di lui ("Io sono Dio?"); ma osservando
meglio il gesto della mano destra si nota che Cristo sembra piuttosto stare contando: due dita sono sollevate,
il dito medio si sta sollevando. Gesù sta contando fino a tre ("Io sono tre", con allusione alla Trinità)? Oppure
intende contare fino a cinque (e in tal caso il significato, come vedremo, cambia totalmente)?
Il Cristo androgino de L'ultima cena
il cui viso è simile a quello di Gala
I dodici apostoli sono disposti in modo perfettamente simmetrico attorno al Maestro ed i loro volti sono
invisibili perché essi sono genuflessi in preghiera; questo rende impossibile comprendere chi di essi sia
Giuda.
Essi inoltre, con il loro atteggiamento e le loro vesti candide, più che di apostoli hanno l'aspetto di iniziati di
qualche setta mistica.
La tavola è completamente spoglia: su di essa c'è solo un pane spezzato ed un comune bicchiere (non un
calice) di vino. Alle spalle del Cristo si vede il torso nudo di una figura umana che simboleggia Dio, ma la
testa è invisibile, proprio come nel murale di Jean Cocteau nella chiesa di Notre Dame de France a Londra
(un dipinto chiaramente ispirato alle dottrine rosacrociane di cui, come s'è detto, Cocteau era seguace), in cui
di Cristo in croce si vedono solo le gambe; inoltre la posizione della figura ricorda quella dell'uomo
vitruviano di Leonardo.
Ma l'elemento più surreale è costituito dall'ambientazione: Cristo e gli apostoli si trovano infatti all’interno di
un dodecaedro.
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Non era la prima volta che Dalì accostava la figura del Cristo a figure geometriche: l'anno precedente, ad
esempio, aveva realizzato il celebre dipinto Crocifissione (corpo ipercubico); ma questa volta l'effetto è
particolarmente surreale; Dalì stesso commentò il quadro dicendo che si trattava di una «cosmologia
aritmetica e filosofica basata sulla sublime paranoia del numero dodici», rendendo se possibile ancor più
oscura l'interpretazione del dipinto.
Tuttavia la scelta del dodecaedro riconduce alle filosofie platonica e pitagorica, che quasi certamente Dalì
aveva in mente nel realizzare il dipinto.
Infatti, com'è noto, il dodecaedro è uno dei cinque solidi platonici (disegnati fra l'altro proprio da Leonardo
per il De divina proportione di Luca Pacioli), e non uno qualunque: se infatti gli altri quattro poliedri
(tetraedro, esaedro, ottaedro, icosaedro) sono associati agli elementi base del cosmo (fuoco, terra, aria,
acqua), il dodecaedro è per Platone l'emblema della perfezione stessa dell'universo.
E' ovvio poi che la scelta del numero dodici è in relazione con il numero degli apostoli.
Dodecaedro disegnato da Leonardo da Vinci
per il De divina proportione di Luca Pacioli
E' presente nella tela anche un vistoso riferimento al numero ф (1,6180339887), il “rapporto aureo” che i
Greci consideravano espressione della proporzione ideale. Il numero ф ricorre più volte nelle proprietà
metriche del dodecaedro, le cui facce sono pentagoni regolari, tanto che Pacioli afferma che esso dipende
interamente da ф per la sua costruzione.
Inoltre, se dividiamo la lunghezza della tela dipinta da Dalì per la sua altezza, otteniamo un numero molto
vicino a ф: 1,6047941916.
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Seguendo poi l'esempio di Leonardo, Dalì colloca il piano del tavolo esattamente in corrispondenza della
sezione aurea del lato minore del rettangolo; inoltre pone i due apostoli seduti accanto a Gesù in
corrispondenza della sezione aurea del lato maggiore (nella figura ne ho indicato solo uno).
Anche la tovaglia distesa sulla tavola è suddivisa in rettangoli, molti dei quali sono esattamente rettangoli
aurei.
Ma la provocazione più pesante potrebbe essere un'altra.
Se si osserva attentamente il dipinto, si nota che la figura di Gesù è inscritta in un pentagono regolare, tre
lati del quale sono ben visibili, mentre gli altri due sono solo suggeriti dalle diagonali dei mantelli dei due
apostoli di spalle.
Com'è noto fin dai tempi di Pitagora, se si tracciano tutte le diagonali all'interno di un pentagono regolare, si
ottiene la tipica stella a cinque punte nota come pentagramma, detta anche pentacolo, simbolo della scuola
pitagorica.
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Gesù è inserito al centro di un pentagono regolare
Ma se osserviamo il pentagono disegnato da Dalì, vediamo che il vertice del triangolo aureo è rivolto verso
il basso, e non verso l'alto, come nel pentagono pitagorico. Quindi la stella contenuta all'interno di esso ha
anch'essa la punta rivolta verso il basso.
Se così fosse, la figura all'interno della quale Gesù viene inserito da Dalì non sarebbe un pentagramma
pitagorico, ma il più tipico simbolo satanico: il pentacolo rovesciato!
Infatti, come vedremo, dei cinque vertici del pentagramma, quattro simboleggiano gli elementi naturali
(acqua, aria, terra e fuoco), mentre il vertice rivolto verso l'alto simboleggia lo spirito: quindi, capovolgere il
pentagramma significa affermare il predominio della materia sullo spirito, com'è tipico del satanismo.
Dalì avrebbe dunque attribuito al suo Gesù connotazioni demoniache?
A me non sembra affatto così: anzi, il dipinto mi sembra suggerire un'interpretazione diametralmente
opposta.
Osserviamo nuovamente il pentagono con il pentagramma inscritto al suo interno, che per praticità ho
colorato.
Il pentagono che contiene il pentagramma (quello azzurro) ha il vertice del triangolo aureo rivolto verso
l'alto, ma il pentagono contenuto all'interno del pentagramma (quello giallo) presenta il vertice rivolto
verso il basso.
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A mio parere è all'interno del pentagono giallo, e cioè all'interno del pentacolo, che si trova inserito Gesù,
in modo quindi del tutto "normale" e per nulla satanico.
Questa interpretazione mi sembra molto più logica anche perché in questo modo Dio si trova al di sopra di
Gesù e costituisce il vertice invisibile del pentagramma, senza contare che la stessa posizione delle braccia di
Dio, aperte e distese, suggerisce proprio l'inclinazione dei due lati superiori del pentagono maggiore.
Insomma, lo schema compositivo dovrebbe essere questo:
Personalmente ritengo quindi che l'interpretazione del pentagramma data da Dalì sia quella "benefica"
tipica dei Pitagorici, e non certo quella perversa dei satanisti.
Leggiamo sul Portale del Neopaganesimo quali caratteristiche vengono attribuite dalle religioni neopagane
al pentacolo. Scopriamo anzitutto che esso è legato al pianeta Venere, perché quest'ultimo traccia ogni otto
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anni sulla sua eclittica un Pentacolo perfetto. Per questo motivo questa figura geometrica è diventata simbolo
di perfezione.
Inoltre "il pentacolo è una rappresentazione del microcosmo e del macrocosmo, combina cioè in un unico
segno tutta la mistica della creazione, ovvero tutto l'insieme di processi su cui si basa il cosmo. Le cinque
punte del pentagramma interno simboleggiano i cinque elementi metafisici dell'acqua, dell'aria, del fuoco,
della terra e dello spirito. [...] L'ultimo elemento, lo spirito, non è altro che l'energia mistica emanata da
Dio; questa energia si elabora e si manifesta condensandosi e andando a costituire le particelle subatomiche
della materia. È l'energia che compone tutto l'universo, e della quale l'uomo non sa spiegare l'origine, la
Fonte.
Il rapporto tra i vari elementi rappresentati all'interno del pentacolo è (...) una riproduzione in miniatura dei
processi su cui si basa il cosmo. Questo processo inizia dall'elemento dello spirito, il quale si manifesta
dando origine a tutto ciò che esiste. La creazione si verifica partendo dalla Divinità e scendendo verso la
punta in basso a destra, simboleggiante l'acqua, ovvero la fonte primaria e sostentatrice della vita sulla Terra.
Dall'acqua ebbero origine le primissime forme elementari di vita (...)."
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In effetti nel dipinto la figura di Gesù non solo è immersa nell'acqua, ma per così dire ne fa parte: il suo
corpo è trasparente, lascia intravedere il mare e le barche alle sue spalle.
Il vino ed il pane spezzato sulla tavola davanti a Gesù sembrerebbero fare riferimento rispettivamente
all'elemento liquido e a quello solido. L'ombra del bicchiere è particolarmente lunga e si spinge fino a
raggiungere il punto in cui si trova il pane: questo potrebbe significare che l'elemento liquido è quello da cui
deriva l'elemento solido.
Gli elementi sono disposti in modo speculare rispetto a ciò che si vede alle spalle di Gesù, come in un
chiasmo o in una proporzione del tipo rocce : mare = vino : pane, cioè a : b = b' : a'.
Ma proseguiamo con la lettura delle caratteristiche del pentacolo:
"Dall'acqua il processo creativo risale verso l'aria, la quale rappresenta le forme di vita sufficientemente
evolute da potersi organizzare da sole, prendendo coscienza del proprio sé. Questi esseri, dalla loro
innocenza originaria, si evolvono e si organizzano moralmente e tecnologicamente, procedendo lungo la
linea orizzontale verso la terra a destra. La terra simboleggia il massimo grado di evoluzione che un'epoca
può sopportare (...). [Poi] l'essere si allontana dallo spirito, degradando verso il basso, il fuoco,
simboleggiante l'apice della degenerazione."
A dire il vero c'è molta discordanza nelle fonti esoteriche sulla corrispondenza tra gli apici del pentacolo e gli
elementi, che vengono assegnati in modo contraddittorio e fantasioso, con una sola costante: la presenza
dello Spirito in alto e del fuoco in basso.
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La corrispondenza che ricorre più comunemente è quella riprodotta nella figura sottostante (figura A), a mio
parere non molto razionale, perché dallo Spirito si passa direttamente alla Terra o al Fuoco, per poi passare
all'Aria e/o all'Acqua senza alcun nesso logico apparente:
Figura A
Quella descritta dal portale del Neo-paganesimo corrisponde alla figura B, con l'acqua e il fuoco in basso
(come è logico che sia, perché sono rispettivamente l'elemento generatore e quello distruttore), mentre quella
alla quale fa riferimento Dalì sembra essere la medesima, ma con l'acqua in basso a sinistra (figura C):
Figura B
Figura C
La figura B si percorre in senso orario, la figura C in senso antioriario.
Il percorso descritto nella figura C è perciò: Spirito - Acqua - Terra - Aria - Fuoco.
Rivediamo ancora l'immagine di Cristo alla luce del legame fra il pentacolo ed i cinque elementi, disposti
come sembra suggerire il dipinto.
Se è così, Gesù sta forse contando fino a cinque (con la mano destra) e lasciando intendere (con la sinistra) di
essere lui stesso l'origine di tutto? E nel contempo indica Dio in alto, di cui Egli non è che un'emanazione?
In tal caso il suo gesto potrebbe essere tradotto così: "Io sono i cinque elementi e sono lo Spirito, che è
l'origine di tutto".
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C'è però un problema: gli elementi del pentacolo sono tutti chiaramente rappresentati nel dipinto di Dalì,
tanne uno: ci sono l'acqua (in basso), l'aria e la terra (più in alto) e lo Spirito (il vertice invisibile, la testa della
figura di Dio); il fuoco, invece, sembra mancare.
Se però si osserva attentamente la figura del Cristo, si nota che essa sembra riassumere in sé i quattro
elementi (oltre, ovviamente, allo Spirito):
il suo corpo è immerso nell'acqua, il suo torso è per metà nudo (allusione alla materia di cui è composto, cioè
alla terra) e per metà coperto da un manto azzurro (allusione all'aria); i suoi capelli hanno qualcosa di
innaturale, dalla metà in giù sembrano cambiare consistenza ed arricciarsi, assumendo l'aspetto di lingue di
fuoco e proiettando una luce molto intensa sulle dita della mano destra, senza contare che sulla fronte di
Gesù c'è un ciuffo più chiaro simile ad una fiammella.
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Inoltre due degli apostoli, anziché essere vestiti di bianco, indossano una veste rispettivamente azzurra (il
discepolo alla nostra sinistra) e giallo oro (quello alla nostra destra), che forma sul loro collo chino una strana
punta e i cui lembi sembrano facce triangolari.
Ebbene, triangolari sono pure le facce dell'icosaedro e del tetraedro che, fra i solidi platonici, rappresentano
appunto l'acqua e il fuoco.
Ora, sarà forse un caso che i due discepoli dalla veste colorata siano raffigurati esattamente in
corrispondenza delle punte inferiori del pentacolo, quelle corrispondenti appunto all'acqua e al fuoco?
E il discepolo vestito di giallo, corrispondente al fuoco, cioè all'apice della degenerazione, potrebbe forse
essere Giuda?
Tuttavia la degenerazione non significa la fine di tutto: infatti "in seguito alla depressione avviene però
sempre una ripresa, un ritorno alle origini, in questo caso allo spirito (...).
Letto in senso escatologico, questo processo potrebbe anche simboleggiare il ciclo delle reincarnazione,
assimilato da parecchie tradizioni neopagane: lo spirito, in quanto fonte di ogni cosa, è fonte anche
dell'uomo, quest'ultimo (e con esso qualsiasi essere animato o inanimato) completato il suo ciclo esistenziale,
torna ad essere parte dell'Uno cosmico, si unisce a Dio. In seguito a questa unione la sua anima potrà iniziare
una nuova esistenza.
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Il pentacolo è dunque una riproduzione in miniatura del processo creativo e immanente che regge
l'universo."
Che sia proprio questa la chiave di lettura del misterioso dipinto?
Gesù, concluso il suo ciclo esistenziale, torna a far parte dell'Uno cosmico dal quale proviene e che è
pronto ad accoglierlo.
C'è però un altro elemento di cui bisogna tener conto: il suo aspetto androgino, certamente non casuale, da
collegare anch'esso con il pentacolo in quanto simbolo femminile per eccellenza (come si è detto, ha a che
fare con il pianeta Venere e di conseguenza con Afrodite).
Si potrebbe pensare che la corrente neo-pagana alla quale si ispira Dalì sia la Wicca. Vediamo perché.
Il principio fondante della Wicca è l'opposizione-fusione tra i due principi cosmici rappresentati dal Dio e
dalla Dea, il principio maschile e quello femminile.
Ed in effetti il Gesù di Dalì è nel contempo maschio e femmina.
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Come leggiamo sul portale del Neo-paganesimo, per la teologia wiccan "il Dio e la Dea sono le forze che
permettono la costituzione armonica e l'equilibrio del mondo. Ogni cosa è costituita dall'eterno incontro e
rapporto di complementarità che sussiste tra le due Divinità. (...) Importante nella teologia wiccan è anche il
concetto della Dea triplice e del dualismo monistico. (...) Ogni cosa attraversa una vita circolare, e la triplicità
della Dea è per questo abbinata anche alle tre fasi principali della vita umana: la nascita, la crescita e la
morte. Tutti attraversano questi tre eventi fondamentali, ed è in questa circostanza che si innesta la visione
escatologica della Wicca. La reincarnazione è una conseguenza della ciclicità del mondo; dopo la morte avrà
inizio una nuova vita."
E' forse a questa rinascita dopo la sua morte che allude Gesù con il suo gesto misterioso (in tal caso
contando fino a tre)?
Inoltre "fondamentale nella visione cosmologica della Wicca è l'idea dei cinque elementi.
Secondo gli wiccan i cinque elementi sono le regole fondamentali del mondo fisico, attraverso le quali si può
giungere al contatto mistico con le due Divinità o con l'Uno. Quattro di questi elementi sono l'acqua, l'aria, il
fuoco e la terra. Oltre a questi vi è lo spirito, chiamato anche etere (aether). Lo spirito è considerato come la
regola organizzatrice dell'equilibrio del mondo, il teorema base dal quale si dipanano tutti i teoremi minori
su cui si regge l'evoluzione ciclica delle cose.
Gli elementi sono abbinati alle cinque punte del pentagramma e del simbolo del pentacolo, essendo
quest'ultimo una rappresentazione simbolica del cosmo."
Il simbolo della Wicca è infatti il pentacolo riprodotto nella figura a fianco, dove il cerchio nel quale è
inscritto il pentagramma simboleggia l'infinito e l'eternità.
Non so se questo sia abbastanza per fare di Dalì un adepto della Wicca, ma certo i punti di contatto sono
impressionanti.
Il simbolo della Wicca
Come si vede, il dipinto di Dalì è destinato a conservare ancora il suo mistero, dal quale dipende in buona
parte il suo fascino.
Tuttavia, comunque lo si legga, esso sembra alludere alla rigenerazione dopo la morte (interpretazione
molto sui generis della resurrezione cristiana), cioè in sostanza all'immortalità dell'anima ed alla
reincarnazione: questo è perfettamente in linea con le teorie di Pitagora e di Platone, che credevano
entrambi nella metempsicosi, e spiega le innumerevoli allusioni alle dottrine pitagorico-platoniche (inclusa la
ricorrenza del numero ф) presenti nel dipinto.
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IL PENTAGRAMMA E IL TEOREMA DELLA CORDA
Il pentagramma (dal greco pente, "cinque" e gramma, "linea") è una stella a cinque punte.
Geometricamente lo si definisce la figura intrecciata che ha come lati le diagonali di un pentagono
regolare.
Un pentagramma infatti può essere formato da un pentagono regolare capovolto o estendendo i suoi lati, o
disegnando le sue diagonali, e la figura risultante contiene varie lunghezze correlate dalla proporzione
aurea.
Proprio per questo fu molto caro ai pitagorici.
Pentagramma
Pentagramma inscritto in un pentagono
Si tratta del più semplice tipo di poligono stellato.
Un poligono stellato regolare ha spigoli tutti di eguale lunghezza, e angoli ai vertici di eguale ampiezza.
Inscrivendo il poligono stellato in una circonferenza di raggio R, si osserva che il segmento che congiunge
due vertici adiacenti è una corda, la cui lunghezza è, per il teorema della corda,
con θ angolo alla circonferenza.
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Teorema della corda
In una circonferenza, la misura di una corda è uguale al prodotto della misura del diametro per il seno di
uno degli angoli alla circonferenza che insistono su uno degli archi sottesi dalla corda.
Immaginiamo di muovere il punto C sulla circonferenza; cosa osserviamo?
L'angolo γ cambia solo se il punto C passa da un arco ad un altro. Lungo lo stesso arco l'ampiezza
dell'angolo resta costante.
Immaginiamo ora di muovere uno degli estremi del segmento AB; cosa osserviamo sull'angolo γ?
Questa volta l'ampiezza dell'angolo cambia, proprio perché dipende dalla lunghezza della corda (o,
equivalentemente, dalla lunghezza dell'arco che essa sottende).
Cerchiamo di fare in modo che la corda AC sia un diametro della circonferenza; cosa osserviamo sull'angolo
β?
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In questo caso l'angolo β è retto, perché sottende una semicirconferenza.
Ricordando che nei triangoli rettangoli la misura di un cateto è pari all'ipotenusa per il seno dell'angolo
opposto al cateto, ed osservando che nella figura l'angolo con vertice in C è uguale all'angolo con vertice in
D perché sottendono la stessa corda, si può subito dedurre il seguente
Teorema della corda:
Detto γ l'angolo che sottende una corda AB in una circonferenza di raggio r, vale la seguente uguaglianza:
AB = 2r sin γ
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BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:
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http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/imago/schopim/schopim.htm
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Il diavoletto di Maxwell e l'entropia:
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http://it.wikipedia.org/wiki/Lamia
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Edgar Allan Poe, Ligeia:
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DÀIMONES
Il pentagramma e il teorema della corda:
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http://www.cnuto.it/lezioni/scienze/matematica/trigo_primoes/il_teorema_della_corda.html
http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/argoment/ParoleMate/Dic_08/teorema_corda.htm
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