viaggio de leuca
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Luigi Lezzi VIAGGIO DE LEUCA Guida ai luoghi, nonluoghi e luoghi comuni del Salento Edizioni Kurumuny Sede legale via Palermo,13 73021 – Calimera (Le) Sede operativa via S. Pantaleo, 12 73020 – Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801577 on line www.kurumuny.it mail to [email protected] ISBN 978-88-95161-35-8 © Kurumuny edizioni – 2009 La pianificazione di un territorio a destinazione turistica è un’operazione rischiosa: le comunità locali dovrebbero essere coinvolte sia nel processo decisionale che nelle fasi attuative dei progetti, affinché si tenga conto delle loro esigenze e dei loro diritti tanto quanto di quelle dei turisti esterni. Maura Cetti Serbelloni, Il Luogo, Lecce, Pensa 2003 Indice 9 13 Prefazione. L’eco del rimosso di Marcello Strazzeri Premesse Parte prima Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano 20 20 23 26 88 90 102 110 111 116 120 130 141 Il testo Le edizioni precedenti Questa edizione Testo traduzione e note Dialetto, teatro e viaggio La letteratura dialettale Teatro Viaggio: tempi e luoghi I tempi I luoghi Strade e sentieri L’itinerario del Marciano Un riscontro oggi Parte seconda Il Salento ieri e oggi: da luogo antropologico a nonluogo della surmodernità 148 151 152 157 158 161 Differenze e analogie La percezione tradizionale dello spazio Un esempio: la casa a corte La percezione dello spazio in conseguenza del processo di modernizzazione Orientamento e pertinenza individuale dello spazio Viaggiare 7 163 164 167 Il Salento dei nonluoghi Il viaggiatore antropologico e il non-viaggiatore Orientamento e appaesamento in de Martino Appendice 8 170 Tradizione, teatro e viaggio, miti (racconti) degli anni Settanta 191 Riferimenti bibliografici 193 Sentieri arcaici sulle serre Prefazione L’eco del rimosso di Marcello Strazzeri* Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano, riproposto da Luigi Lezzi in questa rinnovata edizione che per molti aspetti rivede criticamente quella di Michele Greco del 1935, anche alla luce delle successive puntualizzazioni di Mario Marti, Donato Valli e Maria Teresa Romanello, si muove in una prospettiva che, pur partendo dal certo del testo, punta a individuare il vero: quello che, nella prospettiva che qui mi interessa, riguarda il senso antropologico del viaggio intrapreso dal Marciano, da Vanni Passante ed altri amici. Com’è noto agli esperti del settore, ci troviamo di fronte ad un’opera di letteratura dialettale, il più antico testo poetico in dialetto salentino, risalente agli anni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. Ma, ripeto, la portata di tale opera va bene al di là della pur rilevante valenza storica: quella che la collega ad un filone della letteratura dialettale, che va da Il Pentamerone di Giovanni Battista Basile a La Vaiasseide di Giulio Cesare Cortese, ivi compresa l’opera di un altro salentino, Giuseppe de Dominicis, vissuto tra il 1869 e il 1905, noto come Il Capitano Black. Quello che emerge subito dal racconto del viaggio fatto dal Marciano è la costante attenzione rivolta all’itinerario programmato, da Salice Salentino a Leuca e ritorno, in un arco temporale di quattro giorni, scanditi nelle seguenti tappe: Salice Salentino, Otranto, Vignacastrisi, Leuca, Cutrofiano, con l’ultima sosta a Nardò per la festa dell’Incoronata. Notevoli, per il significato che assumono nella prospettiva di Lezzi, le soste in altre località fra le quali Martano, i Laghi Alimini, Alessano, Galatina. Si tratta di un percorso di oltre 200 Km da cui si fa emergere la valenza antropologica di una narrazione governata da categorie spazio-temporali fortemente permeate di un vissuto intrecciato alla vita quotidiana dei luoghi, alla loro cultura, al loro immaginario, alle loro credenze. 9 Prima di addentrarmi ulteriormente nella presentazione del testo mi preme fare una precisazione sul carattere oggettivamente spettacolare, per così dire teatrale, di tale racconto, le cui considerazioni, dialoghi, battute, canti, sembrano oggettivamente presupporre la presenza di un pubblico partecipe, attivo, capace di intervenire integrando e commentando. Ma torniamo alle categorie di tempo e spazio già introdotte per rilevare quanto e come esse siano caratterizzate da una sorta di mutua implicazione e cattura, nel senso che non è possibile percepire il senso del luogo senza evocarne la temporalità implicita, quella che gli dà identità nell’ambito della costruzione culturale dei luoghi di cui parla Arjun Appadurai in La modernità in polvere. Il viaggio è, infatti, guidato non da percorsi ufficiali pre-definiti, ma dalla capacità di orientamento del Marciano e dei suoi amici e dal suo continuo riferimento a sentieri, masserie, muretti a secco, cappelle, luoghi consacrati dalla tradizione nella memoria collettiva della comunità. I luoghi parlano, infatti, solo a chi sa intenderli, ne conosce il linguaggio, la semiotica diremmo oggi. È come se, fatte le debite differenze, al soggetto proustiano che ricerca Il tempo perduto subentrasse un soggetto sociale capace di far emergere l’eco del rimosso, il definitivamente sepolto, che può ri-emergere nella direzione di un futuro possibile fondato su una ristrutturazione radicale del vissuto spazio temporale. In questa prospettiva di discorso viene criticamente delineata in questo libro la transizione del Salento da luogo antropologico a nonluogo della surmodernità, con riferimenti concreti a quella realtà culturale di cui si descrive, a mo’ di esempio, la casa a corte col suo corredo di puzzi, uèrti, loggie, pile, scettalòre, cisterne. Insomma, se è vero quanto dice Marc Augé che un luogo antropologico diventa un nonluogo quando da esso si offuscano o cancellano i segni della memoria che lo caratterizzano, ripercorrere oggi, come fa Lezzi, gli stessi itinerari effettuati da Marciano, porta a cogliere per intero il processo di omologazione e, dunque, di espropriazione identitaria subita dal Salento. Non a caso, rileva l’autore, al viaggio inteso secondo i dizionari come un giro più o meno lungo attraverso luoghi e paesi diversi dal proprio, con soste e permanenze di varia durata, per vedere, conoscere, imparare e divertirsi è stato sostituito, sull’onda di un processo omologante, un 10 viaggio del tipo: sette giorni e cinque notti in vip class inclusa la visita ai musei e l’ingresso in discoteca con l’accompagnamento di una guida locale. Lo stesso Ernesto de Martino, peraltro, dopo aver rilevato nei suoi appunti per La fine del mondo che l’orientamento spaziale è alla base di quello generalmente culturale, introduceva la categoria di appaesamento contrapposta a quella di spaesamento, la prima segnata dalla presenza individuale e sociale, la seconda dalla sua pressoché totale scomparsa. Che fare? L’autore non ha alcuna pretesa risolutiva, ma solo quella di segnalare il problema della disidentificazione dei luoghi nella prospettiva di una loro riappropriazione. È questa la condizione per invertire il processo in atto e innescarne un altro che tenga in maggior conto la dignità dei luoghi e quella dei suoi abitanti. Il recupero genealogico dell’attualità di un testo come Il viaggio de Leuche dallo spazio di dispersione in cui era depositato si muove in questa direzione: ha la pretesa di parlare ai soggetti individuali e a quelli collettivi, ai cittadini e alle istituzioni, a quelli che vivono nel territorio e a quelli che lo gestiscono, nel senso della valorizzazione o della degradazione di ciò che è di tutti: res omnium, non res nullius. *Preside della Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio dell’Università del Salento. 11 Premesse Modi di viaggiare C’era una volta nel Salento, ma anche altrove, un modo di guardare al territorio molto più rilassato di quello attuale. Chi ci viveva si accontentava di conoscere minuziosamente i propri luoghi abituali e di esplorare occasionalmente qualche località vicina. Dei luoghi abituali sapeva tutto: gli angoli più adatti a questo o a quest’altro tipo di coltura, quelli con più spessore di terra rossa, quelli infestati irrimediabilmente dalla gramigna, dall’erba-pepe o dalla cannazza, o quelli troppo battuti dal vento di tramontana. Mio padre, da ortolano che ogni anno doveva prendere in affitto un fondo diverso, senza aver mai preso visione di una cartina geolitologica dell’area circostante la città di Lecce, aveva un’idea chiara e generale anche del suo sottosuolo, della sua consistenza e della sua stratigrafia. Forse si aiutava con l’esperienza acquisita come aiutante nelle cave durante la sua adolescenza, oppure curiosando negli scavi urbani per le canalizzazioni fognarie. Sta di fatto che, dando uno sguardo ad un campo, riusciva a intuire se sotto c’era del bolo, del cretaccio, una fossa consistente di terra ferrosa o dei cuti che avrebbero rotto i vomeri e gli attrezzi per sarchiare. Se un dato tipo di terreno era in grado di conservare l’umidità o se ai primi raggi del sole si sarebbe screpolato tutto come avviene negli uadi del deserto. Tutte queste conoscenze gli erano indispensabili perchè lui coltivava a secco, cioè senza fare affidamento ad altra irrigazione che non fossero le piogge (se venivano) e l’umidità notturna e stagionale. Senza questo intimo rapporto con il territorio avrebbe buttato via i suoi semi, il suo lavoro e quello del suo cavallo e forse io non avrei avuto la possibilità di mangiare. In occasione di qualche festa grande che comprendeva magari anche una fiera del bestiame, oppure per devozione verso qualche santità particolarmente sentita, si spostava dall’area in cui viveva e affrontava, in trainella (un carretto leggero), un viaggio giornaliero. 13 Eccezionalmente andava in Calabria, con un gruppo di soci, per comprare più a buon mercato cavalli e pecore da riportare passo passo a Lecce. Questo, naturalmente, era un viaggio che richiedeva diversi giorni, la capacità di orientarsi e di relazionarsi congruamente con le persone che incontrava. Sul finire del diciassettesimo secolo un viaggiatore nostrano descrisse in versi (e in dialetto) una sua passeggiata a cavallo da Salice Salentino fino a Leuca. Dal Viaggio de Leuche si desume un modo di viaggiare sostanzialmente simile a quello che emerge dai racconti estemporanei di mio padre. Curiosamente, poi, anche il mio modo di viaggiare in autostop nel corso degli anni Settanta assomiglia molto più a quello appena descritto che non a come si viaggia oggi. I cambiamenti radicali che hanno portato all’attuale concezione del viaggio strettamente connessa con le categorie di turismo e di mercato, infatti, qui hanno avuto luogo solo a partire dai primi anni Ottanta. Il Salento, dopo aver percorso per un paio di decenni la via dell’emigrazione, solo allora usciva decisamente da un’economia tradizionalmente agricola e si avviava ad abbracciare quella basata sul turismo che lo caratterizza ancora oggi. Così facendo sceglieva anche, più o meno consciamente, di adeguare l’aspetto del suo territorio alle nuove esigenze e di dotarlo sempre più di quelle caratteristiche che l’antropologo Marc Augé ha elencato per definire i nonluoghi. Questi cambiamenti hanno comportato anche, per gli abitanti, un diverso modo di guardare al territorio e hanno contribuito a diffondere anche qui quel senso di disorientamento e di spaesamento che caratterizza tutto il mondo occidentale postmoderno. Può il disorientamento territoriale (la reale perdita della bussola) essere alla base di comportamenti individuali e sociali di natura patologica (schizofrenie e deliri)? A lanciare per primo un segnale di allarme in questo senso è stato Ernesto de Martino, nei suoi appunti per La fine del Mondo; allarme che, come noteremo, oggi non è assolutamente rientrato, ma assume sempre più quegli aspetti apocalittici annunciati e paventati dallo studioso napoletano. Commenteremo la lettura del Viaggio de Leuche con l’intenzione di contribuire alla nascita di un’organica antropologia dello spazio come strumento capace di rendere coscienti delle conseguenze di questo mutato rapporto con il territorio e con i cambiamenti che quotidiana- 14 mente vengono operati su di esso all’insegna della riqualificazione e dell’adeguamento. La lettura del poemetto, in verità, ci ha portati a soffermarci anche su altri cambiamenti intervenuti contemporaneamente nel Salento e, primo fra tutti, su quello riguardante la lingua. Il dialetto salentino, considerato fino agli anni Ottanta (alla stregua di tutte le altre parlate regionali) un retaggio del passato da mettere da parte a favore della lingua nazionale, è diventato curiosamente, nell’ultimo ventennio, oggetto di una riscoperta giovanile che non perde occasione di sbandierarlo orgogliosamente. Fanno uso del dialetto i numerosissimi interpreti della “neopizzica” (la colonna sonora delle estati turistiche salentine) e sono composti in dialetto i testi del raggamuffin locale (con in testa i Sud Sound System) e quelli di diversi cabarettisti locali e nazionali (Ciceri e Tria, La Gegia, Andrea Baccassino). Allo scopo di assecondare questa riscoperta del dialetto può essere certamente utile il primo documento di poesia dialettale, il Viaggio. Il Viaggio de Leuche Un pomeriggio tardi, di fine luglio dell’anno 1692 una piccola comitiva partiva da Salice Salentino, un paese a una quindicina di chilometri a nord di Lecce, con l’intenzione di raggiungere l’estrema punta della penisola per partecipare, il primo di agosto, alla festa solenne della Madonna te Finimunnu. Il gruppo era composto da quattro amiconi che viaggiavano a cavallo e da due inservienti che li seguivano a piedi, per badare alle bestie e per dare una mano in caso di bisogno. Tre erano per certo sacerdoti; uno anzi, anni prima, era stato pure arciprete per sette anni a Guagnano. Si chiamava don Geronimo Marciano, ma tutti lo chiamavano lu Mommu te Salice e a lui stava bene così. Al momento della partenza aveva più o meno sessant’anni, ma si sentiva ancora nel pieno delle sue forze, pronto ad affrontare le fatiche di quel viaggio che, fra andata e ritorno, era più lungo di duecento chilometri! Partiva con l’intenzione di annotare tutto quello che sarebbe successo perché voleva farne un racconto in poesia. Lu Mommu era di estro artistico; nel paese lo sapevano tutti che gli piaceva comporre poesie e 15 scenette. Sotto Pasqua le faceva rappresentare ai giovani, nella piazza, con costumi e tutto. Dicevano che, per queste cose, aveva preso dalla buonanima di suo nonno Girolamo, gran sapientone che conosceva tutti i peli della Terra d’Otranto e della sua storia. E infatti c’erano ancora, a casa sua, cataste di carte, libri, appunti e descrizioni. Per dire la verità, però, il nipote era diverso dal nonno, perché a lui non piaceva passare per uno scrittore serioso, per uno che usa le parole difficili per fare colpo sugli altri studiosi come lui. Ormai i tempi richiedevano altro. Voleva, si, fare un poema, ma il suo sarebbe stato un poema comico, scritto addirittura in dialetto, con quelle frasi che escono dalla bocca a chi non lo conosce proprio l’italiano. A Napoli, la capitale del Regno, altri scrittori stravaganti avevano già cominciato a fare queste cose e i loro componimenti andavano forte in tutte le riunioni di corte. Un altro della comitiva poi, pure lui prete, si chiamava don Vanni Passante ed era l’amico più stretto di don Geronimo. Fra una messa, una confessione e una funzione, tutti e due trovavano sempre il tempo di parlare di quest’idea del poema da scrivere in dialetto. E come si scaldavano sulla novità della cosa! Andavano alla ricerca delle parole e delle frasi più efficaci e si compiacevano della sorpresa che avrebbero prodotto una volta stampate su un libro. La cosa li appassionava ancora di più quando arrivavano alla fine del boccale di vino che si mettevano sempre davanti a ogni discussione. Qualche volta si riunivano con tutta la compagnia pure nella chiesa, e facevano musica a modo loro. Cominciavano suonando certi divertimenti musicali di un maestro tedesco, che di nome si chiamava Giovanni Sebastiano ma di cognome, dicevano loro, faceva proprio Bacco, come il santo Martino dei Romani. Poi si riempivano il bicchiere col passito della messa e passavano a cantare le arie contadine di Salice. Alla fine la giravano sempre a tarantella, si tenevano le sottane con la punta delle dita e muovevano i piedi in onore di santo Paolo. Sapevano che il vescovo non la approvava quella musica nella chiesa ma, dicevano, quello che stavano facendo era sempre un gesto di-vi-no, perciò non c’era peccato. E poi, comunque, per quanto si lasciassero andare, la loro voce non arrivava certo fino a Lecce, dove stava il vescovo. A quel tempo preti e monaci erano quasi tutti malandrini, più degli altri, perché con la scusa della tonaca che indossavano potevano anche entrare più in confidenza con le femmine. Quelle sposate si sapevano 16 guardare e si fermavano dove volevano; le giovani, invece, era più facile che restassero imbrigliate nei cordoni e nelle stole. La Chiesa sapeva tutto; minacciava scomuniche e sospensioni a divinis, ma la storia continuava. Ad ogni modo, quel pomeriggio di fine luglio si decisero a partire e, strada facendo, trovarono proprio le cose di cui andavano in cerca. Tavole imbandite per mangiare e bere a laudaddìo e incontri con belle figliole alle quali rivolgere qualche battuta e qualche occhiata. Inoltre si presentarono loro tante occasioni per conoscere gente forestiera e per incontrarsi con certi compari che non vedevano da anni. E poi finalmente don Geronimo nipote poté vedere con gli occhi suoi tutti quei luoghi descritti nelle carte di suo nonno: le masserie con i pareti alti, i giardini ombrosi e profumati, le pietre che parlavano del passato, gli oliveti secolari, i palazzi signorili e le marine col pesce fresco, che quello è sempre desiderato. Vide interi paesi di grotte abbandonate dove, a tempi antichi, i monaci greci avevano abitato e detto pure messa. E poco ci mancò che cadesse da cavallo su certe carrare strette che salivano sulle serre, piene di tante pietre che in tutta la zona di Salice, Guagnano, Campi e San Pancrazio non ne troveresti neanche la centesima parte; che lì è tutto cretaccio buono per le vigne. In tutto il viaggio non si presentò mai l’occasione di dire questo non vale. Don Geronimo rimaneva sempre a bocca aperta come un bambino. La Terra d’Otranto era come un paradiso per lui, tutto era meraviglioso: le case, la gente, l’odore dei tumi calpestati dai cavalli, le linee spezzate dei muretti di campagna e, oltre, la linea rotonda e azzurra del mare. In ogni nuovo quadro che si presentava davanti ai suoi occhi vedeva la mano di Dio! E, in quei momenti, non si chiedeva neanche se si trattava del Dio suo, oppure di qualche altro Dio. Passo dopo passo si sentiva sempre più orgoglioso di vivere in quella terra, e aumentava pure il desiderio di raccontare agli altri l’esistenza di quelle bellezze. All’occorrenza, ci avrebbe pensato lui ad aggiungere alle cose qualche poco di sale in più, se serviva. Fra quello che vide e quello che si figurò, alla fine compose tre canti: uno raccontava la strada fatta da Salice fino a Otranto, un altro da Otranto a Leuca e l’ultimo parlava del ritorno. E poi andò lui stesso a recitarli di persona in tante occasioni. Li compose davvero in dialetto, come aveva pensato, e la cosa suscitava curiosità e allegria nella gente. Tutti ridevano, bevevano alla sua salute e gli battevano pure le mani. 17 Parte Prima Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano Quando accumuliamo religiosamente le testimonianze e i documenti del passato, in effetti, stiamo cercando di decifrare ciò che siamo alla luce di ciò non siamo più. M. Augé 19 Il testo È il più antico testo poetico in dialetto salentino finora in nostro possesso. Risale agli anni a cavallo fra il 1600 e il 1700 e dunque ha all’incirca 300 anni. Le notizie relative a questo scritto e al suo autore si devono ai curatori delle edizioni critiche del testo e agli studiosi di letteratura e di dialettologia che negli anni se ne sono occupati. Le edizioni precedenti In ordine di tempo, la prima edizione a stampa del poemetto la troviamo nel volume che raccoglie l’annata 1935 della rivista bimestrale di Arti, Scienze e Lettere «Rinascenza Salentina», diretta da Nicola Vacca. La dobbiamo a Michele Greco responsabile, allora, della Civica Biblioteca “Marco Gatti” di Manduria, cittadina situata fra Taranto e Lecce. Ricoprendo tale incarico, egli dice ebbe «la ventura di rintracciare una copia manoscritta del poemetto posseduta da Giuseppe Pacelli», l’erudito manduriano vissuto tra il 1764 e il 1811 che fin da giovane aveva iniziato a raccogliere e a trascrivere una grande quantità di materiali letterari salentini o, comunque, riguardanti il Salento. Il testo che Michele Greco rintracciò non era un autografo dell’autore ed era stato redatto da mano ignota, diversa anche da quella del Pacelli. Purtroppo, se ne lagna lo stesso Michele Greco, «è da considerarsi una copia, abbastanza errata e trascurata, dell’autografo del Marciano – che presenta – difformità e irregolarità della grafia – e addirittura – alterazioni del testo tanto da renderlo, in molti punti, oscurissimo e di difficile interpretazione». Ridottissime risultano, in quest’articolo, le informazioni sull’autore, quasi tutte desunte dallo stesso testo. Né queste informazioni diventano più consistenti quando, nel 1954, il testo viene pubblicato, con variazioni minime, dal linguista Oronzo Parlangeli, in appendice al volume Ottocento poetico dialettale salentino curato da Ribelle Roberti per l’editrice Pajano di Galatina. In questa appendice, aperta dall’intestazione Raccolta di testi dialettali salentini, si tralascia espressamente di entrare in merito alle problematiche relative ai vari testi pubblicati e dei quali si intende offrire solo 20 una panoramica cronologica e una prima antologia. Il Viaggio del Marciano risulta introdotto da poche righe nelle quali è evidenziata la sua maggiore importanza rispetto agli altri documenti riportati «perché la lingua nel quale esso è scritto si rivela profondamente vicina al dialetto che nel Salento doveva essere parlato sulla fine del XVII secolo». Se ne riporta il testo in maniera scarna, senza traduzione e senza fornire alcuna nota circa l’interpretazione delle sue parti oscure, pur segnalate dal precedente editore. Altrettanto indefinita resta la figura dell’autore e del contesto nel quale si verifica la composizione, per le cui notizie il Parlangeli rimanda interamente alle poche righe riportate dal Greco. Nel 1956 l’emerito dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs pubblica il primo volume del suo Vocabolario dei dialetti salentini nel quale tiene accuratamente conto anche di tutte le voci che compaiono nel poemetto del Marciano rilevando anche, nelle note introduttive, che l’edizione del Greco alla quale egli si rifà, contiene “molti errori di stampa”. Trent’anni dopo si occupa del Viaggio Maria Teresa Romanello, assegnando al documento il posto che merita nel panorama della produzione letteraria dialettale del XVIII secolo. Ella vi individua, infatti, il primo instaurarsi di un modello letterario che troverà conferma e continuazione nella successiva produzione dialettale salentina fino alle soglie del Novecento. Il suo volume Per la storia linguistica del Salento (Edizioni dell’Orso, Alessandria 1986) raccoglie e mette a confronto tutti i testi dialettali fioriti nel Settecento in questo “estremo lembo della Penisola”. Si citano, accanto al Viaggio de Leuche, la commedia La Rassa a bute, il componimento satirico La Iuneide, o sia Lecce strafurmata, la farsa pastorale Nniccu Furcedda accanto ad altri testi coevi di minore estensione. La Romanello non riporta integralmente il testo del Viaggio, né se ne occupa in termini critici, lasciando così insoluti tutti i dubbi interpretativi espressi dal Greco nella sua prima edizione e anzi confermando, nelle citazioni, alcune grossolane sviste del copista denunciate dal Rohlfs come “errori di stampa”. Quando a interessarsene è Mario Marti, nel volume riguardante il Settecento della sua Letteratura Dialettale Salentina (Galatina, Congedo 21 1994), vengono messe sensibilmente più a fuoco tanto la figura dell’autore, quanto altri particolari del componimento, come le circostanze del Viaggio stesso. Don Geronimo Marciano, nome all’anagrafe de Lu Mommu de Salice indicato dal copista come autore del poemetto, risulta essere nipote dell’erudito salentino Gerolamo Marciano (vissuto fra il 1571 e il 1628), noto per il suo Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, pubblicato a Napoli molto tempo dopo la sua morte, nel 1855. Risulta altresì nato nel 1632 a Maruggio, in provincia di Taranto, da Luca Marciano, di professione medico, e da Isabella Manaro, originaria di Salice Salentino. È questo il paese che l’autore elegge come propria patria tanto da farsi chiamare, appunto, Lu Mommu de Salice. Qui infatti la sua famiglia si trasferì presto in seguito alla morte del capofamiglia. Dalle ricerche del Marti sappiamo inoltre che don Geronimo fu arciprete per circa otto anni a Guagnano, località a qualche chilometro da Salice, e che visse l’ultimo periodo della sua vita a Casalenèu, cioè a Manduria, dove morì il 28 febbraio del 1714. Come risulta esplicitamente dalla dedica che apre il componimento, qui egli godette, come altri artisti e letterati suoi contemporanei, della tutela del mecenate don Michele Imperiale, principe di Francavilla e marchese di Oria. Quella del Marti è una rigorosa edizione critica che non solo si preoccupa di riportare integralmente il testo, ma aggiunge anche le opportune proposte di modifica e di integrazione alla trascrizione del manoscritto pubblicata per la prima volta dal Greco e mai messa in discussione. Marti presenta, naturalmente, anche una puntuale traduzione che, nel rispetto della lettera, restituisce senza soluzione quei punti oscuri denunciati dalle altre edizioni e, anzi, ne addita di nuovi. A volte la causa di questi costrutti oscuri viene attribuita ad “arditi metaforismi linguistici”; altre volte si avverte il tentativo di risolverli ricorrendo a possibili sviste dell’anonimo copista. Un altro accenno alla personalità dell’autore, soffermandosi soprattutto sul peso che ebbe il suo poemetto nella produzione poetica successiva, lo fa Donato Valli quando si occupa degli inizi della letteratura dialettale nel Salento, nella sua Storia della poesia popolare nel Salento pubblicata a Galatina per l’editore Congedo nel 2003. 22 Questa edizione L’edizione che qui presentiamo non ha pretese critiche né filologiche; basa le sue conclusioni sugli studi precedenti testè citati e, per volersi soffermare in modo particolare sul contenuto dell’opera, si ripropone di risolvere a tutti i costi i dubbi interpretativi finora avvertiti e segnalati. A tale scopo non ha esitato a fare ricorso anche all’intuizione che, notoriamente, non è ammessa a chi persegue con rigore una metodologia prettamente filologica o critica. Volendo analizzare il contenuto dell’opera, avevamo bisogno di un testo scorrevole, libero dai singhiozzi interpretativi a cui obbliga un approccio rigorosamente scientifico. Le nostre soluzioni, naturalmente, tengono conto delle questioni riguardanti l’aspetto formale del manoscritto ma si concedono anche la libertà di interpretare a senso quei passaggi oscuri che, per essere sciolti, avrebbero bisogno di maggiori verifiche in una tradizione linguistica di cui, ahinoi!, abbiamo pochi altri documenti scritti. Il senso generale del testo, d’altra parte, ritrova concordi tutti gli editori precedenti, che si limitano ad interpretare in maniera diversa solo alcune probabili sviste del copista oppure la natura di alcuni suoi vezzi grafici che danno luogo all’incertezza circa la natura di alcune vocali, ad una punteggiatura approssimativa e a tentennamenti sia nell’accentazione che nella notazione delle maiuscole. Da parte nostra, per tentare di risolvere con una certa coerenza i passaggi dubbi, abbiamo messo a frutto, oltre alla nostra personale competenza di parlanti dialettofoni, anche i risultati del confronto con la competenza più accreditata di numerose persone anziane originarie dell’area leccese e salicese. Abbiamo sottoposto alla loro attenzione la lettura del testo e abbiamo tenuto in debito conto le considerazioni che ne emergevano. Questa verifica ha portato in diversi casi a delle soluzioni illuminanti che, per il fatto di essere dettate dal buon senso dei parlanti più che da complessi ragionamenti di natura dotta e filologica, appaiono ragionevolmente plausibili e coerenti con le intenzioni dell’autore. Nel commento al testo abbiamo, comunque, dato sempre atto della natura delle nostre proposte esegetiche affidandone, in ogni caso, l’accettazione definitiva ai linguisti e agli specialisti. Il nostro lavoro di interpretazione è stato integrato anche dai dati di 23 natura extralinguistica raccolti nel corso di un’accurata indagine sul territorio, effettuata ripercorrendo passo per passo l’intero itinerario descritto nel Viaggio. Questa ricerca, condotta alla lettera sul campo, ha richiesto anche la consultazione di materiali extraletterari, come la cartografia storica, il Servizio Interattivo Territoriale (SIT), messo in rete dalla Provincia di Lecce e le carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare (I.G.M.). È risultata altresì utile la consultazione di altri testi che, direttamente o indirettamente, forniscono notizie utili per una verosimile ricostruzione della viabilità antica del Salento e di altri dati riguardanti il territorio. Seguendo il cammino descritto dal Marciano ci siamo soffermati nelle località nominate. In vari punti del percorso abbiamo confrontato i nostri pareri anche con coloro che, per motivi diversi, si dichiarano interessati alla memoria, al dialetto o alle questioni riguardanti i cambiamenti del territorio. Allo scopo di verificare la natura di alcune osservazioni del Marciano abbiamo tentato, per di più, di trovarci nei vari luoghi nella stagione e nelle ore corrispondenti al suo passaggio. Riporteremo più avanti, dettagliatamente, il resoconto di questa nostra esperienza di viaggio che ci ha permesso la puntuale ricostruzione di alcuni particolari del poemetto. Per la traduzione in italiano abbiamo cercato uno stile scorrevole e consono al linguaggio attuale, che volgesse i versi di un dialetto arcaico e obsoleto in una prosa il più possibile piana, tanto dal punto di vista lessicale che del costrutto. Per ottenere questo scopo ci siamo talvolta concessa qualche libertà, sforzandoci comunque di non aggiungere nessun concetto che non fosse già presente (in modo esplicito o implicito) nel testo dialettale. Le note che abbiamo apposto al testo sono molto numerose e, per alcuni, possono risultare anche ridondanti. Ciascuno ne faccia un uso relativo alla propria competenza del dialetto e della cultura salentini, e sia disposto a tollerare il carattere pleonastico di talune osservazioni che si propongono comunque lo scopo di rendere comprensibile il testo dialettale anche a chi ha poca esperienza di questo idioma. Nel chiarire il significato dei termini si è sempre fatto riferimento, naturalmente, agli studi del Rohlfs e, in particolare, al suo Vocabolario dei dialetti salentini (Congedo 1976) al quale si rimanda per ogni dubbio lessicale non sufficientemente chiarito. 24 25 Testo, traduzione e note Viaggio1 de2 Leuche3 a lengua de Lecce compostu dallu4 Mommu de Salice, ed ultimamente dallu medesimu rinuàtu mpiersu lu Scegnu de Casaleneu,5 e ddedicatu allu Marchese d’Oria D. Michele Imperiale.6 Divisu ‘n tre canti Non sempre, Eccellentissimo Signore, se usano le cètere, ca pure alle òte nu calasciòne7 buènu sunàtu te dàje spassu e piacìri; e glièu aggi ntìsu e lesciùtu cà nu certu rè durmiscìu allu cantu delli riddi,8 co quiddu cantàri a trìpula ce fàcenu la notte trì trì; oh ce bedda armonia,9 iammedìu.10 1 Il motivo del viaggio, soprattutto quello allegorico, può riportarsi ad una moda letteraria molto diffusa ai tempi del Marciano. Il Croce nei suoi Saggi ne parla in questi termini: «L’invenzione dei Viaggi in Parnaso ebbe grande fortuna tra il Cinque e il Seicento. Pareva una forma assai arguta di esporre concetti morali, politici e letterari, elogi o satire di persone e di cose». Considerando la dichiarata giocosità del poemetto, il viaggio reale dell’autore verso il sacro monte di Leuca può alludere ironicamente al viaggio topico e letterario verso il sacro monte della Poesia, il Parnaso. 2 Questa forma genitiva con cui si esprime il titolo non troverebbe piena corrispondenza nella traduzione italiana Viaggio di Leuca che risulta ambigua e poco comprensibile. Saremmo tentati di utilizzare la forma più scorrevole di Viaggio a Leuca, senonché tale traduzione implicherebbe solo un’indicazione di moto a luogo e lascerebbe inespressa quella di argomento che prevale nella forma dialettale. Abbiamo optato per la traduzione Il viaggio di Leuca, caricando l’articolo da noi aggiunto di un marcato valore dimostrativo che conferisce all’espressione il significato della perifrasi Racconto di quel viaggio che parla di Leuca. 3 Leuca, la destinazione del Viaggio, è sede di un importante santuario dedicato a santa Maria de Finisterrae. Tutto il viaggio si configura come una sorta di pellegrinaggio verso questo luogo santo o, almeno, come un viaggio di devozione. Il nome della località originariamente era al plurale (sul modello, per esempio, di ‘Atene’) come risulta anche dalla redazione latina delle visite pastorali avvenute nello stesso periodo nelle quali anche le concordanze sono espresse al plurale. 4 Il dialetto salentino, diversamente dalla lingua italiana, richiede l’articolo davanti ai nomi propri di persona. 26 Il viaggio di Leuca in lingua leccese composto da Mommo di Salice e, di recente, da lui stesso rivisto nei pressi del fonte pliniano di Manduria, e dedicato al Marchese di Oria don Michele Imperiale. Diviso in tre canti. Non sempre, Eccellentissimo Signore, per provare piacere bisogna ricorrere alle cetre, perchè a volte, anche uno strumento umile come il colascione, se suonato bene, può fornire spasso e divertimento. Infatti ho sentito dire (e ho letto) che una volta perfino un re è rimasto incantato dal verso rustico dei grilli che la notte riempiono l’aria con il loro tri-tri. Che armonia incantevole, quant’è vero Iddio! 5 Scegnu è il nome locale dato ad una sorgente monumentale nota come Fonte Pliniano, che sgorga in una grotta nei pressi di Manduria; Casalenèu è appunto il nome con cui, ancora all’epoca della composizione, si denominava la città di Manduria. Con questo nome compare anche nella cartografia storica. 6 Michele Imperiale, principe di Francavilla e marchese di Oria, alla cui corte era evidentemente attivo l’autore. 7 Le cètere e lu calascione, la nobile cetra, strumento di Apollo e il chitarrone di uso popolare, sono qui, rispettivamente, simboli della poesia aulica (in lingua toscana) e della poesia dichiaratamente più dimessa, che si esprime con il registro linguistico dialettale. Fin dal suo esordio il componimento si dichiara conforme ai suoi modelli di riferimento, cioè alle opere di Giulio Cesare Cortese e a quelle di Gianbattista Basile, nel corso delle quali si fanno continui riferimenti alla musica, agli strumenti musicali e alle tecniche esecutive sia canore che strumentali. 8 Lo avrà letto anche in uno dei Cunti del Basile, il quinto della terza giornata Lo scarafone, lo sòrece e lo grillo. 9 Quest’espressione di lode nella contemplazione di una manifestazione della natura fa eco a quella della strofa 14 del primo canto, quando, altrettanto francescanamente, l’autore loderà la luna per la sua bellezza. 10 Iammediu; questa interiezione, oggi in disuso, ricorrerà più volte anche nelle forme iemediu, ieme Diu. Vale come generico asseverativo e, come tale, può essere tradotto in vari modi a seconda del contesto in cui si trova. Si pensi a quanti modi diversi ci possono essere per intendere l’analoga espressione italiana “per Dio!”. 27 Via, làscia nu picca lu Fùrviu e lu Marìnu11 e sienti sta tiòrba a taccùne,12 ch’è passata fin’allu Sabètu13 ed ha uddàta la vocca a quiddi cigni di Napoli beddu. Canta ìdda nu certu viaggiu ci fici jèu l’anni passati a Leuche cu tre amici, unu currìu Marcici14 per nume Vanne Passanti,15 l’àutru chiamatu Cicciu Mangiòni e l’àutru Nardu Smargiassòni,e puru due pedùni, unu chiamatu Ventura e l’àutru Catarèna; e percè ch’eranu tutti d’umòri dièrsi, mi misi a fàrace una cantata a lengua noscia de Rusce. Gùstatela proìta16 dellu Signore, e cumàndame a bacchetta.17 11 Fulvio è da identificarsi molto probabilmente o con lo scrittore genovese Francesco Fulvio Frugoni (1620 ca.-1684 ca., autore del romanzo in lingua toscana Il cane di Diogene) o con il poeta napoletano Fulvio Testi (1593-1625). Il primo dei due è più vicino, per poetica, a G.B. Marino, considerato il maggiore esponente della poesia aulica barocca in lingua toscana, che qui si esorta esplicitamente a mettere da parte. 12 La tiorba è, al pari del calascione, uno strumento musicale simile al liuto e molto popolare nel XVI sec. Se ne distingue organologicamente per avere un doppio manico, uno provvisto di tasti e l’altro a corde libere, e per la sua cordatura che poteva giungere ad avere sino a quattordici corde doppie di metallo da pizzicarsi con un plettro, mentre il calascione (o colascione) era dotato, generalmente, di tre sole corde doppie. Il taccone è un pezzo di cuoio con cui, a mo’ di plettro, si pizzicavano le corde di tali strumenti. La Tiorba a Taccone è il titolo di un’opera poetica attribuita a Felippo Sgruttendio ma che, molto probabilmente è stata scritta, per affinità di temi e di stile con le altre sue opere, da Giulio Cesare Cortese, dichiarato modello del Marciano. Il Viaggio farà continui riferimenti, nel suo svolgersi, a quest’opera come al Viaggio di Parnaso, alla Vaiasseide e agli altri componimenti del Cortese. 13 Il Sebeto è un corso d’acqua nei pressi di Napoli, più volte citato anche nelle opere del Cortese e in quelle del Basile, soprattutto per il ponte della Maddalena, o ponte Licciardo, che vi passava sopra. La fama di questo ponte era dovuta al fatto che dai suoi spalti venivano buttati giù i corpi dei giustiziati, quelli dei suicidi e le carogne degli animali. Qui l’espressione sta semplicemente per dire “dalle parti di Napoli”. 14 Questo passaggio è risultato di oscura interpretazione per tutti coloro che si sono cimentati con il Viaggio, non riuscendo facile trovarvi un senso se si parte dalla voce currìu che, da aggettivo, significa imbronciato. Qui si propone originalmente il significato di “conosciuto come Marcici (o il Marchese)”. In tale interpretazione currìu viene inteso non come aggettivo, ma come passato remoto del verbo cùrrere (correre), nell’accezione metaforica di “avere l’appellativo di”, “essere conosciuto come”. Ancora oggi il dialetto usa, infatti, una fraseologia analoga per dire, metaforicamente, “essere nominato”: scire ‘nnanzi (andare avanti) che ha lo stesso significato letterale di correre. Metaforicamente si dice per es. Comu àe ‘nnanzi lu tale? per dire “Come viene nominato nel suo paese? Con quale soprannome è conosciuto?” 28 Via, lascia stare i poeti aulici come Fulvio e Marino e presta orecchio al suono di questa tiorba suonata a taccone, umile ma capace di incantare tutti, da qui fino al corso del fiume Sebèto, e di tappare così la bocca anche ai cigni della bella Napoli. Servendomi di questo strumento rustico canterò un viaggio che io stesso ho fatto alcuni anni fa a Leuca, in compagnia di tre amici. Uno risponde al nome di Vanni Passante, nominato Marchese, l’altro lo chiamano Ciccio Mangione e l’altro ancora Nardo Smargiassone. Ci accompagnarono, camminando a piedi, anche due aiutanti, uno di nome Ventura e l’altro Catarena. Ognuno di noi, in questo viaggio, ha fatto cose degne di nota, per cui ho pensato di farne una cantata, e l’ho composta nella lingua nostra di Rudie. Goditela in grazia di Dio e disponi di me come più ti piace. Marcici, in questa lettura, è predicativo. Volendo ricercare poi il significato di questo soprannome si potrebbe anche accostarlo a “Marchese” ritenendo che il segno grafico [ci], ripetuto due volte nella trascrizione della parola, sia servito allo scrivente per rendere due diversi suoni: sia quello occlusivo gutturale sordo [ki] che quello sibilante [si]. 15 È il suo camerata più vicino, quello con il quale dividerà, nelle soste, anche il letto e con il quale si permetterà anche di entrare, confidenzialmente, in dialettica. 16 Proìta è una voce forse derivata (Rohlfs) dalla formula avverbiale lat. pro vita. Ha comunque un significato oscillante fra il “provveduto” e il “protetto”. 17 È d’obbligo licenziarsi dai potenti dichiarando la propria disponibilità incondizionata a soddisfarne la volontà. Ugualmente si esprime il Basile nella dedicatoria Allo re delli viente scritta per la Vaiasseide del suo amico G. C. Cortese: Nui, che te simmo serveture e nce puoie comannare a bacchetta. Tale è, inoltre, il senso della più corrente formula di congedo italiana “ciao”, con la quale ci si dichiara “schiavo” della persona che si saluta. Il Marciano la riporterà, più innanzi, nella forma intermedia schiau. 29 Cantu Primu 1. Cantu de Leuche jeu lu viaggiu santu fattu cu lu Passanti, ed autri amici la sciuta mberu la cità d’Utrantu matre de tanti martiri felici; comu propriu successe18 ve lu cantu, quantu vidi cu st’ecchi, e quantu fici; senta chi ole, e senta e gusti, e guai chi no bolisse19 poi, nè mò, nè mai. 2. No chiamu tie ci stai sopra stu monti miezzu dell’atri soru, bionda Cliu;20 ma tie, Micheli, di sapienza fonti grande fra quanti ne creau nu Diu; a tie ste rime mei currenu pronti, ed allu mperiu tou, Mperiari miu, percè ca jeu su puirieddu, e sulu, e chiù d’unu uleria me tegna ‘n culu. 18 Questa dichiarazione di assoluta veridicità delle cose descritte è, con ogni probabilità, sincera. Si nota infatti una puntuale corrispondenza nella descrizione del territorio e nei tempi necessari per percorrere ogni singola tappa. Qualche dubbio può venire circa l’occorrenza dei tanti fatti straordinari che l’autore chiamerà in causa con una frequenza quasi regolare e che rispondono, più verosimilmente, alla necessità letteraria di alleggerire lo scorrere del racconto introducendo continuamente altri microracconti, magari inventandoli o attingendoli dall’aneddotica che circolava al suo tempo. 19 L’invidia era un argomento corrente nella società di corte, dibattuto in numerosi trattatelli. Uno dei riferimenti topici di questo dibattito, dall’autorevolezza riconosciuta, era un passo delle Metamorfosi (lib. 2) in cui Ovidio la descrive orrenda e brutta, decrepita, magra, secca, pallida, livida, con gli occhi torvi. Ne La vecchia scorticata, racconto della prima giornata del Pentamerone del Basile, si legge: “la ‘nmidia, figlio mio, se stessa smàfara” e nel trattatello Consigli degli animali di, A. Firenzuola, (Venezia, 1622): “Habbiti cura della invidia la quale come palla di 30 Canto Primo 1. Canto il viaggio santo di Leuca, fatto con Vanni Passante e con altri amici; e di quella visita ad Otranto, la città dei Santi martiri. Racconto esattamente ciò che successe, quello che vidi coi miei occhi e quello che feci. Chi vuol ascoltarmi ne avrà godimento; a chi si rifiuta, invece, auguro i peggiori guai. 2. Non chiedo niente a te, o Clio patrona dei poeti che te ne stai sul tuo monte con le altre muse; mi rivolgo invece a te, o Michele, fonte di sapienza e supremo fra tutti i mortali. I miei versi li affido alla tua protezione, o mio Imperiale, perché io, con le mie sole forze, non saprei difendermi da quanti, e sono tanti, mi vorrebbero in rovina. sapone si mette sotto i piedi de’ favoriti e de’ grandi per farli sdrucciolare e cascare del luogo loro”. 20 Puntuale, dopo l’esposizione della materia, l’invocazione alla Musa. Clio, nella mitologia greca, è una delle nove muse figlie di Zeus e di Mnemosine, uno dei titani preolimpici. Tutte insieme presiedevano alle arti e alle scienze e ispiravano poeti, filosofi e musicisti. Secondo l’attribuzione più diffusa, Calliope era la musa della poesia elegiaca, Clio della poesia epica e della storia, Euterpe della poesia lirica e della musica, Melpomene della tragedia, Tersicore della danza e dei cori, Erato della poesia d’amore, della geometria e del mimo, Polinnia della danza e della poesia sacra, Urania della poesia didascalica e dell’astronomia e Talia della commedia e della poesia bucolica. Le muse erano considerate compagne delle Grazie e di Apollo, il dio della musica. Sedevano presso il trono di Zeus, re degli dei, e cantavano la sua grandezza, l’origine del mondo, i suoi abitanti e le gesta gloriose dei grandi eroi. Erano venerate in tutta la Grecia antica, specialmente sull’Elicona e in Pieria, vicino al monte Olimpo. Nella mitologia romana ebbero il nome di Camene e si identificarono con le ninfe delle acque e dei boschi. 31 3. Cusì li crepu jeu, cusì li schiattu, se stu gran nomi allu principiu stampu, cusì lu lauru miu restarà ntattu e non lo poterà trenu, né lampu. Chiù versi poi, ca no so vecchiu sfattu, jeu te promettu se n’autr’annu campu.21 Mpizza le ricchie gran Segnore mone ca no te spiacerà stu calascione. 4. A nu caaddu miu pe nome Moru jeu ncavarcatu fici la partenza quandu lu Febbu sopra a carru d’oru scia ffazza a re de Franza reverenzia.22 Na vozza23 jeu purtai, ci nu tesoru valia, e dava a mie muta loquenzia, mprimu me la cercau lu camberata24 e ci deze na bona ncuppulata. 21 L’espressione ricalca la conclusione alla dedicatoria del Cortese per il suo Viaggio di Parnaso: Ca si me vene netta, n’autro iuorno / lo nomme tuo lavoro a meglio tuorno. 22 Gli spostamenti, durante tutto il viaggio, si faranno sempre cercando di evitare le ore più calde della giornata. Le ore di attività non saranno necessariamente quelle diurne e, viceversa, le ore di riposo quelle notturne. Si mangerà, si dormirà e si riposerà secondo i ritmi richiesti dal viaggio e suggeriti dalle condizioni atmosferiche. La partenza ha luogo, dunque, di pomeriggio, quando il sole, trascorso lo zenit, si avvia verso Occidente (per portare i suoi omaggi al re di Francia). Tant’è vero che si giungerà ben presto, in serata, a San Pietro in Lama, che dista da Salice solo una quindicina di chilometri (la misura media di una tappa). 23 Il termine è un’esagerazione e si riferisce propriamente ad un grande contenitore di terracotta per il vino (il Rohlfs specifica “fino a 250 litri”), intrasportabile in groppa ad 32 3. Li sistemo io, e li faccio morire di invidia, stampando sulla mia opera il tuo nome insigne. Così proteggerò la mia fama di poeta e niente, né tuoni né fulmini, potranno insidiarla. Inoltre ti prometto che, se campo (e non sono poi così vecchio), ti dedicherò anche altri versi. Perciò, signore, presta ascolto alla mia musica e giuro che non te ne pentirai. 4. Partii per questo viaggio in sella al mio cavallo di nome Moro, nell’ora in cui il Sole, sul suo carro d’oro, si dirigeva verso la Francia. Portai con me un recipiente col vino, che serve a sciogliere la lingua. Il mio amico Vanni me la chiese quasi subito e se ne scolò già una buona parte! una bestia. Qui si sarà trattato, più verosimilmente, di un umbìle (dalla capienza di ca. 5-7 litri) o di una uzzèddra (fino a 10 litri). Il vino, insieme al sole, citati entrambi in questa ottava di esordio, rappresentano un leitmotiv nel corso di tutto il Viaggio. Ogni volta che la compagnia si ferma a mangiare spunta fuori, puntuale, anche lu mieru (il vino), accompagnato da attributi e da perifrasi che ne celebrano le caratteristiche: sarà detto te cute (forte, di roccia), cumpremientu te la taola (complemento della tavola), no vattesciatu (non battezzato, non allungato con acqua), bedd’umore (liquido vitale), brau (bravo, efficace). L’attaccamento al vino ostentato da don Geronimo, così come la sua morbosità nel descrivere le bellezze femminili, sono, come si vedrà meglio altrove, caratteristiche topiche della figura del prete in quel periodo. 24 Il camberata per eccellenza è quasi sempre, lo dicevamo, Vanni Passante. 33 5. Passammu de Carmianu; a do nu puzzu tandu acqua sta tiràa na quatraredda,25 e percè jeu ce di beddizza spruzzu dissi allu Cicciu: -Quista si ch’è bedda; e peccè ca tenìa de sete mbuzzu co doje mane pigliàu na quartaredda;26 e butàtosi a mie me disse: Schizzi!27 Le respùsi glieu: -A st’ecchi rizzi.28 6. Se fice ‘n facci russa la carusa ci nu milu masciàticu parìa, e quantu se musciàu chiù vergugnusa tantu chiù bedda all’ecchi mei parìa. Finzemi,29 cresciu jeu, la vergugnusa ma antecore30 la cosa le piacìa, percè sott’ecchi poi tutta presciata me fice na curtise lecenziata. 25 Quatrara, col significato di “bella ragazza”, è un termine ormai scomparso nei dialetti salentini. Il Rohlfs lo rileva anche nell’altro componimento della letteratura dialettale salentina delle origini ‘Nniccu furcedda. È ancora in uso, invece, in altre aree del sud Italia, come in area calabrese e lucana. 26 La quartara, invece, è una brocca o, in generale, un recipiente per liquidi. Si noti il gioco ottenuto con questa parola, che si differenzia da quatrara solo per una semplice metatesi. 27 Schizzi può essere un’interiezione volutamente oscura e ambigua, che i due viaggiatori si scambiano, in maniera complice e ammiccante, per confondere la ragazza. Noi la interpretiamo in una polivalenza oscillante fra diversi possibili significati: 1) come un nonsense tirato in ballo solo per predisporre la rima; 2) come formula augurale per la bevuta, equivalente ad un prosit, con il senso di «che questo schizzo ti possa far bene!» (farsi uno schizzetto è usato ancora oggi gergalmente per dire bere un goccetto); 3) come allusione triviale all’emissione di indicibili umori (che tu possa schizzare!), e quindi come incoraggiamento alla subdola corte che il Marciano aveva ingaggiato già semplicemente chiedendo da bere alla ragazza. La richiesta di una bevuta è, infatti, un modo topico di fare la corte che ritorna spesso nei versi dei canti popolari salentini. Si veda per es. il brano Alle beriferìe della raccolta di canti da noi pubblicati col titolo Le 34 5. Passammo da Carmiano; vicino a un pozzo c’era una bella ragazza che tirava acqua e, dato che io non mi trattengo di fronte alla bellezza, dissi all’amico Ciccio: – Questa si che è una bella figliola. Stavo morendo di sete e lei, a due mani, mi offrì un bel boccale. Ciccio, con uno sguardo, mi incoraggiò e io brindai a quei begli occhi di ragazza! 6. Quella arrossì a tal punto da sembrare una mela di maggio ma, quanto più mostrava vergogna, più diventava bella. Probabilmente faceva finta di vergognarsi perché senza dubbio la cosa le piaceva. Infatti alla fine, tutta contenta, ci salutò con ogni cortesia. Cicale (Kurumuny, 2007). Allo stesso tema appartiene l’altro motivo topico della ragazza alla fonte che rischia di tornarsene con l’orciuolo rotto. La fonte che schizza e l’orciolo che si riempie sono figure che rimandano rispettivamente, senza alcun dubbo, al sesso maschile e a quello femminile; 4) il giro di parole può essere estrapolato dal testo di qualche motto o canto popolare non giunto fino a noi o, comunque, a noi ignoto, al pari di altri che saranno accennati nel corso del Viaggio. 28 Gli occhi possono essere “ricci” tanto per le loro lunghe sopracciglia ritorte che per il loro taglio netto e sinuoso; sta di fatto che anche nel repertorio popolare cantato ricorre spesso la formula elogiativa occhi rizzella, uecchi rizzi. 29 Non possiamo fare a meno di notare l’ipocrisia maschilista che si esprime in questi versi. Perché la ragazza avrebbe dovuto accondiscendere alla corte morbosa di due anziani sacerdoti? Il Marciano, all’epoca del viaggio, era presumibilmente sessantenne. Se realmente si vergogna la giovane lo fa al loro posto, e finge cortesia al momento del congedo contenta, se mai, di liberarsi delle loro attenzioni. 30 Antecore è un’espressione che assume il suo significato dal contesto in cui viene usata; a seconda dei casi si tradurrà con “comunque”, “però”, “tuttavia”, con significato ora assertivo, ora avversativo. 35 7. Arrevammu a San Pietru de la Lama addò lu cammarata avìa n’amicu,31 ci fosse quistu poe, comu se chiama no me recordu moe, cu be lu dicu, basta32 de quantu s’appetisce ed ama nc’era alla tàola, puru me ne sbrigu, carne, casu, recotta, e cose giunte, mieru de cute33 che ne deze ‘n frunte. 8. Mpiersu me viddi jeu na munacazza34 nìura chiù de nu fundu de caudàra,35 avia lu nasu a muedu de fucazza, paria de li nasuti campanara. Portava jeu na gra’ tabbaccherazza36 ci servia pe’ resbigliu alla carrara; ma stabbaccàu, che com’avìa pe usu na libra ne ulìa pe ‘gni pertusu.37 31 “Avere qualcuno” in una località significa poter fare a lui riferimento per riceverne ospitalità. Così sarà inteso anche più avanti nel testo a proposito di Orazio, massaro a Capriglia e di Ulisse, presso la masseria Li Fachechi. 32 Basta è un’espressione sintetica che riassume la frase “basta dire che”. Così sarà inteso anche più avanti nel testo. 33 Cfr. n. 23. Vino ricavato da un vigneto piantato su terreno roccioso, quindi forte come la roccia. L’opposto è mieru te patùla – vino di palude – cioè un po’ annacquato per sua natura. 34 Non si tratta di una monaca, come altri hanno inteso. Munacazza è da intendere piuttosto come moderatamente dispregiativo del generico “donna”, “ragazza”, in opposizione a quatrara che è un vezzeggiativo dello stesso termine. 35 Giuseppe De Dominicis, circa duecento anni dopo, riporterà, citandolo in un suo componimento poetico, uno stornello popolare che poteva esser noto già ai tempi del Marciano: Si bàutu quantu a chianta te brucacchia / si nìuru comu a culu te fersùra – sei alto quanto una pianticella senza gambo, sei nero come un fondo di caldaia. Poiché i due termini fersùra e caudàra sono sinonimi (e, in più, sono entrambi trisillabi lega- 36 7. Arrivammo a San Pietro in Lama dove il mio compagno Vanni aveva un amico (non mi ricordo e non so dirvi chi fosse costui, né come si chiamasse); mi ricordo solo che a tavola mise ogni ben di Dio: per farla breve, c’era carne, cacio, ricotta, e tutto ciò che ci vuole. E in aggiunta ci mise anche un vino pesante che finì col darci alla testa. 8. Mi ritrovai seduto accanto ad una sorta di donna più nera del fondo di una caldaia; il suo naso, schiacciato come una focaccia, la faceva regina di tutti i nasuti. Io avevo una grossa tabacchiera che serviva a tenermi sveglio durante il viaggio. Quella me la chiese più volte e non la smetteva mai di tirare. Non le sarebbe bastata neanche una libbra per narice! ti da un’allitterazione), abbiamo pensato che anche la locuzione del Marciano può rifarsi alla stessa frase fatta. 36 Il tabacco, portato di recente dalle Americhe, era già entrato nell’uso comune e veniva considerato anche come un ottimo medicinale contro la stanchezza (come in questo caso pe’ resbigliu alla carrara ) e come panacea per i più diversi malesseri. Il Basile nel cunto della terza giornata Lo viso conferma questa credenza facendo dire a Cecio fai buono a perdere no pasto, ca la dieta è più ottemo tabacco d’ogne male – fai bene a saltare un pasto perché il digiuno è medicinale più efficace del tabacco – Fin dalla seconda metà del Cinquecento si diffusero numerosi trattati, seri o giocosi, su questa pianta denominata anche “peto” o “nicotina”. V. anche n. 153. 37 Nella Tiorba a Taccone il Cortese inserisce anche un sonetto dal titolo A Checca che pigliava lo tabacco e anche lì si fa un apprezzamento, negli stessi termini, sulla spropositata capacità delle narici della vaiassa: Ma tu tanto haie ssa forgia squacquarata / che si pigliasse na tabaccaria / tutta la strodarrisse a na sorchiata – Ma tu hai queste narici tanto sformate/ che, se anche ti servissi di una tabaccheria, la esauriresti tutta con una sola tirata. 37 9. Eccu che vinne poe nu giuvinettu e de chitarra fice na sunata; ntìsemu che d’amuri iddu stia cuettu pe’ la carusa de lu cambarata; parlàanu secrèti, e ghieu lu nettu poe nde cacciài de quidda faeddata, Papa Nardu trattàa la faccendedda puru lu ‘cocchia cu la Barbaredda.38 10. Di poe che nui mangiammu a crepa panza eccu Morfeu de quiddi all’ecchi vinne, e conforme ca iddu ha pe usanza de papaveri soi l’anchìu le pinne;39 jeu de lu Febu che timìa la lanza,40 – Cce sennu è quistu, olà ce vi trabbinne, gridai, – All’erta, all’erta, ca ogni nturnu luce la luna, comu miezzu giurnu. 38 Barbaredda può essere il nome proprio di una ragazza oppure, come più verosimilmente qui, un appellativo generico per indicare una ragazza di cui non si conosce il nome. Analogamente in tutto il meridione si usa chiamare “Giorgio” uno di cui non si conosce il vero nome e che si vuole, in qualche modo, deridere. Quest’atteggiamento di superiorità dell’autore trova riscontro nel dispregiativo munacazza con cui introduce l’altro personaggio femminile e nel termine faccendedda che minimizza la vicenda; tanto minuta da non meritare neanche l’attribuzione di nomi propri ai suoi protagonisti. Infatti ci troviamo a casa di un amicu non meglio identificato in cui, ad un certo punto, giunge un altrettanto anonimo giu- 38 9. Ad un certo punto arrivò un giovanotto che si mise a strimpellare una chitarra. Era chiaro che stava cotto per la figlia del padrone di casa. Si scambiavano di nascosto cenni e occhiate, ma io afferrai subito il senso di quel dialogo. Papa Nardo prese in mano la faccenda per favorirlo in quel corteggiamento. 10. Dopo aver mangiato a crepa pancia, ecco che arrivò il Sonno ad annebbiare la vista a tutti e, come sa fare, ad appesantire le ali col suo potere. Allora io, pensando al caldo che avremmo avuto l’indomani gridai: – Cos’è questo sonno? Che vi succede? Sveglia, sveglia! che la luna splende da ogni parte e sembra mezzogiorno. vinettu. La mancanza di particolari nel racconto potrebbe anche ascriversi ai fumi del vino pesante (mieru de cute che ne deze ‘n frunte). 39 Le pinne possono essere tanto le ciglia (le pinne te l’ecchi), quanto le penne delle ali che, tarpandosi (per effetto dei papaveri), avrebbero immobilizzato la compagnia e impedito ad essa di “volare” verso altri luoghi. 40 Cfr. n. 22. Si sottolinea anche qui la necessità di evitare i raggi cocenti del sole viaggiando al fresco della notte. 39 11. – All’erta, all’erta lu Vanni gridàu, – Cicciu, Nardu, Ventura e Catarena. Mberu Santu Dunatu se pighiàu: e ci cantàa – la ntanena nena 41 e ci c’a muedu stisu42 secutàu: – Donna, ca st’ecchi toi me dannu pena, – Becòcula becòcula 43 cantàa lu Vanni, e quistu sempre reprecàa. 12. Scìa pe la site jeu già voccapiertu,44 lu Vanni, puperieddu, se brusciàva cu la lengua de fore, e miezzu muertu lu Nardu quasi l’anima spiràva: ma de l’Arabia parìa lu desièrtu lu luècu ca nesciùnu camenava. Chiamàu a nu puzzàru lu Passanti e je fice le ricchie de marcanti. 41 Il Basile e il Cortese fanno riferimenti continui ai canti, ai balli e ai giochi in voga nel loro tempo. I loro componimenti sono preziosi per la ricostruzione dei relativi repertori sui quali si è soffermato il ricercatore, antropologo e compositore Roberto De Simone. Rispetto ai suoi modelli napoletani il Marciano compie quest’operazione solo in pillole, ma si compiace, comunque, di riportare alcuni frammenti di canti popolari in voga. 42 Altro riferimento alla musica, agli strumenti musicali e alle tecniche esecutive, canore e strumentali. Sul canto a muedu stisu, alla distìsa, a para uce; su ‘ttaccare, secutare, girarla, ecc. cfr.: L. Lezzi, Le Cicale, canti salentini di tradizione orale, Kurumuny, 2007. 40 11. –Sveglia, sveglia! Si mise a gridare anche Vanni, – Ciccio, Nardo, Ventura e Catarena, Alzatevi! Prendemmo il cammino verso San Donato; Uno cantava – la ntanena nena e un altro gli tenne dietro “a modo steso”: – Donna, ca st’ecchi toi me dannu pena. Vanni attaccò – Becòcula becòcula e non la smise più con questo ritornello. 12. Io andavo già boccheggiando per la sete, il povero Vanni si sentiva ardere la gola e Nardo, allo stremo, quasi spirava. Ma quel posto sembrava il deserto d’Arabia, non si vedeva anima viva. Il mio amico Passante dette voce ad uno che lavorava a scavare un pozzo, ma quello fece finta di non sentire. 43 La parola ripetuta non ha un senso compiuto e va intesa come un’onomatopea che ripropone, con la voce, il suono di un crepitacolo. Nel canto salentino sono frequenti questi versi che hanno la funzione di accompagnare ritmicamente la voce altrui. 44 Con quest’unico aggettivo nel dialetto salentino si rende la perifrasi “con la bocca aperta”. Analogamente nella penultima strofa del terzo canto si troverà manuzzeccatu che riassume la locuzione italiana “mano nella mano”. Il costrutto rimanda a quello latino dell’ablativo assoluto. 41 13. Per tanta scurtesìa ch’ebbe musciata lu Cicciu ce sedìa a nu pesùlu si fici na solenne licenziata cu tre momme terribili de culu e de la vocca soa no45 difrescata fici vendetta lu culeddu sulu; poi ci ndrizzammu senza nuddu sgarru meru le curti di Lattanziu Carru.46 14. Era la notti, e lu steddatu velu chiaru scuprìa, e senza nubbi arcuna scettava rasci resprennenti, e scelu de perle quintadecima47 la luna. Cuntemprannu la scia utatu a ‘n celu e le stidde cuntàa ad una ad una settatu alla scaccuni, e all’antica decìa: – Ce luna! Diu la benedica. 45 Tutte le trascrizioni del manoscritto riferiscono na difrescata, ma comportano, a parere stesso dei traduttori, un senso poco chiaro. Il senso è invece lineare se si suppone, come si fa qui, no difrescata (rimasta secca, senza rinfresco). 46 Probabilmente il nome di una masseria, la cui architettura comporta necessariamente le curti – i recinti – per le bestie. Poco dopo, infatti, si fermeranno a riposare in una 42 13. Di fronte a tanta scortesia Ciccio, che intanto si era seduto su una pietra, rispose con un sonoro ringraziamento: tirò fuori dal culo tre sonori rimbombi. L’unica difesa per la sua bocca rimasta asciutta fu questa risposta pronunciata col culo. Poi, senza esitare, continuammo verso i recinti di Lattanzio Carro. 14. La notte mostrava il cielo stellato e senza nuvole, dalla luna piena sembravano cadere raggi lucenti e gocce di perle trasparenti come ghiaccio. Io la contemplavo con gli occhi al cielo e contavo le stelle ad una ad una. Comodo sulla mia sella, ripetevo all’antica: – Che luna! Dio la benedica. masseria abbandonata fatta di casi e curti dirupati. Per quanto abbiamo ricercato, nella zona non abbiamo individuato alcun toponimo che possa riferirsi a quest’indicazione. 47 Il dialetto salentino mantiene la denominazione latina “quinta decima die”, al quindicesimo giorno (dalla luna nuova). 43 15. No mutu ntanu de Santu Dunatu chiammu do jaticari:48 unu cantandu scia nserta ottàa a muedu disperatu,49 e l’autru cu la ucca scia sunandu.50 Ad unu c’era lu chiù calafatu lu Vanni addemandàu, quasi burlandu: – De dae a Calimberda quantu nc’isse? 51 – De lu nasu alla vucca 52 iddu le disse. 16. Restàu mutu confusu lu Passanti alla risposta de stu gra’ vigliaccu, e dissi: – M’ha chiarutu 53 lu furfanti pe la farina nce lassài lu saccu;54 jeu muvìi la petina, lu gnuranti, e iddu mprima mie me fice scaccu. Basta55 ch’era de Lecce stu ellanu, prontu de lingua e chiù prontu de manu. 48 Il Rohlfs riporta per il termine jaticaru, oggi scomparso, il significato di “ colui che trasporta con bestie da soma”. 49 Un altro modo musicale e canoro parallelo a quello a muedu stisu già incontrato. 50 Anche qui si fa riferimento alla modalità esecutiva di accompagnare un canto con suoni ritmici di vario tipo (soffi, pernacchi, gracidii, suoni vocalici o consonantici, ecc.) che imitano, con la bocca, un reale o ipotetico strumento musicale. 51 Il tono burlesco della domanda consiste nella storpiatura del nome della vicina località di Calimera. L'epentesi di quelle due consonanti finisce col dare subdolamente della merda (mberda) all'interlocutore. 44 15. Non molto lontano da San Donato ci imbattemmo in due altri viaggiatori; uno cantava certe ottave “a modo disperato” e l’altro lo accompagnava con versi della bocca. Vanni si rivolse, con l’aria da sfottò, a quello che si rivelò essere il più scaltro: – Quanto ci potrebbe essere da qui a Calimerda? E quello gli rispose – Attento a non sbatterci il muso! 16. Il mio amico Passante restò di stucco alla risposta pronta del malandrino, e disse: – Mi ha saputo rispondere il furfante; per tentare di rubare la farina ci ho rimesso anche il sacco; io, da fesso, ho fatto la prima mossa ma lui subito mi ha fatto scacco. L’avevo preso per un bifolco, ma quello era certo uno che veniva dalla città, pronto di lingua e, certo, ancor più di mano. 52 Frase fatta, a sua volta canzonatoria nel tono e nella prontezza con cui viene profferita, che lascia intendere di aver capito il tono offensivo della domanda e di saper rispondere per le rime. 53 Mi ha messo in luce, allo scoperto. 54 «Per tentare di rubare la farina, mi son dovuto ritirare precipitosamente abbandonando anche il sacco che avevo portato con me, perdendocelo». 55 Cfr. n. 32. 45 17. Intru na massaria ci n’anticaglia parìa de casi e curti56 dirupati, chiùsimu na mezz’ura intu la paglia l’ecchiùzzuli de sennu turmentati; ma de lu Cicciu57 li ai, ci sempre raglia, solliciti ne tinne e resbegliati finchè na campanedda de Zuddinu ntìsimu ci sunàa lu mattutinu. 18. Tandu de le fenesce levantine se nfacciàa de Titone la mugliere,58 tutta tinta de rose tamaschine, ce suntu de lu sole le bandere: iddu59 lavàa le rote alle marine puru cu fazza le solite currere senza cu lu vedimmu, chianu chianu, ce chiantammu allu friscu60 intu Martanu. 19. A Martanu chiaie nu sbirru61 nuratu62 quandu no nd’acchie de sta cundezione beddu pastu ci fice preparatu comu se fusse principe o barone. 56 Curti sono gli alti recinti di muri a secco che fanno parte del complesso della masseria. In questo senso abbiamo inteso, più sopra, Le curti di Lattanziu Carru. Di tale fattura sono le mura, ancora visibili, a Capriglia e a Li Fachechi, dove la compagnia si fermerà a riposare. 57 Il testo riporta pe nu ciucciu dae e lascia oscuro il soggetto del verbo principale ne tinne. Con la nostra proposta di correzione si giunge ad un’interpretazione chiara e consona all’ironia che l’autore fa di continuo sul comportamento dei suoi compagni. Analogamente, Nardo russerà nella notte a Capriglia “governando i suoi porci” e appesterà l’aria a Cutrofiano con la puzza dei suoi piedi sudati. 58 La moglie di Titone è Eos, l’aurora. 46 17. In una masseria che sembrava un’anticaglia di costruzioni e di recinti crollati, stesi sulla paglia, provammo a chiudere i nostri occhi tormentati dal sonno per una mezz’oretta. Ma per colpa dei soliti ragli che Ciccio fa quando dorme, ci toccò restare svegli fino a che non si sentì provenire da Zollino il suono della campana di mattutino. 18. Proprio allora, dalla parte di levante, si affacciava l’Aurora, moglie di Titone, ornata di quelle rose damaschine, che annunciano, con la loro luce, l’arrivo del Sole. Costui, al bordo del mare, lavava le ruote del suo carro per fare il solito percorso. Noi, prima ancora di vederlo nascere, piano piano, ci ritrovammo, senza soffrirne la calura, nel centro di Martano. 19. A Martano trovai un militare gentile come pochi; ci preparò un bel pasto con modi degni di un principe o di un barone. 59 “Lui” per antonomasia, in queste citazioni mitologiche è, naturalmente, il sole, Febo Apollo che lava le ruote del suo carro di fuoco sulle sponde del mare. 60 Cfr. n. 22. Prima che il sole scaldasse l’aria. Si viaggia preferibilmente all’aurora, al crepuscolo o di notte. 61 Senza pensare necessariamente ad uno sgherro o a un militare, lo possiamo intendere anche genericamente come “un pezzo d’uomo”. 62 Lo intendiamo affine al siciliano “uomo d’onore”, che conosce cioè le regole sociali e le sa applicare con discernimento. Anche Ulisse, nella penultima strofa della composizione, è chiamato amicu miu nuratu, ed è lui che compone la lite in corso, basandosi sul rispetto tributatogli da tutti i presenti. 47 Stu tiempu quistu foe beneficatu da mie e nd’aìa ubbrecazione. – Fa bene e te ne scerra, e tiene a mente lu male,63 sole dicere la gente. 20. Mangiàmmu ntra na chiesa addò troài unu ca me parìa ommu cevile, era marcanti, e jeu lu cummetài,64 vinne e mangiàu, [pocca],65 lu gentile; sta cummetata mia despiazze assai allu Passanti stìtecu e suttile, tantu ci sotta lengua curreatu disse: – Va ca cu mangia oze precatu? 66 21. Rungulandu scia poe pe quidda via comu atta ce mangia ficatale67 contru lu Cicciu ci pigliatu avìa cu stu marcante n’amicizia tale ci a spacu dubbiu cusutu nci scia descurrendu no sacciu o bene o male. Ma lu Vanni decìa: -Pe quiddi trueppi fa ce buei, Cicciu miu, ca no lu scueppi.68 63 Vale anche per i proverbi quanto detto nella n. 41 sul repertorio di canti. Cummetare (co-invitare) significa specificamente “invitare a mangiare”. Forse per la confluenza semantica anche della voce lat. Com-edere. 65 Nel testo, a questo punto, manca una parola di due sillabe. Di nostra iniziativa abbiamo arbitrariamente colmato tale lacuna con questo termine, un comune asseverativo. 66 Si tratta di un’interrogativa retorica che intende affermare ironicamente il contrario. L’intonazione con cui va accompagnata la domanda, tipica dell’area di Salice e inesistente in italiano, rende inequivocabile il senso ironico della frase. 67 Nel Cunto della seconda giornata Cagliuso, il Pentamerone del Basile parla di gatta 64 48 Ad oggi io gli ho largamente restituito il favore, tanto che me ne resta perfino obbligato. – Fai del bene e scordatene; il male che fai, invece, tienilo a mente, dice la gente. 20. Mangiammo in una chiesa dove trovai un tale che mi sembrò una brava persona; era un mercante, e io lo invitai. Si accomodò, infatti, e mangiò senza farsi problemi. Questo invito, però, dispiacque molto al mio amico Passante, di carattere tirchio e diffidente, tanto che, a bassa voce, contrariato, disse: Non è che si è fatto pregare poi tanto! 21. Continuò a borbottare allo stesso modo e sembrava una gatta alle prese con del fegato. Ce l’aveva con Ciccio che, intanto, aveva allacciato con questo mercante una tale amicizia da sembrarci cucito a spago doppio. Si limitavano a parlare del più e del meno ma Vanni continuava: – Guarda che con quelli troppo furbi, fai che vuoi, Ciccio mio, ma tu non la spunti! alle prese non col fegato, ma col polmone. La figura è la stessa: l’uno e l’altro cibo piacciono tanto all’animale che, ignorando tutto il resto, lo divora e lo difende emettendo mugolii e ruggiti (rungulandu). 68 Altro luogo oscuro. Qui si propone l’interpretazione di trueppi come un sostantivato plurale a partire dall’avverbio troppu, inteso come “quelli troppo capaci, più capaci di te”. Conseguentemente, a scueppi si attribuisce il valore di verbo attivo (fare scoppiare e, quindi, spuntarla). Si avverte l’assonanza con il diffuso proverbio Lu troppu stroppia, “il troppo storpia”, in cui, analogamente, l’avverbio risulta sostantivato, sia in dialetto che in italiano. 49 22. Ca megliu iddu de tie sape lluttari e ne passa lu Cicciu e Pizzumuzzu 69 e nanzi cu lu gabbi, ài tu ce fari; oh! Quantu, Cicciu miu cupu è lu puzzu; sai ce te dicu? Cu lu lassi stari, ch’è cane curzu 70 e tu si cane uzzu. Basta 71 sulu le dici ch’è marcanti, pe dicere ca iddu è nu furfanti. 23. Ma lu Cicciu decìa: -Tàciti Vanni ch’è nu retrattu de galanteria. – Te vegna nu càntaru 72 de malanni, tu ce n’ae vistu? Lu Vanni decìa; – Cicciu proìta 73 mia vi ca te nganni, ca è lu re de la pezzentaria, lu prucedere sou troppu me stuffa, nienze ole spende e ole mangia a uffa. 24. Passatu a quidda vanda Carpegnanu, eccu li beddi Lìmini a mirari stezimu tutti nui ci de luntanu parìanu sbuccaturi de lu mari; lu Ventura zeccatu a manu a manu cu lu cumpagnu pùsesi a cantari – Bedda delizia, oh se tu fusse mia, ca paura de tassa no facia.74 69 Pizzumuzzu può essere il nomignolo di un personaggio più o meno noto all’epoca della composizione, ma può anche essere un nome inventato per dire “chicchessia”. 70 Il cane corso (di razza corsa) ricorre numerose volte anche nell’opera del Basile come esempio di ferocia e di abilità. È stata una razza canina molto diffusa, fino a tempi recenti, in difesa delle masserie salentine. Qui è efficace la contrapposizione con il cane uzzu, cioè bolso, capace solo di ingozzarsi, che cela anche una velata offesa nei riguardi di Ciccio, interlocutore in disaccordo, soprannominato, per di più, mangione, cioè, appunto “bolso e ingordo”. 50 22. Che lui sa combattere meglio di te. E ne vuole di Ciccio e di chiunque altro! Hai tanto da imparare prima di potergli stare dietro! Sai che ti dico, Ciccio mio? Che il pozzo è profondo! Lascialo perdere, che c’è da averne paura quanto di un cane corso, mentre tu sei solo un cane grasso. Basta dire che è un mercante, e hai già detto che è un furfante. 23. Ma Ciccio rispondeva: – La vuoi finire, Vanni? Non vedi che è un modello di galanteria? E Vanni: – Ti venga un càntaro di malanni, ma che ne hai visto? Ciccio, caro mio, guarda che ti sbagli, quello è solo il re della pezzenteria; il suo fare non mi incanta: vuole solo mangiare a sbafo, e non spendere nulla. 24. Dopo aver superato Carpignano restammo tutti sorpresi dalla bellezza dei laghi Alimini che, da lontano, sembravano canali di mare; Ventura, preso per mano col compagno, si mise a cantare: – Bedda delizia, oh se tu fusse mia, ca paura de tassa no facia. 71 Cfr. n. 32. L’alterco si fa più colorito, ma non sfiora nemmeno lontanamente lo sfoggio di epiteti riportati a profusione sia dal Cortese che dal Basile nelle loro opere e ripresi da Roberto De Simone in alcuni passaggi della sua opera La gatta Cenerentola. 73 Cfr. n. 16. 74 Cfr. n. 41. 72 51 25. Avìamu fattu chiù de meglia sei e punta no parìa de la cetate, – Quandu reàmu? Alli compagni mei jeu dissi spintu de curiositate. Passate poe nzerte renuse vei e de quai, e de dai crutte sgarrate, senza cu me nde pozzu mai dunari quantu nd’acchiammu d’Otrantu intu lu mari. Cantu Secundu 1. Utrantu ncora, ca cèttade granne no ede, anzi ede idda piccinna, de le rannizze soe la gloria spanne ca ‘mbucca de la fama auta rentinna dell’Unièrsu a tutte quattru vanne. Ma càntala pe mie più dotta pinna,75 ed autra musa merita, e autri canti città ci madre foe de muti santi. 2. Quandu dicu Maumettu lu tirannu vinne da la Ulòna a quiddu vientu e purtàu a st’afritta tantu dannu, e allu populu sou straziu e turmentu, ce a na dia decollàu, se no me ngannu, de cittadine soe chiù d’ottocentu finu lu mari tandu s’arrussìu de sangue de li martiri de Diu. 75 Già con il Cortese, cioè fin dal suo affermarsi, la poesia dialettale del meridione d’Italia ama dichiararsi umile e inadeguata a trattare temi alti. Nell’introduzione alla Vaiasseide si legge un’espressione che ritroviamo sostanzialmente uguale qui e altrove 52 25. Avevamo percorso più di sei miglia e non si vedeva nemmeno l’ombra della città, – Quando arriviamo? Dissi ai miei compagni spinto dall’impazienza. Superati poi alcuni sentieri sabbiosi e, da entrambi i lati, i resti di antiche grotte, quasi senza rendermene conto, ci ritrovammo d’un colpo nel mare di Otranto. Canto Secondo 1. Otranto oggi non è una grande città, anzi è modesta; tuttavia fa ancora parlare della sua gloria e della sua grandezza, e si fa ancora onore in tutti e quattro gli angoli dell’Universo. Qui ci vorrebbe, per descriverla, una penna più dotta della mia perché merita più alte capacità, questa città madre di tanti santi. 2. Parlo di quando il crudele Maometto arrivò da Valona e portò tanto danno a questa città afflitta, con strazio e tormento della sua popolazione. Decapitò, in un giorno solo, se non mi sbaglio, più di ottocento abitanti. Perfino il mare allora diventò rosso del sangue di questi martiri di Dio. nel Viaggio: L’autezza de la materia è accossì granne che nce vorria autra chiricoccola che la mia. In realtà è un atteggiamento di falsa modestia, come si evince anche nel Marciano nei versi relativi alla n. 114. 53 3. Era na compassione e na pietate, le viddi ncatastati a due stepuni, e mani e piedi e capure tagliate, e bientri e ntrame e ficati e purmuni; viddi punte de frezze ntussecate intra l’ecchi ci tenìanu arcuni; tandu gridàe: – O crudi Maumettani, cori d’èmmeno no, cori de cani. 4. Viste già tutte le terliquie sante, ne scemmu cu lu Vanni intra lu puertu, de ntanu secutava lu mercante, e camenava comu fosse tertu; – Antecore 76 le77 disse lu Passante no bole spenda stu peducchiu muertu; si, vegna, si, vegna mangia e sciacqua, fazzu no troa, iemediu,78 manc’acqua. 5. Muti pisci diersi ‘n quantetate chiammu ‘llu puertu nui quidda matina, c’eranu tutte cose ndelecate, piscati frischi a quidda gra’ marina: grosse ope, sarde frische, àcure, cchiate, treglie, aurate, lutrine e pisce spina;79 ma tra l’autre na cergnia c’uddecàa, quista ccattae, percè cchiù quist’amaa. 76 77 78 Cfr. n. 30. Non “gli disse” ma “disse di lui” Cfr. n. 10. 54 3. Fui preso dalla compassione e dalla pietà quando vidi, accatastati in due grandi stipi, le mani, i piedi e le teste tagliate, e ventri e viscere e fegati e polmoni; vidi punte di frecce avvelenate conficcate negli occhi di alcuni. Allora esclamai: – Oh crudeli Maomettani, voi non avete cuore di uomini, ma di cani. 4. Dopo aver visitato le sante reliquie io e Vanni scendemmo giù al porto. Il mercante ci seguiva da lontano e camminava storto come uno zoppo per poterci spiare. – Senza dubbio disse il Passante vuole evitare di dover pagare lui, quel lurido pidocchio; provi pure a venire e a mangiare a sbafo! Parola mia, non gli faccio trovare manco acqua. 5. Al porto, quella mattina, c’era tanta varietà di pesce, tutta roba fresca e raffinata, appena pescata in quel grande mare: grosse boghe, sarde fresche, aguglie e occhiate, triglie, orate, lutrini e spigole. Ma, in mezzo, vidi una cernia che ancora si muoveva; comprai quella, perchè la preferivo. 79 Altra caratteristica del filone dialettale a cui appartiene la composizione è l’indugiare in lunghi elenchi dettagliati di oggetti e di concetti. Lo fa spessissimo il Basile nel suo Cunto e lo fa qui il Marciano, in verità contenendosi alquanto. 55 6. Viddi nu preete diersu80 a dae becinu, ma ‘n facci galantommu a mie paria. L’èmmeni a fronte jeu te le ndevinu ca me delettu de fesonomia.81 Nce portau a nu sou beddu sciardinu addò scialammu nui tutta na dia, e repusammu dae secundu l’usu e iddu se chiamàa Chinu Pelusu. 7. Nue dae sotto l’umbra de meranzedde nce stèzimu cuntenti e stindecchiati, e allu ndore delle lumenciedde nui ne sentimmu tutti ndecreati; no me ne scerru mae de tante bedde delizie de quidd’arveri beati; ieme82 Diu ca ci urria lu chiamu quiddu sciardinu de lu patri Adamu. 8. Iàbbole foe de quiddi Campi Lisi descritti de poeti menzugnari sti sciardini chiamati Paradisi; quae me lassàte stare amici cari; quae cu me fazzu l’anni, e quae li misi, 80 La parola diersu compare altre volte nel testo col significato di “diverso” (umòri dièrsi, muti pisci dièrsi, dièrsi lechi); in questo contesto, però, la frase assumerebbe, in tal modo, un senso poco chiaro, risultandone un prete inspiegabilmente “diverso da tutti”, “particolare”, “eccentrico” che non trova corrispondenza nel testo. Noi preferiano pensare la parola come avverbio di luogo, col significato di “verso”, e intimamente collegata con il seguito (diersu a dae becinu, “verso lì vicino”, “nei paraggi”). Il concetto locativo o temporale di “appresso” è reso altrove con mpiersu (mpiersu lu Scegnu, mpiersu depoe voze cu ndacqua), ma niente esclude che diersu sia una variante grafica risultante da una plausibile trasformazione fonetica che trova riscontro in altre oscillazioni di pronuncia (e quindi anche grafiche), comuni nel dialet- 56 6. Vidi, lì vicino, un prete che mi sembrò una persona a modo. Io le persone te le giudico alla prima occhiata perchè sono uno che se ne intende di fisionomia. Infatti ci condusse nel suo bel giardino, e lì restammo a gozzovigliare per tutto il giorno e a riposarci come si deve. Il nome di questo prete era Chino Peluso. 7. Rimanemmo lì, all’ombra del suo agrumeto, felici a rilassati e, avvolti in un soave profumo dei limoni, ci sentivamo come rinati. Non mi scorderò mai delle delizie di quegli alberi incantati! Quant’è vero Iddio, quel giardino, io lo chiamerei proprio col nome di paradiso terrestre. 8. Era ancora più bello di quei famosi Campi Elisi di cui parlano i poeti pagani, quel giardino chiamato Paradiso! – Io resterei per sempre qui, cari amici; la mia vita, i mesi e gli anni, li vorrei trascorrere proprio qui to. Si pensi all’oscillazione che può subire la frase dialettale corrispondente all’italiano “che sia”: cu bessa / cu gessa / cu dessa / cu vessa / cu essa.; o anche, nel testo, alle varie forme con cui oscillano (con uguale frequenza fra di loro) gli avverbi di luogo “là” e “qua”: addae / addà / addai / dae; quai / quae; o l’avverbio di tempo “poi”, poe / poi. 81 La fisiognomica era un argomento comune all’epoca dell’autore. Aveva trovato un suo speciale cultore nel letterato napoletano Giambattista Della Porta (1535-1616) e non è improbabile che le sue opere e la sua fama fossero giunte alle orecchie del nostro autore che non perde occasione per mostrarsi colto e informato. 82 Cfr. n. 10. 57 no alli salici83 mei arveri amari! Decia lu scucetatu camberata:84 – Oh! Vita assai felice, assai beata. 9. A quae la Musa mia propiu se perde a ste delizie se a cantare ncrinu; de quae t’allegra cu lu mantu verde Pumona, Teti85 addae cullu turchinu; cantu de griddi mae cquae se sperde addà bulla lu pisce, e lu derfinu, ogni malencunia l’ommo già sgumbra ci pe lu mare vae, ci sede all’umbra. 10. Finarmente partemmu e lu sio’ Chinu voze cu essa jeu remuneratu e le dezimu a testa no carrinu, de marange pe n’arveru mangiatu. Mberu a Bigne-Castrì fu lu caminu, essendu già lu Febu decrenatu,86 c’avìa87 jeu dae lu Raziu, ommu galanti capu massaru a Capriglia88 e suprastanti. 83 Allude al nome del suo paese Salice Salentino. Vanni, il camberata per antonomasia. 85 Pomona e Teti, divinità classiche della terra (verde) e del mare (turchinu), corrispondono retoricamente a “grilli” e “pesci”, ad “andar per mare” e “riposare all’ombra”. 86 Cfr. n. 22. Per gli spostamenti si aspetta sempre che il sole cali. 87 Cfr n. 31. 88 “Nella masseria di Capriglia”. Come si fa per gli agglomerati urbani più consistenti (paesi e città), per una masseria basta il nome senza altra indicazione; così si dirà “anda84 58 e non all’ombra dei miei salici amari! E il mio compagno spensierato mi faceva eco: – Questa si che è vita, felicità, e beatitudine! 9. Ma qui la mia poesia rischia di non fermarsi più se mi metto a lodare quelle delizie. Da una parte la chioma verde degli alberi, dall’altra il turchino del mare, in un continuo cantare di grilli, di pesci e di delfini che sguazzano. Chi va per mare e chi sta steso all’ombra tiene lontana ogni malinconia. 10. Alla fine partimmo e io insistetti perché il signor Chino fosse adeguatamente ricompensato; gli demmo un carlino a testa per avere spogliato uno dei sui alberi di arance. Quando il Sole si era già abbassato prendemmo la direzione verso Vignacastrisi; da quelle parti c’era il mio amico Orazio, capo massaro e sovrintendente nella tenuta di Capriglia. re a Capriglia”, “lavorare a Capriglia” “Da Capriglia a Lecce”, per dire “andare alla masseria di Capriglia” ecc. Espressioni che indicano la particolare considerazione dello spazio e delle sue suddivisioni al tempo dell’autore. Capriglia è nome di due masserie (Capriglia di sopra e Capriglia di sotto) i cui ruderi, tuttora esistenti, si trovano, a breve distanza l’uno dall’altro, proprio nell’itinerario del Viaggio, poco prima di Vignacastrisi, in una contrada rurale e sulla serra denominate con lo stesso nome. 59 11. Giunsi e, quandu me vidde stu massaru Se scettau comu lìpore ‘n carrera, e no be dicu quantu l’ibbe a caru la venuta la figlia e la mogliera; restàu nfumatu lu marcanti avaru vedendu pasti de tanta manera;89 scialammu e poe se fice na sunata e de bedde caruse na ballata.90 12. Rande lu gustu foe ce nde pegliammu, poe scemmu pe dormire a doe a doe,91 mala pena allu liettu nce curcammu, e lu Nardu cuglieu li puerci soe,92 allu rumore tutte tre ci auzammu ed, oh ce scena, iemediu,93 ce foe, dda viddi (oh mamma mia) nu carusieddu, c’avia lu musu comu a nu vitieddu.94 89 Si trattiene dall’elencarli (lo aveva già fatto nella str. 7 del canto primo) dimostrando un certo senso della misura. 90 Ad intervalli quasi regolari interviene sempre la citazione di un canto, di una musica o di un ballo. Questo lascia pensare, dato il carattere di intrattenimento di questo genere di composizioni, ad una possibile pausa nella narrazione e all’introduzione di intermezzi suonati, cantati e danzati, come era nell’uso delle “conversazioni” del tempo. Non è improbabile, in questo caso, che il ballo fosse una pizzica-pizzica, il ballo per antonomasia del territorio salentino, che si poteva effettuare al termine di un banchetto anche senza l’ausilio di strumenti musicali melodici o armonici (che qui di fatto non vengono citati), ma con il solo battito dei pugni sul tavolo o servendosi delle stoviglie (una coppia di cucchiai, per esempio, che danno un suono simile a quello delle nacchere). 60 11. Giunsi e, quando mi vide, si lanciò verso di noi come una lepre in corsa. E non vi dico quanto fece piacere a sua figlia e a sua moglie la nostra visita. Il mercante avaro restò di stucco quando vide a tavola l’abbondanza dei pasti. Mangiammo a sazietà e poi si fece un po’ di musica per far ballare le ragazze. 12. Quella serata fu davvero uno spasso! Poi andammo a dormire a due a due. Ci eravamo appena coricati quando Nardo attaccò a russare come un maiale. Al che ci alzammo tutti e tre e ci capitò di vedere una scena spaventosa: ci trovammo di fronte a un ragazzino che aveva l’aspetto di un vitello. 91 Bastano sempre due letti per ospitare i quattro viaggiatori; uno per l’autore e il suo camberata Vanni, l’altro per gli altri due. I due pedoni-scudieri non vengono mai presi in considerazione in questi casi; probabilmente si arrangiano nelle stalle accanto ai cavalli, come il viaggiatore aggiunto, il mercante. 92 Come il russare di Ciccio (nella strofa 17 del Canto II) è paragonato al verso dell’asino, così quello di Nardo è paragonato ad un grugnito di maiali. Nella nostra interpretazione di quest’espressione, finora lasciata oscura, pensiamo all’allusione alla frase fatta ‘ccoiere li puerci (radunare i maiali, e quindi provocarne il grugnito) riferita al russare. 93 Cfr. n. 10. 94 Anche l’evocazione di “mostri e meraviglie” è un luogo comune al genere letterario a cui si ascrive il Viaggio. 61 13. Me tterrìu quiddu mostru de natura ottava meraviglia de la terra, ci mo cresce e mo smanca de statura,95 secundu charche doglia iddu lu nferra. Ce brutta spaventusa creatura! Tra quanti l’uniersu ne rinserra, n’autra nce n’era, lu Vanni decìa, a quiddi tiempi de lu bate Stia.96 14. Oh! Se s’isse troatu stu carusu a tiempi antichi a quidda gran citate a do regnava la Giovanna97 all’usu delle puttane nobili nurate, quistu lu spassu sou lu chiù gustusu statu sarìa pe dicere verdate, tra cutri e fassi d’oru lu purtava e la notte e la dia se lu sciucava. 95 A crescere poteva essere tanto la sua dimensione (statura) quanto, in accordo con ciò che verrà detto nella strofa seguente, quella del suo organo sessuale. 96 Come dire “al tempo dei patriarchi”. Altra espressione simile del dialetto salentino è alli tiempi te lu bate cuccu che, con uguale significato, si riferisce, per deformazione, ai tempi del profeta biblico Abacuc. 97 Giovanna II d’Angiò-Durazzo (Napoli 1371-1425), regina di Napoli (ma anche di Gerusalemme, Sicilia, Ungheria, Dalmazia, Croazia, Rama, Serbia, Galizia, Lodomania, Cumania, Bulgaria e contessa di Provenza e del Piemonte), restò nella memoria popolare come “Giovannetta”, “Giovanna la dissoluta”, “Giovanna cacciatrice di uomini”, “Giovanna l’insaziabile”, “Giovanna dai cento amanti”, considerata capace di attirare nel suo letto ogni notte un militare del suo esercito per poi liberarsene crudelmente facendolo morire prima dell’alba. Questa leggenda (che avesse o meno una base di verità) si diffuse in tutto il regno di Napoli generando altre microleggende locali una delle quali interessa anche la città di Lecce. Qui è viva tuttora la voce che l’edificio denominato Torre del Parco fosse uno dei suoi numerosi nidi d’amore e che il fossato, i sotterranei e il grande giardino circostante erano i luoghi dei suoi delitti. La costruzione di questo monumento cittadino fu avviata nel 1419 dal diciottenne G. A. Orsini del Balzo che nel 1420 ottenne proprio 62 13. Mi terrorizzò quel mostro di natura, ottava meraviglia della terra. Sembravi allungarsi e accorciarsi a seconda che lo pigliassero strani dolori. Orribile e spaventosa creatura! Tra quante ne contiene l’universo, un’altra sola ce n’era, diceva Vanni, ai tempi dell’abate Stia. 14. Oh! se quel ragazzo si fosse trovato nei tempi antichi, in quella gran città dove governava la regina Giovanna, quando le puttane nobili e onorate non facevano specie! Questo mostro sarebbe stato certamente il suo giocattolo preferito; lo avrebbe tenuto tra coperte e fasce d’oro, e, giorno e notte, ne avrebbe fatto il suo divertimento. dalla regina Giovanna II il riconoscimento dei privilegi sul Principato di Taranto; ma non si hanno dati per affermare storicamente la sua frequentazione da parte della sovrana. Altri “bagni della regina Giovanna” sono considerati, fra i tanti sparsi in tutto il regno dalla Campania alla Sicilia, Castelcapuano e il Palazzo di Poggioreale a Napoli, la torre di Amalfi, la torre fra Resina e Portici e, appunto, i “bagni” di Sorrento. Di recente alcuni critici hanno puntualizzato che la fama di ape regina, pur basandosi su una certa spregiudicatezza dei costumi di Giovanna II, sia stata esageratamente ingrandita da parte dei suoi detrattori che intendevano così renderle ancor più arduo il compito di regnante in un periodo già particolarmente turbolento della storia di Napoli. È accertato comunque che la sovrana, costretta a destreggiarsi fra i mille ostacoli di un difficilissimo governo, ricorse all’appoggio politico, militare e umano di diverse figure maschili. Una di queste fu il capitano di ventura Bartolomeo Colleoni, che ostentava fin nelle sue insegne la sua abnorme dotazione di tre testicoli, con il quale ella condivise realmente anche vicende domestiche e sentimentali. La regina Giovanna II è spesso associata, in questa fama di dissoluta, all’altra Giovanna, anch’essa regina di Napoli, Giovanna I d’Angiò. Anche da qui, forse, il plurale usato nel testo all’usu delle puttane nobili nurate. 63 15. Malapena sunatu matutinu98 pigliammu nui la via mberu Lessanu, diersi lechi acchiammu allu camminu, diersi ne parìanu de luntanu; passammu pe Dupressa e pe Tutinu, e lassammu Tricasi a manca manu, poi giunsimu alla citate e riverenzia jeu fici di Ragona99 all’Eccellenzia. 16. Quandu me viddi lu duca ngarbatu cu mi restu jeu ‘mpranzu me nferìa. Ma foie cu ceremonie ringraziatu puru no lassu jeu la compagnia; me disse: – Comu staie, Mommu miu amatu? – Allu serviziu tou jeu le decìa. Da poi muti descursi me sunau lu miezzu giurnu ed jeu li dissi schiau.100 17. Quannu jeu scii, ogne cosa preparata trovae de lu mercante a proprie spese. Le fo allu Vanne la vucca uddata peccè no spise mancu nu tornese. Disse lu Cicciu: – Vi lu cambarata, Vanne, ce dici mo, iddu è scurtese? Iddu de curtesia mo nu t’ha bintu? Non ce respuse ca restau cubintu. 98 Questa volta si parte alle prime ore del mattino, ma solo perchè si tratta di una tappa breve che si concluderà, infatti, molto prima di mezzogiorno. 99 Alessano è stato feudo della famiglia Ayerbo d’Aragona fino al 1806. Al periodo del Viaggio dovrebbe corrispondere il ducato di Filiberto d’Aragona. 64 15. Era appena suonato mattutino quando ci incamminammo verso Alessano. Strada facendo, vedemmo tanti luoghi, e tanti altri ne scorgevamo da lontano. Attraversammo Depressa e Tutino, e ci lasciammo, a sinistra, Tricase. Finalmente arrivammo alla città e lì andai a fare i miei omaggi al Duca di Aragona. 16. Appena mi vide, cominciò a insistere cortesemente per obbligarmi a restare a pranzo. Ma io rifiutai con altrettanta cortesia per non dovermi separare dal resto della compagnia. Mi chiese: – Come stai, Mommo mio caro? – Sempre disposto al vostro servizio, gli risposi. Tra una parola e l’altra si fece mezzogiorno suonato, per cui io lo riverii e mi congedai da lui. 17. Tornato, trovai che il mercante aveva preparato da mangiare per tutti a spese sue. Ciò bastò a chiudere la bocca a Vanni, dal momento che non gli toccò sborsare neanche un tornese. Allora Ciccio disse: – Lo vedi Vanni? Lo chiami ancora scortese? Non ti sembra Che lui è più cortese anche di te? Vanni incassò e non gli rispose. 100 “Ciao”, la formula di saluto più usuale della lingua italiana, deriva dal congedo riverente schiavo (vostro) che solo verso la fine del ‘700 assunse la forma attuale, passando attraverso il veneziano schiao (pronunciato s-ciao). 65 18. Diu cu te fazza ‘n taula mangiare d’avaru e bire mieru de pezzente, se mai n’avaru òlite mitare, llenta lu lazzu e mulate le diente; tutte veande prezïuse e care, nce fora dae e no mancàuce niente,101 e ntramìse lu mieru102 e no me mentu, lu mieru de la tàola cumpremientu. 19. Cacciava le scamodde Papa Nardu percè ca no lu vippe vattesciàtu,103 sculava pe lu caudu comu a lardu e parìa Cicerone allu parlatu; a fare jerzi jeu no era tardu da quiddu bedd’umore104 rallegratu. Ci grecu e ci spagnulu faeddava, ci lientu ‘malapena pronunziava.105 20. Cussì partemmu e lassammu lu sierru de Monte-Sardu a do lu moru miu tra quidde petre nce lassàu nu fierru, e de cavaddu lu Nardu cadìu; se no ca lu sarvàu, se jeu no scerru, lu Catarena, se ccedìa, pardiu! Mpiersu depoe voze cu ndacqua lu mieru e se vevìu nu catu d’acqua. 101 Cfr. n. 88. Cfr. n. 23. 103 Non battezzato, cioè non miscelato con acqua, puro e quindi con maggiore effetto inebriante. 102 66 18. Augurati di poter mangiare a tavola con un avaro e di bere il vino offerto da un pezzente. Se mai un avaro ti volesse invitare preparati ad allentare la cinghia e a limarti i denti. C’erano a tavola tutte cose ricercate e costose, e non fece mancare niente, dal momento che ci aggiunse anche il vino, che io chiamo a ragione complemento della tavola. 19. Questo vino fece venire gli occhi gonfi a Papa Nardo, perché se lo bevve senza allungarlo con l’acqua. Si mise a sudare come un maiale e fu preso da una tale parlantina da sembrare Cicerone. Da parte mia, ispirato da quel divino umore, non la smettevo di comporre versi. Chi si mise a parlare greco e chi spagnolo, e chi, invece, non riusciva neanche a pronunciare bene le parole. 20. In tali miserande condizioni ci incamminammo e abbandonammo la serra di Montesardo dove il mio Moro, tra tutte quelle pietre, ci lasciò un ferro; Nardo cadde addirittura da cavallo; e si sarebbe ammazzato, per Dio, se uno, credo Catarena, non lo avesse aiutato! A quel punto si decise ad annacquare il vino e lo fece tracannandosi un catino di acqua. 104 Cfr. n. 23. Sono gli effetti del vino a produrre in tutti i più vari vaneggiamenti e addirittura a far cadere da cavallo uno di loro. 105 67 21. Arrevammu allu monte106 fenarmente, ma cce! La chiesa tantu china stava ci largu jeu me fice tra la gente cu le botte de vùture ce dava. Lu camberata ncora scia cadente107, e de trasìre no se rresecava. Depoe cessata quidda chioma tanta Trasìu e bisetàu la Madre Santa. 22. ‘Scemmu da dintu la chiesia e nu vascieddu viddi, che ognunu tenìa mente fittu,108 parìa de mari natanti castieddu, poe se fermàu mbera mie derittu; de iddu se parlàa a gne ruscieddu,109 lu populu nde stìa tremante, affrittu, ch’era ognunu decìa de maumettani, ci sempre ‘n caccia vannu alli cristiani. 23. Ntantu nce puse tutt’a resbigliu, e chiù d’unu vurìa cu no se curca, e, veru, alluntanatu cchiù de migliu mberu Lessanu ci derittu nzurca.110 – Così a Maria fedàti e allu Figliu ci ne po’ liberare de la furca? Jeu li decìa, – Ce male, ce ruina se time a casa de sta gran Regina? 106 Il promontorio Japigio su cui sorgeva e sorge tuttora il santuario di S. Maria de Finibusterrae a Leuca. 107 Cfr. n. 104. Sotto l’effetto del vino; non era bastato innaffiarlo con un bacile di acqua. 108 Tenire mente significa “guardare”; in alcune aree del Salento diventa una sola parola: trimentere, trimentire. Se la locuzione era seguita, come in questo caso, dall’avverbio fittu acquisiva il senso generale di “fissare”; nel nord del Salento esiste anche il 68 21. Finalmente arrivammo al monte di Leuca, ma la chiesa era talmente affollata che mi dovetti fare largo tra la gente a colpi di gomiti. L’amico Nardo barcollava ancora e perciò non si arrischiò nemmeno a entrare. Solo quando la folla si diradò si decise: entrò e visitò la Madre Santa. 22. Quando uscimmo dalla chiesa vidi che tutti fissavano un vascello all’orizzonte. sembrava un castello galleggiante e, avvicinandosi, si fermò proprio di fronte a me. Quello era l’argomento di tutti i discorsi. Tutti ne erano atterriti e preoccupati perché, dicevano, si trattava certo di una nave maomettana, venuta a caccia di cristiani. 23. Il fatto tenne tutti in allarme e nessuno se la sentiva di andare a dormire. C’era chi già prendeva la via della fuga sulla strada per Alessano. – È così che dimostrate la vostra fede in Maria e in suo Figlio che ci può liberare anche dalla forca? Gridavo a tutti, – Quale male e quale rovina si può temere stando qui, nella casa di questa gran Regina? verbo derivato fittare / affittare che riassume l’intera locuzione tenire mente fittu. 109 Il Rohlfs, nel suo Vocabolario, riporta questa frase come un apax legòmenon e non se ne dà conto; a noi pare che la parola si debba intendere come diminutivo di rusciu – brusìo. La frase ha così il senso di “ad ogni bisbiglio”. 110 Altro luogo tradizionalmente ritenuto oscuro. ‘Nzurca è, in realtà, un verbo e significa, alla lettera, “insolca”, cioè “si infila”, “si dirige”. 69 24. Jeu pe mie no me mou, e de nemici, sia tutta la Turchia, nu aggiu mprenzione. Arma peghiàru, e stetteru felici allu monte, do è tanta deozione. Mangiai poe cu tutte quidd’amici de neu a spise de lu mercantone: alla vergine Santa cunfedatu, cu Morfeu me mbrazzai miezzu mbudatu.111 Cantu Tierzu 1. Descetàeme poe jeu miezzu spantutu alle gridi ce decìanu: – A missa! A missa! percè lu sennu mia nn’era furnutu; intu la gente ncatastata e spissa alla chiesia trasìj mienzu sturdutu, addò jeu nce troae chiù de na rissa;112 cu arìu all’altare faticai oh quantu pe fare a Diu lu sagrifiziu santu. 2. Cu llu faore de lu cappeddanu, lu Peppu, amicu miu, lu Fersuredda, la missa celebrai jeu nanzimanu, fuerse d’ogni autra chiù deota e bedda, 111 112 70 “Mutato d’abito”; in dialetto salentino il termine ha il senso di “vestito di tutto punto”. I festeggiamenti di Leuca dovevano colpire soprattutto per il gran numero di parte- 24. Da parte mia io non mi muovo, e non temo alcun nemico, dovesse venire qui anche tutta la Turchia. Si fecero coraggio e, fiduciosi, non si mossero da quel monte su cui regna tanta devozione. Poi, con tutta la compagnia, mangiai di nuovo a spese del nostro prodigo mercante. Confidando nella Vergine Santa mi abbandonai al sonno e mi addormentai tutto vestito. Canto Terzo 1. Fui svegliato prima di essermi completamente Riposato, dalle grida generali Che dicevano: – A messa! A messa!. Mi feci largo in mezzo a una folla impenetrabile e mi ritrovai in chiesa mezzo stordito, sorpreso di trovarvi persino gente che litigava. Quanta fatica mi toccò fare prima di giungere all’altare per fare il santo sacrificio a Dio. 2. Col favore del cappellano Peppo detto Fersuredda, che era mio amico, riuscii facilmente a celebrare quella messa, che forse fu la più devota e bella della mia vita; cipanti in una società salentina che poteva considerarsi quasi una faccia-a-faccia. 71 la carta113 cuntemprai pe lu crestianu scisa de subbra celu a sta cappedda; – Ci trase quae, dice lu scrittu amatu, – liberu resterà d’ogne peccatu. 3. Oh! Carta santa de lu celu menata, deritta a nui de lu Segnore nesciu, la musa mia c’è tanta strascenata114 ce pote fare a beneficiu esciu? Autra musa, autra pinna numenata pe tie nce uleria e autru mesciu, e puru a laude toa sarisse stracca la cetra te Marinu e de Petracca. 4. Tie monte de Leuche nfortunatu, laudare te uleria de pizzu ‘n fundu e cu nu sia chiù Pindu numenatu115 ma tie ddo nce vae tuttu lu mundu; oh monte come Orebbu116 assai beatu, monte e mare de grazie autu e profundu,117 quiddu monte de Diu chiamatu sia monte tu de la madre soa, Maria. 113 Nel 342 Papa Giulio I consacrò alla Beata Vergine Maria la chiesa del promontorio di Leuca. La tradizione vuole che, al momento dell’elevazione della messa da lui celebrata sul posto, un cartiglio scendesse dal cielo confermando la natura divina della sua concessione di indulgenza plenaria ai fedeli in visita nel primo giorno di agosto. La notizia è riportata nell’opera del padre cappuccino di Casarano Luigi Tasselli, Antichità di Leuca e del venerando tempio di Santa Maria di Leuca detto volgarmente de Finibus Terrae, delle preminenze di così riverito pellegrinaggio e delle sacre indulgenze che vi si godono, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1693, quindi contestualmente al periodo in cui si situa il Viaggio. Girolamo Marciano (1571-1628), nonno dell’autore, nel suo Descrizione, origini e successi della provincia di Terra d’Otranto, cita anche lui il primo di agosto come data di massimo afflusso dei pellegrini provenienti da tutto il mondo cristiano e parla di circa 40.000 presenze. Numero tanto consistente da giustificare lo spaesamento dei nostri visi- 72 poi mi fermai a meditare sul cartiglio sceso dal cielo su questa cappella per la salvezza dei cristiani; – Chi entra qui, recita lo scritto sacro, resterà per sempre libero da ogni peccato. 3. Oh carta santa, inviata dal cielo proprio per noi da Nostro Signore, la mia musa, così modesta, cosa mai può fare per glorificarti? Altra musa e altre capacità poetiche ci vorrebbero per cantare te, e altro maestro, tanto che, per farlo degnamente, non basterebbero né le capacità del Marino, né quelle del Petrarca. 4. Oh, monte di Leuca fortunato, io vorrei cantarti in tutta la tua sublimità. Che nessuno si permetta di celebrare il Pindo ma solo te, monte a cui accorre tutto il mondo; tu sei sacro quanto lo è il monte su cui si è palesato Dio, monte e mare di alta e profonda grazia. Questo monte di Dio porta giustamente il nome di sua madre, Maria. tatori abituati a realtà urbane molto più contenute e limitate ai soli abitanti usuali. 114 Cfr. n. 75. 115 La celebrazione del monte nostrano di Leuca, contrapposto al classico Pindo, caro ai poeti pagani, è metafora anche della tematica minore che, in realtà, non è da considerarsi inferiore rispetto a quella aulica in lingua; lo stile dialettale non ha niente da invidiare a quello del Marino o del Petrarca appena nominati. 116 Oreb; in molti passi della Bibbia è così denominato il monte ove Mosè ebbe vari incontri col Signore e promulgò il Decalogo. È controverso se sia da identificare col Sinai. Allo stesso monte si diresse Elia fuggendo l’ira di Jazabel e vi ebbe un famoso messaggio dal Signore (III Reg., XIX, 8). 117 Profondo di verità come è profondo il mare che lo circonda. 73 5. Da poe ce celebrammu tutti trede,118 ringraziandu la Vergine beata, nui nde partimmu e glieu tre miglia a pede119 vozi cu bau pe quidda brutta strata; tutt’autra forza avia, ci mo no c’ede a st’etade cadente e assennata, e ‘nfine caarcae, ca lu suverchiu te rompe la pegnata e lu cuperchiu.120 6. No ancora Pirou, Eou e Flegetonte121 Febbu allu carru a sciungere tardava; e l’alba dellu lucidu orizonte cu le trezze de rose no spuntava. Dalla marina e dallu sacru monte aura beata mberu nui spirava, frusciàa lu Moru miu senza na ntuppa, comu vascieddu c’ha lu vientu mpuppa. 7. Si fici quidda dia caminu mutu e n’auta culazione se pigliau sotto n’umbra de n’arveru mapputu de pane e casu e de nu mieru brau.122 – A Cutrufianu poi megliu me stutu disse lu camberata, e ncravaccau. Arrivammu la sira tutti pari a quiddu lecu delli pignatari.123 118 I compagni sono quattro, tre dei quali, evidentemente, sacerdoti. Percorrere tre miglia a piedi per sentieri pietrosi e sconnessi (sullo stesso tratto il cavallo dell’autore ce lassau nu fierru) rappresenta un atto di penitenza, uno degli aspetti fondamentali del pellegrinaggio che fin qui è stato, in verità, un viaggio di piacere. 120 Il proverbio esiste ancora, nell’identica forma e nella variante lu troppu stroppia (lett. “il troppo storpia”). Compare anche in Basile, nel racconto Lo viso, della terza giornata del Pentamerone: lo sopierchio rompe lo copierchio 119 74 5. Dopo che tutti e tre celebrammo messa, ringraziammo la Vergine Beata e prendemmo la via del ritorno. Io, in aggiunta, volli percorrere anche tre miglia a piedi per quella via sconnessa. Certo allora avevo altra forza, quella che oggi, a quest’età cadente e assennata, non ho più. Infine però montai a cavallo perché si sa, se si esagera, si finisce per rompere pentola e coperchio. 6. I cavalli che trascinano nel cielo il carro del Sole aspettavano ancora di essere aggiogati e l’alba, con le sue trecce di rose, non era ancora apparsa sul limpido orizzonte. Dalla marina e dal sacro monte arrivava un vento dolce, per cui sembrava che il mio Moro procedesse come un vascello che ha il vento in poppa. 7. Quel giorno facemmo molta strada; ci fermammo solo, sotto la chioma ombrosa di un albero, per consumare uno spuntino con un po’ di pane, di formaggio e con un vino sincero – quando saremo a Cutrofiano soddisferò meglio il mio appetito! Disse il mio compagno, e rimontò subito in sella. Era sera quando riuscimmo ad arrivare in quel paese che chiamano “dei pignatari”. 121 Sono i nomi dei cavalli del mitologico carro di Febo-sole. Cfr. n. 23. Qui il vino è detto “bravo”, aggettivo tuttora in uso per la bevanda quando si presenta corposa ed efficace. 123 Gli abitanti di quasi ogni paesino, nel Salento, hanno un soprannome; quelli di Cutrofiano sono detti ancora oggi così, per la loro attività artigianale di lavoratori delle terrecotte (pignate). 122 75 8. Propriu firmammu nui addai li passi quandu ‘n palazzu taola se mettia de piatti e de trumbuni124 alli fracassi. Oh che soavi e nobili armonia! La segnura nce coze stanche e lassi cu la solita sua galanteria125 quidda ce de costumi è n’angeledda bedda de facce e chiù de core bedda. 9. Meriterebbe di essere regina; d’altronde è moglie a don Giovanni, a colui che vanta l’antica nobiltà del casato dei Filomarino. Qui ci vorrebbero altre capacità! Mente mia, i tuoi sforzi sono inutili! Abbandona l’impresa e lascia che altri cantino questa signora come si deve. 10. De quidda corti poe quasi regale jeu remasi de spantu ad ogni fiziu, ca servitù avia tanta e tale ci de re saria bona allu serviziu; dicere non se pò quistu no bale, gente bona, galante e senza viziu. Lu palazzu è depintu comu a chiesia, ma lu guarnisce chiù Donna Teresia. 124 Non strumenti musicali a fiato ma recipienti di terracotta (siamo nel paese de li pignatari) adatti a contenere vino. La voce trimòni, con le sue varianti trimmoni, trummone, non è attestata dal Rohlfs per l’area di Lecce, ma solo per quelle di Brindisi e di Taranto; doveva perciò essere ben nota nell’area di Oria-Manduria-Salice, frequentata dall’autore. 125 Inizia qui una serie di elogi per la nobiltà degli ospiti. Non basteranno a descriver- 76 8. Giungemmo proprio nel momento in cui a palazzo veniva servita la cena, con gran fracasso di piatti e di brocche. Che musica per le nostre orecchie! La padrona di casa ci accolse stanchi morti con la galanteria di cui solo lei è capace, lei che è un angelo di buone maniere, bella d’aspetto e più ancora di sentimenti. 9. Mereteria d’essere regina, basta ch’è mugliere a don Giovanne, ci de la stirpe soa Filomarina vanta la nobertate de tant’anne. Autra musa126 nce vole, ed autra vina, ce pienze mente mia, vi ca te nganne; lassa sta mprisa e fa che l’autre soru cantanu sta segnura a cedre d’oru. 10. Rimasi di stucco, tanto tutto era perfetto in quella corte che si potrebbe dire regale; la servitù era così numerosa e così compita da essere veramente adatta al servizio di un re. Non si potrebbe trovare niente da ridire su quella gente buona, cortese e senza eccessi. Il palazzo è affrescato come fosse una chiesa ma il suo fregio più prezioso è lei: donna Teresa. la nemmeno le due intere ottave successive. È molto di più di un ringraziamento per l’accoglienza ricevuta; probabilmente doveva correre un filo di reciproci interessi fra i Filomarino di Cutrofiano e il Mecenate dell’autore don Michele Imperiale. 126 Cfr. n. 75. 77 11. Intu na stanzia frisca e de respettu, ficemu nui na nobile mangiata, cu lu Vanne ebbi jeu nu bellu liettu e n’autru lu Cicciu cu lu camberata127; quandu ntìsemu d’animale criettu128 nu fiezzu ci la stanzia avia mburbata. Scia ruddandu lu Vanne, e no bedia da ddò tantu fetore provenia. 12. Va sacci ca lu pede muddecutu de lu Nardu è c’avia sta malagna; tandu gredai jeu miezzu sturdutu e allu nasu mettia ddore de Spagna.129 Oh bruttu all’ecchi mei pede chiantutu,130 aura spira de tie ca mi stampagna! Così me durmescii po ca s’era imbreacata de fiezzu sta chiumera. 13. Alla sanza de corte la matina nde partemmu durmendu li segnuri. Giunti a San Pietru della Galatina, succìsera fra nui varii rumuri percè lu Vanni no bulia cu ncrina pe li bestiali soi soliti umuri, cu sciamu pe Nardò nui pe la strata alla gra’ festa de la Ncurunata. 127 Cfr. n. 90. “Una puzza di animale morto”. Un altro dei fatti eccezionali e curiosi che farciscono il racconto principale suscitando ora meraviglia, ora ilarità. 129 Come oggi abbiamo l’acqua di Colonia, così allora era diffusa un’“acqua di Spagna” 128 78 11. In una stanza fresca e riservata si tenne un nobile convito; poi ebbi un bel letto da dividere con Vanni e un altro toccò a Ciccio e al suo compagno. Ad un tratto però si sentì una puzza, come di animale morto, che ammorbò completamente la stanza. Vanni si mise a cercare dappertutto, ma non riuscì a capire da dove provenisse tanta pestilenza. 12. E chi poteva pensarlo che erano i piedi fradici di Nardo a diffondere quella malagna! Allora, sebbene stanco, mi misi a gridare, e mi difesi come potevo, spruzzandomi addosso acqua di Spagna. Maledetto piedaccio! Ne veniva fuori un fetore che avrebbe potuto anche lasciarmi secco! Non so come feci ma, alla fine, riuscii anche ad addormentarmi in quell’aria pregna di pestilenza. 13. Come si usa fare a corte, l’indomani partimmo presto, lasciando i padroni di casa ancora a letto. Una volta giunti a San Pietro di Galatina, nacque qualche dissenso fra noi perchè Vanni non voleva accondiscendere, per il suo caratteraccio, ad andare, tutti insieme, a Nardò, dove c’era la grande festa dell’Incoronata. da cospargere per igiene o, come in questo caso, per difendersi da odori indesiderati. 130 Marti nota: “Speculare deformato, grottesco, del tassiano: Oh belle agli occhi miei tende latine (Ger. Lib., VI, 104, 2)”. 79 14. Capitulu131 se fice mentretantu, e cusì lu Decanu cumenzau: Ulia cu sciamu jeu, ma poi me spantu, percè la ursa mia me lecenziau; ma cunfermai jeu lu penzieri santu e lu Nardu e lu Cicciu secutau. Restau lu Vanne e a niente chiù se puse: vinse la magior parte e se concruse. 15. Sce bedemmu la festa, addò mmerai cu mpeddizza132 e cu ntorcia ncavarcatu gni preete, cosa ci n’ia vistu mai, dicu la eretà, de ce so natu. Stravaganti è lu fattu, e lu nutai intru stu libru, ca vulia nutatu, lu spassu, li sbianduri e li caaddi e di sopra li preti comu taddi. 16. Vistu c’èbbimu poi tutti li fechi, disse lu camberata: – Sciamu a stari 131 Il Capitolo è un convegno di alti prelati in cui sono i decani ad avere voce in capitolo. Qui è inteso ironicamente come per dire “la discussione si stava facendo interminabile”. 80 14. Cominciò una discussione che andava per le lunghe, quando il Decano si mise a dire: – Io vorrei andarci; se mi sto tirando indietro è solo perchè le mie finanze mi hanno abbandonato. Io però ci tenevo molto a quella santa missione e Nardo e Ciccio mi appoggiarono. Siccome Vanni era rimasto solo ad opporsi, non se ne parlò più: vinse la maggioranza e il discorso si chiuse. 15. Andammo alla festa, e restai di stucco nel vedere tutti i sacerdoti a cavallo, ornati di pelliccia e, ciascuno, con una torcia in mano. In verità non avevo mai visto, da che ero nato, una cosa simile. Era tanto eccezionale che dovevo riferirla, come ho fatto, in questo libro: lo splendore della festa, delle luci, dei cavalli e, di sopra, i sacerdoti, dritti come steli. 16. Dopo aver visto anche i fuochi d’artificio Vanni disse: – Adesso potremmo andare a 132 I sacerdoti vestiti riccamente colpiscono perché solo le alte gerarchie ecclesiastiche vestivano, normalmente, in modo fastoso. Il sacerdote comune indossava correntemente una veste dimessa, magari lisa, sporca e rattoppata. 81 addò aìmu 133 lu Lissi e lu Fachechi.134 N’aìsse mai pegliatu sti carrari, percè jeu, rispettatu a tutti lechi tra cumprimienti e amicizie cari, patìi nu scontru poi tantu bruttu, che quandu lu mentùu me cacu tuttu. 17. Cu d’unu munacone135 me ncontrai c’era de la superbia padre abbate; de quiddi amici jeu lu dumandai, tuttu creanza e tuttu umeletate; na vucca iddu m’apriu (culu de crai), ci ogne monacu curze alle gredate; tandu jeu dissi: – Oh novetate strana, cu bascia 136 la superbia intu sta lana! 133 Cfr. n. 31. Lu Lissi e lu Fachechi sono stati finora intesi come due nomi, cognomi o soprannomi che indicano due conoscenti presso cui andare a riposare (sciamu a stari). Siccome però esiste tuttora a qualche chilometro da Nardò, proprio sulla strada per Leverano-VeglieSalice (cioè lungo l’itinerario che la compagnia doveva necessariamente fare per tornare a casa), una masseria denominata Li Fachechi, propendiamo per la lettura “addò aìmu lu Lissi, a li Fachechi”, “dove c’è il nostro amico Ulisse, alla masseria Li Fachechi”; frase del tutto analoga a “Lu Raziu a Capriglia” del canto secondo. Questa interpretazione trova conferma nel fatto che lu Lissi, amicu miu ‘nuratu verrà nominato, di qui a poco, da solo e non si parlerà più dell’altro ipotetico compagno il cui nome sarebbe Fachechi. In questa masseria potevano trovarsi, ospiti in occasione della festa, un certo numero di monaci fra cui quello bisbetico con il quale il Nostro verrà a litigare. Le masserie erano liberali con i monaci che prestavano presso di esse servizi liturgici di vario tipo (confessioni, comunioni, battesimi, ecc.) o anche celebrazioni di messe laddove c’era una cappella. A pochissima distanza dalla masseria Li Fachechi ce n’è un’altra dalle dimensioni imponenti (masseria Colucci) dotata appunto di una cappella dedicata a san Giorgio, sul cui frontone compare la data 1682 che rende conto, con tutta evidenza, di un restauro della costruzione messo in atto in tale anno. 134 82 trovare il nostro amico Ulisse a Li Fachechi. Ma non avrei mai dovuto prendere quella strada Perché lì io, rispettato dappertutto e circondato sempre di disponibilità e di amicizia, dovetti sopportare uno scontro così amaro che, anche solo a nominarlo, mi viene la diarrea. 17. Mi imbattei in un monaco tanto altezzoso che sembrava padre e abate della superbia; gli avevo chiesto solo, con le maniere e con l’umiltà che mi sono solite, se sapeva qualcosa di Ulisse; quello mi aprì una tale bocca (che si sarebbe mostrata essere una latrina) da fare accorrere tutti gli altri monaci. Allora io sbottai: – Ma che gli prende! Che moderi la sua superbia, questo brutto barbone! Questa nostra interpretazione ci porta a forzare il testo del Viaggio correntemente accreditato non solo in questo punto ma anche nell’ottava seguente dove quiddi amici assume valore singolare. 135 Accrescitivo con valore dispregiativo. 136 La resa grafica della sibilante fricativa sorda per mezzo della grafia [sc] può portare, come in questo caso, a qualche ambiguità. Nel dialetto salentino infatti esiste, a differenza dell’italiano, sia il suono semplice di questo fonema, che quello doppio , che non trova una corrispondente differenziazione nella grafia. Nel nostro caso, a seconda che si legga la parola bascia con il suono scempio o con quello doppio [ba a / ba a] si avrà un diverso significato dell’intera frase: 1) “è molto strano che tanta superbia riesca ad esser contenuta in questa lana”; in tal caso bascia [ba a] è terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo scire, “andare”, “entrarci”; 2) “Che cosa strana è mai questa! Che quegli moderi la sua superbia, covata in tanta lana!”; qui bascia [ba a] è terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo basciare, “abbassare”, “moderare”. Altre analoghe coppie di opposizione in cui lo stesso fonema può dare luogo a diversi significati a seconda che sia considerato, rispettivamente, scempio o doppio: cascia “cada” / “cassa”; piscia “Luigia” / “orina”; biscia “veda” / “biscia”; pesciu “peggio” / “orino”. 83 18. Fuerze ca scia cu muccaturu ‘n canna se credìa ca venimu de Gravina137 quiddu vecchiu bezzarru de Susanna138 delli miessi, dell’ergiu, e della vina. Stu core, jemmediu, tuttu s’affanna penzandu a quiddu pazzu de catina; ma jeu no nce lassàe la parte mia, c’aggiu puru nu ramu de pazzia. 19. Me disse poi lu caru camberata139 ca stu monecu è statu pruvenziale;140 dissi jeu: – Ce servia quidda gridata, mo ca iddu fosse generale, da iddu no urria mancu salata o quantu fosse n’àcenu de sale; s’iddu è tantu bezzarru, no è sulu; jeu su lu Mommu, e me lu tegnu ‘n culu. 20. De poi ci tantu m’ibbe scudecatu quiddu pazzu e bezzarru munacone, giunse lu Lisse, amicu miu nuratu,141 e li deze gra’ tertu e a mie ragione; poe supra me purtàu manuzzeccatu142 cu la solita mia cumbersazione, ma prima e sagliu jeu li fici pattu cu no bisciu tal’ommo comu e fattu. 137 Per comprendere il significato di questo passaggio si deve fare riferimento ai braccianti salentini che, in squadre, si recavano a mietere (miessi) nell’alta Puglia (Gravina) e nella Basilicata. Avevano una reputazione di poveri diavoli, disposti a sopportare maltrattamenti e sottomissioni. L’autore invece saprà ribellarsi a dispetto del suo aspetto (cu muccaturu ‘n canna). 138 I vecchi di Susanna sono quelli citati nel XIII libro di Daniele della Bibbia che, approfittando del loro ruolo di giudici, insidiano la casta Susanna e poi la minacciano 84 18. Forse perché mi aveva visto col fazzoletto al collo, quello stranito vecchio di Susanna pensava che venissimo da Gravina, dalla mietitura dell’orzo o dell’avena. Il cuore mi si agita ancora tutto se penso a quel pazzo da legare. Però, a dire la verità, io non me le tenni, che il mio ramo di follia ce l’ho pure io! 19. Il mio compagno mi disse in seguito che se la credeva tanto perchè era stato Provinciale; ma, dico io: – A che serviva quella scenata? Ma ammesso anche che fosse stato Generale! Da lui io non accetterei, non dico una foglia di insalata, ma nemmeno un acino di sale; sappia che, se lui è pazzo, non è l’unico: io gli so stare dietro, tant’ è vero che mi chiamo Mommo. 20. Dopo che quel pazzo monacone mi ebbe maltrattato in tal modo, arrivò Ulisse, il mio amico, da tutti ritenuto giusto e saggio. Egli finì col dare torto a lui e ragione a me; mi prese per mano e mi accompagnò di sopra, lieto, come sempre, di conversare con me. Io lo seguii ma, prima, mi feci promettere che non avremmo più incontrato quel fetentone. accusandola di adulterio. 139 Sempre Vanni. 140 Provinciale e Generale sono alti gradi della gerarchia monastica. 141 Cfr. n. 62. 142 Cfr. n. 44. 85 21. Mangiammu a spese nue de San Frangiscu143 e poi ne scemmu subetu a curcare; n’azzammu a mezzanotte e allu friscu, ca la Cinzia144 musciava le carrare; giunsi a casa e me misi allu defriscu, comu me fice mamma,145 a reposare. E quae la musa mia, essendu stracca, mpise lu calascione alla trabacca.146 Fine della composizione di don Geronimo Marciano di Salice, olim Arciprete di Guagnano. Morì in Casalnuovo.147 143 Mangiare a spese de San Frangiscu vuol dire, genericamente, essere invitato a mangiare e non spendere niente. La locuzione è derivata dall’ospitalità gratuita e disinteressata offerta dalle opere francescane disposte lungo i percorsi di pellegrinaggio. La frase ricalca quella dell’ultima strofa del secondo canto in cui si dice Mangiai...a spise de lu mercantone. 144 Cinzia è altro nome della divinità classica Diana, cioè la luna. 145 A differenza di quando, a Leuca, si era addormentato fra i pellegrini, semivestito, miezzu mbudatu. 146 Anche Basile chiama travacca il letto a baldacchino nel secondo racconto della quinta giornata del suo Pentamerone. 147 Questa conclusione è dovuta alla mano che ha copiato il testo per la collazione del Pacelli. 86 21. Fummo invitati a mangiare e poi andammo subito a riposarci. Ci alzammo a mezzanotte, col fresco e col sentiero ben illuminato dalla luna. Giunto a casa corsi a coricarmi svestendomi, questa volta, completamente. E a questo punto anche la mia musa, stanca morta, appese il suo strumento al baldacchino del letto. 87 Dialetto, teatro e viaggio Don Geronimo, in qualità di sacerdote, doveva conoscere bene, prima ancora del latino e del toscano letterario, il dialetto usato dai suoi fedeli e il relativo orizzonte culturale nel quale egli stesso agiva quotidianamente. Al suo tempo sia i nobili che il clero erano in possesso di una sorta di “bilinguismo culturale”148 che permetteva loro di muoversi agevolmente tanto nell’ambito della cultura “alta” che in quello della cultura “bassa”. Molta parte del clero, anzi, conduceva gran parte della sua esistenza in ambienti periferici, lontano dalle sedi vescovili nelle quali, per dover intrattenere rapporti con le autorità ecclesiastiche centrali e col ceto nobile, si era obbligati ad esprimersi in latino o in lingua toscana. Questa gran parte dei sacerdoti, che svolgeva la sua missione nelle piccole parrocchie rurali, si limitava a biascicare (spesso senza neanche capirne il senso) i formulari latini dei principali uffici liturgici e si serviva, per comunicare quotidianamente, dell’unico registro linguistico a sua disposizione, cioè il dialetto. Il sacerdote di questa fatta, ignorante e culturalmente sprovveduto alla pari dei suoi fedeli, aderiva in tutto e per tutto allo stile di vita delle classi più umili.149 La sola lingua in suo possesso era, comunque, il dialetto e, in particolare, quello parlato negli ambienti più popolari. 148 Lo fa notare, fra l’altro, Peter Burke in Cultura Popolare nell’Europa moderna (Mondadori, Milano 1980), sottolineando che questo “bilinguismo” costituiva, nelle mani dei ceti “alti”, un ulteriore strumento di esproprio ai danni della classe ad essi sottomessa. 149 C. Corrain-P. Zampini, Documenti etnografici e folcloristici nei Sinodi Diocesani italiani, Forni, Bologna 1970. A varie riprese i documenti diocesani presi in considerazione dagli autori (relativi a tutto il territorio nazionale) condannano la condizione vile e l’ignoranza del clero di quel periodo, che giungeva spesso ad assumere la tonsura, per i privilegi ad essa connessi, o attraverso la raccomandazione dei potenti o dietro pagamento di una congrua somma di denaro e, quindi, sprovvisto anche della preparazione seminariale. Per il Salento si veda anche il duro monito del vescovo A. Pappacoda che, nel Sinodo da lui promosso nel 1663, tentava di porre un argine a questa generale situazione di degrado culturale oltre che morale dei suoi ministri. Vi si ripete, fra l’altro, una denuncia già espressa qualche decennio prima, nel 1628, dal vescovo di Venosa Andrea Perbenedetti, messo pontificio in visita apostolica nella dio- 88 Tuttavia non era questo il caso di don Geronimo che era invece indubbiamente colto e mostra una buona conoscenza delle lettere e delle letterature. Come ben si evince dalla lettura del suo poemetto, egli non decise di utilizzare il registro dialettale perché non era in grado di usarne altri, ma per una precisa scelta stilistica ed espressiva. Tale scelta è motivata da un sincero interesse per l’ambito linguistico e culturale del popolo ed egli vuole intenzionalmente fare nuova letteratura con questa materia tradizionalmente ritenuta inadatta. Altrettanto interesse egli ebbe nei riguardi del linguaggio teatrale, come ci testimonia, in primo luogo, la notizia pervenutaci secondo cui egli curò la messa in scena, a Salice, di una sacra rappresentazione, una Passione di Cristo, di cui era anche l’autore. Da parte nostra andremo oltre e ci spingeremo a considerare anche il suo Viaggio come il testo di una performance teatrale, non destinato solamente alla lettura individuale ma, presumibilmente, ad una declamazione pubblica, corredata anche di un certo apparato drammaturgico. Per ciò che riguarda la sua capacità di trovarsi perfettamente a proprio agio nelle vesti del viaggiatore, la lettura del poemetto non lascia dubbi. Egli sa muoversi nel territorio in maniera, diremmo quasi “creativa”, riuscendo a seguire una tabella di marcia preventivamente pianificata ma, allo stesso tempo, mostrandosi pronto a cogliere e ad interpretare tutte le varianti occasionali suggerite dagli eventi e dal paesaggio che incontra. cesi di Alessano. La sua relazione, conservata nell’Archivio Segreto Vaticano, restituisce un’istantanea per molti versi interessante della condizione del clero in quel periodo. I sacerdoti vi risultano in gran parte esercitare le professioni più umili (come guardiani di mandrie, zappatori a giornata, fabbri, cavamonti o ciabattini) che mal si adattano alla figura del ministro esemplare voluta dal Concilio di Trento. 89 La letteratura dialettale Anche se l’autore visse e operò nel territorio salentino, zona certo periferica rispetto ai grandi centri culturali del suo periodo, egli avvertì in qualche modo e tentò di interpretare anche le tendenze culturali e letterarie sia nazionali che europee della sua epoca. In Spagna, circa trent’anni prima della sua nascita, Miguel de Cervantes aveva pubblicato il Don Chisciotte. Anche se non ci sono espliciti riferimenti a quest’opera, nel Viaggio aleggia comunque lo spirito picaresco che anima quel modello. Anche la brigata salentina si cala in avventure che, introdotte in maniera epica e altisonante, si risolvono puntualmente in azioni minute e quotidiane, comiche e grottesche. Non ci pare molto azzardato intravedere la figura del cavaliere errante in quella dei tre sacerdoti avvinazzati e barcollanti (don Geronimo, don Vanne e don Nardo) che, anch’essi in groppa a dei ronzini, vanno da Salice a Leuca accompagnati dal loro scudiero Sancho Panza rappresentato, in modo altrettanto triplice, da Cicciu Mangione (nome, peraltro, direttamente associabile a panza) e dai due peduni. Come nella Spagna di Cervantes, anche da noi in Italia gli eroi dell’epica e le tematiche cavalleresche erano oramai sentiti come superati ed estranei, e lo spirito critico e ironico nei loro riguardi aveva già dato vita ad opere come La secchia rapita del Tassoni (pubblicata nel 1621) e al sorprendente fiorire della letteratura dialettale in area napoletana. Fu l’opera dei due “lumi” di questa poesia, Giulio Cesare Cortese (15751627) e Giambattista Basile (1575-1632), a costituire il principale stimolo per il Marciano a scrivere in dialetto. In maniera coraggiosa e con un inequivocabile effetto dirompente nei riguardi della tradizione, i due letterati partenopei non si erano limitati a mettere da parte solo le tematiche cavalleresche ma anche il registro linguistico tradizionalmente proprio della letteratura “seria”, quella lingua letteraria nazionale che, appena un secolo prima, era stata fissata dal Bembo come unico mezzo adatto alla letteratura. Il dialetto napoletano e, per di più quello parlato dalle frange sociali più basse, era stato portato a dignità letteraria e diffuso nelle corti. L’attenzione della letteratura per le parlate regionali serpeggiava già da almeno un secolo (si consideri la figura del Ruzzante) e si era comunque ampiamente affermata in ambito teatrale con le rappresentazioni dei Comici dell’Arte. Per loro tramite, anzi, aveva anche attraver- 90 sato le Alpi e raggiunto le più prestigiose corti europee. In Francia, oltre che nel nord d’Italia, era anche passata alle stampe in occasione della pubblicazione degli scenari da parte dei direttori delle compagnie. Questa scelta di registro, dai professionisti del teatro, era passata anche al settore dei “dilettanti” della cosiddetta commedia ridicolosa, con la motivazione «che non tutti gli orecchi son tanto delicati come quelli che non possono lassar passare un verso se non è vestito di seta, se non ha le forme delle braghe del Petrarca». Così si era espresso G. Briccio già nel 1619 nella dedica al suo scenario La ventura di Zanne e Pascariello ricalcando il tono delle dichiarazioni d’intenti dei capocomici Flaminio Scala (nel suo Il teatro delle favole rappresentative) e Francesco Andreini (in Bravura del Capitan Spavento), entrambi più o meno contemporanei del Briccio. Non certo a caso, quindi, anche il Marciano prende le distanze da quello stesso canone stilnovistico e lo cita come suo antimodello. Ma se la scelta del dialetto appare quasi naturale nel contesto della rappresentazione teatrale comica, diventa significativamente più coraggiosa nella penna dei letterati napoletani e, di conseguenza, nel loro emulo salentino. Come abbiamo rilevato durante la lettura del testo, il Marciano non fa segreto del suo desiderio di essere accostato ai due autori napoletani che riscuotevano già gli onori delle maggiori corti. Anche per lui la scelta del registro dialettale corrisponde ad un progetto di palese trasgressione nei riguardi dei canoni della letteratura in lingua che egli mostra comunque di conoscere e di saper manipolare con una certa disinvoltura. L’attenzione per le figure di antieroi pescate provocatoriamente nel quotidiano più becero si manifestava da più parti e, ai tempi del Marciano, era già una tendenza affermata. La rivoluzione portata nel settore delle arti figurative dal Caravaggio,150 con la sua coraggiosa propo- 150 G. Pietro Bellori, nel suo Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, nel 1672 (e quindi nello stesso torno di anni in cui avvenne il viaggio del nostro) testimonia come questa attitudine ad occuparsi di soggetti provenienti dal mondo popolare era diventata una vera e propria moda, seguita anche da molti altri pittori: Invaghiti della sua maniera (del Caravaggio) molti l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza. […] Allora cominciò l’imitazione 91 sta di santi e di madonne dall’aspetto sporco e trasandato, collocati in stanze buie o nei vicoli dei quartieri più bassi, è del tutto coincidente con la produzione letteraria dei due lumi. Il Cortese e il suo amico Basile (l’uno con la Vaiasseide e l’altro con il Cunto delli cunti) forniscono quasi una colonna sonora alle tele del discusso pittore lombardo e ne descrivono a tutto tondo il contesto ambientale. Un’operazione analoga intese fare il Marciano nel suo Viaggio scavando, naturalmente, nell’ambiente geografico e culturale a lui più vicino, quello salentino. E, nella sua ricerca, non si accontentò di descrivere il mondo urbano dei vicoli della città di Lecce, ma decise di andare a cercare ancora più in “basso”. Scese fra i sentieri sassosi del Capo di Leuca, l’estrema punta di un territorio che rappresentava, per la cultura europea dell’epoca, l’area (sia geografica che antropologica) più liminale. Come per affiancarlo giocosamente al Viaggio di Parnaso del Cortese, Lu Mommu de Salice intitola il suo poema Viaggio de Leuche, e lo ambienta, dunque, nella periferia della periferia, in un territorio situato alla fine del mondo. Nel suo viaggio di andata e ritorno verso Santa Maria de finimunnu, egli peregrinerà in quella costellazione di masserie e di villaggi che costituivano (e costituiscono tuttora) la geografia estrema della Terra d’Otranto. Di questa geografia egli sembra voler restituire anche i suoni e gli odori indugiando, alla ricerca di effetti comici, in quelli più umili e sgradevoli. Anch’egli sceglie deliberatamente di esprimersi in dialetto e, tramite questo registro mai usato prima in una composizione poetica, si perita di illustrare le situazioni più diverse. Quasi a sperimentarne le possibilità espressive, si ferma ora a dipingere delicati quadretti tratti dalla mitologia classica e ora, per contrasto, si addentra nella descrizione iperrealistica di rutti, pernacchie e scorregge; ora si sofferma compitamente sulle squisite usanze di corte e ora entra nei particolari di solen- delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità: se essi hanno a dipingere un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sbeccato e rotto. Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare li corpi si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi. 92 ni sbornie e di violenti litigi non propriamente cortesi; ora descrive poeticamente l’incanto di una notte estiva e ora si mette a fare pesanti allusioni sessuali al limite della pornografia. Con l’adozione del dialetto egli esprime dunque una precisa scelta stilistica e, così facendo, inaugura una fertile stagione di letteratura e di poesia dialettale salentina che si protrarrà per oltre due secoli e che si concluderà con la vasta opera poetica di Giuseppe De Dominicis, il poeta salentino che si faceva chiamare Capitano Black. Donato Valli, nell’opera citata, avverte l’esistenza di un filo rosso che collega questi due autori ma, nel seguirne il corso, si dimostra molto cauto, a causa della scarsa consistenza scientifica e filologica degli argomenti adducibili a questo scopo. Dopo aver sottolineato due sospette corrispondenze in altrettante espressioni riportate da entrambi gli autori (nel Marciano si legge bedda de facce e chiù de core bedda e, quasi in controcanto, De Dominicis scrive Bruttu de facce e chiù bruttu de core; poi, parallelamente, nel Viaggio troviamo Stravaganti è lu fattu, e lu nutai, che Valli sente vicino all’endecasillabo del De Dominicis Sti fatti su’ curiosi e me li scrissi), si sente quasi obbligato a smentirsi e a dire che «la coincidenza non è, comunque, filologicamente significativa – e che, in definitiva, non si possono attribuire – a queste coincidenze particolari significati – né trarre – conseguenze di consapevole imitazione». Oggettive corrispondenze analizzabili con gli strumenti della filologia, infatti, non ce ne sono; tuttavia resta forte la sensazione di una stretta parentela fra i due autori, che potrebbe correre su di un altro piano, senz’altro meno documentabile ma, non per questo, meno consistente. I due autori sono molto vicini, intanto, per la scelta dello stesso sottoregistro all’interno del dialetto. Bisogna tener conto del fatto che, fino alla metà del secolo scorso, questo idioma rappresentava un mezzo corrente di comunicazione, utilizzato trasversalmente sia dalle classi umili che dai borghesi, dai funzionari pubblici per la redazione di alcuni atti come dalle lavandaie per i loro battibecchi. Non c’era, però, un solo dialetto, comune a tutte le classi sociali, ma diversi registri gergali fra i quali le differenze potevano anche essere notevoli. Un registro senz’altro più borghese e urbano, per esempio, 93 caratterizzò la vasta produzione poetica che si ebbe nel corso del diciannovesimo secolo e che è compendiata nel volume Ottocento poetico dialettale salentino (a c. di Ribelle Roberti, Ed. Pajano, Galatina 1954). Sia il Marciano che il De Dominicis, invece, restano costantemente legati a quel registro proprio dello strato sociale più basso, corrispondente alla classe dei contadini e degli artigiani. Anche quando devono esprimere concetti provenienti da un mondo diverso (quello urbano, colto, borghese o letterario), entrambi gli autori si sforzano di farlo come lo farebbe un contadino, con il suo stesso giro di pensieri e con la stessa disposizione d’animo, estremamente pragmatica e concreta. Non sappiamo neanche se il De Dominicis abbia realmente avuto fra le mani il Viaggio del Marciano, tuttavia si sente in lui una parentela più stretta con questo poeta che non con quelli ottocenteschi, a lui certo noti perché più vicini negli anni, come Francesco Marangi, Raffaele Pagliarulo, Enrico Bozzi o Francesco Antonio D’Amelio. Nel Capitano Black, vissuto fra il 1869 e il 1905, si avverte quasi la necessità di ricondursi, consciamente o inconsciamente (come non è raro che succeda per un artista), nello stesso solco tracciato due secoli prima di lui dal Marciano. Entrambi fanno costante riferimento a quella cultura artigiana e contadina orale che si esprimeva attraverso i proverbi e le frasi fatte. Entrambi riconoscono il valore evocativo che hanno i testi dei canti popolari e ne riferiscono, a volte pari pari, le formule; altre volte ne piegano abilmente il senso e lo adattano al contesto di loro produzione. Entrambi conoscono a fondo i diversi “modi” del canto contadino e ne fanno apertamente cenno nelle loro citazioni; ne conoscono le formule melodiche e le possibilità di accompagnamento strumentale. Nel Viaggio si evoca un canto a muedu stisu e uno a muedu disperatu. In Vendetta rusticana del De Dominicis si cita un cantu de stegnu, che corrisponde, nella tradizione salentina, al genere letterario del “contrasto” (quantu si brutta mèrula de macchia / nu te cummène nudha gnettatùra; si bautu quantu chianta te brucacchia / si niuru comu a culu te fersura – sei brutta quanto un merlo di macchia / non ti si addice nessuna acconciatura / sei alto come una pianta senza gambo / sei nero come un fondo di caldaia). Fra gli altri canti citati espressamente abbiamo nel Marciano bedda delizia oh se tu fusse mia / ca paura de tassa no facia – 94 bella delizia, se tu fossi mia / non avrei paura di espormi ad ammende, e in De Dominicis bedha carusa ca luntanu stai / jeni quantu fatiàmu tutti doi – bella ragazza che lontano stai / vieni che insieme non ci annoieremo. In realtà, certo anche per la vastità dell’opera pervenutaci da quest’ultimo autore a noi più vicino, le sue citazioni dal repertorio dei canti popolari sono molto più numerose e le ritroviamo in diversi punti della sua produzione: Rendinedha de marzu dimme a dhu ai ane a la bedha mia bi’ se la trei gira a cqua nturnu e quandu truata l’hai cùntani tutte quiste pene mei na lettera te scriu cu ni la dai tutta mmudhata de làcreme mei o rendinedha me l’ha scire ttruare ola qua ‘nturnu e nu la puei scarrarescarrare nun la puei rendinedha te tutti sti cunturni è la cchiù bedha. Rondinella di marzo, dimmi dove sei diretta vai a cercare la mia bella gira qua intorno e quando l’avrai trovata raccontale tutte le mie pene ti scrivo una lettera e te la affido tutta bagnata delle mie lacrime. Rondinella mia devi trovarla vola qua attorno e non puoi sbagliare sbagliare non puoi o rondinella di tutti i dintorni è la più bella. Oppure La rosa quandu è perta mina ndore tiempu nu nni nde tare ca spugghiazza àusate bedha mia percè stu core la rrecina de tutti ole tte fazza jeni bedha cu mmie ca crammatina si ddentata de tutti la rrecina prima bessa lu sule o bella fata la rrecina de tutti si dentata. La rosa quando è aperta dà profumo non darle tempo perché perde le foglie alzati bella mia perché il mio cuore la regina di tutti ti vuole fare vieni bella con me che domattina diventerai di tutti la regina prima che esca il sole o bella fata la regina di tutti sei diventata. Oppure, ancora Quannu te llai la facce la matina l’acqua Ninnella mia nu lla menare. Quando ti lavi il viso la mattina l’acqua Ninella mia non la buttare. 95 Il Marciano ci attesta poi l’uso della chitarra come strumento musicale che può comparire in un contesto conviviale (de chitarra se fice na sunata), ma anche la possibilità, sempre a tavola, di dare vita ad un ballo senza fare ricorso a particolari strumenti musicali, battendo solo sul tavolo con le mani e facendo risuonare su di esso le stoviglie (uso ancora oggi vivo, specialmente se i commensali hanno bevuto qualche bicchiere di troppo). Alcuni dei versi citati sono giunti fino a noi provvisti anche del loro corredo melodico; per altri (specie per quelli del Marciano, più lontani nel tempo), pur essendo evidente la loro appartenenza alla tradizione musicale, non abbiamo il conforto della tradizione orale. La cosa che qui ci interessa sottolineare è la perfetta contestualità che questi prestiti dall’ambito tradizionale assumono nell’opera di entrambi gli autori, che dimostrano così una piena competenza del linguaggio e del patrimonio culturale popolare. Quasi a conferma di questo profondo legame che sussiste fra il mondo letterario dei due poeti e quello degli artigiani e dei contadini, si registra il fatto che i prestiti culturali sono inoltre avvenuti in entrambe le direzioni: anche molti versi dei due autori, risultando perfettamente plausibili come espressioni orali, possono essere o sono stati assunti come forme proverbiali e sono diventati di dominio collettivo. La plausibilità delle loro espressioni risulta avallata anche dalla scelta dell’endecasillabo, utilizzato da entrambi gli autori e, contemporaneamente, metro privilegiato dei canti e della letteratura popolare e sapienziale salentina. Per certo sappiamo che questo fenomeno di osmosi fra il dominio scritto e quello parlato portò i Canti de l’autra vita di De Dominicis a diffondersi non solo nell’ambiente letterario salentino (urbano e borghese), ma anche fra le classi popolari. Ho raccolto personalmente, a tal proposito la memoria di alcuni anziani appartenenti alla classe contadina che mi hanno attestato la lettura collettiva del testo del Capitano Black, alla luce di un lume a petrolio o della fiamma del camino durante le lunghe sere d’inverno. Pietru Lau, il protagonista di questa “Divina Commedia” tutta salentina, divenne, durante la prima metà del secolo scorso, un personaggio proverbiale, almeno nel territorio immediatamente circostante la città di Lecce (quello di Cavallino, paese di nascita del De Dominicis, di Lizzanello, Castrì, Merine, San Cesario, San 96 Donato, Lequile, San Pietro in Lama). Di quest’opera erano noti a grandi linee il profilo e le vicende e non mancava chi ne ricordasse interi canti a memoria. Le battute più felici del protagonista e la sua furbizia basata sul buon senso finirono con l’essere citate anche nei discorsi comuni. Sulla base della popolarità del testo, verso la fine degli anni Settanta (agli inizi della mia attività teatrale), ho curato una messa in scena dei Canti de l’autra vita del De Dominicis e ho potuto verificare l’adesione e la partecipazione del pubblico dialettofono anche alle sue espressioni meno note. Lo spettacolo aveva per titolo I dannati e, nel clima politico di quegli anni, utilizzava i versi dialettali per propagandare la necessità di ribellarsi energicamente alla condizione di subalternità delle masse popolari. In De Dominicis il contadino Pietru Lau, dopo morto, rifiuta la sua condanna all’inferno perché, benché colpevole di aver rubato nu tùmenu te ranu – un tomolo di grano – lo aveva fatto solo in quanto spinto da necessità, per sfamare la sua famiglia. Alle sue urla di ribellione anche Belzebù si convince dell’ingiustizia e borbotta fra sé e sé: Nu cristianu ca nu me pare te natura trista, ca pe necessità rrubba lu ranu se ba cundanna? Ma ce legge è quista? Un cristiano che non mi sembra di mala natura che per necessità ruba del grano va condannato? Ma che legge è questa? L’appello più convincente alla ribellione si concretizzava nei versi in cui il protagonista esorta le anime ad unirsi tutte insieme contro i loro aguzzini, perché nulla può fermare il popolo, se si unisce e si mostra determinato alla vittoria (erano gli anni di El pueblo unido jamàs sera vencido, l’inno di lotta degli Inti Illimani): E a tutti ni decìa: “Ieu me nde presciu! L’aggiu a piacere ca bu llamentati! De quiddhu ca bu facenu, cchiù pesciu, cchiù pesciu de cussì bu mmeretati! E diceva a tutti: “Io ne gioisco! Mi fa piacere sentirvi lamentare! Di quanto vi fanno, peggio, peggio ancora meritate! 97 Se siti tutti de nnu sentimentu, quale forza bu pote superare? Lu nzartu ressu te nu bastimentu ca nde tira le pèntume de mare, Se siete tutti di uno stesso sentimento, quale forza vi può superare? la corda grossa di un bastimento capace di strappare via anche uno scoglio ete fattu te fili, ca se pigghi cu ffaci peccussine l’ha’ spezzati; mille, do mila fili se li mbrigghi faci lu nzartu. Bu capacetati? è fatta di piccoli fili che, se solo li tiri, si spezzano; mille, duemila fili, se li metti insieme fanno la corda. Ve ne rendete conto? Certo non c’è, nel Marciano, nessun momento dell’acceso impegno sociale che si avverte nel De Dominicis, che fa suo invece l’insorgere, al suo tempo, delle idee anarchiche. Nel Viaggio non si avverte alcun riverbero delle idee filosofiche e sociali di Descartes o di Locke, pur contemporanee. Un altro punto in cui si ravvisa un’analoga disposizione creativa nei due autori lo troviamo quando entrambi descrivono la reazione di una fanciulla agli apprezzamenti maschili sulla propria bellezza: il primo dice Se fice ‘n facci russa la carusa, e l’altro idda tutta cunfusa, russecata. E ancora quando, nel descrivere una lauta cena, entrambi usano due verbi che, pur non essendo sinonimi, sono certo relativi ad un’identica adesione alla disposizione popolare. Il primo dice nce portau a nu sou beddu sciardinu / addò scialammu nui tutta na dia – ci portò nel suo bel giardino dove restammo a scialare tutto il giorno – e l’altro gli fa eco dicendo sciacquara ca sciacquara nienti menu / s’aìanu sciuti cuetti a nna manera / ca cu sse nd’ascia a ccasa nu foi buenu / nisciunu e a ntàula stessu ddurmescèra – bevvero e bevvero; si erano ubriacati in tal modo che nessuno riuscì più a tornare a casa e si addormentarono tutti a tavola. Così, quando descrivono una persona che ha approfittato del vino (un’insistente scelta tematica che accomuna, ancora una volta, i due), entrambi la vedono barcollante sul proprio cavallo, sia che si tratti (per Marciano) di Papa Nardo (e de cavaddu lu Nardu cadiu / se no’ ca lu sarvau se jeu no scerru / lu Catarena se ccedia pardiu – e Papa Nardo cadde da cavallo; sarebbe morto se non lo avesse aiutato, credo, Catarena), sia che si tratti (per De Dominicis) di san Martino, pur provetto cavaliere nell’agiografia a lui relativa (scia cignatu / lu etìi subbra lu caddhu banduliare / comu se nu isse sciutu mai chiantatu – si era cotto; lo vedevi barcollare sul cavallo come se non avesse mai cavalcato). 98 I due autori possono essere accomunati anche dal comune gusto per le lunghe elencazioni. Dal De Dominicis estraiamo alcune sequele di nomi di piante e di animali. Fra le piante murteddhe / rosa marina / tàmaru / spina ruta / scuerpi te brunitte / èllera / menta / verbena / urdìcula / brucacchia / lapazzi / sciugghiarine / ausapieti / rafuegghiu / nànuli / lattarole / paparine / scegghiu / rapeste; fra i fiori rose / amaranti / giacintu / viola màmmula / gigliu / carrofali / amurini / camelie / margherite / magnolie; fra gli animali cudirussu / ranecchi / pàparu / pagghioneca / muschidhi / secàra / respu / furmìcule / àcche / capinìura / culilùcide / lucernedhe. Nel Marciano troviamo elenchi di pesci grosse ope / sarde frische / àcure / ‘cchiate / treglie / aurate / lutrine / pisce spina / cernie di vivande carne / casu / recotta e cose giunte / mieru de cute e delle reliquie dei martiri di Otranto mani e piedi e capure tagliate, e bientri e ntrame e ficati e purmuni. Del Marciano (e non vogliamo dire necessariamente dal Marciano) il De Dominicis riprende anche la destinazione segnatamente orale della sua opera. Il Marciano (si vedrà meglio più avanti) non scrive per essere letto, ma per essere ascoltato durante i momenti di conversazione di corte. Dalla biografia del Capitano Black (tracciata nella monografia che di lui fece, pubblicandone i versi, Francesco D’Elia in Vita e opere di Giuseppe De Dominicis, Lecce, 1926), sappiamo che egli usava spostarsi qua e là nei salotti letterari di Terra d’Otranto per declamare di persona i suoi componimenti, arricchendoli verosimilmente di quei tratti paralinguistici ed extralinguistici particolarmente consoni al registro dialettale. Entrambi avvertono inoltre la necessità di difendersi dalle malelingue e dall’invidia che proviene da chi ti sta accanto; così 99 se all’inizio del Viaggio si legge e chiù d’unu ulerìa me tegna ‘n culu – a più di uno piacerebbe nuocermi – il Capitano Black raccomanda ai suoi versi di girare alla larga da Cavallino, il proprio paese natale, per non incorrere nell’invidia dei suoi compaesani. È questo il senso della poesia intitolata Sciati… (Andate…), con la quale il poeta si distacca a fatica dalla sua opera che sente il dovere di difendere accompagnandone personalmente l’esposizione: Iersi mei, decitime: a ddhu sciati, mo ci de casa mia bu nde sta mandu? Intru Caddinu, accorti, nu turnati: sentiti quiddu ci bu raccomandu. Sape quanti nemici bu iti truare! Quanti lu tata uesciu nu nde tene! Però dda gente a rretu iti lassare. e cu scià truati cinca bu ole bene Versi miei, ditemi: dove andate ora che vi mando via da casa mia? A Cavallino, attenti, non tornate: date ascolto alla mia raccomandazione. Chissà quanti nemici trovereste! Quanti il vostro genitore non ne ha! Perciò quella gente lasciatevela alle spalle e andate a trovare chi vi ama. Il Marciano ha dunque una posizione di grande responsabilità nel panorama della letteratura dialettale salentina. Qui si vuole però anche accennare ai limiti che egli mostrò nel comprendere e nell’interpretare le nuove istanze storiche e sociali che, ai suoi giorni, stavano per proiettare la sua epoca nell’età moderna. Collocandosi la sua vita e la sua opera fra il Seicento e il Settecento egli appare, infatti, più rivolto a quel secolo che si concludeva che a quello che sopraggiungeva e che sarebbe stato quello della modernità e dei lumi. Questa scarsa aderenza alle nuove idee illuministiche caratterizzerà, in verità, anche tutta la produzione dialettale salentina del XVIII secolo e ciò, forse, in ragione del fatto che quasi tutti i suoi autori provengono da quel mondo clericale tradizionalmente avverso alle novità e ai cambiamenti. Geronimo Marciano, infatti, da sacerdote, fu sicuramente coinvolto nella battaglia che il clero tutto, con le sue alte gerarchie in testa, si impegnava a condurre contro le idee moderne e a favore di quell’efficace restaurazione controriformistica programmata nel Concilio di Trento. La sua vita si svolse tutta in quella particolare stagione che avrebbe fatto di 100 Lecce e del Salento una roccaforte del cattolicesimo e un baluardo della resistenza nei riguardi delle novità confessionali e sociali. La sua formazione seminariale ebbe luogo proprio negli anni del vescovato di Aloisio Pappacoda (1639-1671), colui che, proprio per affermare in maniera evidente la presenza e il ruolo egemone della Chiesa cattolica e per tenere lontana ogni tentazione di cedere alle lusinghe di altre confessioni, progettò e realizzò per gli edifici sacri della città di Lecce quella vistosa veste barocca che tuttora li caratterizza. Né le cose cambiarono quando il vescovato fu assunto dal suo successore Antonio Pignatelli (1671-1682) che, tanto si distinse nella sua opera restauratrice, da pervenire addirittura al soglio pontificio col nome di Papa Innocenzo XII.151 Nel 1659 il Marciano aveva 24 anni quando a Lecce si iniziavano i lavori per la ricostruzione monumentale del duomo e del suo campanile (che assunsero l’aspetto che hanno tutt’oggi) e quelli per la realizzazione del fastoso prospetto del convitto dei padri Celestini, che divenne sede di un’autorevole scuola di filosofia e di teologia nota in tutto il Regno di Napoli. Per tutto il corso del XVII secolo l’intero territorio salentino ebbe l’aspetto di un immenso cantiere edile dedito alla ricostruzione e al restauro dei suoi già numerosi edifici sacri e all’edificazione di molti nuovi. In questo contesto l’autore prese gli ordini sacerdotali e operò sia come letterato che come uomo di chiesa. Se giunse a ricoprire l’arcipretura di Guagnano (dal 1669 al 1676) è segno che il suo comportamento fu tale da meritare la fiducia degli apparati gerarchici da cui dipendeva. 151 Paradossalmente al vescovato di costui, che viene ricordato dai vaticanisti per il suo impegno contro la piaga del nepotismo, fece seguito a Lecce quello di altri due vescovi che portano il suo stesso cognome: Michele Pignatelli (1682-1696) e Fabrizio Pignatelli (1696-1737). 101 Teatro Il Viaggio de Leuche è il risultato di una capace manipolazione della lingua, non un’opera di alta ispirazione poetica. Non contiene né profonde riflessioni etiche e filosofiche né intense risonanze spirituali. È piuttosto una poesia d’occasione, creata con l’intenzione di intrattenere amabilmente il pubblico di una corte di provincia, quella del Marchese di Oria, tentando così di ricreare anche nella periferia le circostanze conviviali e festose che caratterizzavano le corti più centrali. Sebbene lontana da Napoli, Lecce ha sempre tentato di distinguersi dalle altre città del Regno, tanto da essere chiamata ora “Picciolo Napoli” (già da P. Scardino, nel suo Discorso sopra l’antichità e sito della fedelissima città di Lecce, Bari 1607), ora “Seconda Napoli” (come accade, fra l’altro, nello zibaldone settecentesco composto dal diarista leccese Emanuele M. Buccarelli, autore de Le cronache leccesi, 1711-1807, pubblicate a cura di N. Vacca a Lecce nel 1934). Dunque anche la corte di Manduria, presso cui opera l’autore, sente l’esigenza di avere i suoi momenti di intrattenimento e di festa e, a questo scopo, ospita e protegge un letterato che ama scrivere per le scene. In questo il Marciano si era già distinto: ricordiamo la notizia pervenutaci per cui nel 1666 e nel 1667 organizzò e rappresentò più volte, anche per il pubblico della piazza, all’aperto, a Salice, la sacra rappresentazione in versi di sua composizione, una Passione di Cristo, andata perduta. Gli organizzatori di feste e di giochi collettivi di ogni tipo avevano un ruolo primario nella società barocca, la cui visione del mondo corrispondeva notoriamente a quella di una selva di vari giochi. Nelle grandi come nelle piccole città si organizzavano continuamente eventi giocosi e spettacolari come concerti, spari di artiglierie, luminarie, cortei, tornei, trionfi sacri e profani, entrate regali, quintane, corse di gobbi o di ebrei, rappresentazioni allegoriche su carri o processioni. Sia la nascita che lo spegnimento di una vita potevano dare occasione a rappresentazioni più o meno pompose a cui prendevano parte tutti gli strati sociali. Qui ci interessano, in particolare gli intrattenimenti che, nelle grandi come nelle piccole corti, erano un’usanza molto diffusa e quasi una necessità per quella fetta della società che viveva del 102 lavoro altrui e che quindi era, per così dire, costretta all’ozio. L’uso di organizzare riunioni che prolungavano il momento rituale del dopopranzo, del momento in cui le tavole venivano sparecchiate e aveva inizio, per i convenuti, la conversazione, si era ampiamente diffuso e istituzionalizzato e aveva avuto la sua formalizzazione letteraria con il Pentamerone del Basile che ha appunto, come sottotitolo, lo trattenemiento de’ peccerille. I peccerille qui non sono evidentemente intesi in senso anagrafico ma si riferiscono ai membri della corte da divertire amabilmente come bambini. Questi trattenimenti dovevano essere molto frequenti anche nella periferia del Regno e, per ciò che ci riguarda, anche nella provincia salentina. È quasi certo che anche qui circolavano, a questo scopo, i testi del Basile e del Cortese, sicchè il Marciano può porsi giocosamente in loro contrapposizione quando li cita, nella dedica al Viaggio, accennando ad essi con la sintetica espressione quei cigni della bella Napoli. Tanto più, inoltre, che la prima edizione de Lo cunto delli cunti del Basile (1634) è dedicata a Galeazzo Francesco Pinello “duca dell’Acerenza, marchese di Galatone, signore di Cupertino, Veglie, Liverano e Giuliano”, feudi situati tutti nell’area immediatamente confinante col territorio di Salice, patria de Lu Mommu. Se pensato in quest’ottica il Viaggio, come già dicevamo, può essere considerato alla stregua di un testo di letteratura orale, non destinato alla lettura individuale, ma all’ascolto corale nel corso di una declamazione pubblica. Un testo, quindi, che non basta a se stesso ma che necessita di tutte quelle componenti espressive proprie della lingua parlata e largamente impiegate anche nella pratica del teatro: la gestualità, l’intonazione della voce, gli ammiccamenti e le allusioni che il declamatore suscita guardando negli occhi questo o quello fra i suoi ascoltatori, dei quali è ben disposto ad accettare la complicità. I testi di questo genere raggiungono il massimo della loro efficacia quando sono declamati dal loro stesso autore che, meglio di chiunque altro, li può arricchire di tutti quei tratti extralinguistici necessari al raggiungimento delle intenzioni compositive. In questo senso la figura dell’autore viene ad essere molto vicina a quella dell’attore-sceneggiatore della Commedia dell’Arte che pubblica 103 il suo scenario. Di conseguenza, la sua declamazione può essere assimilata ad una vera e propria performance teatrale. Il testo scritto rappresenta poco più di un canovaccio ad uso dell’istrione che, in presenza del pubblico, sa di poter farcire di numerosi altri espedienti in aggiunta a quelli linguistici, al fine di ottenere dalla sua performance l’effetto più pieno. Questa è forse una delle ragioni di quelle difficoltà interpretative notate da tutti i commentatori del testo. Il senso pieno delle frasi non risiede unicamente nella lettera, ma si appoggia anche a quello veicolato dagli altri tratti extralinguistici (teatrali) che non compaiono nel testo ma attendono di manifestarsi nel corso della declamazione. Le difficoltà interpretative sono aggravate, inoltre, dal fatto che ci troviamo di fronte ad un testo scritto a mano, che tenta per di più di riportare sulla carta un linguaggio orale che mancava di una qualsiasi tradizione di scrittura. Una certa tradizione poteva essersi formata, nel Salento come altrove, appunto nella pratica del teatro popolare, che necessitava notoriamente di canovacci scritti e di promemoria ad uso degli attori per la messa in scena dei loro lazzi. Essendo però compilati ad uso personale dai saltimbanchi e dai cantori, nella redazione di questi canovacci non ci si preoccupava più di tanto della loro veste grafica o dei problemi connessi con la normalizzazione della scrittura. Il Viaggio, che viene collocato alle origini della tradizione letteraria in dialetto salentino, può avere assecondato più di quanto non si pensi la tradizione dei saltimbanchi, della quale può aver ripreso anche l’uso dell’ottava narrativa. Senza essere necessariamente perentori in questa nostra collocazione del testo del Marciano in un ambito strettamente teatrale, non escludiamo comunque che il testo stesso possa aver avuto una vera e propria sceneggiatura che trova numerosi rimandi al suo interno. Ci conforta in questa lettura la generale tendenza di quel periodo a vedere il Theatro in tutti gli aspetti della vita e, ancor più, nella festa in cui stiamo collocando il Viaggio. La società barocca amava autorappresentarsi in maniera teatrale e, notoriamente, estese la categoria del teatro a molti aspetti della sua cultura: l’architettura, l’abbigliamento, le arti figurative e, naturalmente, anche alla sua letteratura. Le forme ricche e ridondan- 104 ti della finzione scenica, presente in vario modo in tutte queste forme espressive, rappresentavano un vero e proprio strumento di propaganda della potenza e della maestà della classe dominante. Geronimo Marciano non nasconde la sua adesione a tale ideologia anzi se ne fa espressamente strumento nel decantare esageratamente la grandezza del suo mecenate, del duca di Aragona, della famiglia Filomarino, per cui ci risulta molto verosimile pensare alla sua opera come ad uno strumento teatralmente guarnito per raggiunger gli scopi persuasivi e celebrativi della maestosità nobiliare. L’intera declamazione poteva prevedere, per esempio, una complessa trama musicale, eseguita da uno o più strumenti che si alternavano chiamati in causa dalla narrazione stessa. Così, già nell’introduzione, quando il testo recita sienti sta tiorba a taccune, perché non pensare ad una reale esecuzione di tiorba (strumento popolare della famiglia del liuto, molto diffuso in quel periodo) che si fa sentire in sottofondo e che magari si prende, di tanto in tanto, uno spazio esecutivo in primo piano? Analogo ricorso ai relativi strumenti musicali possiamo immaginare quando, altrove, si nomina il calascione o la chitarra o quando si dice scialammu e poe se fice na sunata (intendendo, qui, di percussioni improvvisate o anche di un tamburello, strumento facilmente reperibile nelle case e nelle masserie) / e de bedde caruse na ballata. Questa ipotesi circa la presenza di un ordito sonoro che si snoda nel corso dell’intera trama del Viaggio trova conferma anche in altre citazioni che possono essere lette come vere e proprie indicazioni di sceneggiatura. Numerose sono le citazioni di canti popolari certamente noti a tutto l’uditorio, che poteva quindi lanciarsi a eseguirli o a ridosso della loro citazione o in un momento canonico del trattenimento, per esempio alla fine di ogni canto, a mo’ di entremets. Numerosi sono anche i riferimenti e le allusioni ad altri fenomeni sonori, che potevano trovare riscontro in una reale esecuzione musicale oppure restare semplicemente evocati dalle parole del narratore: lo scampanio del mattutino (finchè na campanedda de Zuddinu / ntìsimu ci sunàa lu mattutinu; Malapena sunatu matutinu / pigliammu nui la via mberu Lessanu), il vociare della folla presso il santuario di Leuca, il 105 fracasso dei piatti e delle brocche nel palazzo dei Filomarino o i fuochi d’artificio alla festa dell’Incoronata. Lo stesso discorso che veniamo facendo per la musica può essere fatto anche per l’evocazione di diversi momenti coreografici. Il testo parla spesso di balli e la loro evocazione è sempre molto enfatizzata, tanto da sembrare un vero e proprio invito alle danze. Il pubblico di corte, come si diceva altrove, condivideva gran parte della cultura “bassa” relativa agli artigiani e ai contadini, ed era perciò pronto a rispondere a quegli stimoli che provenivano dalla citazione delle danze popolari. Il Marciano stesso mostra di esserne fortemente affascinato. Il canto e la danza popolari incuriosivano certamente il suo uditorio nobile e la forza trascinante della pizzica-pizzica avrà sicuramente esercitato la sua efficacia contagiosa anche su di esso. Le componenti extratestuali della narrazione che andiamo supponendo davano adito, inoltre, all’insorgere di altrettanti microracconti che, conformemente allo spirito dell’epoca, erano ben accetti per assecondare e contrappuntare il racconto principale. Il Viaggio, infatti (come del resto anche le opere del Basile e del Cortese), si snoda nella continua compresenza di altri “testi”. Ai microracconti di natura propriamente verbale, già presenti nell’opera qui stiamo aggiungendo anche quelli rappresentati dai balli, dai canti, dai giochi, dai gesti, e da ogni sorta di intervento evocato più o meno a proposito nel corso della narrazione principale. Sulla base della tendenza alla superfetazione dei linguaggi supponiamo che, durante la pratica sociale della conversazione, fosse lecito evocare di tutto, purché contribuisse ad un piacevole scorrimento del tempo. Il pubblico in ascolto, sollecitato intenzionalmente, poteva intervenire in vario modo dando vita, a sua volta, a vari altri “testi” più o meno previsti dalla “scaletta” costituita dal racconto principale. L’elenco dei pesci visti nei pressi del porto di Otranto potrebbe essere, per esempio, volutamente incompleto per stimolare l’uditorio a proporne tacitamente o espressamente la continuazione. Chi è che, in un contesto goliardico, sentendo elencare grosse ope, sarde frische, acure,‘cchiate, / treglie, aurate, lutrine e pesce spina, non avverte lo stimolo di continuare (mentalmente o ad alta voce) con il proprio reper- 106 torio di nomi di pesci, magari facendo anche grasse allusioni basate sul ricorrente collegamento di questo animale con il sesso maschile? Da parte nostra non ci stupiremmo se qualcuno possa essere intervenuto a questo punto aggiungendo cefali, saracuni e cazzi de re (in dialetto salentino tutti e tre considerati simboli fallici), magari illustrandone coloritamente il movimento e le dimensioni con il serpeggiare di un braccio. La dimensione orale e collettiva della narrazione la dispone naturalmente a questo tipo di interventi che si potrebbero moltiplicare a volontà e ripetersi ad ogni verso del Viaggio grazie anche all’impiego del registro dialettale che stimola l’uditorio a calarsi nell’esuberanza del linguaggio popolare. La particolarità di tale registro, anzi, fa sì che il testo venga percepito come una proprietà collettiva suscettibile, più che un testo in lingua, di aggiunte e di aggiustamenti da parte di chiunque ne avverta la necessità. In una siffatta situazione il pubblico, oltre che spettatore, è invitato a sentirsi anche attore e autore. Analogo comportamento possiamo supporre durante le citazioni dei proverbi e delle frasi fatte, che portano l’ascoltatore a pensarne e magari a profferirne la conclusione, anticipando la voce del narratore. Anche in questo caso facciamo un esempio che vale per le molte circostanze analoghe presenti nel testo. Quando si giunge al punto basta ch’era de Lecce stu ellanu / prontu de lingua..., se il narratore esita volontariamente a concludere la frase non mancherà certo chi, tra il pubblico, sarà pronto a completarla con e chiù prontu de manu. Analoga partecipazione rumorosa è prevedibile in tutte le circostanze (e sono molte) in cui si evoca la sfera delle vergogne, sia nella loro funzione fisiologica che in quella sessuale. A questo proposito non possiamo fare a meno di notare che, se dovessimo giudicare facendo riferimento a quelli che sono i parametri odierni, si avvertirebbe un notevole attrito fra la figura sacerdotale dell’autore, che si infervora nella celebrazione della sua più devota messa nel santuario di Leuca (fuerse d’ogni autra chiù deota e bedda), e le molteplici occasioni in cui egli rivela un comportamento non proprio castigato alla presenza delle bellezze femminili. La condotta del prete, per tutto il periodo preindustriale (fino alle soglie dell’Ottocento e anche oltre), è tale da rendere neces- 107 sari i reiterati (in quanto inefficaci) interventi delle autorità ecclesiastiche, che li diffondono attraverso bolle, sinodi e altre disposizioni. I numerosi sinodi diocesani presi in considerazione da C. Corrain P. Zampini (Documenti etnografici e folcloristici nei Sinodi Diocesani italiani, Forni, Bologna 1970), per esempio, tentano di arginare (attestandone così l’esistenza) i comportamenti anomali e peccaminosi dei membri del clero. Altrettanto probanti sono i documenti relativi alla narrativa e alla drammaturgia popolari, all’arte figurativa e all’aneddotica, analizzati da P. Burke in Cultura Popolare nell’Europa moderna (Mondatori, Milano 1980) che dipingono il sacerdote, nel migliore dei casi, come un buon diavolo, ignorante e grasso, allegro e conviviale ma più spesso anche borioso, avido, pigro e, come nel caso del Marciano e dei suoi accoliti, disposto a importunare le donne e a desiderarne apertamente i favori. Il motivo del prete o del frate incontinente ha radici lontane, visto che si trova già rielaborato letterariamente nelle novelle del Boccaccio (il frate Auberto della seconda novella della quarta giornata del Decamerone) o, in tempi più vicini al Marciano, in quelle del Bandello. Vari riferimenti allo stesso proposito si trovano anche nella narrativa popolare salentina, piena di aneddoti che riportano a profusione episodi di sacerdoti poco rispettosi dei precetti e delle disposizioni curiali che li riguardano. Pensiamo, per esempio, alla figura comica e anticonformista di prete che risulta dai Cunti di Papa Cajazzu,152 il parroco di Lucugnano che, stando alla ricostruzione che ne fa G. Cosi in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli (vol. III, 1974), sarebbe morto nel 1560. Ancora più insidiosi per le ragazze sono rappresentati i monaci che spesso, approfittando dell’intimità richiesta dal sacramento della confessione, finiscono col concupire le giovinette, specie quelle deluse dall’amore. Per la conferma nella tradizione orale di questi abusi possiamo fare riferimento anche al testo di un canto popolare, Lu monecu cappuccinu, di cui esistono molte varianti, due delle quali sono pubblicate in Le Cicale, L. Lezzi, Kurumuny 2007. Per la documentazione storica si vedano anche i perentori 152 Michele Paone, Il Breviario di Papa Galeazzo, Congedo, Galatina 1979. 108 richiami del sinodo diocesano del vescovo A. Pappacoda in materia di confessione, e specialmente della confessione di fanciulle e di giovinetti, particolarmente esposti alla libidine dei confessori. Tutta la compagnia del Viaggio, d’altra parte, benché descritta nell’adempimento di un viaggio devozionale (lu viaggiu santu), si comporta generalmente con la stessa libertà di una brigata goliardica, più gaudente che pia. Va detto però, in ultima analisi, che il ricorrere degli apprezzamenti nei riguardi delle forme e delle grazie femminili potrebbe anche essere un espediente retorico, corrispondente all’intenzione di conferire maggiore interesse al testo. La stessa funzione che ha, nell’immaginario del pubblico della Commedia dell’Arte, l’introduzione in scena delle attrici donne, che con la loro avvenenza e con la loro provocatorietà incentivano l’interesse per il teatro popolare. Ricordiamo che fuori e prima della Commedia dell’Arte, nel corso delle rappresentazioni, anche i ruoli femminili erano tradizionalmente affidati ad attori di sesso maschile e che questa novità dette luogo anche ad apprezzamenti di natura letteraria. Anche tutti i richiami mitologici, che affiorano soprattutto nelle indicazioni temporali (l’aurora, il tramonto, la notte), vanno considerati nell’ottica di un testo adatto alla narrazione rivolta ad un uditorio espressamente invitato a calarsi nei panni popolari. Anche queste citazioni, pur nella loro topicità, costituiscono altrettanti microracconti, presentati come fatterelli dal sapore indubbiamente concreto e strettamente aderente all’immaginario popolare. Fra le figure evocate campeggia quella di Febo Apollo alle prese col suo carro di fuoco. Nel racconto dialettale questa personificazione del sole perde la distanza olimpica che ha nella tradizione classica e assume la fisionomia quasi di un compaesano alle prese con le sue piccole azioni quotidiane, calato nello stesso mondo rurale e contadino in cui il viaggio si snoda. L’austero Apollo sembra avere i tratti di un massaro che gestisce usualmente il suo traìnu, ne lava le ruote, aggioga i cavalli e con esso si reca quotidianamente al suo lavoro. La presenza insistente di Febo Apollo (di gran lunga il più evocato fra le figure mitologiche) e il terrore della sua lanza di fuoco assumono anche l’efficacia di chiari indicatori scenografici, suggerendo le con- 109 dizioni di luce e di clima in cui si svolge l’azione. Se ne ottiene un’inequivocabile collocazione spaziale e temporale: il lettore-ascoltatore è costretto a calarsi nell’estate salentina, a sentire la minacciosa calura del sole e il desiderio di ombra. La figura di Febo-Sole ritorna, statisticamente, per quattro volte e sempre si sottolinea la necessità di scansarne gli effetti. Ad essa si preferisce sempre la compagnia della sua dolce antitesi, la luna piena (detta latinamente quintadecima) che, con i suoi rasci resprennenti de perle, consente di viaggiare di notte comu a miezzu giurnu. Per completare la rappresentazione a tutto tondo del suo racconto, l’autore si serve con una certa frequenza anche di altre allusioni; fra queste spiccano i riferimenti al vino. La parola mieru – vino – ritorna, infatti, per sei volte. In questa panoramica statistica aggiungiamo che un’altra parola molto usata, probabilmente perché capace di provocare la risata e la partecipazione del pubblico, è culu, che ricorre, anch’essa, sei volte, e un’altra volta ricorre il verbo cacare. Anche le allusioni sessuali sono frequenti: il voyeurismo in occasione dei balli di ragazze a Carmiano e a Capriglia, il comportamento da ruffiano assunto da Papa Nardu a San Pietro in Lama, l’indugiare sui piccanti costumi della regina Giovanna, ecc. Viaggio: tempi e luoghi Il mondo contemporaneo, a causa delle sue accelerate trasformazioni, fa sentire la necessità dello sguardo antropologico, cioè di una riflessione che abbia natura e metodi nuovi. M. Augé Lo spazio e il tempo (sia quello cronologico che quello meteorologico) sono continuamente gestiti dal Marciano in modo rilassato e non sembrano rappresentare mai un motivo di preoccupazione per l’esito del viaggio. Le nostre domande su quando è avvenuto il viaggio, su che tempo faceva, sull’esatto itinerario seguito e sulla sua scansione in tappe trovano sempre una risposta puntuale, quasi ci trovassimo di fronte ad uno scrupoloso cronista o, più ancora, ad un organizzatore di escursioni. 110 I tempi Quando avvenne il viaggio? Facendo riferimento ai personaggi storici citati (il principe don Michele Imperiale dedicatario dell’opera, il duca Ayerbo d’Aragona salutato ad Alessano, don Giovanni e donna Teresa Filomarino di Cutrofiano), è da supporre che il viaggio abbia avuto luogo negli anni immediatamente successivi al 1690. Fidando in questa indicazione si può fissare con maggiore precisione sia l’anno che i giorni in cui avvennero le varie fasi del viaggio. I festeggiamenti solenni di Leuca cadevano (e cadono tuttora) il primo giorno di agosto e quelli dell’Annunziata a Nardò (che nel viaggio avvengono nel giorno successivo alla festa di Leuca) erano allora fissati al primo sabato di agosto. Consultando un calendario perpetuo si può verificare che, fra gli anni che seguono immediatamente il 1690, solo nel 1692 il primo giorno di agosto coincide con un venerdì, per cui il giorno successivo risulta essere il primo sabato del mese. Se ciò non bastasse c’è un altro dato che conforta quest’indicazione ed è il fatto che solo in tale anno, sia fra quelli immediatamente seguenti che fra quelli precedenti, anche l’effettiva fase lunare coincide con quella che si evince dal testo. In più punti, infatti, si accenna ad una luna piena che, in un passaggio, viene espressamente definita tale col termine dialettale quintadecima. È la sua luminosità a rendere possibile il viaggio durante le ore notturne. Né si può pensare che l’astro d’argento sia stato evocato solo per l’aura poetica che topicamente lo accompagna. La presenza della luna in una delle sue fasi di massima luminosità era, infatti, una condizione assolutamente necessaria nella programmazione di un viaggio estivo. Il buio notturno, infatti, avrebbe costretto i viaggiatori a viaggiare di giorno, sotto l’insostenibile calura del solleone (la lanza de lu Febbu). Fino all’avvento dell’illuminazione elettrica per gli spostamenti notturni non si poteva fare a meno del chiarore della luna se non per compiere piccoli spostamenti abituali, durante i quali erano anche le bestie a conoscere bene la direzione e le difficoltà del percorso tanto da permettere ai conducenti anche di dormire lungo il tragitto. Per un viaggio vero e proprio, in zone poco note e per strade poco conosciute, la fase lunare era certo un elemento di cui tenere conto e il Nostro, da buon viaggiatore, ne ha debitamente tenuto conto 111 facendo coincidere il viaggio con un periodo di luna piena. Consultando un programma di elaborazione dei dati astronomici, capace di calcolare l’evoluzione dei fenomeni celesti relativi a tutte le epoche storiche, si giunge inequivocabilmente, per la determinazione della data del viaggio, al 1692. Si scarterà l’anno 1690 in cui il primo di agosto la luna si trovava in una fase vicina al novilunio, così come il 1691 e il 1693, nei quali sarebbe stata al primo quarto. Nel 1694, durante i giorni del viaggio (fine di luglio), la luna era molto luminosa, trovandosi nella fase crescente dell’ultimo quarto (quindi prossima al plenilunio che sarebbe avvenuto il 5 di agosto); ma in tale anno il primo di agosto (la festa di Leuca) coincideva con un lunedì e quindi la festa dell’Annunziata (il primo sabato di agosto) sarebbe venuta sei giorni dopo, cioè il 7 di agosto. Solo nel 1692, quindi, si verificarono le condizioni descritte nel Viaggio per cui, tenuto conto anche dei giorni della settimana (riferiti al sabato 2 agosto, festa dell’Annunziata), bisogna dedurre che la comitiva partì da Salice esattamente il martedì 29 luglio di tale anno. Partì dopo pranzo, cioè quannu lu Febbu subbra a carru d’oru / scia ffazza a re de Franza reverenzia, quando il sole si avviava verso la Francia, cioè verso Occidente. Dopo circa quindici chilometri fece una pausa di ristoro alla tavola di un amico a San Pietro in Lama e poi riprese il cammino in direzione di San Donato. Passò nei pressi di Calimera e giunse a tarda notte nella campagna fra Zollino e Martano. Qui i viandanti trovarono ricovero fra i ruderi di una masseria disabitata, senza peraltro riuscire a dormire per il russare-ragliare di uno di loro. Questa località costituita da case e curti dirupati potrebbe individuarsi con i resti dell’antico nucleo abitativo di Apigliano, tuttora visibili nella campagna fra Zollino e Martano. Sebbene con cautela, facciamo quest’ipotesi perché da tale luogo si può sia udire il suono di una campana proveniente da Zollino (na campanedda te Zuddinu / ‘ntìsimu ci sunaa lu matutinu), che raggiungere rapidamente Martano, come fecero i viaggiatori che vi arrivarono nel tempo che intercorre fra l’aurora e la nascita del sole (senza cu lu vedimu chianu chianu / ce chiantammu allu friscu intu Martanu). È curioso notare a questo punto che, se la partenza fosse stata anticipata di soli due giorni, avremmo sicuramente 112 avuto, nel testo, la descrizione di un ulteriore fenomeno celeste che certo non sarebbe sfuggito all’attenzione dell’autore. Il lunedì 28 luglio, poco prima della nascita del sole, si verificò infatti, alle nostre latitudini, una vistosa eclissi lunare. Era iniziata a partire dalle ore 2,30 per culminare alle 4,09, circa quaranta minuti prima della nascita del sole, che in tale giorno si levava alle ore 4,41. Ma l’arrivo a Martano avvenne all’alba del mercoledì 30 luglio, per cui il Marciano dice ce chiantammu allu friscu intu Martanu (cioè prima della nascita del sole) senza fare cenno a nulla di particolare nella faccia della luna che andava a tramontare (sarebbe tramontata esattamente alle 4,46). Queste che qui possono sembrare delle futili divagazioni astronomiche hanno la loro importanza perchè al tempo del Marciano costituivano delle osservazioni fondamentali. Di fatto l’autore del Viaggio non esita, per esempio, a soffermarsi per un’intera ottava sulla contemplazione del cielo notturno, dei raggi lunari che sembrano perle gelate, della mancanza di nubi nella notte estiva, della magnificenza del plenilunio al quale invia le sue devote benedizioni con un formulario dal sapore sentenziale e francescano (all’antica decìa: ce luna, Diu la benedica!). L’osservazione del cielo e l’interpretazione dei suoi segni era fondamentale, nella cultura premoderna, per modulare su di essi tutto il proprio operato. Contadini e artigiani, appena svegli, si portavano immediatamente fuori dalla soglia di casa per dialogare con lo spazio celeste e per riceverne i dati in funzione dei quali organizzare la propria giornata. Le nuvole, la nebbia, l’umido, la disposizione delle stelle, la luminosità del sole, il volo degli uccelli sono stati, fino all’avvento della modernità, tutti elementi che fungevano da calendario e da agenda per organizzare e orientare conseguentemente le proprie attività, sia quelle pratiche che quelle spirituali. Già Ovidio nelle sue Metamorfosi (I, 84-86), riporta l’osservazione del cielo come un vero e proprio precetto divino indirizzato all’umanità e solo ad essa: 113 pronaque cum spectent animalia cetera terram os homini sublime dedit caelumque videre iussit et erectos ad siderea tollere vultus e mentre gli altri animali stanno curvi e guardano verso il suolo, all’uomo il Creatore dette lo sguardo rivolto verso l’alto e gli ordinò di guardare il cielo e di penetrare, eretto, il firmamento. Continuando a seguire con il calendario dell’epoca il resto del percorso descritto dal Marciano, all’alba del mercoledì 30 luglio la comitiva arriva a Martano e da lì prosegue, nella stessa mattinata, per Otranto. Vi giunge dopo aver contemplato la bellezza dei Laghi Alimini e nella città portuale si ferma a mangiare e a riposare (scialare) in un agrumeto profumato. Poi, all’imbrunire dello stesso giorno, raggiunge la masseria Capriglia, presso Vignacastrisi. Qui cena in compagnia dell’amico Orazio e della sua famiglia e poi va a dormire. All’alba del giovedì 31 si parte alla volta di Leuca passando da Alessano, dove il Marciano va a rendere omaggio al duca ngarbatu (compìto) di Aragona. La notte la si passa in uno dei ricoveri destinati ai pellegrini nei pressi del santuario di Leuca, in attesa delle solennità del giorno seguente. E siamo al venerdì primo agosto. Colui che si trova a Leuca nel lasso di tempo che va dall’alba al tramonto di questo giorno dell’anno ottiene le indulgenze plenarie. Questa è la ragione per cui il componimento si chiama Viaggio de Leuche, comprendendo in questa frase il senso più esteso di viaggio al santuario di Leuca nel giorno in cui lì si guadagnano le indulgenze plenarie. Dopo aver celebrato una messa solenne, la compagnia lascia il luogo santo e, forse anche per penitenza, decide di fare una lunghissima tappa sotto il sole cocente fino a Cutrofiano, che dista da Leuca, circa, quaranta chilometri. Le altre tappe giornaliere, di circa trenta chilometri ciascuna, risultano sempre inframmezzate da una lunga sosta di ristoro all’ombra, da cui si riparte solo quando il sole comincia a declinare. Questa giornata del primo agosto la si passa, invece, interamente in viaggio e ci si ferma solo per consumare una colazione di emergenza sotto n’umbra de n’arveru mapputu (al riparo di un albero frondoso) durante la quale ci si riposa e ci si sod- 114 disfa solo parzialmente. Tanto che uno dei compagni dice a Cutrufianu poi meglio me stutu (mi soddisferò più pienamente al mio arrivo a Cutrofiano), approfittando della certa ospitalità dei nobili Filomarino. All’alba di sabato 2 agosto ci si sveglia presto, lasciando il palazzo degli ospiti in punta di piedi, e si decide di fare una deviazione rispetto al percorso più breve che condurrebbe a Salice perché, ricordandosi del fatto che il primo sabato di agosto a Nardò ci sono le grandi celebrazioni per la festa dell’Incoronata, si decide di passare da tale località. Da lì, dopo lo spettacolo dei fuochi d’artificio, si passa a trovare l’amico Ulisse nella masseria Li Fachechi. A mezzanotte si riparte e, alle prime ore della domenica 3 agosto, si fa rientro a Salice, dopo aver percorso, senza sosta, gli ultimi venti chilometri. Tutto il viaggio comporta circa 200 chilometri di cammino; da un luogo di sosta all’altro ci sono sempre poco più di 30 chilometri, che la comitiva percorre in due tappe di circa quindici chilometri ciascuna. È questa tabella di marcia, estremamente regolare e perfettamente plausibile, a farci dire, fra le altre cose, che il componimento prende spunto da un’esperienza realmente portata a termine, in un territorio la cui descrizione è puntualmente corrispondente alla realtà. La gestione del tempo è modulata su quella di una società prevalentemente contadina, che fa poco uso dell’orologio e si regola, per scandire le sue azioni, solo in base alle condizioni di luce e al clima. Il tempo cronologico, con il suo passare inesorabile, non ingenera nessuna ansia nè preoccupazione nel viaggiatore del XVII secolo. Gli avvenimenti paiono coincidere naturalmente con i ritmi umani e presentarsi a portata di mano senza particolare impegno da parte di nessuno. Nonostante l’estrema rilassatezza della comitiva, infatti, essa giunge puntualmente a Leuca per il giorno utile al guadagno delle indulgenze; altrettanto naturalmente sembra presentarsi la coincidenza, probabilmente non prevista (ingenera infatti una lunga discussione, un Capitulu), con la data della festa dell’Incoronata a Nardò. Una sola volta, durante la cena a San Pietro in Lama, il protagonista e il suo compagno Vanni sembrano avere fretta, quando svegliano gli amici dal torpore indotto dal vino. Ma quest’azione può ascriversi con più verosimiglianza alla voglia di continuare il viaggio appena intrapreso (si era a poche ore dalla partenza e a circa quindici chilometri da casa) che ad un’ansia relativa al tempo che passa. 115 I luoghi Il percorso descritto coincide, grosso modo, con la rotta aerea che collega le tre località principali interessate: Salice, Otranto e Leuca. Per congiungere questi tre centri la comitiva salicese non percorre solo la viabilità convenzionale ma si serve anche di scorciatoie che consentono di non deviare mai più del necessario dal percorso più breve. La forma sostanzialmente pianeggiante del Salento, e quindi l’assenza di ostacoli naturali, si presta a questo tipo di andamento, quasi rettilineo, sul suo territorio. La comitiva fa affidamento dunque sulla viabilità ordinaria ma ne integra il percorso utilizzando anche la rete fittissima di strade e di sentieri minori tracciati dal transito locale nonché dal passaggio secolare dei viandanti e dei pellegrini. Le località raggiunte di Otranto e Leuca, infatti, sono due tradizionali luoghi sacri, meta di molti viaggiatori che lì si recavano o per devozione o anche per altri interessi. A Martano, infatti, ad unirsi alla compagnia è un marcante e ad essa si accompagnerà fino al santuario di Leuca. Lì, probabilmente, si ferma dal momento che nel seguito del racconto non viene più nominato. Era quella la sua destinazione; per devozione, per interesse commerciale, per desiderio di avventura? Oltre a questi sentieri di pellegrinaggio (sulla cui probabile natura e sulla cui origine sarà detto qualcosa più in avanti), non è escluso che la comitiva abbia attraversato anche qualche terreno privato, provvisto o meno di una qualche carrara (passaggio occasionale o provvisorio), che permetteva di attenersi al percorso più breve. La tradizione, a questo proposito, sanciva infatti una tacita convenzione che consentiva a chi viaggiava a piedi o a dorso di animale di abbreviare il proprio percorso attraversando liberamente i terreni privati (in dialetto si dice tagghiare te intru nu fièu – abbreviare il percorso passando per i campi) servendosi magari, con la dovuta discrezione, dell’acqua di un pozzo o dei frutti di un albero eventualmente presenti al suo interno. Proverbialmente rubare con la pancia, cioè senza servirsi di un recipiente, non era considerato un reato. Questo atteggiamento tollerante da parte dei proprietari o degli amministratori dei terreni era sentito come un ossequio nei riguardi del precetto divino e civile dell’ospitalità. Le indicazioni dei luoghi nominati in successione nel poemetto (paesi, masserie, specchi d’acqua o alture) ci hanno consentito di rico- 116 struire con grande approssimazione l’esatto itinerario della compagnia, di verificarne le distanze e i tempi di percorrenza. Per restituire con chiarezza l’andamento di questo percorso lo abbiamo organizzato in uno schema che appare, nella sua regolarità, una vera e propria “tabella di marcia”, degna della progettazione di un esperto tour operator. Come abbiamo già fatto notare, ogni tappa ha una sua lunghezza quasi fissa, dettata dalle necessità fisiologiche dei viaggiatori e delle loro bestie (la stanchezza e la fame). Ricordiamo che i tempi devono essere rapportati alla velocità che può tenere un viaggiatore a piedi, dato che al percorso prendono parte anche i due peduni Ventura e Catarena. SALICE Km 39,5 Carmiano San Pietro in Lama San Donato Km 36 Martano Carpignano – Laghi Alimini Otranto ZOLLINO VIGNACASTRISI Km 30 Depressa – Tutino Tricase Alessano – Montesardo LEUCA Km 40 CUTROFIANO Km 27 Galatina Km 23 Li Fachechi NARDÒ SALICE Km tot. 200.5 117 Questa tabella di marcia fa affidamento, peraltro, su una fitta rete di amici e di conoscenti che appaiono opportunamente dislocati sul cammino. Ciò consente ai viaggiatori di sentirsi sempre a casa. Una sola sosta notturna è lasciata al caso: la prima, quella trascorsa fra i ruderi di un edificio nelle vicinanze di Zollino. L’abito talare indossato dai tre sacerdoti accorda alla compagnia la fiducia da parte di tutti e, in special modo, degli altri sacerdoti e delle strutture ecclesiastiche. A Martano tutti vanno a mangiare al fresco di una chiesa invitando alla colazione anche un mercante appena incontrato153. Una volta giunti a Otranto, un prete sconosciuto, ma galantommu all’aspetto, don Chino Peluso, viene avvicinato e da lui si ottiene ospitalità in un magnifico giardino di agrumi. 153 Non ci si stupisca di questo uso improprio dell’edificio sacro perché, al tempo, le chiese erano oggetto di una considerazione alquanto diversa da quella a cui oggi siamo abituati. Il già citato sinodo diocesano promulgato dal vescovo Aloysio Pappacoda nel 1663 interdice in esse una serie di azioni illecite che vi erano evidentemente praticate, dalle più lievi alle più peccaminose: «È proibito rappresentare drammi storici o anche non storici, profani o sacri, specialmente durante le quarantore e la settimana santa; le rappresentazioni sacre e profane; soprattutto è proibito, durante le feste popolari, tenere e far vedere immagini profane, o arazzi che rappresentano figure oscene, o qualsiasi altra cosa che susciti non pensieri santi, ma diabolici. Chi (si riferisce ai sacerdoti) prende il tabacco nella chiesa o in cappella, o anche nella sacrestia o durante la Messa è immediatamente sospeso a divinis… poiché ci sono alcuni sacerdoti che, non potendo stare per molto tempo senza prenderne, quando stanno nel coro per la recita del divino ufficio, se ne allontanano e si portano in un luogo vicino per masticarlo o fumarlo e tornano… Sappiamo molto bene che le macchie di tabacco insozzano i sedili, gli altari e gli asciugamani che si trovano presso il lavabo… le tovaglie e i messali dell’ufficio... Sono proibiti i ritmi sincopati che sono più melodie profane che sacre... quindi si esortano i musici e i cantori a non abbandonarsi ai canti del volgo non corrispondenti alla sacralità del momento religioso... Di più; nessun sacerdote o altro costituito in sanctis, ardisca giocare a carte o a dadi o ad altri giochi illeciti … di più se alcuno di loro tenesse berettaria de’ giochi suddetti... né fare mestieri o esercitii vili e sordidi, né esigere dazi, né gabelle, o vendere qualsivoglia cose...» 118 Nel tentare una precisa ubicazione per questo meraviglioso giardino che l’autore vorrebbe avvicinare a quello del padre Adamo, lo supponiamo situato in quel lembo di terra che si trova ai piedi del colle della Minerva, alle spalle del porto di Otranto, al termine della cosiddetta Valle delle Memorie, il canalone naturale ubicato nella periferia sud-est della città. Lì, peraltro, si trova tuttora una discreta estensione coltivata ad agrumeto. Per questa supposizione ci basiamo su due argomenti: la vicinanza di questo luogo con il porto, dove il Marciano aveva appena comprato una cernia, e il fatto che quello è nei dintorni uno dei pochi spazi adatti alla coltivazione di agrumi, riparato com’è dai venti dominanti di tramontana e di scirocco. A Leuca poi l’autore farà appello alla sua amicizia con il cappellano (Peppu, detto lu Fersuredda) che gli accorderà il privilegio di concelebrare la messa nel giorno solenne della festività. Gli altri punti d’appoggio per mangiare e/o per dormire sono costituiti dalle abitazioni di amici del Marciano o di qualche altro componente della comitiva. Gente conosciuta in altre circostanze oppure compaesani trasferitisi lì con la famiglia. A S. Pietro in Lama ci si ferma presso un amico di Vanni Passante, il cui nome sfugge anche all’autore. Nei pressi di Vignacastrisi ad ospitarli è Orazio, massaro e sovrintendente della masseria Capriglia. Nelle vicinanze di Nardò si va a trovare un altro amico, Ulisse che vive nella masseria Li Fachechi, dove si mangia a spese de san Frangiscu, cioè senza spendere nulla, e ci si riposa per qualche ora. Ad Alessano e a Cutrofiano i viandanti vanno a trovare i nobili Filomarino, feudatari della zona, con la probabile presentazione di una lettera o dei saluti di don Michele Imperiale, mecenate dell’autore, o di qualche altro nobile suo pari. 119 Strade e sentieri Quando i bulldozer cancellano il territorio si cancellano, nel senso più letterale, anche i riferimenti della sua identità. M. Augé Per poter raggiungere le varie località, il Marciano doveva avere un’idea generale della geografia del Salento e della viabilità di cui poter disporre. Per non perdersi bisognava anche sapere interpretare correttamente i vari segni disseminati sul cammino. I segni naturali, come i boschetti, i canneti, le variazioni altimetriche, oppure i segni tracciati dalla presenza umana come i centri abitati, i confini dei terreni, i fabbricati sparsi ma, soprattutto, i segnali stradali dell’epoca rappresentati particolarmente dalle cappelle e dalle icone. La possibilità di orientarsi in un territorio poco conosciuto, specialmente quando si abbandona la viabilità ordinaria e ci si avventura sui sentieri secondari, era certamente subordinata alla corretta interpretazione di questi segnacoli sacri e all’esistenza di un codice interpretativo che permetteva di metterli adeguatamente in relazione tra di essi e con il resto del territorio. Con la diffusione della cartografia e della segnaletica stradale si è abbandonato del tutto l’uso di questo vero e proprio sistema di orientamento per cui oggi si è persa del tutto la sintassi di questo codice e con essa le sue chiavi interpretative. Probabilmente il preciso significato dei singoli segni dipendeva da molti fattori: dall’orientamento delle costruzioni sacre rispetto al percorso stradale, dalla loro dimensione, dalla loro correlazione con gli altri segni, dalla santità a cui erano intitolati, ecc. Il viandante disponeva di un vero e proprio sistema semiotico che gli permetteva di non perdersi e, all’occorrenza, anche di fare delle digressioni per poi riprendere il cammino lasciato. Abbiamo già accennato al fatto che la natura essenzialmente pianeggiante del territorio salentino aveva permesso di tracciare, fin dalle remote origini della prima presenza umana, una fitta rete viaria che lasciava spazio a molte alternative per recarsi da un luogo all’altro. Al tempo del Marciano esisteva così tanto una viabilità ufficiale, ben tracciata e adatta al transito di mezzi ingombranti, quanto una moltitudine di altri percorsi di varia importanza, percorribili magari solo a piedi o a 120 dorso di bestia. Il Viaggio sembra svolgersi utilizzando sapientemente entrambi questi sottosistemi viari dei quali ora vedremo brevemente le caratteristiche e la genesi. Il Marciano, molto probabilmente, non aveva percorso altre volte l’intero itinerario che ci descrive; lo desumiamo dallo stupore che egli prova in più punti del suo tragitto: di fronte allo spettacolo dei laghi Alimini e alla consistenza sabbiosa di alcune strade attorno ad essi (nzerte renuse vei); alla vista di un complesso rupestre abbandonato prima di giungere ad Otranto (e de quai e de ddai rutte sgarrate; probabilmente qui si parla delle cosiddette Grotte di san Giovanni, oggi ricadenti all’interno dell’abitato); nel corso del tragitto panoramico fra Vignacastrisi e Alessano (diersi luechi acchiammu allu caminu, diersi ne parianu de luntanu); sul terreno particolarmente accidentato della serra di Montesardo (addò lu moru miu tra quidde petre nce lassàu nu fierru e de cavaddu lu Nardu cadìu). Tuttavia, pur procedendo evidentemente a jentu, cioè a bussola, egli sembra conoscere perfettamente la disposizione dei centri abitati che attraversa o che scorge da lontano. Avrà consultato, prima della partenza, qualcuna delle pur rare carte geografiche dell’epoca? Aveva avuto la descrizione precisa del percorso da parte di amici e di conoscenti? Forse si servì di entrambe le fonti. Nel programmare il suo viaggio, egli avrà sicuramente raccolto molti dati parziali sui luoghi, parlandone con i suoi colleghi sacerdoti o con i frequentatori della corte presso cui operava. Il compito di raccordare i dati ottenuti per farsene un’idea generale restava affidato al suo senso di orientamento e alla sua spiccata coscienza spaziale. I sacerdoti erano allora certamente molto numerosi e, nelle loro missioni d’ufficio, si dovevano spostare continuamente da un luogo all’altro; in quel periodo il grande impegno controriformistico della Chiesa necessitava dell’opera attiva di un nutrito esercito di militanti per raggiungere i suoi scopi politici ed egemonici rispetto alle altre confessioni da mettere a tacere. In questo ruolo i sacerdoti dovevano avere una certa pratica dell’ubicazione delle varie sedi vescovili e dei seminari dell’area, ma anche, chi più chi meno, dei numerosissimi luoghi di culto sparsi in tutto il Salento. Le carte riguardanti il territorio del Basso Salento dell’Atlante 121 Geografico del Regno di Napoli (i fogli 22 e 23), redatte ai primi dell’800 (quindi circa un secolo dopo il viaggio del Marciano) da Giovanni Antonio Rizzi Zannoni per conto del Re Giuseppe Napoleone Primo, riportano, accanto ai nomi dei centri abitati, anche quelli di questi innumerevoli edifici sacri. Nell’area compresa tra Lecce e Leuca, considerando solo quelli ubicati all’esterno dei centri abitati (e quindi funzionali anche alla viabilità), ne sono annotati più di un centinaio. Spesso la stessa denominazione ne indica la gestione da parte dei diversi ordini conventuali, alcuni dei quali avevano anche la specifica missione di ospitare viandanti e pellegrini: Cappuccini, Francescani, Riformati, Antoniani, Agostiniani, Olivetani, Domenicani, Carmelitani, Giovanniani, Concezionali, Clarisse, Benedettine, Marcelline e Pasqualine. Altri compaiono solo con l’indicazione della santità a cui sono intitolati. A questo centinaio di luoghi sacri di una certa importanza architettonica bisogna aggiungere poi gli ancor più numerosi edifici minori, edicole, cappelle e chiesette, che pure comportavano, in maniera permanente o occasionale, la presenza di sacerdoti e di ministri. 122 Queste carte sono le prime a dare conto, più o meno dettagliatamente, della situazione interna della penisola salentina e della sua viabilità. Quelle precedenti erano state redatte soprattutto ad uso del traffico marittimo da parte dei commercianti veneziani e per questo descrivono con una certa precisione solo l’andamento delle coste e riportano con cura solo la presenza su di esse di empori e di possibili attracchi per la navigazione. Il territorio interno risulta invece riassunto solo con pochi tratti dalla sommaria precisione. Tuttavia anche nelle carte dello Zannoni, sebbene redatte con un impegno evidentemente già “scientifico”, la viabilità risulta tracciata ancora in una maniera abbastanza essenziale. Viene riportata solo quella di una certa importanza mentre risulta assente quel reticolo secondario che sicuramente esisteva e che offriva la possibilità di innumerevoli varianti. Ci sono buone ragioni per pensare che le vie che risultano tracciate sulle carte dello Zannoni dovevano esistere anche un secolo prima, ai tempi del Marciano. Il loro tracciato, infatti, coincide con quello “storico”, dato come già esistente in periodo protostorico e messapico negli studi sulla viabilità più antica dell’area. Da tali studi emerge infatti un estremo conservatorismo al proposito, tanto da lasciar supporre addirittura una situazione viaria protostorica che permane «sostanzialmente inalterata fino alle soglie dell’epoca moderna» (Uggeri). Il quadro di questa viabilità protostorica e della sua evoluzione nel corso dei secoli risulta tracciato in maniera piuttosto precisa dagli studi che sono stati fatti sull’argomento. Qui in particolare faremo riferimento ad alcuni di essi e cioè: Giovanni Uggeri, La viabilità romana nel Salento (Mesagne 1983); Domenico Novembre, Ricerche sul popolamento antico nel Salento con particolare riguardo a quello messapico (Milella, Lecce 1971); Cosimo Damiano Fonseca, La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente – La civiltà rupestre in Puglia (in A.A.V.V., Civiltà e cultura in Puglia, Milano 1980). I centri maggiori, come quelli di Lecce, Otranto, Leuca, Ugento, Gallipoli, Nardò, avevano sicuramente, già fin dal periodo messapico, una certa importanza rispetto alle altre località e, conseguentemente, almeno coevi si suppongono anche i tracciati viari che li collegavano (e 123 li collegano tutt’oggi); sia quelli con andamento subcostiero, sia quelli istmici, che collegano cioè le due sponde della stretta penisola salentina. La“parziale sopravvivenza (ancora oggi) di molti tronchi stradali così antichi” non stupisce, per esempio, G. Uggeri che la motiva con il perdurare di alcune costanti, legate alle condizioni ambientali ed ai modi di vita che ha determinato un complesso di condizioni che sono risultate frenanti per le innovazioni radicali, e favorevoli per la conservazione di quei segni di umanizzazione già impressi dai Messapi e dai Romani. Le cause di questa situazione conservativa egli le individua nella sostanziale continuità del quadro antropico, favorita da un paesaggio sostanzialmente immobile, fino alle lacerazioni recenti, in conseguenza di interventi spesso violenti sull’ambiente. Queste direttive principali, che all’origine erano costituite da semplici sentieri, in epoca romana si sono gradualmente trasformate prima in glarea stratae (vie larghe, ma ancora a fondo naturale) e poi in silice stratae (a fondo artificiale), tali da permettere in tutte le stagioni il transito dei carri (per il trasporto di materiale militare e di merci) e delle carpenta (le carrozze per il trasporto di persone). Accanto a queste vie vere e proprie dovevano già esserci però, fin dall’origine, anche numerosi percorsi minori, segnati da coloro che avevano sentito la necessità di collegare prima le varie grotte naturali e artificiali disseminate sul territorio, poi le varie capanne, agglomerati di capanne e, in ultimo, questi agglomerati umani con i pozzi, con i campi, con i pascoli e, fin da allora, anche con alcuni importanti luoghi sacri, testimoniati nella nostra area almeno dal periodo neolitico. La grande frequentazione attestata in questi primitivi luoghi sacri dagli scavi archeologici presuppone anche, naturalmente, i relativi percorsi di pellegrinaggio nella loro direzione. Sulla base dei dati archeologici il Salento risulta infatti frequentato a scopi cultuali fin da tempi così remoti, precedenti di gran lunga anche la classicità. I visitatori di questi primitivi santuari provenivano non solo dalle zone circostanti ma anche da luoghi lontanissimi, disseminati in tutta l’area Mediterranea. 124 Particolari condizioni geologiche, geografiche e storiche hanno favorito il sorgere, in questo luogo, di una notevole concentrazione di luoghi di culto. È attestata finora la presenza di almeno tre grandissimi complessi cultuali arcaici, corrispondenti curiosamente, fra l’altro, con il punto in cui i sistemi di serre, le modeste alture che percorrono la penisola, precipitano bruscamente in mare. Quello di Roca Vecchia presso le marine di Melendugno, con la sua grande grotta della “Poesia”, la cui volta risulta crollata ma le cui pareti sono ricchissime di iscrizioni votive.154 Quello delle grandi grotte di Porto Badisco, che custodiscono le meravigliose pittografie dette dei “Cervi”, che risalgono al periodo eneolitico e che sono presentate fin dai primi studi155 come le sacre didascalie di un percorso iniziatico. Quello della grotta Porcinara a Leuca, anch’esso ricco di iscrizioni votive, analizzate e riportate alla luce dagli scavi condotti da C. Pagliara.156 A questi siti certi se ne potrebbero aggiungere anche molti altri la cui destinazione cultuale, però, non è ancora definitivamente accertata: la grotta Zinzulusa presso Castro, il promontorio di San Gregorio presso Patù, il canalone dei Fani presso Salve, la grotta dell’Alto presso Nardò, le vicine grotte di Uluzzo, ecc. Qui è fuori luogo addentrarsi nelle ragioni che hanno determinato, di fatto, l’elezione del Salento a sito particolarmente adatto per l’ubicazione di questi grandi santuari. Ci limitiamo a segnalare solo la concomitanza di alcuni dati come la particolare natura geologica (che scava, a causa del carsismo, grandi grotte sotterranee e costiere) e la posizione geografica (al centro delle grandi rotte marittime fra le aree orientali e quelle occidentali del Mediterraneo). La natura carsica delle rocce salentine offre di per sé l’esistenza di grandi cavità naturali che impressionano come dei veri templi suggerendo, con la loro scarsa luminosità e con il gocciolio delle acque, la presenza della divinità e della sua 154 155 156 Tuttora oggetto di studi da parte di C. Pagliara. P. Graziosi, Le pitture della grotta di Porto Badisco, Giunti Martello, Firenze 1980. C. Pagliara, Leuca, Congedo, Galatina 1978. 125 voce. Si aggiunga poi la posizione storicamente liminale (e quindi elettivamente sacra) di questa terra che risulta sempre “di confine” da qualunque prospettiva la si guardi: dalla Grecia, da Roma, da Bisanzio oppure, ancora oggi, dal centro dell’Europa. Pensando all’estrema antichità di questa concentrazione di siti cultuali Elettra Ingravallo,157 riassume la posizione assunta da altri studi specialistici in proposito158 e afferma che molte delle grotte adibite fin dal paleolitico ad uso abitativo e forse cultuale, vengono solo riscoperte dagli uomini del neolitico che “in quasi tutte continuano a svolgere riti, a formulare auspici e a esprimere voti”. Come dire che esse esistono, e sono già luoghi di culto, fin dalla prima comparsa dell’uomo su questo territorio. Ma il fenomeno del pellegrinaggio assunse un particolare significato e un particolare sviluppo nel corso del Medioevo, durante il quale il Salento non rimase certo tagliato fuori dai grandi flussi di fedeli e di visitatori. Quali sono, nel Salento, le strade utilizzate a questo scopo? Il santuario di Leuca rientrava fra quelli canonicamente più accorsati: ne era stata sancita l’importanza con la concessione papale delle indulgenze plenarie ai suoi visitatori già dal 342 d.C.,159 e per raggiungerlo per via di terra occorre attraversare tutta la penisola salentina. Le caratteristiche con cui si presenta la viabilità dei pellegrinaggi medievali sono ben definite nelle osservazioni fatte dagli studi antropologici del fenomeno e qui faremo riferimento a quello fondamentale condotto da Victor & Edith Turner.160 Tale testo, però, non prende in diretta considerazione i santuari dell’area salentina. Nella sua analisi a campione sceglie di approfondire la conoscenza solo di alcuni santuari europei e quello che risulta più vicino a noi è quello di San Michele sul Gargano. Quello di Leuca, tuttavia, presenta le stesse caratteristiche di altri santuari puntualmente analizzati come, per esempio, quello di Santiago de Compostela e quindi si pos- 157 E. Ingravallo, Lontano nel tempo, Argo, Lecce 1999. Fra i quali quello di A. Leroi Gourhani, Le religioni della preistoria, Adelphi, 1993. 159 Ripetiamo qui la notizia riportata dal Tasselli in Antichità di Leuca, 1693, per cui fu il Papa Giulio I a concedere il privilegio. 160 Victor & Edith Turner, Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997. 158 126 sono estendere alla nostra località le stesse osservazioni fatte a proposito di quella spagnola. Entrambe sono situate ai confini del mondo cattolico ed europeo, in una posizione di confine oltre la quale c’è, geograficamente e antropologicamente, l’incognito e l’altro, da circoscrivere e da allontanare con l’imposizione di un segno inequivocabile di natura sacra: appunto un grande santuario. Entrambi sono avamposti del cattolicesimo da difendere con la presenza e con il flusso continuo di fedeli che affermano e oppongono la propria confessione alle minacce di quelle altrui. A ragione di questa “guerra di confine”, appena settant’anni prima della visita del Marciano (nel 1624) la chiesa di Leuca era stata infatti completamente distrutta, depredata e incendiata, da un’incursione turca (da ciò, forse, la minaccia immaginata dall’autore, di un vascello di infedeli pronto a rinnovare l’attacco). Ma questo recente fatto luttuoso non scoraggia il gran flusso di pellegrini di cui si dà atto nel poemetto, anzi forse lo motiva maggiormente. Probabilmente non esisteva un solo percorso per raggiungere per via di terra il santuario di Finisterrae, ma un sistema plurimo di tante direttive che si snodavano attorno ad alcune vie principali e più frequentate. La natura pianeggiante del territorio offriva una serie di varianti che potevano rispondere alle diverse esigenze dei viandanti. Di questo sottosistema di strade dà atto l’esistenza diffusa dei numerosissimi edifici sacri a cui si accennava prima: conventi (edificati spesso con la specifica funzione di hospitales, cioè di rifugio per i pellegrini), cappelle, icone e altri indicatori sacri. Tutti questi edifici costituivano le stazioni minori e gli altari secondari intrabasilicali di cui parlano i Turner, necessari alla preparazione spirituale del pellegrino in vista del suo arrivo alla meta santa. Ricordiamo che nei numerosi hospitales era possibile pregare collettivamente, ma anche risolvere le necessità logistiche della ristorazione e del pernottamento. Sono molti i toponimi che, in tutto il territorio salentino (masserie, case, vie e contrade), fanno riferimento a questa denominazione (spetale, spitalieddru, spetalettu, ecc.).161 161 Cfr. P. Salamac, Appunti di toponomastica rurale del Salento, Ecumenica , Bari 1984. 127 Il Salento è tuttora costellato di queste stazioni minori o di ciò che rimane della loro edificazione. Questi altari intrabasilicali costituiscono, indipendentemente dalla loro monumentalità, gli “elementi di natura simbolica”162 strettamente connessi ad un percorso di natura devozionale. Marcano, con la loro presenza, la “strutturazione sociale del territorio” e ne sanciscono l’appartenenza ad una fede e, quindi, ad un gruppo umano. Anche l’esigenza di contrassegnare lo spazio sociale e di attribuire carattere sacro ai segni che vengono posti su di esso è di gran lunga precedente al periodo medievale. Su tutto il territorio sono ancora presenti, infatti, accanto agli edifici testè nominati, anche numerosissimi monumenti megalitici come menhir, dolmen e specchie. È stato notato che tutte queste costruzioni osservano sempre una rigida relazione rispetto ai punti cardinali per cui essi assolvevano probabilmente tanto a scopi cultuali quanto alla funzione dell’orientamento. Tornando a considerare gli altari intrabasilicali che caratterizzano il pellegrinaggio medievale, notiamo che, a volte, la distanza fra questi segnacoli risulta pressoché costante. Ciò poteva consentire ai viandanti-pellegrini anche una stima delle distanze percorse. Tale stima poteva poi essere mensurata anche con lo snocciolamento di una preghiera costituita da varie “poste”, come è la recita del Santo Rosario oppure la Via Crucis. Abbiamo raccolto, a conferma di questa usanza, alcuni modi di dire tradizionali che si riferiscono alla misurazione delle distanze in riferimento al numero di “poste” necessarie alla loro percorrenza. Si può dire, per esempio: “quel luogo non è affatto lontano; tre poste di rosario e sei arrivato”. Oppure “dopo due stazioni di Via Crucis devi svoltare a mano mancina”. Un espediente di orientamento che ricorda, in qualche modo, la stessa funzione che hanno i Canti mitici 163 presso gli aborigeni australiani che si lasciano guidare, per compiere certi lunghi 162 Cfr. P. Scarduelli, La morfologia dell’organizzazione simbolica del territorio, in «La ricerca folclorica», n. 11 – 1985, dedicato all’antropologia dello spazio. 163 B. Chatwin, Le vie dei Canti, Adelphi, 1987. W.E.H. Stanner, Aboriginal territorial organization, in «Oceania», n.36, 1965. 128 spostamenti, dalla durata delle strofe e dall’andamento delle melodie. Da notare inoltre il fatto che le parola “posta” e “stazione”, riferite al Rosario e alla Via Crucis, indicano già da sole l’azione da compiere (fermarsi) durante un percorso che può essere sia reale che di preghiera. Benché in cattivo stato di conservazione, queste edicole, icone, cappelle e tempietti resistono generalmente ai cambiamenti subiti dal territorio e molti di essi sono tuttora visibili. La maggior parte degli edifici risulta visibilmente “sacrificata” (non nel senso etimologico ma in quello metaforico del termine) a favore di altre costruzioni o di un riassetto territoriale. Il crollo del sentimento della pietas ha lasciato su molti di essi il segno dell’incuria e del vandalismo. Molte immagini sacre, specialmente in corrispondenza degli occhi, risultano scrostate alla ricerca di improbabili pietre preziose nascoste sotto gli intonaci. Tuttavia spesso nei loro pressi, anche quando si trovano lontani dai centri abitati o anche quando sono ridotti ad un cumulo di pietre, si trova tuttora il segno discreto di una devozione, testimoniata dalla presenza di un cero oppure di qualche fiore. Magari di plastica. Questi edifici si trovano soprattutto in corrispondenza degli svincoli viari (lo notava anche lo studio di Uggeri: «tabernacoli, croci, colonne, edicole, e cappelle, sorgono specialmente sugli incroci»)164 per cui un’ulteriore minaccia nei loro riguardi è oggi rappresentata anche dalle ruspe che in tali luoghi realizzano, seguendo le direttive europee, le enormi rotatorie per la disciplina del traffico automobilistico. Per loro fortuna questi segni lapidei, sia quelli storici che quelli preistorici (anche molti menhir restano ancora in coincidenza con dei nodi stradali), si trovano anche lungo molte stradine di campagna ignorate dal grande traffico. Qui, spesso coperti dai rovi, hanno maggiore speranza di conservarsi più a lungo. Su tali stradine è più facile ritrovare anche quegli 164 Sul significato antropologico dell’importanza attribuita agli incroci e alle biforcazioni “sia di sentieri che di corsi d’acqua” si è lungamente soffermato F. Remotti in Concetti spaziali nande; un tentativo di analisi semantica, in «La ricerca folclorica», n. 11 – 1985, dedicato all’antropologia dello spazio. 129 “slarghi con pozzi e tabernacoli, che rappresentano punti di incontro tradizionali e punti di incontro e di mercato che sono, per questo, risultati conservativi” indicati ancora dall’Uggeri come segni rivelatori di una fervida attività umana passata. Guardando bene, nei pressi di queste primitive “stazioni di servizio”, sulla roccia calcarea si possono trovare anche, accanto ai profondi solchi tracciati dal passaggio dei carri (le cazzature), anche le fosse di deposito, le cisterne, le vaschette e gli abbeveratoi indispensabili a chi transitava e alle bestie. Nei tratti in cui l’andamento del suolo lo rendeva necessario, possono esserci anche i fossi di scolo laterali, che impedivano all’acqua piovana di stagnare sul fondo viario. Oltre a questi elementi dal carattere esplicitamente sacro il corredo viario ne comprendeva anche altri che avevano, a loro volta, una funzione esplicitamente logistica. Chi viaggiava aveva bisogno, per esempio, di dissetarsi con una certa frequenza per cui spesso si ritrovano, ai bordi delle strade, pozzi e vasche di diversa entità, edificati a volte anche con i criteri della monumentalità e dedicati espressamente (con l’apposizione di iscrizioni) ad agevolare il viandante e il pellegrino. Questi poteva essere sorpreso anche dalle intemperie per cui, con la funzione di ricovero più o meno protetto, si ritrovano lungo i percorsi anche alcune costruzioni sfinestrate ma guarnite di numerose sedute in pietra su cui era possibile sdraiarsi. Allo stesso scopo potevano fungere anche, eccezionalmente, i frantoi ipogei ubicati lungo i sentieri di pellegrinaggio, specialmente durante i periodi in cui non si lavorava alla molitura delle olive. L’itinerario del Marciano Il Marciano, fin dall’inizio del suo viaggio, per percorrere la tappa che congiunge Salice a Martano, non segue la via principale che risulta segnata sulla carta del Rizzi Zannoni e che passa per la città di Lecce. Così facendo, infatti, avrebbe allungato, benché solo di pochi chilometri, il suo cammino. Quando il percorso viene coperto a piedi, o a dorso 130 di una bestia, però, anche un solo chilometro in più rappresenta un inutile dispendio di tempo e di energie. Egli dice di essere passato prima da Carmiano e poi da San Pietro in Lama e di aver poi proseguito nella direzione di San Donato. La carta ottocentesca non indica nessun collegamento diretto fra questi paesi e, ancora oggi, essi risultano normalmente raccordati da strade che passano anche per altri paesi non nominati nel testo come Novoli, Arnesano, Monteroni, Lequile e San Cesario. Tuttavia c’era, e c’è ancora, il modo di raggiungere San Donato da Salice passando solo per le località indicate nel testo, ed è quello di seguire una viabilità secondaria, costituita da strade di larghezza contenuta, alcune di esse usate ancora oggi per il traffico rurale. La loro esistenza, peraltro, risale sicuramente a prima del Seicento. Vi si trovano infatti icone, frantoi ipogei, pozzi e cappelle e su alcuni frontini in pietra risultano chiaramente scolpite le date di edificazione o di restauro che ne attestano l’antichità. 131 Le due località di San Pietro in Lama e di San Donato, per esempio, sono congiunte da una di queste piccole strade che tocca tangenzialmente le periferie di Lequile e di San Cesario. Viene attraversata anche, in verità, la piccola frazione di Dragoni che, sebbene esistesse già, nel testo non viene nominata. Questa trascuratezza è dovuta, molto probabilmente, al fatto che l’autore la considera solo una possibile stazione di sosta, da lui non presa in considerazione perché posta ad appena un chilometro dal ristoro consumato a S. Pietro in Lama. A partire da Dragoni, subito dopo la lama (fossa) di S. Pietro,165 la comitiva si inerpica dolcemente su uno dei sistemi di serre che percorrono longitudinalmente il territorio salentino. Sulla sommità di questa cresta, come su tutte le altre, corre un sentiero che, a nostro parere, era un percorso principale di pellegrinaggio. Vedremo le ragioni di questa nostra supposizione nel corso di questo paragrafo ma, intanto, continuiamo a seguire le orme del Marciano. Appena dopo Dragoni, frazione costituita tuttora da poche case disposte accanto ad un grande frantoio ipogeo e ad una notevole chiesa dedicata a san Basilio, si incontra subito, ad un quadrivio, una cappella intitolata alla Madonna del Solano. Il frontino inciso sulla sua facciata riporta la data di edificazione (o più probabilmente di restauro) del 1639. Da questa cappella, costeggiando la modestissima altura che qui inizia a prendere corpo, si prosegue per una stretta via che fa da confine ai giardini delle pozzelle. È così detta una zona pianeggiante tuttora coltivata ad ortaggi, disposta fra i territori comunali di Lequile e di San Cesario, così denominata perché la falda freatica si trova a soli due metri dal livello del terreno per cui è costellata di una miriade di pozzi. Quelli che si affacciano ancora sulla stradina non dovevano negare un sorso d’acqua ai viandanti. Seguendo questa stradina, a meno di trecento metri dalla cappella del Solano, si trovavano due altri grandi frantoi ipogei oggi scomparsi (si ricordano nella toponomastica col nome di trappitu spunnatu, ma se ne identifica l’esatta ubicazione dall’esistenza di un consistente allarga- 165 La località di San Pietro in Lama è nota per le sue cave di argilla, depositi alluvionali ubicati, appunto, in grandi fosse o lame. 132 mento della strada che serviva per la manovra e per lo stazionamento dei carri carichi di olive. Questo tratto del percorso si chiama ancora col nome di via cona (via icona) e prende il nome da un’icona oggi rimossa (ma presente ancora nella memoria dei più anziani) che era situata in corrispondenza di un altro nodo viario che si incontra poco dopo. Qualche centinaio di metri appresso, quando già si è in vista dell’altura più accentuata di San Donato, sorge ancora, in uno stato di conservazione più pietoso che pio, la cappella della Madonna de lu laccu, che dà il nome moderno di via Madonna del Lago alla contrada. Il “lago”, un centinaio di metri dopo, consiste in un piccolo appezzamento di terreno leggermente sottoposto rispetto al livello circostante, al cui centro sono tuttora visibili tre ridotti pantani (del raggio, ciascuno, di una diecina di metri) coperti di piante acquatiche (canne e tife) che ne ostacolano l’utilizzazione agricola. Da questo punto la strada sale leggermente sulla serra su cui sorge San Donato e continua oltre verso la sua frazione, ancora più elevata, di Galugnano. Anche questa piccola località, trovandosi sul percorso del Viaggio, fu probabilmente toccata dal Marciano anche se egli non ne fa menzione. Si possono notare ancora, poco distanti dal piccolo centro abitato, alcuni tronconi viari totalmente dismessi, dalle caratteristiche, per noi, molto interessanti. Si tratta di segmenti stradali che non si trovano, come quelli finora presi in considerazione, inglobati nel sistema viario attuale ma ricadono ormai, frammentati, all’interno di proprietà private che qui sono prevalentemente coltivate ad oliveto. Questi tronconi hanno la larghezza di un paio di metri e sono delimitati, su entrambi i lati, da vecchi muri a secco. Nel dialetto salentino queste strade, per la loro dimensione, vengono dette ‘ncinabili, cioè adatte al transito di un asino provvisto del suo basto e delle sue ‘ncine (gli uncini che servivano a facilitare il carico di fascine o di sacchi). L’area in questione è abbastanza sopraelevata: da quel punto si possono vedere nettamente, guardando verso est, i monti dell’Albania, oltre il mare Adriatico, e verso ovest, nei giorni di buona visibilità, perfino le alture della Sila Calabrese, al di là del mare Ionio. Facciamo qui una breve digressione su questi tronconi di mulattiere attualmente dismesse avanzando l’ipotesi tanto suggestiva quanto poco verificabile che esse rappresentino ciò che resta 133 di un sistema viario tracciato dai primissimi abitatori del Salento e riutilizzato nel corso del Medioevo come direttiva principale dei pellegrinaggi verso il santuario di Finisterrae. Supponiamo che esse raggiungessero Leuca mantenendosi sempre sulle creste delle serre salentine, i corrugamenti disposti con andamento NO-SE. La natura particolarmente “ossuta” di queste modeste alture (la più alta, quella di s. Eleuterio, nei pressi di Parabita, tocca appena i duecento metri) non impedisce, su questi percorsi, il transito di una bestia da sella o da basto né, tantomeno, di viaggiatori appiedati. È sempre possibile, fra le rocce che affiorano, seguire, pur tortuosamente, un sentiero di larghezza contenuta. Ma perché costruire e continuare ad usare per lungo tempo dei percorsi che corrono sulle alture (li chiameremo subserranei) e non farli, come oggi si preferisce, sul fondo delle vallate? In primo luogo per poter avere, dall’alto, un maggior controllo del territorio e difendersi così dalle imboscate dei predoni. In secondo luogo per il fatto che in tal modo si potevano evitare quei pantani che potevano formarsi durante le stagioni piovose nelle aree più “a valle”, rendendole meno praticabili. Viceversa, d’estate, la ventilazione maggiore presente sulle alture rendeva certo più sopportabile la fatica del cammino. Per far sì che il loro percorso fosse ancora più sicuro, l’andamento di queste mulattiere subserranee si alternava rispetto alla cresta delle serre, permettendo al viandante di dare un colpo d’occhio ora a est di essa, ora ad ovest. Così, nel tratto stradale che va da San Donato a Galugnano, disposto a est della cresta, lo sguardo abbraccia tutta la piana di Lecce, dalle alture di Trepuzzi fino all’altro sistema di serre denominate di Martignano, in direzione dei Laghi Alimini. Continuando verso sud, nella direzione di Sternatia, invece, questi tronconi viari li troviamo disposti sul versante occidentale della cresta. In tale direzione lo sguardo corre per un’area ancora più vasta che va dalle alture di Avetrana, in provincia di Taranto, fino alle serre di Parabita. Oltre al controllo del territorio, quest’andamento a zigzag consentiva anche di riposare parzialmente la vista quando ci si trovava a viaggiare contro sole. I lenti mezzi di locomozione e la natu- 166 G. Palumbo, Salento megalitico, in «Studi Salentini», II, Lecce, 1956. 134 ra aspra del fondo stradale costringevano a tempi di percorrenza molto lunghi e il sole, a queste latitudini, è considerato un nemico da evitare in tutti i modi. Lo si evince chiaramente da molti passaggi del Viaggio, Il percorso subserraneo, inoltre, all’altezza di Galugnano cambia versante proprio in corrispondenza di un grande nodo stradale che, oggi quasi abbandonato, per lungo tempo deve aver avuto un’enorme importanza e una larga frequentazione. Vi sorge, nei pressi, una speciale “stazione di sosta” segnata, oltre che da numerosi menhir (due sono sopravvissuti e di un terzo si ha notizia dallo studioso locale G. Palumbo)166, da una chiesetta (intitolata alla Madonna della Neve) riccamente affrescata e munita di confortevoli arredi lapidei: un largo piazzale al suo ingresso, una serie di sedili in pietra, un tavolo sempre in pietra, un pozzo e un ombroso giardino di pertinenza. Vi confluiscono quattro stradine orientate nelle quattro direzioni cardinali che portano in direzione di Martignano (est), di Soleto (ovest), di Sternatia (sud) e di Lecce (nord). La comitiva di Salice, come diremo fra poco, prenderà da qui la direzione di Martignano. La nostra supposizione di una rete organica di sentieri subserranei di questo tipo si basa sull’esistenza di analoghi tronconi viari anche in corrispondenza delle altre alture e, soprattutto, nei pressi di Parabita, Supersano, Presicce e Castrignano del Capo. Spesso l’andamento preciso del percorso di cui questi tronconi facevano parte risulta oggi incerto perché in molti tratti essi sono stati integrati e confusi nella viabilità moderna. A volte, però, anche in tal caso, si può risalire alla loro origine per la persistenza di uno dei due muri a secco (quello rimasto intatto dopo l’allargamento della sede stradale operato abbattendo l’altro) di fattura evidentemente diversa e più antica rispetto all’altro. Tale fattura è analoga a quella che presentano i tronconi integri, abbandonati forse per la natura particolarmente ostile del loro tracciato (l’altitudine o la particolare asperità del suolo). Il carattere pubblico, ricoperto una volta da questi tronconi oggi quasi tutti privatizzati, è stato notato per la prima volta in un breve saggio167 che, come noi facciamo, li ipotizza tutti collegati. 167 Carmelo Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel basso Salento, Paiano , Galatina 1957. 135 Lì, però, si ritengono espressamente realizzati in funzione dei pellegrinaggi medievali verso il santuario di Leuca. Sulla base di considerazioni non sufficientemente chiarite, l’autore pensa che questa “via di pellegrinaggio” sia stata attiva fino al sedicesimo secolo per poi essere abbandonata. A quel tipo di andamento subserraneo egli attribuiva lo scopo di evitare le vie che attraversavano i feudi costieri, spesso oggetto delle scorrerie dei corsari. La nostra ipotesi che si tratti invece dei resti di mulattiere protostoriche e messapiche trova conforto in alcuni passaggi delle Ricerche sul popolamento antico del Salento di Domenico Novembre. «un’adeguata ricostruzione delle vie di comunicazione (messapiche) può essere tentata attraverso le relazioni tra viabilità romana e viabilità preromana (e, secondo i casi, pregreca) configurabile come messapica e ricostruita sulla base della distribuzione e densità dei centri messapici accertati, nonché delle aree commerciali definibili e dei lineamenti fisici. Seguendo tali criteri si delinea un tracciato (per alcuni tratti forse ricalcato su vie di comunicazione protostoriche)… penetrante all’interno della subregione del Capo». Poi si aggiunge, ed è questo che avvalora la nostra tesi, “Le vie di comunicazione messapiche dovevano consistere specialmente in mulattiere”. A questo punto, in una lunga nota, si attesta inconfutabilmente la presenza, in periodo messapico, di numerose altre mulattiere. «L’esistenza di mulattiere è già ricordata da Strabone e confermata da recenti osservazioni. Il reticolo di mulattiere messapiche (che rimane sostanzialmente quasi identico, nel suo sviluppo e nelle direttrici, in epoca romana) delinea interessanti relazioni con vie preistoriche e protostoriche essenzialmente legate a vie commerciali. … Il reticolo di mulattiere si integrava anche con vie istmiche, in epoca tarda e in dipendenza della penetrazione culturale o economica da parte di Taranto. … 136 La fittezza relativa di centri con emporio nel versante ionico autorizzerebbe ad individuare maggior traffico proprio nelle vie che gravitavano su questa parte del litorale salentino». L’origine di queste mulattiere va collegata quindi, più che ad un’esigenza legata alla viabilità moderna (e qui, con questo aggettivo, si intende anche romana), ad un uso perfettamente congruo ad epoche remote come quelle prese in considerazione dal Novembre. Rifacendoci poi a quel passaggio già riportato dall’Uggeri «il perdurare di alcune costanti legate alle condizioni ambientali e ai modo di vita ha determinato un complesso di condizioni frenanti per innovazioni radicali e favorevoli per la conservazione di quei segni di umanizzazione» non ci sembra un’eresia pensare ad una “conservazione” di questi tratti viari che abbia retto ai millenni e che sia giunta, se pure in uno stato frammentario e poco leggibile, fino a noi. C’è, inoltre, un altro fatto che potrebbe avallare l’ipotesi dell’estrema antichità di questi tratturi. Essi collegano, infatti, una serie di grandi grotte che, proprio a ridosso della cresta rocciosa, ricamano le fiancate delle serre. Attualmente esse sono note per la loro ultima utilizzazione, a scopo di culto, da parte dei monaci basiliani che, attorno all’anno mille, le hanno decorate e arredate secondo lo stile architettonico e le esigenze di culto a loro consoni. Ma, naturalmente, prima di essere utilizzate come casa di Dio e luogo di preghiera, esse sono state ricoveri di uomini che le hanno trovate già parzialmente scavate dal lungo e paziente lavorio delle acque carsiche. Proprio adiacente ad uno di questi tratturi serranei si trova, per esempio, l’articolato complesso ipogeo della Madonna di Coelimanna, nel territorio di Supersano, rilevante per i ricchi affreschi con cui sono decorate le sue pareti. L’importanza abitativa e cultuale di molte grotte salentine, attestata fin dalla preistoria,168 continua fino a tutto l’arco del 168 A. Broglio, Introduzione al paleolitico, Laterza 1998. 137 Medioevo, come si desume anche dallo studio del Fonseca169 in cui si legge: «Sulla dorsale delle Murge Salentine vanno segnalate le testimonianze rupestri di Nardò, Galatina, Sternatia, Parabita, Matino, Casarano, Supersano, Ruffano Presicce, Tricase e Lucugnano (tutte località notevolmente elevate sul livello circostante) mentre, sul versante occidentale rivela consistenti presenze criptologiche il territorio tra Ugento e il Capo di Santa Maria di Leuca». Interessato espressamente alle vicende storiche relative al periodo medievale, questo studio si limita a circostanziare l’utilizzazione delle grotte a partire dalla decadenza dell’Impero Romano; tuttavia presuppone esplicitamente un loro uso continuativo anche in epoche precedenti: «Dopo il lungo arco cronologico dell’età preclassica (Le sottolineature, nelle citazioni, sono nostre e intendono evidenziarne la coincidenza con le nostre supposizioni) è in questa fase di transizione tra tardo antico e alto Medioevo che il fenomeno della vita in grotte riprende con particolare vigore e caratterizza la facies dell’insediamento umano in larga parte delle aree meridionali italiane». In seguito, citando a sua volta lo stesso Uggeri, specifica che «Gli abitati romani erano scesi dalle acropoli munite per distendersi tranquilli nella pianura resa rigogliosa dalle bonifiche centuriali; gli insediamenti alto medievali non osano nemmeno arroccarsi sulle alture troppo visibili da lontano e scendono nelle forre nascoste della boscaglia ove solo il piede dell’indigeno sa penetrare. La strada è un concetto estraneo a questo ambiente o quanto meno associato all’idea di pericolo. Scalette, stretti sentieri ricavati nel sasso… sono tutto quello che serve in un villaggio rupestre agli uomini e alle bestie da soma». E. Ingravallo (a cura di), La passione dell’origine. G. Cremonesi e la ricerca preistorica nel Salento, Conte, Lecce 1997. 169 C. D. Fonseca, La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente - La civiltà rupestre in Puglia, in A.A.V.V., Civiltà e cultura in Puglia, Milano 1980. 138 I tronconi di mulattiere ancora riscontrabili sono più numerosi proprio in corrispondenza della serra sud-centrale del Salento, nel tratto che va da Supersano a Leuca passando per la serra del Cianci e tocca tangenzialmente gli attuali centri di Ruffano, Alessano, Montesardo e Castrignano del Capo. Questo, più avanti, ci farà supporre che l’itinerario del ritorno, indicato dal Marciano per recarsi da Leuca a Cutrofiano, possa aver seguito il corso di queste mulattiere che, dice ancora il Novembre, «forse solo in pochi tratti erano transitabili da carri». La comitiva salicese non utilizza carri, si muove a piedi e a cavallo e, quindi, può agevolmente abbreviare il suo percorso rispetto alle direttrici viarie carreggiabili (quelle riportate nella cartografia di inizio Ottocento). Queste, per evitare le asperità delle serre, collegano i vari paesi mantenendosi nei “fondovalle”. L’itinerario del Viaggio, dopo il tratto di San Donato-Galugnano, piega verso sud-est nella direzione di Otranto ed effettua una breve tappa notturna nei pressi di un borgo diroccato, collocato fra Zollino e Martano. Dopo la tappa di colazione in una chiesa di Martano, il percorso del Viaggio seguirà grosso modo, fino a Leuca, l’andamento di quell’appendice della Via Appia romana detta Via Traiana. Si tratta (sempre sulla base del citato studio di Giovanni Uggeri) di quella direttiva subcostiera che, dipartendosi dai nodi di Taranto e di Brindisi, collegava i grandi centri prima messapici e poi romani del Salento. Il Viaggio continua, infatti, descrivendo il costeggiamento di Carpignano, il transito per i Laghi Alimini e l’arrivo ad Otranto. Il tratto della Via traiana che va da Otranto a Leuca è relativamente alto sul livello del mare, ma è sostanzialmente piano, adatto anche al traffico delle merci e al dislocamento degli eserciti. Collegava infatti i due importanti porti toccando anche l’altro notevole centro di Castrum Minervae, l’odierna Castro. Da Leuca questa via romana, che da qui prendeva il nome di Via Sallentina, tornava verso nord passando per Ugento e per Gallipoli. Procedendo per tale percorso che costeggia il litorale ionico i nostri viaggiatori sarebbero andati leggermente “fuori rotta”. Per fare ritorno a 139 Salice, che rimane nella zona centrale della penisola, essi, decidono opportunamente di puntare per Cutrofiano-Galatina percorrendo probabilmente la via subserranea, più breve, più ombreggiata e più ventilata. In corrispondenza di questa direttiva si trovava infatti (lo riporta anche la citata carta di inizio Ottocento) il più grande bosco del Salento, il Bosco di Belvedere (la denominazione appare quasi come un invito alla frequentazione), che si estendeva, con andamento nord-sud, e quindi parallelo a quello delle serre, per circa quindici chilometri di lunghezza. L’altro bosco del Basso Salento, riportato nella stessa carta, è quello di Calimera, che però risulta essere molto più modesto, estendendosi solo per la quinta parte di quello del Belvedere oggi scomparso. Da Cutrofiano in poi, terminate le alture, il viaggio prosegue su strade larghe e comode che uniscono storicamente i grandi centri di San Pietro di Galatina (grande nodo viario nel centro del Salento), Nardò (importante agglomerato fin dai tempi dei Messapi) e Copertino (al tempo del Marciano grosso nodo strategico e militare). 140 Un riscontro oggi Fin qui abbiamo ricostruito il percorso del Viaggio seguendo esclusivamente le indicazioni che si ricavano dal testo stesso. In questo paragrafo vogliamo aggiungere alcune precisazioni desunte da una verifica da noi compiuta alla ricerca di ulteriori particolari e di altre suggestioni. Da quest’esperienza è derivata anche la comprensione di alcuni luoghi oscuri del testo letterario. Da pedanti quali noi siamo, abbiamo viaggiato spesso a piedi, come hanno fatto i due peduni della comitiva; altre volte ci siamo serviti di una vespa o di una mountain bike. Come ognuno potrebbe appurare ripercorrendo anche parzialmente il cammino da noi compiuto, tutto il percorso è scandito da quelle costruzioni sacre sulle quali ci siamo soffermati sopra e, quando avevamo dubbi sulla direzione effettivamente presa dai viaggiatori del Seicento, abbiamo optato per quei sentieri particolarmente ricchi di icone, cappelle e chiesette. Partendo da Salice, abbiamo ripercorso il tratto già sufficientemente descritto che portò la comitiva fino a San Donato-Galugnano. Da qui, nei pressi della cappella della Madonna della Neve, abbiamo abbandonato il sentiero subserraneo (che continua in direzione di Sternatia) e abbiamo piegato verso est, in direzione dell’altra serra detta “di Martignano”, località che si trova proprio fra Galugnano e Martano, prossima tappa della comitiva. Nei pressi di Martignano, data la sua prossimità con Calimera, supponiamo l’incontro con il furfante che sa rispondere a tono alla richiesta beffarda di Vanni De quai a Calimberda quantu nc’isse? – quanto ci potrebbe essere da qui a Calimberda? Continuando, abbiamo superato anche noi il centro di Carpignano e, presa la direzione della chiesa rurale di S. Marina di Stigliano, abbiamo costeggiato i Laghi Alimini, passando per le strade sabbiose (le renuse vei) che si trovano sul loro versante occidentale. Da lì dovettero passare i salicesi dal momento che l’attuale via litoranea, che li costeggia dalla parte orientale, è stata realizzata solo negli anni Cinquanta del Novecento, in seguito alle operazioni di bonifica delle ampie zone paludose che si estendevano da Casalabate fino ad Otranto. È proprio entrando a Otranto da queste renuse vei che si incontrano i resti del villaggio rupestre di San Giovanni (e de quai e de dai rutte sgar- 141 rate – e di qua e di là grotte crollate) residuo sventrato di un grande complesso abitativo e cultuale abbondantemente indagato dagli studiosi. Le ossa dei Santi Martiri, visitate con compassione dai nostri, stanno ancora lì ncatastati a due stepuni – accatastate in due alti stipi – nella cattedrale annessa alla sede vescovile, con le loro mani e piedi e càpure tagliate – mani e piedi e teste tagliate. Pretendiamo, come abbiamo detto altrove, di aver individuato anche il sito dell’agrumeto dove la compagnia fu ospite del reverendo Chinu Pelusu: con ogni probabilità si fermarono nel tratto finale della Valle delle Memorie, a qualche centinaio di metri dall’area portuale, fra la cappella dedicata alla Madonna del Passo e la base del colle della Minerva. Uscendo da Otranto e passando davanti all’ingresso della crollata abbazia di Casole (nota per essere stata nel Medioevo un importantissimo centro di produzione e di copiatura di materiale librario) per una sconnessa strada rurale che raggiunge i ruderi dal loro lato ovest, abbiamo seguito i sentieri subcostieri che attraversano la vallata di Porto Badisco e proseguono oltre, in direzione di Castro. Per tentare di ricostruire fedelmente questo tratto del percorso che non coincide certo con quello della moderna via litoranea, dato che il Marciano non indugia in nessuna indicazione specifica, ci siamo affidati alla presenza su di esso dei soliti edifici sacri e di altri segnacoli lapidei che, come abbiamo detto, nel Seicento rappresentavano dei veri e propri indicatori viari. Subito dopo il monastero di Casole, seguendo una stradina interpoderale contrassegnata dalle profonde scanalature dovute al passaggio dei carri, si incontra, isolata nella grande piana di Badisco, la chiesetta che fa parte della masseria fortificata di Cippano. Superando dal lato sud, senza entrarvi, l’abitato di Uggiano La Chiesa, nei pressi del monastero dei S.S. Medici, si trova, ai bordi della stradina che si dirige verso Cerfignano, un grande menhir. Seguendo il percorso rurale, oggi quasi cancellato e in qualche punto poco praticabile per lo stagnamento di pozzanghere, qualche centinaio di metri dopo, ci si imbatte nella cappella isolata della Madonna della Serra, abbandonata e sventrata dal vandalismo. Qualche centinaio di metri dopo, il percorso, oggi in aperta campagna, si allarga considerevolmente nei pressi della diruta masseria Consalvo e offre un ampio spiazzo a fondo roccioso e piano, segnato 142 da numerose cazzature di carri, che testimoniano una grande frequentazione del luogo (grandi feste, fiere?). Sebbene quasi interamente crollata nella sua parte più antica, abbiamo individuato, nei pressi di Vignacastrisi, la masseria dove la comitiva salicese fu ospite di Orazio, che è detto massaru e soprintendente a Capriglia. Alle spalle dell’attuale centro termale di Santa Cesarea ci sono i ruderi di due masserie che, sulle cartografie particolareggiate sono indicate coi nomi di “Capriglia di sopra” e “Capriglia di sotto”. Per individuarne l’ubicazione abbiamo penato non poco perché, probabilmente, sono state abbandonate più di un secolo fa per cui il loro nome si è cancellato anche dalla memoria dei contadini della zona. I due ruderi distano fra loro meno di un chilometro e attualmente risultano adiacenti a due cave da cui si estrae pietrisco e materiale inerte. Propendiamo a identificare il sito nominato nel Viaggio con la masseria Capriglia di sotto, che conserva ancora oggi le tracce di una struttura ricca e articolata, con i suoi alti muri a secco (che ne costituivano li curti destinati allo stazionamento delle bestie) e con i resti di alcuni vezzi architettonici (cornicioni e finestroni decorati) che rimandano a modalità costruttive in uso nel Seicento. Nel Settecento e nell’Ottocento, nell’edilizia rurale questi ornamenti sono stati, infatti, semplificati o, più spesso, del tutto omessi a favore di un’architettura più sobria e all’insegna della mera funzionalità. Da Capriglia ad Alessano le indicazioni fornite dal testo sono più precise (Passammu pe Dupressa e pe Tutinu, e lassammu Tricasi a manca manu – Passammo per Depressa e per Tutino e ci lasciammo Tricase a mano manca) ma a causa dell’intensa urbanizzazione dell’area, gli antichi sentieri sono stati spesso trasformati in moderne vie larghe e asfaltate e restano così confusi nello snodarsi della viabilità moderna. Nel corso di questa riorganizzazione urbana e viaria il tracciato antico è comunque ricostruibile seguendo, sempre, i numerosi segni lapidei che sono stati risparmiati a causa del loro carattere sacro. Da Alessano abbiamo preso anche noi per Lu sierru de Montesardu – La serra di Montesardo –, seguendo non già la moderna statale 275, ma il percorso antico che passa per il cimitero del paese e dal villaggio rupestre di Macurano, segnato dalla cappella dedicata a s. Stefano.170 170 Questa cappella, come la minuscola abbazia di s. Barbara che nomineremo tra poco, 143 Poi ci siamo inerpicati, per il percorso subserraneo, fino al sacro monte di Leuca. Anche questo tratto è contrassegnato da icone, grotte, cappelle e chiesette. Una piccola abbazia, nella campagna appena fuori Montesardo, è dedicata a s. Barbara. È affrescata e corredata di una piccola canonica. Poco distante si trova anche un enorme frantoio ipogeo che, lo ricordiamo, poteva anche fungere da ricovero per i viandanti. Altri indicatori dell’esistenza di un transito sacro su questo percorso sono la chiesa di s. Dana, che dà il nome alla località omonima, e il luogo di culto in grotta intitolato a santa Apollonia, oggi oggetto di lavori di consolidamento. Il percorso del ritorno, da Leuca fino a Collepasso, lo abbiamo supposto per la via centrale che segue l’andamento della dorsale detta “del Cianci”. Qui, in mancanza di un percorso continuo che segue la cresta della serra, ci siamo inerpicati alla ricerca di quei tronconi della viabilità arcaica di cui abbiamo già parlato, ricostruibili, ancora una volta, sulla base della disposizione delle numerosissime icone, cappelle e chiesette (fra le principali nominiamo la Madonna del Riposo sulla serra di Alessano, la Madonna della Serra sulle alture di Ruffano e la Madonna di Coelimanna che domina Supersano). Il tratto Galatina – Nardò – Salice, come abbiamo già detto, è collegato da strade larghe e asfaltate (tuttavia sempre corredate di monasteri, di cappelle e di icone, qui particolarmente numerose e ben tenute) che ricalcano percorsi che erano già importanti in epoca messapica. A Nardò la festa dell’Incoronata è celebrata ancora oggi e si caratterizza per la sfilata dei cavalieri che colpì tanto il Marciano. Oggi non sono più i preti impellicciati a montare i cavalli, ma gli stessi proprietari delle bestie che le curano e le addobbano riccamente per l’occasione. La data attuale della festività risulta spostata al mese di settembre ma la memoria degli anziani ricorda che la data tradizionale era quella riportata dal Viaggio, il primo sabato di agosto. In quell’occasione, ci è nonché la stessa chiesa di S. M. di Leuca, risultano censite, nel 1628, dalla visita apostolica della diocesi di Alessano da parte del vescovo di Venosa Andrea Perbenedetti, incaricato di questa “verifica” dal Papa Urbano VIII. (Archivio Segreto Vaticano). 144 stato riferito, scadevano peraltro anche i contratti di locazione delle terre e dei fabbricati. Con la data, oggi è cambiato anche lo spazio in cui si tengono i festeggiamenti, che sono stati spostati nel centro dell’abitato. La chiesa dell’Annunziata, però, esiste ancora, sorge nella periferia occidentale del paese ed è adiacente al grande convento dei frati Agostiniani. Tutto il complesso ha i caratteri dell’architettura seicentesca ed è oggi in corso di ristrutturazione. Dopo aver descritto la sosta a Nardò, le trascrizioni del testo riportano una frase che dice Sciamu a stari addò aìmu lu Lissi e lu Fachechi – passiamo a riposarci presso i nostri amici Ulisse e Fachechi. Ma nel nostro ripercorrere l’itinerario del Viaggio, giunti a Nardò, abbiamo saputo dell’esistenza di una masseria, che si trova proprio nella direzione di Salice, denominata, in coincidenza col testo, Li Fachechi. Tale toponimo, elencato fra le masserie, compare anche negli Appunti di toponomastica rurale del Salento curati da Pietro Salamac (Eumenica Editrice, Bari 1984), nonchè nelle carte dell’I.G.M. Siamo andati a visitare il fabbricato, ne abbiamo constatato l’esistenza e l’antichità e, in ultima analisi, ci siamo spinti ad una proposta di correzione del testo. Con la sola interpretazione diversa di due vocali si ottiene, infatti, Sciamu a stari addò aìmu lu Lissi a li Fachechi – passiamo a trovare il nostro amico Ulisse, a Li Fachechi, espressione che ricalca quella analoga del testo quando dice ca avìa jeu dae lu Raziu, ommu galanti, capu massaru e soprastanti a Capriglia – perché io conoscevo lì Orazio, capo massaro e sovrintendente a Capriglia. Anche la masseria Li Fachechi, sebbene attualmente in corso di ristrutturazione, mostra gli stessi segni lapidei della masseria Capriglia (muri a secco alti e di fattura datata; le sporgenze in pietra che servono a proteggere la sommità delle finestre, modellate e scanalate secondo quella tipologia seicentesca che si riscontra largamente, per esempio, nell’architettura del centro storico di Gallipoli, dove vengono chiamate cappelletti; i piccoli vani aggettanti realizzati nel corpo del fabbricato del piano superiore, spesso destinati per ricavarne una latrina). La stessa presenza di un piano superiore trova riscontro nel testo quando l’autore dice Poe (Lu Lisse) supra me purtau manuzzeccatu,…ma prima e sagliu jeu le fici pattu cu nu bisciu tal ommu com’è fattu – poi mi prese per mano e mi portò di sopra, ma prima di salire mi feci promettere di non dover incontrare più quel bestione. 145 Fra questa masseria e Salice si stende un territorio totalmente pianeggiante, percorso da numerose vie rurali di cui il Marciano si è potuto servire per raggiungere la sua casa. Niente toglie, però, che egli abbia percorso la via principale, coincidente con la sua rotta ottimale, che tocca le due località di Leverano e di Veglie che, comunque, egli non nomina. Forse era ancora agitato per il fastidioso scontro avuto col munacone, oppure era talmente stanco e ansioso di stendersi sul suo letto, da percorrere distrattamente quegli ultimi quindici chilometri di viaggio senza annotare particolari di rilievo. Oppure era stanca la sua musa, che non vedeva l’ora di appendere il calascione alla trabacca. 146 Parte Seconda Il Salento ieri e oggi: da luogo antropologico a nonluogo della surmodernità L’ossessione odierna di recuperare i segni della storia presenti nei paesaggi (il restauro e la “valorizzazione” dei monumenti) è in una fase di estetizzazione, di desocializzazione e di artificializzazione. M. Augé Le trasformazioni in luogo turistico e gli effetti dirompenti che ne conseguono sono in grado di innescare il processo di transizione dal luogo al nonluogo, inteso sia come modalità dello spazio, sia come negazione e assenza dei valori del luogo… Il passaggio dallo “spazio visitato” allo “spazio organizzato” allo “spazio consumato” è obbligatorio e spesso molto rapido. Maura Cetti Serbelloni 147 Differenze e analogie L’aspetto che aveva il paesaggio salentino all’epoca del Marciano era evidentemente molto diverso da quello attuale, come diverso era pure il modo di guardare al territorio e di relazionarsi con esso. Tuttavia se si guardano alcune immagini documentaristiche girate qui solo mezzo secolo fa171 si ha modo di vedere un Salento che è probabilmente molto simile a quello descritto dal Marciano sul finire del XVII secolo. Strade polverose e semideserte, infinite teorie e diramazioni di muretti a secco dalla geometria che si direbbe “organica”, un’edilizia urbana che appare come congelata in una dimensione estremamente conservativa del territorio e dei manufatti umani su di esso. In questi ultimi cinquant’anni si è avuto dapprima un notevolissimo incremento edilizio realizzato soprattutto con le rimesse degli emigranti (queste aggiunte nel paesaggio si avvertono anche per il loro stile costruttivo, che risente delle suggestioni acquisite in Svizzera, in Germania o nel nord Italia) e poi una rapida e sostanziale trasformazione generale dovuta a un cambiamento di destinazione dell’intera area. Nel corso degli ultimi tre decenni la penisola salentina, da area tradizionalmente (e plurisecolarmente) agricola, si è votata esclusivamente al turismo e da allora si è sforzata di orientare sempre più in tal senso l’assetto del suo territorio. Le dinamiche che si verificano in questo tipo di trasformazione sono oggetto di studio della geografia turistica che, in analisi di portata planetaria, è concorde nel mettere in guardia dagli inevitabili rischi che si corrono. Maura Cetti Serbelloni nel volume Il luogo (Pensa, Lecce 2003) passa in rassegna gran parte di questa letteratura scientifica e indica puntualmente la natura di queste insidie che comportano quasi sempre l’annientamento delle specificità locali in una parabola obbligata di “disneyzzazione”, di “museificazione” e di generale inquinamento culturale. 171 Per esempio quelle riprese dal regista Corrado Sofia per il documentario Puglia Magica, 1962, Teche RAI, oppure da Gianfranco Mingozzi per La Taranta, girato al seguito dell’equipe di Ernesto de Martino nel 1959. 148 Nel Salento gli interventi di adeguamento turistico, “modernizzando” l’aspetto del paesaggio e adeguandolo gradualmente agli standard, stanno conseguendo paradossalmente un risultato opposto alle intenzioni originarie che intendevano proporre qui un turismo “ruspante”, in una terra ricca di memoria e di tradizioni, sbandierando una specificità data da un paesaggio arcaico, fatto di grandi estensioni di uliveto e ricamato da una ragnatela di muretti a secco. Di fatto, di giorno in giorno, questo paesaggio viene sempre più aggredito e cancellato dallo stesso turismo, che esige infrastrutture tanto funzionali al suo sviluppo quanto anonime e astratte dal contesto in cui vengono poste. Abbiamo iniziato a riflettere sulla natura di questi processi in occasione di una serie di incontri con gli studenti di Antropologia Culturale dell’Ateneo leccese, nel corso di un laboratorio da noi tenuto sul tema “Mutamenti nella coscienza territoriale in seguito al processo di modernizzazione”. Ci era stato affidato dalla prof. Anna Merendino, responsabile dell’Insegnamento e particolarmente sensibile all’approfondimento di questi temi. Già in quell’occasione abbiamo avvertito e rimarcato la necessità di un’organica antropologia dello spazio riferita al territorio salentino, particolarmente utile di questi tempi per la corretta gestione dei grandi mutamenti territoriali, e conseguentemente culturali, in atto. Il lancio del Salento sul mercato turistico nazionale si basa, oltre che sulle predette caratteristiche territoriali, anche su altri elementi della cultura tradizionale e segnatamente sul dialetto e sulla musica, specialmente quella utilizzata un tempo per guarire dal tarantismo, la cosiddetta pizzica pizzica. I risultati raggiunti da quest’operazione di marketing in termini di visibilità nel panorama nazionale e internazionale sono innegabili e hanno portato al fatto che quest’area, prima quasi del tutto sconosciuta al resto d’Italia, è ora sulla bocca di tutti. Ha i suoi personaggi che la rappresentano sul palcoscenico mediatico (attori, cantanti e comici che utilizzano spesso, per le loro performances, anche il dialetto) e rimbalza sempre più di frequente nella cronaca nazionale. Prima che avesse inizio questa fortunata operazione di mercato, per esempio, le previsioni del tempo proposte dalle emittenti televisive nazionali ignoravano del tutto questa subregione che compariva a stento, quasi fuori dello schermo e, comunque, non era mai nominata se non, genericamente, come “Puglia”. Ora, invece, anche il Salento si è conquistata la 149 sua nuvoletta personale e gli altri simboli meteorologici, e tutti gli speakers sembrano compiacersi di pronunciare familiarmente la parola “Salento”, lasciando intendere con soddisfazione di esserci stati di persona. In conseguenza di questa visibilità acquisita, se prima le manifestazioni culturali e la valorizzazione del territorio erano affidate a sparute ed estemporanee associazioni Pro Loco, costituite da volontari occasionali, ora di tali attività si occupano in maniera organica le diverse Istituzioni Pubbliche, attraverso l’iniziativa e l’impegno di appositi assessori al Marketing Territoriale, al Tempo Libero, alla Cultura o allo Spettacolo. Il successo di questa operazione di marketing turistico spinge anche ad una sostanziale e frettolosa trasformazione del territorio che trascura il peso che questi cambiamenti hanno nella coscienza degli abitanti. Questa operazione di restyling del paesaggio compare spesso nella cartellonistica dei lavori stradali o edili come “riqualificazione del territorio” e con ciò si attribuisce da sé un’indiscutibile valenza positiva che lascia pensare ad un miglioramento dell’aspetto e della funzionalità degli spazi. Purtroppo, invece, generalmente questo non corrisponde alla realtà perché, di fatto, tali operazioni comportano anche l’insorgere, negli abitanti, di un senso di frustrazione dovuto all’espropriazione di spazi che tradizionalmente erano sentiti come comunitari e al senso di spaesamento che ne deriva. Una diversa percezione del territorio è da considerarsi un cambiamento culturale di grande rilievo, che non può permettersi sterzate brusche perchè ha bisogno di essere adeguatamente metabolizzato dagli utenti. Il turismo, con la sua esigenza di adeguamento del paesaggio alle sue aspettative, non è, naturalmente, l’unico elemento responsabile di questo spaesamento. Un’altra causa di grandi trasformazioni, per esempio, è ravvisabile nella nascita, ai bordi delle grandi arterie di comunicazione, di un continuo susseguirsi di aree industriali e artigianali che esigono anch’esse modalità costruttive assolutamente incoerenti rispetto a quelle tradizionali. Anche qui c’è da notare il paradosso per cui un territorio a vocazione dichiaratamente turistica appresta una vetrina di se stesso e costruisce una grande muraglia di capannoni industriali certamente poco accattivante e capace di oscurare ogni traccia del paesaggio “arcaico” e tradizionale promesso nei dépliants. La Facoltà di Scienze sociali, Politiche e del Territorio dell’Università del Salento ha 150 per esempio, in un suo studio, preso in esame l’aspetto assunto dalla lunga arteria centrale che collega il capoluogo salentino con Leuca, facendo rilevare che le ragioni economiche e commerciali che hanno orientato isolatamente ogni singolo Comune, prive del necessario coordinamento pianificatorio, hanno finito col dare i discutibili risultati a cui accennavamo. La conoscenza complessiva dei dati che riguardano il rapporto storico esistente fra il territorio e i suoi abitanti rappresenterebbe indubbiamente un utile strumento di riflessione e di approfondimento, tanto per colui che si propone di gestire le trasformazioni del paesaggio, quanto per colui che ne fruisce e/o si trova a subirne gli effetti. Il presente lavoro, in questa sua seconda parte, avverte l’urgenza di queste riflessioni e si prova a contribuire ad esse avviando un’analisi della percezione tradizionale dello spazio limitata a quello abitativo, cioè la casa. Successivamente, pensando ai grandi cambiamenti che sono intervenuti nella coscienza spaziale nel corso degli ultimi quarant’anni, si metteranno in luce alcuni comportamenti odierni relativi alla capacità di orientarsi e di sentirsi appaesato, considerando queste attitudini strettamente correlate ad alcune diffuse e lamentate disfunzioni sociali. Collocheremo infine questi anomali comportamenti “moderni” nello scenario apocalittico disegnato da E. de Martino nei suoi appunti per La fine del mondo, partecipando al suo grido di allarme e sperando, con lui, di contribuire all’identificazione di alcuni limiti epistemologici che caratterizzano la nostra società e il nostro tempo. La percezione tradizionale dello spazio Tutti gli spazi vengono culturalizzati,172 cioè percepiti in un determinato modo dalla società che li vive; dai luoghi che ci circondano quotidianamente come la casa, il vicinato, il quartiere, il villaggio, il luogo 172 Remotti-Scarduelli-Fabietti, Centri, Ritualità, Poteri; significati antropologici dello spazio, il Mulino, Bologna 1989. 151 di lavoro, a quelli più lontani, più o meno noti o anche sconosciuti. Tutti i luoghi, anche appunto quelli sconosciuti e perfino quelli immaginari, assumono un particolare significato a seconda dell’elaborazione a cui sono soggetti in un dato contesto culturale. La culturalizzazione dello spazio avviene con l’imposizione su di esso di alcune categorie come quelle di “pubblico”, “comune”, “privato”, “sacro”, “profano”, “di lavoro”, “di svago”, “indicato” o “interdetto” e questa categorizzazione tiene conto del sesso, dell’età o del censo dei fruitori di un dato spazio. La particolare valenza assunta dai vari luoghi nei diversi ambiti culturali deriva dalla complessa imposizione di queste categorie che, combinandosi variamente, ne determinano lo specifico senso culturale. Come premesso, alle considerazioni su questo argomento che si evincono dalla lettura del Viaggio, qui aggiungiamo la descrizione dell’atteggiamento tradizionale nei riguardi dello spazio abitativo (la casa), ponendo particolare attenzione nei riguardi delle categorie di “Pubblico” e di “Privato” che si impongono sui vari luoghi. Ne consegue uno specifico comportamento culturale nei riguardi del concetto di proprietà e, quindi, del motivo antropologico della “difesa dei confini” e della “pertinenza territoriale”. Un esempio: la casa a corte La casa (casa) Con tale termine si intende, naturalmente, una grande varietà di unità spaziali abitative, dal piccolo monolocale sprovvisto perfino dei servizi basilari alla grande costruzione composta da numerose stanze, disposte magari su più piani; dall’abitazione urbana alla masseria, alla casupola di campagna. Le osservazioni che stiamo per fare si riferiscono ad uno solo di questi modelli abitativi, la casa urbana “a corte”, domicilio del contadino o dell’artigiano. Corte, abitazione, orto e terrazza La corte (curte) è un ambiente introduttivo, in massima parte scoperto, comune a più abitazioni, a cui si accede, a volte, attraverso due colonne, un arco o altro segno lapideo che lo distingue dal resto dell’ambito 152 viario pubblico. Nella corte trovano posto alcuni servizi comuni alle abitazioni che ad essa fanno riferimento come il pozzo (puzzu, cisterna), il lavatoio (pila) e il pozzo nero per lo scolo della fogna (scettalòra). Le varie abitazioni che si affacciano sulla corte sono costituite da un esiguo numero di stanze (cammere), da una sola a 4-5, solitamente disposte lungo una linea che si irradia dal centro della corte e che conduce ad un orto posteriore di dimensioni variabili ma sempre contenute. Pertinenza della casa è anche, naturalmente, la terrazza (loggia), che può essere parzialmente o totalmente praticabile a seconda del tipo di copertura delle varie stanze, a tegole (ìmbreci) o a solaio (làmia, stella). Ognuno di questi quattro ambienti di cui è composta l’abitazione è soggetto a diverse leggi che ne regolano la condizione di pubblico/privato. Si tratta, in realtà, di convenzioni non scritte in atti legali ma da tutti riconosciute e condivise. Le esamineremo in modo specifico per ciascuno degli ambienti. La corte (curte) Spazio collettivo di pertinenza delle case che si affacciano su di essa. Il suo accesso dalla strada non è, di solito, chiuso da alcun portone o cancello. La comproprietà della corte comporta una vigilanza collettiva perchè venga rispettata questa ambigua condizione fra pubblico e privato. Solo di recente, comunque successivamente alla modernizzazione della nostra cultura, i diversi proprietari si accordano, a volte, per munire questa sorta di spazio condominiale di un cancello. Non si nomina formalmente nessun capo condomino della curte ma, in caso di diverbi fra i suoi abitanti, ci si rivolge ad un anziano ritenuto saggio e imparziale (il Marciano lo direbbe nuratu – onorato). Tutti gli abitanti della corte sono pienamente fruttuari dei servizi comuni, il pozzo-cisterna (puzzu, ùstia, cisterna, vòjuru, lavòra), il lavatoio (pila) e il tombino (scettalòra), e dispongono con una certa prelazione dello spazio antistante alla loro abitazione. In realtà possono anche usare gli altri angoli dell’ambiente condominiale se vi è una evidente ragione per farlo (per esempio per sedersi all’ombra piuttosto che al sole o perchè una certa attività lavorativa necessita di uno spazio più ampio o più alto). La corte è spazio privato di proprietà dei condòmini, ma non è escluso l’ingresso in essa di estranei che vengono trattati in maniera differente a seconda dei casi. 153 Ogni abitante del paese vi ha libero accesso, purché dichiari la sua presenza con un saluto al primo abitante che incontra e risponda alla domanda che gli viene posta circa la persona di cui è in cerca. Con la risposta al saluto avrà anche indicazioni circa la presenza (o meno) in casa della persona richiesta e gli verrà detto anche, magari, che cosa sta facendo; oppure, se è uscita, dove si è recata: in piazza, dal barbiere, in campagna, fuori paese, ecc. Allo stesso trattamento sono soggetti anche i funzionari pubblici come le forze dell’ordine, il postino, gli esattori, ecc. I mercanti, i venditori ambulanti, eventuali artisti viaggianti, invece, devono essere espressamente invitati a entrare almeno da uno degli abitanti, specialmente quando sono “facce sconosciute”, cioè estranei alla comunità del paese. Nessun forestiero, o comunque sconosciuto, può infatti aggirarsi nella corte se non con estrema discrezione. L’abitazione (casa) Entrando nell’abitazione si incontra una prima stanza (cammera, stanzia) che di solito è una cucina-living. La porta d’ingresso non è generalmente chiusa a chiave fino a che in casa c’è qualcuno ed è quasi sempre agevolmente apribile dall’esterno. Se si ha libera circolazione nella corte si può anche liberamente accedere in questa parte dell’abitazione. Basta far sentire ad alta voce la propria presenza, magari chiamando un membro della famiglia. Questa stanza non ha segreti; se uno vi entra vi si può muovere senza disagio, guardando e toccando con relativa libertà gli oggetti che vi si trovano. Un membro del “vicinato”(li ecìni, le ecìne, cumpàri e cummàri), specialmente se è di sesso femminile, potrà entrare o uscire da quest’ambiente anche senza una particolare ragione, sentendola, in qualche modo, come un’estensione della propria stessa abitazione o, meglio, della corte. Vi si potrà recare per offrire un servizio o per richiederlo (per es. per intrattenere temporaneamente un bambino o per affidarne uno suo a un membro della casa; per separare i legumi dalle impurità, per mondare la verdura, per lavorare a maglia, per filare la lana, ecc.), ma anche solamente per riposarsi o per scambiare qualche parola con le comari (spetteculisciàre). Questo ambiente semicondominiale, ad uso della cerchia del vicinato, cessa di essere tale, naturalmente, durante le ore notturne e durante la consumazione dei pasti. In quest’ultimo caso si entra solo se si ha 154 una buona ragione, dopo aver bussato con molta discrezione e dopo le sincere insistenze da parte dei padroni di casa. Il semplice invito formale “ci restàti mangiàti cu nui” presuppone, infatti, la risposta “buon appetito” e il rapido abbandono dell’abitazione. L’altra o le altre stanze sono, di solito, stanze da letto e queste, specie quella occupata dal talamo, sono off-limits per chiunque; tranne che qualcuno non venga espressamente invitato ad appartarsi lì con uno dei coniugi. Neanche i figli (piccoli o grandi) possono invitare gli amici nelle stanze da letto, ed essi stessi non vi si attardano se non per dormire o in caso di degenza. La stanza da letto, specie quella coniugale, è infatti anche il posto in cui si conserva tutto ciò che non deve stare sotto gli occhi di tutti: gli ori di famiglia, i soldi, la biancheria, gli atti di proprietà o altri documenti (le carte). Il comò, la cassa della biancheria, il tolettone e l’armadio sono l’arredamento di queste stanze e il loro contenuto deve essere tenuto d’occhio per paura dei furti, dei giudizi negativi altrui o della temuta invidia. L’orto (uèrtu, ortale) Per giungere in questa parte della casa occorre attraversare le stanze da letto; dunque anche quest’ambiente è di una particolare privatezza, accentuata dal fatto che spesso è lì che è collocata anche la latrina. Il carattere privato dell’orto è esteso anche alle eventuali colture ivi insediate: qualche alberello di agrumi o di altra frutta e qualche pianta di verdura per il consumo domestico (non commerciale). Nell’orto può trovare posto anche una tettoia (suppinna) per il ricovero di eventuali bestie (mulo, cavallo, asino, gallina, ecc.), della legna da ardere o di qualche attrezzo da lavoro. La terrazza (loggia) Anche questo spazio è considerato proprietà strettamente privata. Non è conveniente neanche per i confinanti scavalcare i bassi muretti che separano le proprie terrazze da quelle altrui. Sulla terrazza si compiono infatti diversi lavori come sventolare i legumi per separarli dalle impurità (come si farebbe su di un’aia), mettere a seccare i fichi o la conserva di pomodoro, stendere la biancheria, ecc. La frequentazione di questo luogo è oculata e limitata, sia per il rischio di cadere giù che per la delicatezza dell’impiantito (làmia) che non deve essere mai maltrattato. 155 Il campo (fore) Mentre l’artigiano utilizza per lavorare gli stessi ambienti in cui abita e dispone anche con una maggiore libertà della corte e degli slarghi stradali, il contadino deve recarsi a lavorare quotidianamente in campagna, un appezzamento di terreno che di solito è situato nell’immediata periferia del villaggio, così da poter essere agevolmente raggiunto (a piedi, con la bicicletta o con un animale) in un tempo relativamente breve. Qui se ne prende in considerazione il tipo di fruizione perché, per certi aspetti, anche il campo è assimilabile a un’estensione della casa. Su questo appezzamento di terreno può anche insistere un piccolo ricovero realizzato generalmente con pietre a secco (pagghiàra, furnièddru, casèddra), il cui ingresso può essere protetto da una porta sprovvista di serratura. La sua chiusura è realizzata con mezzi di fortuna (cordicelle, fili di ferro, paletti, ecc.) e ha la funzione di impedirne l’ingresso agli animali liberi (uccelli o cani). La violazione discreta di questo uscio in caso di necessità (pioggia o ricovero notturno) non rappresenta un vero e proprio reato anche perché al suo interno il proprietario custodisce solo beni di valore trascurabile (fascine di legna o piccoli attrezzi da lavoro). A seconda della sua grandezza e del tipo di coltura che vi viene praticata, il campo assume diverse denominazioni: funnu, uertu, sciardìnu, fièu, mascìsa, fattizza, chiusùra, stozza. Già colpisce (e sarebbe anche da approfondire dal nostro punto di vista del diverso tipo di percezione che se ne ha) la grande quantità di termini di cui il dialetto dispone per indicare un appezzamento di terreno a seconda, appunto, della sua dimensione, del suo uso, della sua destinazione, della sua conformazione, del suo stato corrente, del titolo di possesso (affitto, enfiteusi, proprietà). Ma quello che ci interessa in questa sede è sottolineare la relativa libertà con cui, se ce n’è il bisogno, si possono scavalcare i bassi muretti a secco ed entrare nelle proprietà private per attraversarle o per esercitarvi le frequenti attività di raccolta della verdura o della fauna spontanee. Per accedere nei campi valgono, più o meno, le stesse regole che abbiamo esposto per la corte: occorre salutare ad alta voce chi vi sta lavorando per dichiarare le proprie intenzioni oneste e, nel caso non sia presente nessuno, mantenersi sulle carràre, ai bordi dei muretti e, comunque, non arrecare danno alle eventuali colture. 156 La percezione dello spazio in seguito al processo di modernizzazione Il mondo della surmodernità, con i suoi eccessi di tempo, di spazio e di percezione individuale, non corrisponde esattamente a quello in cui crediamo di vivere. Viviamo infatti un mondo che deve essere osservato in maniera diversa e nuova. Abbiamo bisogno di reimparare a pensare lo spazio. M. Augé Fin da queste osservazioni si ricava l’esistenza nella tradizione di un concetto di proprietà che risulta molto più elastico di quello moderno, che comporta una maggiore condivisione degli spazi e una certa tolleranza nella valicabilità dei confini agrari. I numerosi muretti a secco che particellizzano le grandi estensioni di terreno avevano più il senso di evitare la dispersione delle greggi e degli armenti (oltre a quello di ripulire la terra dalle tante pietre che ne ostacolerebbero lo sfruttamento) che non quello dell’invalicabilità. Il Salento è quella terra dove fino a poco tempo addietro era possibile vagare per giornate intere alla ricerca dei tanti esemplari della flora e della fauna spontanee (cicorie selvatiche, asparagi, erba di mare, origano, papaverine, bulbi commestibili, funghi, lumache, ricci di terra...) che compaiono nelle diverse stagioni. I proprietari dei fondi o i loro amministratori non si sognavano neppure lontanamente di mandare via le famiglie che discretamente si procuravano così un piatto di minestra o di companatico. Tanto era diffusa questa tolleranza che a noi piace pensare che risalga addirittura alle tribù di cacciatori e di raccoglitori del neolitico e che da allora abbia trovato fino ai giorni nostri una progressiva legittimazione nella coscienza collettiva. A conferma dell’esistenza di questo tacito consenso dei proprietari terrieri nei riguardi dei raccoglitori occasionali ci sono molti proverbi e modi di dire: Robba ca ha fatta Diu mangia tu ca mangiu iu – Roba fatta da Dio mangi tu e mangio io; La robba te campagna ete te Diu e de ci se la magna – La roba di campagna è di Dio e di chi se la mangia; 157 Robba te lu cuvernu ci nu rubba va allu ‘nfiernu – Roba del governo (di tutti) chi non la prende va all’inferno; La robba te lu munnu ha bastare pe’ tutti – La roba del mondo deve essere condivisa; Na beùta t’acqua nu se neca a nisciunu - Una bevuta d’acqua non si nega a nessuno; Ci rrubba cu la panza nu bè latru – Chi ruba con la pancia non è ladro. La grande esplosione del turismo che si è avuta in questi ultimi decenni sta determinando invece grandi restrizioni in questo senso. Specialmente in prossimità della costa molti dei poco dissuasivi muretti a secco, che fanno parte integrante del paesaggio tradizionale, vengono quotidianamente sostituiti da recinzioni più consistenti che hanno lo scopo di delimitare e di controllare la frequentazione di aree destinate al parcheggio, al camping, ai villaggi di vacanze, ai B&B, o ad altre infrastrutture turistiche. Questa tendenza alla privatizzazione, anzi, si sta diffondendo sempre di più e si sta estendendo anche agli spazi non necessariamente destinati all’uso turistico. La cultura della disponibilità, della tolleranza e della condivisione cede il passo a un diverso senso della proprietà orientato in senso restrittivo dalla paura dell’altro, dall’individualismo e dal disinteresse per le necessità altrui. Alla presa di possesso di un appezzamento di terreno in campagna, per esempio, segue immediatamente l’opera di recinzione con modalità costruttive (tipologia dei materiali, livellamento preventivo del terreno, spietramento e altri interventi che mutano l’aspetto idrogeologico) e con un dimensionamento che appaiono quantomeno anomali nel discreto aspetto del paesaggio tradizionale. Orientamento e pertinenza individuale dello spazio Parallelamente e, in qualche misura, in conseguenza di questo diverso approccio nei riguardi del territorio e del senso di proprietà si può registrare anche una progressiva perdita del senso di orientamento e della pertinenza individuale dello spazio. Il primo significato del termine “disorientamento” a cui danno peso i rilievi sociologici è quello metaforico, cioè la difficoltà avvertita soprat- 158 tutto dalle nuove generazioni di relazionarsi a ciò che le circonda. Ma la parola, prima di essere una metafora e significare generalmente “confusione”, ha un suo significato letterale che riporta alla perdita dell’Oriente e degli altri punti cardinali, cioè alla cognizione della propria posizione nello spazio fisico e geografico. Quella bussola che sembrava alloggiare naturalmente nella testa del Marciano e che lo faceva procedere senza esitazioni in un territorio sconosciuto, sembra mancare oggi fra le facoltà di cui disponiamo forse in modo naturale da sempre, come ne dispongono molte altre specie animali che la usano ai fini della sopravvivenza. Se si esegue un test per verificare quanti oggi sono in grado di stabilire senza difficoltà la direzione in cui si trova un altro punto del centro abitato oppure il mare o un’altra città vicina, ci si renderà conto di quanto sia diffusa questa carenza. Per muoversi a piedi nella città ci si comporta come se si fosse affetti da una sorta di miopia: si fa affidamento alla conoscenza di tanti micropercorsi messi in relazione dalla dislocazione degli edifici, dei negozi o dei monumenti, ignorandone però la disposizione nella pianta generale della città e nell’area geografica in cui il tutto è collocato. In automobile, poi, guidando nelle strade extraurbane, procediamo per lo più seguendo in modo passivo le indicazioni della segnaletica stradale o di determinati strumenti tecnologici di ricognizione territoriale, come i navigatori satellitari o le mappe informatiche. Nelle grandi città l’uso dei mezzi pubblici, come i taxi, le metropolitane o gli autobus, contribuisce a questa progressiva atrofizzazione o perdita del senso naturale dell’orientamento. Si può dire che da qualche decennio stiamo demolendo quella nostra facoltà acquisita in lunghi millenni trascorsi nella condizione di nomadismo e che presupponeva un intimo rapporto con l’orientamento non solo terrestre ma anche, addirittura, cosmico. Anche la pertinenza individuale dello spazio, cioè la coscienza della sua quantità a disposizione di ciascun individuo (e, di conseguenza, quella a disposizione degli altri), va progressivamente perdendosi e in tal modo si perde anche la coscienza, un tempo avvertita come un dato di fatto, dei diritti e dei doveri che si possono legittimamente esercitare sullo spazio stesso. Oggi ci si aspetta che anche questi diritti vengano regolamentati da norme imposte e fatte rispettare dai tutori della legge. 159 Si sorvola così con troppa leggerezza sulle leggi della prossemica173 che regolano e culturalizzano le distanze fisiche fra gli individui in funzione dei loro reciproci rapporti ed evitano l’insorgere di equivoci o di contese. È l’inosservanza di queste “leggi della distanza” che può provocare, per esempio, il disagio e le assurde contese che insorgono spesso durante l’ammassamento forzato dovuto alle code nei pressi degli sportelli pubblici, durante i grandi eventi sportivi o spettacolari, all’interno dei mezzi pubblici di trasporto, sulle spiagge in piena estate, eccetera. Tutti, qualche volta, abbiamo assistito alle rimostranze di qualcuno in seguito alla violazione dei propri confini spaziali. La ragione di questi atteggiamenti la si attribuisce di volta in volta alla maleducazione, ad “antipatie personali”, a “razzismo” o ad altre intolleranze di varia natura. Molto più banalmente, spesso si tratta invece della scarsa considerazione di queste “leggi di distanza” che, per l’ancestralità della loro origine e per il valore che esse assumono anche presso altre specie animali, possiamo considerare “naturali”. La confusione a questo proposito viene ulteriormente aggravata quando l’aspetto del territorio che ci circonda cambia bruscamente e impone una rapida ridefinizione di diritti e di doveri saldamente radicati nella tradizione. Facciamo ancora riferimento a quei tanti spazi, tradizionalmente comuni e pubblici, che vengono di colpo interdetti oppure il cui uso passa ad essere subordinato al pagamento di una tariffa. È ovvio che in queste circostanze si avverte un senso di frustrazione, di espropriazione e, in ultima analisi, di disorientamento. È ciò che succede quando non si può più parcheggiare dove si era sempre parcheggiato liberamente, fare il bagno con la famiglia in un tratto di costa che “da sempre” era stato considerato “proprio”, passeggiare in compagnia su un tratturo o in un campo che sappiamo in questo momento essere pieno di asparagi o di funghi. 173 E. Hall, Il linguaggio silenzioso, Garzanti, Milano 1972. 160 Viaggiare Al viaggiatore viene richiesta una particolare attenzione riguardo all’orientamento e al rispetto della pertinenza territoriale. Almeno nel corso di un viaggio tradizionalmente inteso perché, con la modernizzazione, anche il senso di quest’attività risulta completamente cambiato. Il viaggio è, per i dizionari, un giro più o meno lungo, attraverso luoghi o paesi diversi dal proprio, con soste e permanenze di varia durata, per vedere, conoscere, imparare e divertirsi. Ma questa definizione corrisponde più al viaggio antropologico che al viaggio-turismo odierno. Questo è oggi è associato più direttamente a concetti molto diversi come quelli di mercato e di consumo, originariamente estranei al viaggiare. È a questi concetti che fanno riferimento espressioni correnti del tipo: «Per il ponte del primo maggio sto cercando di acquistare un viaggio low cost; mi hanno offerto un pacchetto molto conveniente, sette giorni e cinque notti in vip class, inclusa la visita ai musei, l’ingresso in discoteca e l’accompagnamento di una guida locale». Poco importa, poi, se la destinazione di questo viaggio sarà la Valle dei Templi o se, all’ultimo momento, il viaggiatore sarà dirottato in una qualche isola dell’Oceania o dei Caraibi. Un viaggio oggi, in periodo postmoderno, risulta interscambiabile con un altro, purché abbia lo stesso valore di mercato. Il viaggio turismo si è configurato in tal modo al sopravvenire di quel processo ultimo di modernizzazione per il quale Marc Augé174 ha coniato il termine di “surmodernità”. Tale processo, che investe in realtà tutti gli aspetti del sociale, si caratterizza (ed è ciò che qui ci interessa) per la sua imprescindibile esigenza di trasformare i territori che investe ignorando le conseguenze che queste trasformazioni ingenerano nell’assetto e culturale. Per definire questi cambiamenti l’antropologo francese ha coniato, parallelamente, anche il concetto di nonluogo a cui qui faremo riferimento nel tentativo di definire quanto sta succedendo nel Salento a tal proposito. 174 M. Augé, Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità, 1993; Disneyland e altri non luoghi, Bollati Boringhieri, Torino 1999. 161 Preliminarmente riteniamo utile riassumere alcuni degli elementi che, per Augé, caratterizzano il nonluogo ma, naturalmente, rimandiamo ai suoi scritti per una conoscenza esaustiva dell’argomento. Un luogo antropologico viene trasformato in non-luogo quando si cancellano da esso o, comunque, si offuscano snaturandoli, i segni della memoria che lo caratterizzano e che ne costituiscono la storia e, per così dire, la personalità. La memoria di un territorio è rappresentata da almeno due tipi di segni: quelli che rimandano alla sua natura fisica, e quelli conseguenti alla presenza dell’uomo su di esso, che è stata, fino all’inizio del processo di modernizzazione, discreta e rispettosa nei riguardi della natura fisica dello spazio. Il primo tipo di segni esprime la contestualità di un territorio con il resto del paesaggio, come l’andamento del suolo, il tipo di vegetazione conseguente al clima e alla stagione, la presenza o l’assenza di acqua, la varietà della flora e della fauna. Il secondo tipo di segni esprime la storia del luogo e quella dei suoi abitanti e si ravvisa nella scelta dei materiali utilizzati per la costruzione degli edifici, nel modo di marcare i confini, nell’andamento delle strade, nella tutela degli elementi monumentali... I non-luoghi sono destinati, per lo più, ad un uso pubblico, con la finalità del commercio e, quindi, del profitto da parte di qualcuno, che raramente è un nativo del posto. Il più delle volte, anzi, per fruire degli spazi, i nativi sono costretti a mettere da parte la loro identità e assoggettarsi alle regole (e alle tariffe) modulate sulla disponibilità dei frequentatori esterni. Sono spazi per il cui arredo vengono impiegati materiali immediatamente riconoscibili come moderni e omologati, spesso di provenienza industriale e, comunque, non tradizionali del posto. Tendono alla realizzazione di un clima e di un ambiente (intesi sia come temperatura e umidità dell’aria, sia come 162 comportamento sociale) neutro, medio, artificiale, totalmente controllato e privo di reali rapporti con i luoghi esterni e contigui. I comportamenti umani nei non-luoghi sono altrettanto controllati quanto il clima e i gestori si servono, per regolarli, di voci preregistrate, di telecamere di controllo, di cartelli opportunamente disposti e, quando tutto questo non basta, di un personale di sorveglianza. C’è una sorta di contratto che l’utente del non-luogo sottoscrive tacitamente al momento del suo ingresso, con cui ammette di poter disporre di quello spazio a patto di farsi riconoscere come un potenziale acquirente che sa attendere il proprio turno e attenersi alle istruzioni. Il Salento dei nonluoghi Sono queste, in sintesi, le caratteristiche dei grandi e piccoli supermercati, degli aeroporti e, in generale, dei grandi luoghi di frequentazione pubblica che caratterizzano il mondo occidentale come anche, cosa che riguarda particolarmente il territorio salentino, dei villaggi di vacanza, dei campeggi, delle spiagge, dei centri sportivi e di ricreazione, diurna e notturna. Con tali caratteristiche li vuole l’industria del turismo e con questo aspetto si diffondono, come una pervasiva macchia d’olio, anche in questa subregione d’Italia. Gli abitanti, da parte loro, non sono chiamati a decidere su nulla e sono costretti ad accogliere con rassegnazione la trasformazione del loro tessuto territoriale in un nonluogo. Le agenzie territoriali, quelle pubbliche e quelle private, sono obbligate ad adeguarsi agli standard richiesti dal turismo e promuovono il territorio a gran voce, applicando ad esso le etichette che si mostrano, di volta in volta, più efficaci per l’espansione o il mantenimento del mercato. È così che, a dispetto della sua storica specificità, il Salento diventa con disinvoltura: la “Giamaica a portata di mano”, in riferimento al successo nazionale ottenuto da alcuni gruppi musicali locali nel panorama della musica raggamuffin con, in testa, i Sud Sound System. I “Caraibi dietro l’angolo”, per i suoi 270 chilometri di litorale bagnabile. 163 Le “vicine Hawaii”, Per le condizioni di mare e di vento del Canale d’Otranto, particolarmente adatte alla pratica del windsurf e del kitesurf. Il “Museo en plein air”, per l’abbondanza dei suoi siti archeologici, di chiese e di monumenti. Il “paradiso dell’apprendista etnologo”, per essere la culla del tarantismo e, soprattutto, della musica legata a questo specifico istituto culturale. Il viaggio-turismo non ha più come obiettivo la scoperta e l’osservazione discreta di un territorio con le sue storiche caratteristiche fisiche e antropiche, ma esige il riscontro delle sue aspettative standardizzate e la corrispondenza del prodotto con il prezzo pagato all’atto della prenotazione della vacanza. Il turista-viaggiatore-consumatore, per il fatto di essere pagante, pretende di trovare nella sua destinazione gli standard a cui è abituato e a cui non è disposto a rinunciare. L’opposto del nonluogo è il luogo antropologico, caratterizzato dall’essere identitario, relazionale e storico. Il territorio salentino, che inizialmente intendeva imporsi sulla scena turistica proprio perchè possedeva, più di altri, queste specifiche caratteristiche, di fatto ha finito con l’accettare, più o meno consciamente, le regole di un percorso obbligato che mercifica e sminuisce gradualmente la sua identità, la sua capacità di relazionare le persone e la sua storia. In tutto questo non c’è necessariamente una cattiva fede né nel viaggiatore-turista né nelle agenzie territoriali perchè entrambi sono impotenti nei riguardi di mode e di regole economiche che hanno ragioni lontane e che non permettono nessun controllo all’utente terminale. Questo, tuttavia, non ci esime dal considerare gli effetti della trasformazione dei luoghi antropologici in nonluoghi e, in rapporto di causa e di effetto, del viaggiatore in non-viaggiatore. Il viaggiatore antropologico e il non-viaggiatore Servendoci di un calco linguistico operato sui termini dell’opposizione luogo antropologico / nonluogo, possiamo definire il viaggiatore tradizionale un “viaggiatore antropologico” e il viaggiatore-turista della surmodernità un non-viaggiatore. Il viaggiatore antropologico, abbiamo detto, si caratterizza per una 164 sua disposizione discreta e attenta nei riguardi del territorio, della sua storia e della sua memoria. Gli piace esercitare determinate sue attitudini che coltiva e alle quali dà molto peso come l’orientamento, la capacità di stimare le distanze, l’altimetria e il tempo necessario alla percorrenza e partecipare personalmente al superamento delle difficoltà. Per lui è indispensabile soddisfare la sua curiosità nei riguardi degli altri e coltiva la possibilità di migliorarsi nel confronto con essi. Così ci appare il Marciano, viaggiatore premoderno, e nella stessa maniera si comportano tutti i protagonisti della cosiddetta letteratura di viaggio.175 Il non-viaggiatore, invece, tende a recarsi in un nonluogo ignorandone le caratteristiche geografiche, storiche e culturali e sta attento, soprattutto, a verificare la corrispondenza di ciò che incontra con quello che preventivamente già sa. Una volta acquistato il biglietto d’aereo (o del treno, o dell’autobus, o del traghetto), sale sul mezzo di trasporto e si proietta già, mentalmente, nel nonluogo sua meta. Se può, pre- 175 I racconti di viaggio rappresentano un genere letterario antichissimo. Il viaggio per mare di Ulisse, con la descrizione delle relative peripezie fatta dal protagonista alla corte di Alcinoo, che costituisce il nucleo dell’Odissea, si inserisce anch’esso in un genere letterario che gli preesisteva e di cui abbiamo il primo esempio nel Racconto del naufrago della letteratura dell’antico Egitto (la datazione del testo risale, circa, al 2000 a.C.). Altre avventure vissute in viaggio sono narrate nel Rapporto di Unamon composto, sempre in Egitto, tra il 945 e il 715 a.C. Un interesse antropologico vero e proprio anima poi le Storie di Erodoto che, nel V sec. a.C., descrive le vicende dal punto di vista di uno che viaggia per l’Egeo e per l’Asia Minore del suo tempo. Trasvolando nei secoli e citando solo le opere più rappresentative di questo genere letterario incontriamo, nel Medioevo, il Milione del mercante veneziano Marco Polo che venne stampato, due secoli e mezzo dopo la sua composizione, nella raccolta di opere di viaggiatori Delle navigationi et viaggi, a cura dell’editore Giovanni Battista Ramusio. Numerosi sono poi (e arrivano fino alle soglie del Novecento) i racconti delle peripezie vissute da persone catturate e ridotte in schiavitù dai corsari come le Avventure di uno schiavo dei turchi di Andres Laguna o il Ragguaglio compendioso di un dilettante antiquario sorpreso dai corsari e condotto in Barberia e rimpatriato di Felice Caronni, che è del 1805. Un intero capitolo delle Memorie di G. Garibaldi si intitola Viaggio in Italia, e letteratura di viaggio in senso lato si possono considerare anche tutte le relazioni amministrative, militari e diplomatiche, così come i Diari di bordo dei comandanti delle navi. 165 ferisce dormire durante il tragitto, oppure leggere, vedere un film o fare, comunque, qualsiasi cosa che, per quel tempo e in quello spazio, lo distragga. Si disinteressa così completamente di tutti gli aspetti del territorio che percorre nel recarsi verso la sua destinazione. Non avverte (e non può avere) alcuna responsabilità nella scelta del percorso, non può e non deve prendere parte alle difficoltà da superare per compierlo a buon fine. Conserva questo atteggiamento di totale “deresponsabilizzazione” anche nel caso in cui egli, per viaggiare, utilizza l’automobile e persino, paradossalmente, quando è lui stesso a guidare. Il viaggiatore-guidatore, in questo caso, non deve far altro che assecondare le scelte che altri gli propongono e delle quali si deve fidare ciecamente. Altri hanno disposto sulle strade la segnaletica variamente colorata che, fin dal suo punto di partenza, gli indica in maniera ridondante il percorso da seguire. Altri si sono preoccupati di segnalare a quale velocità gli conviene viaggiare. I punti di ristoro, di rifornimento e di pernottamento sono tutti bene in evidenza e disposti sui bordi delle strade. Non c’è più bisogno di attraversare i centri abitati, di affrontare l’incontro con altri esseri umani per chiedere indicazioni o conferme sulla direzione da prendere, di capire la lingua o il dialetto che si parla nell’area in cui ci si trova. Si raggiunge il massimo di questa forma di autosufficienza (ma, insieme, di isolamento antropologico) se si dispone di un navigatore satellitare o di altro strumento che si preoccupa di scandire continuamente la direzione e di suggerire anche le diverse opzioni. Questo modo di viaggiare, sicuramente moderno e contestuale a una serie di altre occorrenze, non rappresenta comunque un buon esercizio per lo sviluppo del senso di “orientamento” e di quello della “responsabilità” e corrisponde perfettamente al disorientamento, allo spaesamento e all’irresponsabilità sociali spesso denunciati come gravi motivi di allarme. 166 Orientamento e appaesamento in Ernesto de Martino L’idea di progresso che implicava che il dopo potesse spiegarsi in funzione del prima si è in qualche modo arenata sugli scogli del XX secolo con la scomparsa delle speranze o delle illusioni che avevano accompagnato la grande traversata del XIX secolo. Le atrocità delle guerre, dei totalitarismi e delle politiche di genocidio non testimoniano certo un progresso morale dell’umanità. M. Augé In contrasto con le prospettive escatologiche (che hanno sempre accompagnato i momenti di crisi delle società), l’attuale congiuntura culturale dell’Occidente affronta il tema della fine del mondo al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, lo spaesarsi dell’appaesato, il perdere di senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile. Senza dubbio l’attuale congiuntura culturale dell’Occidente… Reagisce variamente al suo mortale richiamo: tuttavia il momento dell’abbandonarsi senza compenso… Costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca, del che possono testimoniare molteplici documenti tratti dal costume, dalla letteratura, dalle arti figurative, dalla musica, infine dalla stessa filosofia. E. de Martino Con queste premesse non si fa affatto fatica a mettere in relazione la perdita della capacità di orientarsi con la “caduta dell’orizzonte etico” di cui parla Enesto de Martino nei suoi appunti per La fine del mondo.176 L’orientamento spaziale è alla base di quello generalmente culturale che 176 E. de Martino, L’apocalisse dell’Occidente, in: La fine del mondo, Einaudi, Torino 2002. 167 egli definisce meglio col termine di “appaesamento” e che contrappone apocalitticamente alla patologica confusione totale e alla “perdita di presenza” individuale e sociale. La carenza di questo senso di appartenenza reciproco fra l’uomo e lo spazio, egli dice, affiora costantemente ogniqualvolta una società si trova ad attraversare un periodo critico. Dovrebbe almeno sorgerci il dubbio che quello che stiamo attraversando sia realmente un periodo di crisi, durante il quale fare particolarmente attenzione a tutto ciò che può indurci allo spaesamento e alla schizofrenia. Il disorientamento territoriale, quello a corto raggio, che interessa lo spazio che ci circonda più immediatamente si inserisce, inoltre, in un disorientamento più ampio che ci fa sentire estranei al nostro stesso pianeta e ci porta a disinteressarci del suo stato di salute. Procedendo ancora oltre si può parlare anche di un disorientamento nei riguardi dello spazio cosmico che impedisce di approfondire la propria relazione con le coordinate celesti e con l’assoluto. Perdendo la nostra capacità di relazionarci con gli spazi più profondi, stiamo bruciando quei ponti ancestrali faticosamente edificati fra noi e il Divino, e ci stiamo condannando alla totale ignoranza delle costruzioni mitologiche e religiose su cui abbiamo fondato l’ethos. Partiamo, per sottolineare l’importanza che merita un problema di questo genere, dagli assunti dello stesso E. de Martino laddove egli mette in stretta relazione la condizione psicopatologica dell’individuo (come la schizofrenia o le varie forme di delirio) con lo stato di “malattia” in cui viene a trovarsi una società durante i suoi ricorrenti periodi di crisi e, in particolare, la società euro-occidentale in seguito alla sua modernizzazione. Se è vero che le “crisi di presenza” (quelle che subisce l’individuo e, parallelamente, quelle che accusa il corpo sociale) si manifestano col venir meno dell’élan vitale, è ancor più vero che le cause scatenanti di tali crisi risiedono fondamentalmente nella mancanza di un’altra spinta, l’élan morale, nei soggetti ammalati. La stabilità sociale del genere umano è in funzione della sua spinta a ricercare quei fondamenti morali capaci di orientare positivamente le sue attività. Lo slancio vitale, invece, è un istinto comune anche agli altri animali. La sirena d’allarme di E. de Martino sul crollo di questo slancio morale porta la data dei suoi ultimi anni di vita, cioè della prima metà degli anni Sessanta. Lo storico delle religioni non è vissuto abbastanza da 168 poter verificare quanto fossero giustificate le sue preoccupazioni e come il passare del tempo gli stia dando ragione fin nelle sue peggiori aspettative. La società occidentale, che egli vedeva allora già proiettata verso la schizofrenia e il delirio, ha fatto passi da gigante in questa direzione, arrivando ad eleggere proterviamente a norme sociali molti di quei comportamenti che, per la loro incongruenza, al suo tempo egli considerava potenzialmente patologici e deliranti. De Martino si sbagliava quando pensava che il crollo verticale dello slancio morale avrebbe portato in breve il genere umano ad autodistruggersi per mezzo della sua stessa tecnologia e, in particolare, per mezzo della bomba atomica. Oggi possiamo correggere questa sua ipotesi nel senso che il cammino che conduce verso la “fine del mondo” ha preso, in realtà altre direzioni: quelle del trionfo del paradosso nel campo della logica e della liceità incondizionata in quello della morale. Resta valida la sua previsione sulla condizione gravemente patologica della società occidentale che non risparmia quotidianamente manifestazioni di schizofrenia e di delirio. Non avendo trovato spazio la sua proposta di una seria diagnosi da condurre con strumenti interdisciplinari (né tantomeno, quindi, una qualche conseguente terapia riparatoria), la società “ammalata” di tali disordini comportamentali è destinata ad un inevitabile aggravamento del suo stato. Condividiamo il disagio espresso dallo stesso de Martino nel pronunciare tali previsioni allarmistiche ma, con lui, siamo convinti che non sia molto più produttivo far finta che la malattia non esista e recitare collettivamente un falso ottimismo privo di fondamenti. 169 Appendice Tradizione, teatro e viaggio, miti (racconti) degli anni Settanta La Storia accelera e ci insegue come la nostra ombra. Oggi gli anni recenti, gli anni Sessanta, i Settanta, gli Ottanta, raggiungono la Storia con la stessa velocità con cui erano sopraggiunti. M. Augé In questa appendice riporto, in forma di racconto, alcune mie esperienze di viaggio che hanno avuto luogo nel corso degli anni Settanta. Allora avevo circa vent’anni e per me, come per tutti i miei coetanei, il viaggio (il mitico trip) riempiva completamente i territori dell’immaginario. Viaggiare voleva dire esercitare il diritto di ampliare i propri orizzonti, di imparare altre lingue, di confrontarsi con gli altri. Un diritto che prima di allora era stato riservato alla sola borghesia e che in quegli anni veniva rivendicato come un’esigenza di tutti. Per chi era nato in provincia, poi, viaggiare voleva dire anche interrrompere quella condizione di immobilismo culturale che aveva caratterizzato le vite dei padri e che era durato fin troppo a lungo. Ascoltando in chiesa la lettura dei passi del Vangelo, io non dovevo fare alcuno sforzo ad immaginare Cristo seduto sull’orlo del pozzo che avevo sotto gli occhi, oppure passare dietro quel muretto a secco che portava alla masseria. Mi sembrava di trovarmi nello stesso mondo polveroso, percorso a piedi scalzi, di ascoltare lo stesso ronzio di mosche che animava l’aria silenziosa. Basta! Era ora di interrompere questa separazione fra il mondo veloce dei cinegiornali e della televisione e la 170 tua terra che restava ferma in una situazione biblica. Era ora di alzarsi dalle poltroncine del cinema e di entrare a mischiarsi con quello che veniva proiettato sullo schermo! Le tradizioni da cui ci si staccava nella pratica, però, non dovevano andare perdute. Il dialetto e i diversi aspetti della Cultura Popolare dovevano diventare anch’essi uno strumento di questo avanzamento che era anche riscatto sociale ed economico. Il Teatro, poi, visse allora una stagione felicissima, diventando lo strumento espressivo più in uso da parte delle varie aggregazioni giovanili. Fare teatro e partecipare a manifestazioni teatrali fece parte per un decennio della liturgia del “Movimento” protagonista di ogni cambiamento. Quelle che qui racconto sono indubbiamente vicende personali, ma trovano la loro giustificazione in questa sede perchè sono avvenute in un momento particolare della storia di questo territorio. Proprio in quegli anni (con un certo ritardo rispetto all’Occidente più avanzato o ad altre regioni d’Italia) il Salento attraversava quella fase di passaggio che portava alla modernità. Il racconto delle mie esperienze fornisce un’istantanea di quel rapido momento in cui il paesaggio, la viabilità e i comportamenti umani smettevano di essere quelli di sempre, nei quali avevano avuto luogo sia i viaggi degli apostoli che quello del Marciano. C’è chi mostra fin da piccolo la passione per i trenini, per il pallone, per i fucili, per le bambole o la propensione per un certo sport. Io invece, fin da quando avevo due anni, mi raccontano e mi ricordo vagamente, ho giocato soprattutto con la lingua (allora conoscevo solo il dialetto) e, in particolare, con le parole. Ne ripetevo il suono ad alta voce (per la gioia dei miei familiari!) e le elencavo distinguendo quelle dure da quelle morbide, quelle magre da quelle grosse, quelle maschili da quelle femminili. Non mi spiegavo, fra l’altro, come mai certe cose, quando diventano grosse, cambiano di genere. La mela, per esempio, era chiaramente femmina, ma il melone, invece, era indubbiamente maschio; ugualmente succedeva per la petra-pietra che era femmina ma, quando diventava cute-grossa pietra, si cambiava in maschio. Dovevo essere un tormento! Chiedevo poi insistentemente la ragione di alcuni miei dubbi: perché la nuvola è femmina nonostante che 171 molte volte ha la forma mascolina di una grande faccia con la barba, o quella di un albero o di un cavallo? Forse se, invece di implorarmi di stare zitto per un po’, mi avessero incoraggiato in quelle mie riflessioni, avrei finito per riscoprire il genere neutro dei nomi oppure il numero duale. Chissà… Mi ricordo che, verso i quattro anni, pretendevo che mia sorella, nata da pochi mesi, arrotasse bene la lettera erre, perchè non poteva dire luota o calta se voleva dire ruota o carta. In quinta elementare il maestro Scardino (un maestro socialista, raro per quei tempi, che orientava la sua didattica coltivando argomenti della cultura locale e popolare) ci fece fare una ricerca su un poeta dialettale nato a Cavallino, ad un paio di chilometri da San Cesario, dove io vivevo: si trattava di Giuseppe De Dominicis, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Capitano Black. Andammo anche nella piazzetta del suo paese per vedere il busto di pietra che stava su una colonna. Conservo ancora la vecchia edizione del 1954 delle sue Poesie e me la ritrovo tutta sottolineata e spaginata perché chiedevo continuamente conto di ogni termine che non capivo ai miei genitori o agli altri grandi. Questa mia curiosità per il dialetto, chissà perché, si estese presto, in tempi assolutamente non sospetti, anche agli altri aspetti della cultura popolare che, proprio in quegli anni (per sapere a quali mi riferisco si tenga conto che sono nato nel 1950), veniva invece bruscamente messa a tacere dalla cultura moderna, promossa dalla scolarizzazione di massa e dalla televisione. Infatti, appena in età di scuola media, registrai su un “Geloso” dai grandi tasti colorati, la mia prima bobinetta di canti popolari da inviare a Susa, in Piemonte, per far sentire la voce dei suoi familiari ad un vicino di casa che era carabiniere e abitava lì. Intorno ai vent’anni, ormai all’università, cosciente del valore culturale e politico che aveva quel mio interesse, lo sviluppai prendendo parte attiva ad una campagna più o meno sistematica di raccolta della tradizione musicale e canora del Salento. Contribuii anche a diffondere i risultati di questo lavoro di ricerca suonando e cantando i brani popolari in una formazione musicale, il Gruppo Folk Salentino, che divenne poi Nuovo Canzoniere del Salento. Unendo il repertorio popolare agli 172 inni di lotta ci esibimmo per alcuni anni sui palchi sconnessi di tutte le feste dell’Unità del Salento. Subito dopo, quando da folksinger decisi di diventare un teatrante di strada, ripresi in mano il libro delle Poesie di De Dominicis. Dai Canti de l’autra vita, una sorta di Divina Commedia in dialetto Leccese, trassi uno spettacolo dal titolo I Dannati che, nel contesto della lotta di classe che urgeva in quel momento, portammo in giro per la Puglia nei circuiti del Movimento (scuole e fabbriche occupate, e sedi di collettivi). In breve divenni un punto di riferimento per l’ala creativa del Movimento leccese e una figura di responsabilità per la nascita del Teatro di Gruppo e del Teatro di Figura nel mio territorio: diedi vita al Teatro Infantile di Lecce – Burattini, Pantomime e Jazz. Allora le cose si facevano sul serio! Noi, come tanti altri gruppi teatrali in Europa e nel mondo, ci mettemmo seriamente alla ricerca dell’ambito di lavoro più adatto alle nostre intenzioni. Lo individuammo consensualmente nei temi delle fiabe tradizionali, da mettere in scena con le tecniche del Teatro Popolare. Ne nacque quel Nuovo Teatro Popolare che, dagli Stati Uniti alla Spagna, dalla Polonia alla Finlandia, dall’India al Giappone, fece rinascere burattini e marionette, mangiafuoco e clowneries, musica di strada e illusionismo. Alcune fortunate coincidenze ci hanno portato a conoscere molti di questi gruppi e a condividere anche con essi il palcoscenico. Faccio i nomi solo di quelli più importanti che, nonostante la loro conclamata grandezza, non hanno esitato a mescolare le loro esperienze con le realtà teatrali più periferiche come la nostra: l’Odin Teatret, il Living Theatre, il Bread and Puppets e Els Comedians. Una parentesi: le forme teatrali prese in considerazione dal nostro movimento erano proprio le stesse a cui poteva aver fatto riferimento anche il Marciano. Decidemmo di approfondire, infatti, proprio quelle tecniche che, nate e sviluppatesi in occasione dei momenti di svago dei contadini e degli artigiani a partire già dal Medioevo per opera dei menestrelli, si diffusero poi, particolarmente in Italia, ma anche in tutta Europa, proprio fra il Cinquecento e il Settecento ed erano, quindi, al massimo della loro vitalità ai tempi del Viaggio. Le fiere a cui allora si poteva assistere comportavano in ogni angolo la presenza di cantori, 173 ammaestratori di animali, buffoni, ciarlatani, pagliacci, comici, virtuosi spadaccini, prestigiatori, giocolieri, saltimbanchi, strumentisti, funamboli, acrobati, cavadenti e affini. Tutte figure teatrali di cui, negli anni Settanta, abbiamo tentato la rivitalizzazione. La rivisitazione della tradizione teatrale popolare estese ben presto il suo campo di interesse anche oltre i confini della cultura europea e occidentale e rivolse la sua attenzione verso le culture altre, segnatamente verso quelle orientali. Questo viaggio nella geografia, accanto a quello percorso nella storia, fornì i caratteri ad un nuovo linguaggio teatrale, destinato a quella classe che, negli stessi anni, faceva rumorosamente sentire la sua voce nel panorama storico e sociale. Eugenio Barba, maestro di noi teatranti in ciò, ha contribuito a definire i contorni di questo Nuovo Teatro dandogli il nome di Teatro Antropologico. Ne ha teorizzato la fisionomia attraverso i suoi numerosi saggi177 e ne ha esteso la metodica e l’efficacia con la fondazione dell’I.S.T.A., Scuola Internazionale di Teatro Antropologico, e attraverso svariate sue sessioni itineranti nel mondo. Ancora una volta sono stato fortunato per essere stato chiamato (con il mio gruppo teatrale) dallo stesso Barba a contribuire alla gestazione di questa sua importantissima istituzione e per averne potuto seguire l’evoluzione prendendo parte ad alcune sessioni della suddetta scuola. Gli attori a cui si ispirava il nostro movimento erano soprattutto girovaghi, e questo fatto ci affascinava in modo particolare perché veniva a coincidere con quello che era il mito per eccellenza della mia generazione, il trip e la voglia incontenibile di viaggiare e di incontrare gli altri. Per quanto mi riguarda, forse ho deciso di dedicarmi al teatro proprio per questo: perché così avrei potuto continuare a dare sfogo alla 177 E. Barba, Al di là delle isole galleggianti, Ubulibri, 1985; La canoa di carta, trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, 1993; L’arte segreta dell’attore, un dizionario di antropologia teatrale, Argo, Lecce 1997. 174 mia patologica voglia di fare i bagagli e di sentirmi utopisticamente nella dimensione del girovago e del nomade. È vero che la mia generazione è cresciuta nutrendosi di ideologie e di filosofie che alimentavano ed esaltavano la necessità del viaggio. Durante la mia adolescenza Bob Dylan cantava il mito degli hobos, i vagabondi americani che saltavano sui treni in corsa e viaggiavano senza meta da una sponda all’altra del continente. Più grande ho subito, come tutti i miei coetanei, il fascino di On the road, il romanzo di Jack Kerouac, “vangelo della beat generation”. Nel corso degli anni Ottanta venivano pubblicati in Italia i saggi e i romanzi con cui Bruce Chatwin affermava l’imprescindibile necessità del nomadismo, da lui ritenuto un “vizio ancestrale”, impossibile da abbandonare repentinamente senza risentirne in termini di stress e di frustrazioni. Ma è pur vero che io, da piccolo, ignoravo le idee di questi signori e tuttavia, già da allora, sognavo di allontanarmi da casa per sperimentare personalmente come era fatto il mondo. Inoltre, ne ero certo, anche il mondo era ansioso di conoscere me. Fino all’età di sedici anni mi sono dovuto accontentare di esplorare la campagna attorno al mio paese facendo lunghe camminate a piedi o in bicicletta durante i pomeriggi estivi, quando tutti tentavano di sopravvivere al caldo torrido stendendosi su un letto nella stanza più fresca della casa. Io invece, con un branco di miei coetanei refrattari al sonno, mi cuocevo al sole, e andavo in esplorazione nelle campagne della periferia, alla scoperta di frantoi semicrollati (i trappìti spunnati), di cave dismesse piene di vegetazione intricata e di animali veri e immaginari (l’inferno verde), al buio dei canaloni sotterranei per lo scolo delle acque piovane, superando coraggiosamente ostacoli insidiosi come ragnatele, nuvole di moscerini e grovigli di rami secchi. La bicicletta, come mezzo per fare un vero viaggio (perché quando si viaggia veramente bisogna dormire fuori di casa), l’ho ripresa da grande, intorno ai trent’anni. L’ho attrezzata di due portapacchi e l’ho imbarcata con me sulla nave per Egoumenitza, in Grecia. Lì ho scoperto a mie spese perché le biciclette sono diffuse soprattutto nei paesi bassi e pianeggianti (come l’Olanda e il Salento): nessuno utilizza il podylato per 175 andare da Egoumenitza a Preveza o per spostarsi sull’isola di Itaca. Per superare i valichi di quelle montagne a strapiombo sul mare devi sudare per ore e, durante la discesa, che dura un attimo, i sudori ti si congelano addosso. Quando compii sedici anni presi il patentino e potei utilizzare, anche fuori paese, il guzzino di mio fratello maggiore. D’estate, con altri motorini di amici, andavamo quasi quotidianamente al mare: a Torre dell’Orso o alla grotta della Poesia di Roca. Con quel mezzo, con cui mi sentivo di poter andare anche in Cina, feci prima le prove generali e poi anche il primo vero viaggio (dormendo fuori di casa). Il Cardellino aveva solo un motore di 73 c.c. ed era stato concepito dai suoi costruttori in sostituzione del mulo, per fare piccoli spostamenti dalla casa alla campagna. Ma io, forse per la smodata fiducia nel progresso e nella tecnica che negli anni Sessanta mi infondevano a scuola, lo pensavo capace di camminare all’infinito. Un giorno di settembre, infatti, arrivai a Torre dell’Orso, ma non mi dovevo fermare lì a fare il bagno, e nemmeno alla vicina grotta della Poesia. Avevo deciso che avrei continuato: volevo andare a trovare due mie amiche che facevano la quindicina a Santa Cesarea Terme. Avevo guardato la carta geografica e sapevo che, costeggiando il mare, avrei trovato prima Otranto e poi Santa Cesarea. Perché no? Trovavo tutto bello e diverso, e prendevo appunti su un blocco notes tascabile che poi portai con me in molti altri viaggi. Ce l’ho ancora e da quello ho ripescato i particolari di queste note. Annotai la campagna, con le casette isolate tutte identiche, coperte a tegole francesi (seppi poi che quelle abitazioni erano state costruite ed assegnate dall’Ente Riforma dopo la bonifica delle zone paludose). I Laghi Alimini, con la fontana sulla strada che buttava sempre, e che serviva ad abbeverare i cavalli e come punto di ritrovo per le Belvedere dei cacciatori. Otranto, con il ristorante Miramare che aveva i tavolini proprio sul mare, come in certe scene di film. Poi Porto Badisco, sulla cui insegna arrugginita dalla salsedine c’era scritto, fra parentesi, “Approdo di Enea”. Che fascino per uno che fa il ginnasio e ritrova sotto i suoi occhi la conferma del fatto che la Magna Grecia di cui parlavano le versioni di greco era proprio quella terra che stava calpestando! E poi Santa Cesarea, rinomato luogo di villeggiatura (infatti c’erano molte ville, anche in stile esotico e moresco). 176 Arrivai a pomeriggio, con la testa intronata dal vento e dalla marmitta del motorino, e chiesi dove andava la gente a fare il bagno. Santa Cesarea è alta sugli scogli e non c’è la spiaggia come a Torre dell’Orso o a Porto Cesareo. La gente stava tutta giù, alle Fontanelle, che è una specie di cava e, scendendo da una scala cavata nella roccia, si va al mare. Ci trovammo, con l’Anna, la Maria Rosaria e con la famiglia. Loro mi trattarono da eroe perchè avevo percorso tutta quella strada da solo ed ero riuscito anche a trovarle su quelle rocce piene di asciugamani. Io feci qualche tuffo dallo scoglio più alto, perché ero abituato a buttarmi anche dalla parte alta della Poesia, a Roca, che è ancora più alto, e mi dimenticai di tornare a casa prima del buio. Quando arrivai era sera tardi, perché a settembre le giornate sono già più corte. Che casino! Mia madre, confortata da un cerchio di vicine, stava piegata in due su una sedia e piangeva tirando forte un fazzoletto stretto fra i denti; mio fratello era andato ai carabinieri; mio padre non ne sapeva ancora niente. Capii che, prima di ogni viaggio, è bene mettere l’anima in pace di quelli che si possono preoccupare. Infatti per il viaggio successivo (questo fu il primo vero viaggio, perché dormii fuori di casa), meno di un anno dopo, alla fine delle scuole, mi inventai una scusa che funzionò: chiesi, come premio per la promozione, di poter andare a Bari, a trovare un cugino della mamma, che era carabiniere e abitava lì. L’obiettivo mio e di Salvatore, invece, era di arrivare fino a Napoli, dove non dovevamo fare niente di particolare, ma ci sembrava abbastanza lontano per poter dire a noi stessi che avevamo fatto un vero viaggio, dormendo fuori di casa. Io partii a bordo del mio guzzino, a cui avevo modificato il manubrio facendolo di tubo di mezzo pollice, alto e a corna di bisonte come quello di Easy Ryder. Salvatore con un vecchio Aermacchi 125 di suo cugino, che eravamo riusciti a far partire dopo anni che era stato fermo in un sottoscala. Presi una riga e tracciai, sulla carta geografica, una linea retta che congiungeva il punto di partenza (Lecce, perché San Cesario non c’era sulla carta d’Italia della Shell) con Napoli. La linea passava prima per Taranto 177 e poi, attraverso la Basilicata, toccava Salerno, poi Pompei e poi Napoli. Dopo anni scoprimmo che nessuno faceva quella strada per andare a Napoli, che era meglio andare prima a Bari e poi attraversare il valico appenninico di Ariano Irpino; ma noi vivevamo in pianura e non potevamo sapere che le strade, nei paesi di montagna, non sono tutte dritte e piane. Ce ne accorgemmo subito dopo aver lasciato Taranto, dove mangiammo una frisa all’ombra dei grandi serbatoi di ferro vicino alle torri fumanti dell’Italsider. Il padre di Salvatore aveva un distributore della Shell, e noi stavamo proprio lì, dove c’era tutta la benzina e tutto il petrolio del Sud, e forse d’Italia. Le immagini di quel mondo industriale le avevamo viste solo fotografate sull’atlante geografico e appartenevano a quella modernità che, senza conoscere, avevamo descritto ed esaltato retoricamente a scuola quando, per il concorso, si faceva il tema sul progresso. Ce ne accorgemmo, che le strade non sono tutte dritte e piane, quando abbandonammo la jonica a Ginosa Marina per seguire la nostra rotta che portava a Montescaglioso. Il nome della località avrebbe dovuto dirci qualcosa ma, nel Salento, per andare a Monteroni, a Montesardo o a Montesano, le strade erano come tutte le altre: dritte e piane. Invece, dopo qualche ora di tornanti, il guzzino si fermò perché si era abbrustolita la presa di corrente, un pezzo di bachelite fissato sul volano da cui usciva il filo della candela. Ma ormai era buio e la salita non permetteva neanche di andare fino al prossimo centro abitato a piedi, col motorino a lato. Lì vicino c’era una capanna, una specie di deposito di attrezzi agricoli, e la porta era mantenuta chiusa da un filo di ferro. Dormimmo dentro, a terra, avvolti nel plaid scozzese omaggio della Shell. Non sentimmo freddo, ma dormimmo ugualmente pochissimo a causa dei topi che facevano rumore fra le fascine di legna dietro la testa. Un paio di volte uscii là fuori per non perdermi niente di quell’esperienza nuova e sospirata (la prima notte, solo, fuori di casa) e per annotare qualcosa di notevole sul blocco notes. Scrissi pochi versi sulla luna che si specchiava nel pilaccio accanto alla casa: faceva tanto letteratura, e magari un giorno sarei diventato poeta e li avrei pubblicati. Prima dell’alba ero già riuscito a bloccare in qualche modo il filo della candela così da farle fare la scintilla. Quella riparazione di fortuna resse per tutto il viaggio fino a Napoli e ritorno. 178 Sulla strada per Grassano vedemmo diversi contadini a dorso di mulo che, seguiti dalla moglie e da una capra (entrambe a piedi), andavano a lavorare nei campi ripidi. Da noi c’erano ancora molti traìni tirati da bestie, ma nessuno si spostava più in sella. A Tricarico le donne lavavano tutte insieme le lenzuola in una fiumara in piazza, sotto un tegolato basso; sembrava una scena del neorealismo, ma era a colori. La sera arrivammo a Salerno; per sentirci moderni mangiammo una pizza e andammo al cinema. Poi alla stazione, per dormire in un vagone tutto spento, lontano dal rumore dei primi binari. Pensavamo di stare al sicuro su un binario morto e invece, a un certo punto, ci dovemmo buttare dal vagone in movimento raccattando velocemente, al buio intermittente dei finestrini, i nostri plaids della Shell e le altre cose. Stavamo facendo proprio il gesto chiave della liturgia dei vagabondi americani! Ma io e Salvatore non lo sapevamo ancora; dovevamo solo recuperare i motorini. Andammo a Napoli, ci comprammo la lingua di vacca lessa e la limonata da un carretto che te la spremeva davanti a te con una pressa di alluminio e ci versava l’acqua da un bidoncino di latta. Ci facemmo una fotografia coi motorini, ai piedi del classico pino a ombrello e con il Vesuvio in lontananza, e prendemmo la via del ritorno. Avevamo visto Napoli; ora potevamo anche morire! La sera dormimmo negli scavi di Paestum, sui gradoni del tempio di Poseidone. La rete di recinzione era rotta. Quello stava sia sul libro di storia, quando parlava della Magna Grecia, sia su quello di storia dell’arte. Il ritorno lo facemmo per un’altra strada: attraversammo la Basilicata prendendo la statale sinnica. Prima di arrivare a Metaponto, vedemmo, nei pressi di Senise, il cantiere di una grandissima diga in costruzione (ci dissero che sarebbe stata la più grande d’Europa). Da un giardino ai bordi della strada attualmente sommersa dal lago artificiale di Cotugno raccogliemmo alcuni peperoni e li arrostimmo nel carter di alluminio del guzzino che, anche se era senza manico, era proprio come una padella per friggere. Sul fondo, a sbalzo, c’era l’aquila, lo stemma della casa. Poi prendemmo per Taranto e tornammo a casa. Una volta rotto il ghiaccio ho utilizzato più volte motorini e scooter per andare, negli anni successivi, a Firenze, ad Atene, a Istambul, ad 179 Algeri e in tanti altri posti. Il viaggio più lungo è stato, a bordo di una Lambretta 125: un giro di oltre settemila chilometri lungo le coste del Mediterraneo. I miei viaggi in macchina non meritano particolare attenzione perché così tutti sono bravi a viaggiare. Ma bisogna fare attenzione perché, con questo mezzo, si possono percorrere anche decine di migliaia di chilometri senza spostarsi mai da casa, parlando sempre la propria lingua, ascoltando la propria musica e vedendo il mondo dal parabrezza, senza neanche sentirne l’odore. È il caso, invece, di dire qualcosa delle mie esperienze in autostop. Attraverso di esse io potevo diventare, ai miei stessi occhi, leggendario come i protagonisti di On the road, I vagabondi del Dharma, Le vie dei canti o Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Mi risulta difficile riferire oggi la sensazione che provavo quando stavo ai bordi della strada con il pollice alzato. In questi decenni sono successe troppe cose che rendono quasi incomprensibile quella sensazione. Sono nate tante paure, che prima erano sconosciute! Ci siamo tanto abituati alla violenza, al furto, ai comportamenti irrazionali che nessuno si fiderebbe più a far salire uno sconosciuto sulla propria macchina o sul proprio camion. E nessuno, di fatto, si arrischia più a chiedere un passaggio ai bordi della strada. Sugli ingressi autostradali allora c’erano lunghe file di autostoppisti, di tutte le nazionalità, carichi come muli, che viaggiavano anche insieme, a gruppi di due o di tre. Alla fine qualcuno saliva anche loro! I più fiduciosi, all’uscita di Roma sud, erano capaci di scrivere sul loro cartello anche “Athins” oppure “Sofia”. Poi magari qualcuno li portava fino a Caianello, perché c’era una festa grande che non si potevano perdere, e li invitava anche a pranzo. Da parte mia, appena diciottenne, mi sono messo in coda e ho continuato a fare autostop per circa cinque anni. Il clima di quel momento storico affidava a noi giovani, benché capelloni e accuratamente trasandati, le speranze di uno svecchiamento del mondo che tutti ritenevano necessario. Oggi, ripeto, sembra certo strano, ma giuro che, sebbene vestito in una maniera impossibile, cappellaccio di cuoio, casacca di garza a motivi indiani, jeans sfilacciati e chitarra appresso, nessuno 180 mostrava diffidenza nei miei riguardi, mi salivano! Anzi, c’era sempre, negli automobilisti, l’ansia di un dialogo chiarificatore con noi protagonisti di quei grandi mutamenti che oggi, con un’unica parola, chiamiamo “il Sessantotto”. Sempre attingendo dal mio blocco notes tascabile, riporto una pagina in cui ho appuntato uno di questi dialoghi intergenerazionali che, tuttavia, non ha molto di chiarificante. Mi sale uno con una 124 avana che va a Reggio Emilia, che lui ha compassione di chi chiede un passaggio e lo fa salire perchè pensa a quando lui era contadino ed era costretto a muoversi a piedi. Ora invece ha “un capitale con centcinquanta million, per aver rischiato dieci million con du’ million”. Pensa e parla come un un arrivé ma, poverin, non è manco partì. Parla con me perchè “ti che studi le capiss cert cos”. Io gli do ragione e mi distraggo a guardare i campi piatti. “Dio can, no se po’ tor via all’uomo l’inissiativa. Io come arìa potù a rischiar 10 million co’ du million si ero in Russia? L’ero a Parma, l’odar sera co’ un mio amico professor chi l’ha fatt il commerciante e adess ha 15 million. S’era a cena in un posto do’, a l’una, cinque ragasse nude ti fanno un numero, dio can… (mi da una gomitata). Se balla un po’, se beve e si va via. Il mio amì, il professor, cerca d’andare a letto co’ una fia che lo fa bere, bere, e una bottiglia di whisky l’eran ventmil franc; e a letto no ci va mica, sai. Beh, lui l’ha spes centcinquanta mil franc e io cinquemil. E come si può dire che tutti dovemo essere uguali?” Io dico di si, però gli chiedo di fermare subito perché sono arrivato. Ora sto in mezzo a un enorme campo arato, interrotto solo da qualche albero che non fa ombra. Ma almeno non devo fare da confessionale alle fantasie di Alberto Sordi. In quegli anni si scopriva la possibilità di muoversi con una certa facilità. Non si era più rassegnati a rimanere tutta la vita nel paese in cui si era nati. Molti di mia conoscenza, per esempio, lasciavano il paese con tutta la famiglia, e andavano a lavorare in Germania o in Svizzera e poi tornavano per le feste con le stecche di sigarette e con la cioccolata, tirandole fuori dal cofano di una Ford Taunus dal colore abbagliante e dai sedili foderati di pelliccia sintetica. 181 Prima no, prima di allora uno si spostava dal suo paese solo per andare a fare il servizio militare e quella sarebbe stata, per lui, la sola occasione per sentir parlare dal vivo un altro dialetto o per vedere un altro paesaggio. In età di scuola media, quando mi limitavo a sognarlo il viaggio, non sapevo ancora dell’esistenza di una filosofia e, quasi, di una vera e propria religione che si praticava alzando il pollice ai bordi di una strada. Ma, appena grande, sentii la necessità di guadagnarmi il titolo di “giovane”. Volevo appartenere con diritto a quell’etnia a cui le riviste trovate sul tavolino del barbiere, come Famiglia Cristiana, La Domenica del Corriere o Panorama, dedicavano lunghi articoli e servizi speciali. Ormai avevo diciotto anni e sapevo già di Kerouac e del suo romanzo Sulla strada. Decisi, un po’ letterariamente (a quell’età la “posa” ti uccide, ti atteggi pure di fronte a te stesso), che il miglior modo di leggerlo sarebbe stato proprio sulla strada. Per questo lo comprai, lo misi insieme al plaid della Shell e a poche altre cose in un pesante zaino dell’aeronautica preso al mercatino dei polacchi, e decisi di fare autostop. In quegli anni non si faceva autostop per raggiungere un posto in cui avevi qualcosa da fare. L’autostop era una sorta di pratica liturgica, un necessario rito di transizione, di purificazione e di appartenenza che consisteva semplicemente nel mettersi in viaggio senza mezzo proprio con uno zaino sulle spalle. Eri già arrivato a destinazione fin dal momento in cui abbandonavi il tuo paese e percorrevi, con il pollice alzato, le banchine sporche di una strada nazionale. Pacchetti di sigarette, bottiglie di birra, centinaia di metri di nastro magnetico, stracci unti di grasso, fogli accartocciati e affini, sparsi e aggrovigliati agli steli di erba secca, costituivano l’oggetto delle mistiche meditazioni durante quei chilometri di nomadismo fra uno svincolo stradale e l’altro. Questo mi era sembrato di capire fin dalle prime righe dell’introduzione di Fernanda Pivano al libro di Kerouac, e ora si trattava solo di mettersi in gioco e di imparare quello che c’era da imparare. Si doveva solo andare il più possibile lontano da casa decidendo il proprio itinerario sulla base di quello dell’automobilista che ti faceva salire. Se un obiettivo c’era, caso mai, era quello di far durare il più a lungo possibile l’esperienza del viaggio. 182 In una delle tappe di questo mio primo viaggio in autostop, a Bologna, trovai da dormire a casa di Roberto, uno del mio paese che studiava lì e che era di Lotta Continua. A casa sua c’erano cataste di libri della Feltrinelli e di fogli scritti a mano: sul tavolo, sui letti, per terra e sul frigorifero. C’era già stato il maggio francese ma io, sinceramente, suonavo in un complesso e, quando si scioperava, ne approfittavo per fare le prove musicali con gli altri del gruppo. Condividevo con i compagni militanti, naturalmente, il sentimento di ribellione nei riguardi di ogni forma di autorità e di conservatorismo, ma la mia partecipazione attiva al movimento si sarebbe maturata solo un paio d’anni più tardi. Roberto passava continuamente da una riunione a un’assemblea: a casa sua, nelle università o anche nelle sedi di Lotta Continua di altre città del nord Italia. Io lo seguii per qualche giorno in questi spostamenti dentro Bologna, ma c’era troppo fumo di sigarette in quelle stanze affollate, e a me bruciavano gli occhi. Una mattina, senza che nessuno notasse la mia partenza (d’altronde nessuno aveva notato il mio arrivo), mi alzai, presi lo zaino e andai a Milano. Anche a Milano andai a trovare degli amici del mio paese che si erano trasferiti lì con tutta la famiglia. Dormii a casa di Walter, alla ringhiera, e l’indomani lo accompagnai sul cantiere edile dove lavorava per chiedere al titolare di prendermi per qualche giorno come aiutante. Non se ne fece niente, perché c’era bisogno del libretto di lavoro, ma la cosa non mi dispiacque molto: quell’ingaggio non mi serviva per dare una svolta economica alla mia esistenza, ma solo per poter avere qualche soldo in più e restare più a lungo in viaggio. Autostop, per la prima volta in autostrada, da Milano a Torino e poi, attraverso il Moncenisio, in Francia, sulle Alte Alpi, a Briançon, a Grenoble. Per parlare, pensavo che mi sarebbero state utili le frasi e le coniugazioni che avevo studiato a scuola; e invece quelli parlavano troppo in fretta e univano tutte le parole. Solo dopo qualche giorno capii che non era necessario dire Allez vous au prochain village? e che si poteva anche dire vous allez. Ma allora perché i miei insegnanti si erano impegnati tanto a spiegarmi questa regola della posposizione? Forse lì, sulle Alte Alpi, non parlavano bene il francese. Da lì in poi, frequentando molte volte la Francia in autostop, impa- 183 rai altre cose della lingua: a distinguere la pronuncia del nord da quella del sud; a capire dal numero di targa che uno era diretto a Nizza, a Lione o a Parigi; che a Parigi si parla anche l’argot e le patois, e che i giovani hanno uno slang che tronca le parole. Imparai anche che bisogna intonare ogni frase con la cantilena giusta altrimenti i francesi fanno finta di non capire. Insomma imparai tante cose, non solo della lingua, ma anche del modo di viaggiare corretto di un globe trotter, parola inglese che i francesi, naturalmente accentavano sull’ultima sillaba. Un globetrottér deve avere uno zaino più leggero di quello mio che, già vuoto ma guarnito di grosse fibbie metalliche, pesava esageratamente. Deve avere un Opinel n. 7 e non un temperino qualsiasi; un sacco a pelo leggero e non un plaid scozzese omaggio della Shell (e neanche un sacco a mummia che, da solo, entra a stenti nel bagagliaio di una due cavalli); un paio di scarpe comode e un paio di jeans rigorosamente Levi Strauss, a tubo e a vita alta. Tutte queste cose me le insegnavano direttamente i ragazzi e le ragazze miei coetanei che trovavo negli incroci o all’uscita delle grandi città e con i quali condividevo qualche centinaio di chilometri e la scoperta di cose nuove. Lo stile usato per annotare le cose sul blocco notes si fece meno ampolloso e più asciutto. Finii col segnare solamente tanti indirizzi di luoghi in cui si tentava di cambiare il mondo a partire dal modo di stare insieme. A volte l’indirizzo ti portava in una fattoria della Provenza dove si provava ad allargare la propria coscienza allevando conigli e vivendo tutti insieme i ritmi della campagna. Ci si esercitava per ore ad ascoltare le buone vibrazioni della terra. Altre volte, in piena città, trovavi enormi case dove non si aggirava nessun adulto. Spesso erano piene di tappeti e di cuscini, con i muri decorati da enormi Shiva danzanti o da Budda dallo sguardo compassionevole. In Sicilia, in Grecia e da qualche altra parte c’erano delle vere e proprie Comuni, volute, si diceva, da personaggi del mondo della musica o del cinema che, la settimana prima erano stati lì a scambiarsi massaggi shiatsu con uno di noi. In realtà avere un posto dove andare non era mai un problema: dovunque ti trovavi, finivi per trovare la piazzetta, il parco, il monumento o l’aiuola dove brucavano l’erba i tuoi simili e, quando si faceva tardi, andavi sempre a dormire da qualcuno. Così passavi gran parte della 184 notte a rovistare fra i dischi, le foto, i libri e le riviste di questo qualcuno che magari in quel momento non c’era, perchè si trovava in viaggio a fare le stesse cose nella casa di qualcun altro. Quando ti svegliavi, vedevi in giro facce nuove, che la sera prima non c’erano nella piazzetta o sotto il monumento, e che non si stupivano della tua presenza. Qualcuno, facendo colazione, pensava che fossi tu il padrone di casa e ti raccontava la sua storia. Tu gli raccontavi la tua, e poi si vedeva. In alcuni di questi indirizzi si stavano buttando le basi per la nascita di quello che, nella seconda metà degli anni Settanta, sarebbe diventato il Teatro di Gruppo. Si imparava a jonglare con le palline e con le clave, si provavano numeri di acrobatica e di clownerie, si facevano lunghe tirate musicali collettive, mettendo insieme i tabla, il sitar o l’armonium della tradizione indiana con i bongos marocchini o cubani, l’organetto dei saltarelli con l’oboe arabo, la chitarra con le launeddas. Ma andiamo oltre l’autostop ed esauriamo la panoramica dei mezzi di locomozione che io ho trasformato in mezzi per viaggiare. Fra questi c’è stato anche un mezzo improprio, che non è mai servito a nessuno per questo scopo: il windsurf. Agli inizi degli anni Ottanta questo sport è diventato molto popolare anche sulle coste salentine e, inevitabilmente, io ne sono rimasto affascinato. Dopo la prima estate trascorsa fra cadute acrobatiche e continui recuperi della vela che si ostinava a buttarmi in acqua, ho passato l’inverno a progettare con altri amici, per la verità increduli perché da parte loro erano soddisfatti di fare la cerniera fra la spiaggia e il largo, una sorta di rimorchio ad aliscafo che permettesse il trasporto di una tenda e degli effetti necessari ad un viaggio. Ho desistito dal costruire questo trabiccolo improbabile e mi sono limitato a portare a termine solo un’impresa sportiva: il primo giro del Salento in windsurf, da Gallipoli, sullo Ionio, fino al lido adriatico di San Cataldo. Non si trattò di un vero e proprio viaggio perché la sera, terminata ciascuna delle cinque tappe, tornavo a dormire a casa. Il viaggio vero per mare (dormendo la notte fuori di casa) venne di conseguenza perché un mio amico, che aveva comprato d’occasione una piccola barca a vela a Nizza, in Francia, ammirato per i miei risultati surfistici, mi nominò skipper e decise che, con me a bordo, si pote- 185 va trasferire il mezzo, lungo appena sette metri, dalla Costa Azzurra fino a Porto Cesareo, sullo Ionio. Ma il racconto di quest’odissea, portata comunque a termine, non aggiungerebbe molto in questa sede. Il teatro e il viaggio poi, come ho anticipato, si sono sommati, ed è così che il mio viaggiare in autostop è sfociato, in maniera naturale, nel teatro quando, in qualcuna delle Comuni raggiunte, si prediligevano le attività circensi o le tecniche del teatro fisico come il mimo o l’acrobatica. A queste mie esperienze, inizialmente casuali, sono seguiti numerosi viaggi fatti intenzionalmente per inseguire occasioni di formazione teatrale come stages, laboratori e incontri con maestri e con altri artisti del teatro di strada. La seconda metà degli anni Settanta, invece, è stata occupata interamente da continue tournées (soprattutto durante il periodo estivo) che portavano in giro gli spettacoli del Teatro Infantile di Lecce di cui facevo parte. Il clima culturale di quegli anni e le nostre direttrici in esso sono riassunte in un intervento con il quale le comunicavo al convegno su I sud e le loro arti, tenutosi ad Arnesano di Lecce nel settembre 2001 e pubblicato, insieme con gli altri atti, in un volume dallo stesso titolo, edito a cura dell’Amministrazione Comunale. Ne riporto alcuni stralci per l’importanza che assumono in esso le metafore spaziali e territoriali di cui faccio continuamente uso. I miei riferimenti alla strada, allo spazio e al diverso modo di muoversi in esso mi sono stati suggeriti, probabilmente, dalla lunga dimestichezza avuta con il territorio lucano e dal mio percorrere avidamente, con lo spettacolo, quella realtà paesaggistica e umana che, qualche decennio prima, era stata messa in evidenza da Carlo Levi, da Rocco Scotellaro e da Ernesto de Martino. Verso la metà degli anni Settanta io e Stefania abbiamo fatto un nodo alle nostre esistenze inventando percorsi artistici e di vita che sfidavano le mode e le avversità che avrebbero voluto ostacolare ogni sodalizio che non fosse inerte e convenzionale. […] È così che in quel periodo abbiamo dato vita ad una sorta di famiglia fatta di “fratelli di teatro” che, pur provenendo da diverse parti del mondo, hanno finito per costituire un vero e proprio network. Questa catena umana, pur numericamente limitata ed economicamente insignificante, resta tuttora di grande conforto per ognuno dei suoi anelli, per la certezza di una tacita solidarietà 186 quando si sperimentano nuove strade artistiche ed esistenziali. […] Questi “fratelli di teatro” con cui continuiamo a ricongiungerci saltuariamente per periodi più o meno lunghi, provengono raramente dall’area dei teatranti di professione. Quasi sempre vengono dal “movimento”, quel gregge di umani che ama incontrarsi fuori dagli spazi che il Sistema preconfeziona e propone, e lì barcolla e tentenna prima di cadere definitivamente fuori o dentro il Sistema stesso. […] La via del teatro che noi pratichiamo e che lasciamo aperta al “movimento” resta quindi definita implicitamente come un territorio intermedio fra il dentro e il fuori, una terza via, alternativa tanto alla comoda accettazione del Sistema, tanto all’impari lotta con il mostro. Può sembrare una scelta di comodo, una strada facile da percorrere, e invece non lo è. Non ci sono, in essa, stazioni in cui riposarsi. Camminare per questo sentiero, stretto e labile, vuol dire stare sempre attenti a non cadere né da una parte né dall’altra. Tuttavia offre grandi soddisfazioni: è una strada che tu stesso contribuisci a tracciare e che alla fine risulterà utile sia a coloro che stanno dentro al Sistema che a coloro che ne stanno fuori. Assomiglia un po’ a quei percorsi dei contrabbandieri che, muovendosi sui sentieri di confine, consentono gli scambi fra due regioni. Assomiglia a quei tracciati dei pionieri che, segnati con il rischio di pochi coraggiosi, saranno poi utilizzati da tutti per lo scambio e per i commerci. Assomiglia ed è un territorio franco, dove si incontrano profughi che provengono da entrambe le zone di cui è frontiera e che prendono, di volta in volta, il ruolo di attori, di consiglieri, di maestranze o di critici. […] A sud soprattutto, la linea di confine fra il dentro e il fuori deve essere mantenuta, fortificata, allargata; deve poter ospitare tutti i malcontenti della condizione meridiana e, per quanto può, migliorarla. Nel lungo lasso di tempo della nostra attività, l’obiettivo è rimasto immutato: tenere salda la bandiera in questo territorio franco, fare sempre la sentinella per osservare, da lì, come cambia la fisionomia e l’entità del “movimento”, sforzarsi per distinguere le sue frange vere da quelle false, inerti, per offrire sempre una possibilità, per vedere transitare nel teatro tutte le scontentezze e le risorse dei diversi sud. […] Tanti sono stati, in questi decenni, gli arruolati di questa legione straniera: musicisti, grafici, fotografi, scultori di carta, pittori, danzatori, costumisti, cuochi… di lingua e di nazionalità diverse: 187 italiana, francese, tedesca, spagnola, inglese, svedese… Tutti ci hanno dato la loro energia, accettando di fare tournées improbabili per le strade dei sud, stipati assieme alle scenografie in furgoni rumorosi e bollenti, spingendo automobili strappate dalle mani degli sfasciacarrozze e costrette a fare un ultimo giro, con l’anima tra i denti, lungo strade inesistenti, tracciate dalla comune speranza. Questi mezzi di trasporto non se la sentono di percorrere le autostrade che conducono al nord. Si trovano più a loro agio arrancando sui sentieri della Basilicata, fianco a fianco con gli ultimi muli della storia, carichi di una coppia di anziani e di una fascina ingombrante e con al seguito, spesso, una capra, parente di Dioniso e del teatro. Mezzi piccoli, che accettano volentieri di arrampicarsi sui cocuzzoli fino ai sagrati delle chiese, che si infilano con disinvoltura nei sentieri sterrati della campagna, che sopportano bene i graffi dei rovi o i contraccolpi delle radici negli uliveti. […] La Basilicata l’avevo scoperta a sedici anni, quando avevo messo per la prima volta il naso fuori dalla mia regione, nel corso del mio primo vero viaggio dormendo fuori di casa, quello con il guzzino. L’occasione di ritornarci si presentò quando, nel 1976, Luigi Za, docente di sociologia dell’Università di Lecce, decise di organizzare lì un convegno sulle “Prospettive di sviluppo culturale nella Comunità Montana del Medio Sinni – Pollino – Raparo”, e decise altresì di avvalersi, per le sue proposte, del supporto dimostrativo di un gruppo di teatro di strada: il Teatro Infantile di Lecce. Per una settimana dormimmo tutti e otto accampati nella scuola elementare di Fardella, un comune minuscolo, e da lì, ogni pomeriggio, ci spostavamo per raggiungere i cocuzzoli delle montagne vicine e montare il nostro spettacolo di “pantomime, burattini e jazz”: Chiaromonte, Castronuovo S. Andrea, Senise, Francavilla sul Sinni, Viggianello. Il terremoto dell’Ottanta che colpì duramente questa regione, doveva ancora venire, ma la condizione delle strade, e spesso anche delle case, era segnata comunque da smottamenti, crolli e voragini. La natura del terreno argilloso, quello dei calanchi, consente una stabilità molto relativa ai sottili strati di asfalto e alle fondamenta delle costruzioni che sorgono sulle fiancate delle valli. L’unico zoccolo di roccia si trova, appunto sui cocuzzoli, ed è lì che bisognava arrivare per raggiungere i centri abitati: poche case, una chiesa e un bar-emporio collegati da sca188 linate. Il teatro-festa che noi proponevamo a supporto del convegno si avvaleva anche di una parata musicale, con tanto di sassofoni, tromba, grancassa e mangiafuoco, che si infilava lungo queste scalinate consumate. Ci guidava uno del posto, che insisteva per portarci tutti a casa sua, a bere un bicchiere di aglianico prodotto da lui stesso. A volte l’operazione era lunga perché il vino stava al fresco in una grotta della rabatana, l’insediamento saraceno ai confini del paese. Nonostante la sua colonna sonora dal vivo, ispirata al moderno jazz mediterraneo, e nonostante le frequenti sortite “free” dei nostri sassofoni, lo spettacolo soddisfaceva pienamente le aspettative di tutti, anche delle anziane signore che, coperte interamente da uno scialle nero, venivano da casa con la loro seggiola e applaudivano compostamente. A questa prima tournée ne seguirono molte altre. Rocco Laborragine, un organizzatore culturale dell’ARCI di Potenza, ci proponeva dei tours di dieci, o di quindici giorni, tutti nella stessa area della regione lucana; sicché a più riprese, e in diversi anni, il nostro carro di Tespi (un furgone Volkswagen e una Ford Anglia Quattrostagioni simile a quella di Harry Potter) ha finito col percorrere tutti gli angoli della Lucania, da quelli boscosi del centro a quelli vulcanici del nord intorno a Melfi, dai fondovalle afosi al paesaggio lunare dei calanchi. La Basilicata da noi percorsa non offriva, se non raramente, strutture ordinarie di ricezione come alberghi, residence o agriturismo. Noi, comunque non ne abbiamo mai fatto uso: il budget a nostra disposizione era limitatissimo e non ci permetteva un lusso simile. Arrivando nella località assegnataci, ci appuntavamo mentalmente l’ubicazione dei luoghi in cui avremmo passato la notte dopo lo spettacolo: i pochi alberi nei pressi degli abbeveratoi (i pilacci), qualche stazione abbandonata delle ferrovie calabro-lucane, i bordi di un laghetto o (era l’ideale) un bosco di cerri. Lì avremmo montato le nostre tende e provato qualche numero per il giorno successivo. Qualche volta la locale sezione del Partito Comunista era abbastanza grande da ospitarci, ma le condizioni del bagno e la puzza stagnante del fumo di sigaretta di chi giocava a carte ci facevano preferire il campeggio libero e l’acqua di una fontana. Nei paesini dove rappresentavamo non c’erano nemmeno punti di ristoro e comunque, alla fine dello spettacolo, era tutto chiuso, per cui uno del gruppo si preoccupava, per tempo, di comprare, dall’emporio- 189 salumeria-tabacchino, il necessario per uno spuntino. Ci saremmo rifatti l’indomani a mezzogiorno raggiungendo, su indicazione di qualche compagno informato, una trattoria adatta alle nostre esigenze. Dopo qualche tempo i gestori oramai ci conoscevano e, per il servizio familiare che ci offrivano, noi li avevamo eletti nostri zii putativi: zi’ Mingo, zio Leonardo, zi’ Peppe… Sapevano che ci accontentavamo dei loro strascinati al sugo, delle loro sausizze e suppressate, delle mozzarelline fresche e di una grande insalata. Così abbiamo preso dimestichezza con la Basilicata; con le sue strade, i suoi alberi, i suoi sassi, le sue acque e la sua gente. Carichi di queste esperienze andavamo poi, di tanto in tanto, a rappresentarne lo spirito anche altrove, al Festival Internazionale del Teatro in piazza di Sant’Arcangelo di Romagna o nei festival nazionali dell’Unità a Roma, Bologna, Modena o a Bergamo. Lì misuravamo le nostre affinità e le nostre differenze con i colleghi del Piccolo Teatro di Pontedera, del Teatro Tascabile di Bergamo, col Centro Teatrale di Santa Marta di Milano, o anche con maestri molto noti del calibro di Dario Fo o Leo Bassi. 190 Riferimenti bibliografici Dialetto e letteratura dialettale salentina G. B. Basile, Il Pentamerone, ovvero lo trattenemiento de’ peccerille, Garzanti, Milano 1998. G. C. Cortese, La Vaiasseide; La tiorba a taccone; Viaggi di Parnaso, Ed. dell’Ateneo, Roma 1967. F. D’Elia Vita e opere di Giuseppe De Dominicis, Lecce 1926. M. Greco, Il Viaggio de Leuche, in «Rinascenza Salentina», Lecce 1935. L. Lezzi, La memoria raccontata, Aramirè, Lecce 2006; Le Cicale, Kurumuny, Calimera 2007. M. Marti, Letteratura Dialettale Salentina (Il Settecento), Congedo, Galatina 1994. M. Paone, Il Breviario di Papa Galeazzo, Congedo, Galatina 1979. R. Roberti, Ottocento poetico dialettale salentino, Pajano, Galatina 1954. G. 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