viaggio de leuca

Transcript

viaggio de leuca
Luigi Lezzi
VIAGGIO DE LEUCA
Guida ai luoghi, nonluoghi e luoghi
comuni del Salento
Edizioni Kurumuny
Sede legale
via Palermo,13 73021 – Calimera (Le)
Sede operativa
via S. Pantaleo, 12 73020 – Martignano (Le)
Tel. e Fax 0832 801577
on line www.kurumuny.it
mail to [email protected]
ISBN 978-88-95161-35-8
© Kurumuny edizioni – 2009
La pianificazione di un territorio a destinazione turistica è un’operazione rischiosa: le comunità
locali dovrebbero essere coinvolte sia nel processo
decisionale che nelle fasi attuative dei progetti,
affinché si tenga conto delle loro esigenze e dei loro
diritti tanto quanto di quelle dei turisti esterni.
Maura Cetti Serbelloni, Il Luogo, Lecce, Pensa 2003
Indice
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Prefazione. L’eco del rimosso di Marcello Strazzeri
Premesse
Parte prima
Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano
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20
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26
88
90
102
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111
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120
130
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Il testo
Le edizioni precedenti
Questa edizione
Testo traduzione e note
Dialetto, teatro e viaggio
La letteratura dialettale
Teatro
Viaggio: tempi e luoghi
I tempi
I luoghi
Strade e sentieri
L’itinerario del Marciano
Un riscontro oggi
Parte seconda
Il Salento ieri e oggi: da luogo antropologico
a nonluogo della surmodernità
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151
152
157
158
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Differenze e analogie
La percezione tradizionale dello spazio
Un esempio: la casa a corte
La percezione dello spazio in conseguenza del processo
di modernizzazione
Orientamento e pertinenza individuale dello spazio
Viaggiare
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163
164
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Il Salento dei nonluoghi
Il viaggiatore antropologico e il non-viaggiatore
Orientamento e appaesamento in de Martino
Appendice
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Tradizione, teatro e viaggio, miti (racconti)
degli anni Settanta
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Riferimenti bibliografici
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Sentieri arcaici sulle serre
Prefazione
L’eco del rimosso
di Marcello Strazzeri*
Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano, riproposto da Luigi Lezzi
in questa rinnovata edizione che per molti aspetti rivede criticamente
quella di Michele Greco del 1935, anche alla luce delle successive puntualizzazioni di Mario Marti, Donato Valli e Maria Teresa Romanello, si
muove in una prospettiva che, pur partendo dal certo del testo, punta
a individuare il vero: quello che, nella prospettiva che qui mi interessa,
riguarda il senso antropologico del viaggio intrapreso dal Marciano, da
Vanni Passante ed altri amici.
Com’è noto agli esperti del settore, ci troviamo di fronte ad un’opera di letteratura dialettale, il più antico testo poetico in dialetto salentino, risalente agli anni a cavallo tra la fine del Seicento e gli inizi del
Settecento.
Ma, ripeto, la portata di tale opera va bene al di là della pur rilevante valenza storica: quella che la collega ad un filone della letteratura dialettale, che va da Il Pentamerone di Giovanni Battista Basile a La
Vaiasseide di Giulio Cesare Cortese, ivi compresa l’opera di un altro
salentino, Giuseppe de Dominicis, vissuto tra il 1869 e il 1905, noto
come Il Capitano Black.
Quello che emerge subito dal racconto del viaggio fatto dal Marciano
è la costante attenzione rivolta all’itinerario programmato, da Salice
Salentino a Leuca e ritorno, in un arco temporale di quattro giorni, scanditi nelle seguenti tappe: Salice Salentino, Otranto, Vignacastrisi, Leuca,
Cutrofiano, con l’ultima sosta a Nardò per la festa dell’Incoronata.
Notevoli, per il significato che assumono nella prospettiva di Lezzi, le soste
in altre località fra le quali Martano, i Laghi Alimini, Alessano, Galatina.
Si tratta di un percorso di oltre 200 Km da cui si fa emergere la valenza antropologica di una narrazione governata da categorie spazio-temporali fortemente permeate di un vissuto intrecciato alla vita quotidiana
dei luoghi, alla loro cultura, al loro immaginario, alle loro credenze.
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Prima di addentrarmi ulteriormente nella presentazione del testo mi
preme fare una precisazione sul carattere oggettivamente spettacolare,
per così dire teatrale, di tale racconto, le cui considerazioni, dialoghi, battute, canti, sembrano oggettivamente presupporre la presenza di un pubblico partecipe, attivo, capace di intervenire integrando e commentando.
Ma torniamo alle categorie di tempo e spazio già introdotte per rilevare quanto e come esse siano caratterizzate da una sorta di mutua
implicazione e cattura, nel senso che non è possibile percepire il senso
del luogo senza evocarne la temporalità implicita, quella che gli dà
identità nell’ambito della costruzione culturale dei luoghi di cui parla
Arjun Appadurai in La modernità in polvere.
Il viaggio è, infatti, guidato non da percorsi ufficiali pre-definiti, ma
dalla capacità di orientamento del Marciano e dei suoi amici e dal suo
continuo riferimento a sentieri, masserie, muretti a secco, cappelle, luoghi consacrati dalla tradizione nella memoria collettiva della comunità.
I luoghi parlano, infatti, solo a chi sa intenderli, ne conosce il linguaggio, la semiotica diremmo oggi.
È come se, fatte le debite differenze, al soggetto proustiano che ricerca Il tempo perduto subentrasse un soggetto sociale capace di far emergere l’eco del rimosso, il definitivamente sepolto, che può ri-emergere
nella direzione di un futuro possibile fondato su una ristrutturazione
radicale del vissuto spazio temporale.
In questa prospettiva di discorso viene criticamente delineata in questo libro la transizione del Salento da luogo antropologico a nonluogo
della surmodernità, con riferimenti concreti a quella realtà culturale di
cui si descrive, a mo’ di esempio, la casa a corte col suo corredo di
puzzi, uèrti, loggie, pile, scettalòre, cisterne.
Insomma, se è vero quanto dice Marc Augé che un luogo antropologico diventa un nonluogo quando da esso si offuscano o cancellano
i segni della memoria che lo caratterizzano, ripercorrere oggi, come fa
Lezzi, gli stessi itinerari effettuati da Marciano, porta a cogliere per intero il processo di omologazione e, dunque, di espropriazione identitaria
subita dal Salento.
Non a caso, rileva l’autore, al viaggio inteso secondo i dizionari come
un giro più o meno lungo attraverso luoghi e paesi diversi dal proprio,
con soste e permanenze di varia durata, per vedere, conoscere, imparare e divertirsi è stato sostituito, sull’onda di un processo omologante, un
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viaggio del tipo: sette giorni e cinque notti in vip class inclusa la visita
ai musei e l’ingresso in discoteca con l’accompagnamento di una guida
locale.
Lo stesso Ernesto de Martino, peraltro, dopo aver rilevato nei suoi
appunti per La fine del mondo che l’orientamento spaziale è alla base di
quello generalmente culturale, introduceva la categoria di appaesamento
contrapposta a quella di spaesamento, la prima segnata dalla presenza
individuale e sociale, la seconda dalla sua pressoché totale scomparsa.
Che fare? L’autore non ha alcuna pretesa risolutiva, ma solo quella di
segnalare il problema della disidentificazione dei luoghi nella prospettiva di una loro riappropriazione. È questa la condizione per invertire il
processo in atto e innescarne un altro che tenga in maggior conto la
dignità dei luoghi e quella dei suoi abitanti.
Il recupero genealogico dell’attualità di un testo come Il viaggio de
Leuche dallo spazio di dispersione in cui era depositato si muove in
questa direzione: ha la pretesa di parlare ai soggetti individuali e a quelli collettivi, ai cittadini e alle istituzioni, a quelli che vivono nel territorio e a quelli che lo gestiscono, nel senso della valorizzazione o della
degradazione di ciò che è di tutti: res omnium, non res nullius.
*Preside della Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio
dell’Università del Salento.
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Premesse
Modi di viaggiare
C’era una volta nel Salento, ma anche altrove, un modo di guardare
al territorio molto più rilassato di quello attuale. Chi ci viveva si accontentava di conoscere minuziosamente i propri luoghi abituali e di esplorare occasionalmente qualche località vicina. Dei luoghi abituali sapeva
tutto: gli angoli più adatti a questo o a quest’altro tipo di coltura, quelli con più spessore di terra rossa, quelli infestati irrimediabilmente dalla
gramigna, dall’erba-pepe o dalla cannazza, o quelli troppo battuti dal
vento di tramontana. Mio padre, da ortolano che ogni anno doveva
prendere in affitto un fondo diverso, senza aver mai preso visione di
una cartina geolitologica dell’area circostante la città di Lecce, aveva
un’idea chiara e generale anche del suo sottosuolo, della sua consistenza e della sua stratigrafia. Forse si aiutava con l’esperienza acquisita
come aiutante nelle cave durante la sua adolescenza, oppure curiosando negli scavi urbani per le canalizzazioni fognarie. Sta di fatto che,
dando uno sguardo ad un campo, riusciva a intuire se sotto c’era del
bolo, del cretaccio, una fossa consistente di terra ferrosa o dei cuti che
avrebbero rotto i vomeri e gli attrezzi per sarchiare. Se un dato tipo di
terreno era in grado di conservare l’umidità o se ai primi raggi del sole
si sarebbe screpolato tutto come avviene negli uadi del deserto. Tutte
queste conoscenze gli erano indispensabili perchè lui coltivava a secco,
cioè senza fare affidamento ad altra irrigazione che non fossero le piogge (se venivano) e l’umidità notturna e stagionale. Senza questo intimo
rapporto con il territorio avrebbe buttato via i suoi semi, il suo lavoro e
quello del suo cavallo e forse io non avrei avuto la possibilità di mangiare.
In occasione di qualche festa grande che comprendeva magari anche
una fiera del bestiame, oppure per devozione verso qualche santità particolarmente sentita, si spostava dall’area in cui viveva e affrontava, in
trainella (un carretto leggero), un viaggio giornaliero.
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Eccezionalmente andava in Calabria, con un gruppo di soci, per
comprare più a buon mercato cavalli e pecore da riportare passo passo
a Lecce. Questo, naturalmente, era un viaggio che richiedeva diversi
giorni, la capacità di orientarsi e di relazionarsi congruamente con le
persone che incontrava.
Sul finire del diciassettesimo secolo un viaggiatore nostrano descrisse in versi (e in dialetto) una sua passeggiata a cavallo da Salice
Salentino fino a Leuca. Dal Viaggio de Leuche si desume un modo di
viaggiare sostanzialmente simile a quello che emerge dai racconti
estemporanei di mio padre.
Curiosamente, poi, anche il mio modo di viaggiare in autostop nel
corso degli anni Settanta assomiglia molto più a quello appena descritto che non a come si viaggia oggi. I cambiamenti radicali che hanno
portato all’attuale concezione del viaggio strettamente connessa con le
categorie di turismo e di mercato, infatti, qui hanno avuto luogo solo a
partire dai primi anni Ottanta. Il Salento, dopo aver percorso per un
paio di decenni la via dell’emigrazione, solo allora usciva decisamente
da un’economia tradizionalmente agricola e si avviava ad abbracciare
quella basata sul turismo che lo caratterizza ancora oggi.
Così facendo sceglieva anche, più o meno consciamente, di adeguare l’aspetto del suo territorio alle nuove esigenze e di dotarlo sempre
più di quelle caratteristiche che l’antropologo Marc Augé ha elencato
per definire i nonluoghi. Questi cambiamenti hanno comportato anche,
per gli abitanti, un diverso modo di guardare al territorio e hanno contribuito a diffondere anche qui quel senso di disorientamento e di spaesamento che caratterizza tutto il mondo occidentale postmoderno.
Può il disorientamento territoriale (la reale perdita della bussola)
essere alla base di comportamenti individuali e sociali di natura patologica (schizofrenie e deliri)? A lanciare per primo un segnale di allarme
in questo senso è stato Ernesto de Martino, nei suoi appunti per La fine
del Mondo; allarme che, come noteremo, oggi non è assolutamente
rientrato, ma assume sempre più quegli aspetti apocalittici annunciati e
paventati dallo studioso napoletano.
Commenteremo la lettura del Viaggio de Leuche con l’intenzione di
contribuire alla nascita di un’organica antropologia dello spazio come
strumento capace di rendere coscienti delle conseguenze di questo
mutato rapporto con il territorio e con i cambiamenti che quotidiana-
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mente vengono operati su di esso all’insegna della riqualificazione e
dell’adeguamento.
La lettura del poemetto, in verità, ci ha portati a soffermarci anche su
altri cambiamenti intervenuti contemporaneamente nel Salento e, primo
fra tutti, su quello riguardante la lingua. Il dialetto salentino, considerato fino agli anni Ottanta (alla stregua di tutte le altre parlate regionali)
un retaggio del passato da mettere da parte a favore della lingua nazionale, è diventato curiosamente, nell’ultimo ventennio, oggetto di una
riscoperta giovanile che non perde occasione di sbandierarlo orgogliosamente. Fanno uso del dialetto i numerosissimi interpreti della “neopizzica” (la colonna sonora delle estati turistiche salentine) e sono composti in dialetto i testi del raggamuffin locale (con in testa i Sud Sound
System) e quelli di diversi cabarettisti locali e nazionali (Ciceri e Tria, La
Gegia, Andrea Baccassino). Allo scopo di assecondare questa riscoperta del dialetto può essere certamente utile il primo documento di poesia dialettale, il Viaggio.
Il Viaggio de Leuche
Un pomeriggio tardi, di fine luglio dell’anno 1692 una piccola comitiva partiva da Salice Salentino, un paese a una quindicina di chilometri a nord di Lecce, con l’intenzione di raggiungere l’estrema punta della
penisola per partecipare, il primo di agosto, alla festa solenne della
Madonna te Finimunnu.
Il gruppo era composto da quattro amiconi che viaggiavano a cavallo e da due inservienti che li seguivano a piedi, per badare alle bestie
e per dare una mano in caso di bisogno. Tre erano per certo sacerdoti;
uno anzi, anni prima, era stato pure arciprete per sette anni a
Guagnano. Si chiamava don Geronimo Marciano, ma tutti lo chiamavano lu Mommu te Salice e a lui stava bene così. Al momento della partenza aveva più o meno sessant’anni, ma si sentiva ancora nel pieno
delle sue forze, pronto ad affrontare le fatiche di quel viaggio che, fra
andata e ritorno, era più lungo di duecento chilometri!
Partiva con l’intenzione di annotare tutto quello che sarebbe successo perché voleva farne un racconto in poesia. Lu Mommu era di estro
artistico; nel paese lo sapevano tutti che gli piaceva comporre poesie e
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scenette. Sotto Pasqua le faceva rappresentare ai giovani, nella piazza,
con costumi e tutto. Dicevano che, per queste cose, aveva preso dalla
buonanima di suo nonno Girolamo, gran sapientone che conosceva
tutti i peli della Terra d’Otranto e della sua storia. E infatti c’erano ancora, a casa sua, cataste di carte, libri, appunti e descrizioni. Per dire la
verità, però, il nipote era diverso dal nonno, perché a lui non piaceva
passare per uno scrittore serioso, per uno che usa le parole difficili per
fare colpo sugli altri studiosi come lui. Ormai i tempi richiedevano altro.
Voleva, si, fare un poema, ma il suo sarebbe stato un poema comico,
scritto addirittura in dialetto, con quelle frasi che escono dalla bocca a
chi non lo conosce proprio l’italiano. A Napoli, la capitale del Regno,
altri scrittori stravaganti avevano già cominciato a fare queste cose e i
loro componimenti andavano forte in tutte le riunioni di corte.
Un altro della comitiva poi, pure lui prete, si chiamava don Vanni
Passante ed era l’amico più stretto di don Geronimo. Fra una messa, una
confessione e una funzione, tutti e due trovavano sempre il tempo di
parlare di quest’idea del poema da scrivere in dialetto. E come si scaldavano sulla novità della cosa! Andavano alla ricerca delle parole e
delle frasi più efficaci e si compiacevano della sorpresa che avrebbero
prodotto una volta stampate su un libro. La cosa li appassionava ancora di più quando arrivavano alla fine del boccale di vino che si mettevano sempre davanti a ogni discussione.
Qualche volta si riunivano con tutta la compagnia pure nella chiesa,
e facevano musica a modo loro. Cominciavano suonando certi divertimenti musicali di un maestro tedesco, che di nome si chiamava Giovanni
Sebastiano ma di cognome, dicevano loro, faceva proprio Bacco, come
il santo Martino dei Romani. Poi si riempivano il bicchiere col passito
della messa e passavano a cantare le arie contadine di Salice. Alla fine la
giravano sempre a tarantella, si tenevano le sottane con la punta delle
dita e muovevano i piedi in onore di santo Paolo. Sapevano che il vescovo non la approvava quella musica nella chiesa ma, dicevano, quello che
stavano facendo era sempre un gesto di-vi-no, perciò non c’era peccato.
E poi, comunque, per quanto si lasciassero andare, la loro voce non arrivava certo fino a Lecce, dove stava il vescovo.
A quel tempo preti e monaci erano quasi tutti malandrini, più degli
altri, perché con la scusa della tonaca che indossavano potevano anche
entrare più in confidenza con le femmine. Quelle sposate si sapevano
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guardare e si fermavano dove volevano; le giovani, invece, era più facile
che restassero imbrigliate nei cordoni e nelle stole. La Chiesa sapeva tutto;
minacciava scomuniche e sospensioni a divinis, ma la storia continuava.
Ad ogni modo, quel pomeriggio di fine luglio si decisero a partire e,
strada facendo, trovarono proprio le cose di cui andavano in cerca.
Tavole imbandite per mangiare e bere a laudaddìo e incontri con belle
figliole alle quali rivolgere qualche battuta e qualche occhiata. Inoltre si
presentarono loro tante occasioni per conoscere gente forestiera e per
incontrarsi con certi compari che non vedevano da anni. E poi finalmente don Geronimo nipote poté vedere con gli occhi suoi tutti quei
luoghi descritti nelle carte di suo nonno: le masserie con i pareti alti, i
giardini ombrosi e profumati, le pietre che parlavano del passato, gli oliveti secolari, i palazzi signorili e le marine col pesce fresco, che quello
è sempre desiderato. Vide interi paesi di grotte abbandonate dove, a
tempi antichi, i monaci greci avevano abitato e detto pure messa. E
poco ci mancò che cadesse da cavallo su certe carrare strette che salivano sulle serre, piene di tante pietre che in tutta la zona di Salice,
Guagnano, Campi e San Pancrazio non ne troveresti neanche la centesima parte; che lì è tutto cretaccio buono per le vigne.
In tutto il viaggio non si presentò mai l’occasione di dire questo non
vale. Don Geronimo rimaneva sempre a bocca aperta come un bambino. La Terra d’Otranto era come un paradiso per lui, tutto era meraviglioso: le case, la gente, l’odore dei tumi calpestati dai cavalli, le linee
spezzate dei muretti di campagna e, oltre, la linea rotonda e azzurra del
mare. In ogni nuovo quadro che si presentava davanti ai suoi occhi
vedeva la mano di Dio! E, in quei momenti, non si chiedeva neanche
se si trattava del Dio suo, oppure di qualche altro Dio. Passo dopo
passo si sentiva sempre più orgoglioso di vivere in quella terra, e
aumentava pure il desiderio di raccontare agli altri l’esistenza di quelle
bellezze. All’occorrenza, ci avrebbe pensato lui ad aggiungere alle cose
qualche poco di sale in più, se serviva.
Fra quello che vide e quello che si figurò, alla fine compose tre canti:
uno raccontava la strada fatta da Salice fino a Otranto, un altro da
Otranto a Leuca e l’ultimo parlava del ritorno. E poi andò lui stesso a
recitarli di persona in tante occasioni. Li compose davvero in dialetto,
come aveva pensato, e la cosa suscitava curiosità e allegria nella gente.
Tutti ridevano, bevevano alla sua salute e gli battevano pure le mani.
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Parte Prima
Il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano
Quando accumuliamo religiosamente le testimonianze e i
documenti del passato, in effetti, stiamo cercando di decifrare
ciò che siamo alla luce di ciò non siamo più.
M. Augé
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Il testo
È il più antico testo poetico in dialetto salentino finora in nostro possesso. Risale agli anni a cavallo fra il 1600 e il 1700 e dunque ha all’incirca 300 anni. Le notizie relative a questo scritto e al suo autore si devono ai curatori delle edizioni critiche del testo e agli studiosi di letteratura e di dialettologia che negli anni se ne sono occupati.
Le edizioni precedenti
In ordine di tempo, la prima edizione a stampa del poemetto la troviamo nel volume che raccoglie l’annata 1935 della rivista bimestrale di
Arti, Scienze e Lettere «Rinascenza Salentina», diretta da Nicola Vacca. La
dobbiamo a Michele Greco responsabile, allora, della Civica Biblioteca
“Marco Gatti” di Manduria, cittadina situata fra Taranto e Lecce.
Ricoprendo tale incarico, egli dice ebbe «la ventura di rintracciare una
copia manoscritta del poemetto posseduta da Giuseppe Pacelli», l’erudito manduriano vissuto tra il 1764 e il 1811 che fin da giovane aveva iniziato a raccogliere e a trascrivere una grande quantità di materiali letterari salentini o, comunque, riguardanti il Salento. Il testo che Michele
Greco rintracciò non era un autografo dell’autore ed era stato redatto da
mano ignota, diversa anche da quella del Pacelli. Purtroppo, se ne lagna
lo stesso Michele Greco, «è da considerarsi una copia, abbastanza errata e trascurata, dell’autografo del Marciano – che presenta – difformità
e irregolarità della grafia – e addirittura – alterazioni del testo tanto da
renderlo, in molti punti, oscurissimo e di difficile interpretazione».
Ridottissime risultano, in quest’articolo, le informazioni sull’autore,
quasi tutte desunte dallo stesso testo.
Né queste informazioni diventano più consistenti quando, nel 1954,
il testo viene pubblicato, con variazioni minime, dal linguista Oronzo
Parlangeli, in appendice al volume Ottocento poetico dialettale salentino curato da Ribelle Roberti per l’editrice Pajano di Galatina.
In questa appendice, aperta dall’intestazione Raccolta di testi dialettali salentini, si tralascia espressamente di entrare in merito alle problematiche relative ai vari testi pubblicati e dei quali si intende offrire solo
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una panoramica cronologica e una prima antologia. Il Viaggio del
Marciano risulta introdotto da poche righe nelle quali è evidenziata la
sua maggiore importanza rispetto agli altri documenti riportati «perché la
lingua nel quale esso è scritto si rivela profondamente vicina al dialetto
che nel Salento doveva essere parlato sulla fine del XVII secolo». Se ne
riporta il testo in maniera scarna, senza traduzione e senza fornire alcuna nota circa l’interpretazione delle sue parti oscure, pur segnalate dal
precedente editore. Altrettanto indefinita resta la figura dell’autore e del
contesto nel quale si verifica la composizione, per le cui notizie il
Parlangeli rimanda interamente alle poche righe riportate dal Greco.
Nel 1956 l’emerito dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs pubblica il
primo volume del suo Vocabolario dei dialetti salentini nel quale tiene
accuratamente conto anche di tutte le voci che compaiono nel poemetto del Marciano rilevando anche, nelle note introduttive, che l’edizione
del Greco alla quale egli si rifà, contiene “molti errori di stampa”.
Trent’anni dopo si occupa del Viaggio Maria Teresa Romanello, assegnando al documento il posto che merita nel panorama della produzione letteraria dialettale del XVIII secolo. Ella vi individua, infatti, il primo
instaurarsi di un modello letterario che troverà conferma e continuazione nella successiva produzione dialettale salentina fino alle soglie del
Novecento. Il suo volume Per la storia linguistica del Salento (Edizioni
dell’Orso, Alessandria 1986) raccoglie e mette a confronto tutti i testi
dialettali fioriti nel Settecento in questo “estremo lembo della Penisola”.
Si citano, accanto al Viaggio de Leuche, la commedia La Rassa a bute, il
componimento satirico La Iuneide, o sia Lecce strafurmata, la farsa
pastorale Nniccu Furcedda accanto ad altri testi coevi di minore estensione.
La Romanello non riporta integralmente il testo del Viaggio, né se ne
occupa in termini critici, lasciando così insoluti tutti i dubbi interpretativi espressi dal Greco nella sua prima edizione e anzi confermando,
nelle citazioni, alcune grossolane sviste del copista denunciate dal
Rohlfs come “errori di stampa”.
Quando a interessarsene è Mario Marti, nel volume riguardante il
Settecento della sua Letteratura Dialettale Salentina (Galatina, Congedo
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1994), vengono messe sensibilmente più a fuoco tanto la figura dell’autore, quanto altri particolari del componimento, come le circostanze del
Viaggio stesso.
Don Geronimo Marciano, nome all’anagrafe de Lu Mommu de Salice
indicato dal copista come autore del poemetto, risulta essere nipote dell’erudito salentino Gerolamo Marciano (vissuto fra il 1571 e il 1628), noto
per il suo Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, pubblicato a Napoli molto tempo dopo la sua morte, nel 1855. Risulta altresì nato nel 1632 a Maruggio, in provincia di Taranto, da Luca Marciano,
di professione medico, e da Isabella Manaro, originaria di Salice
Salentino. È questo il paese che l’autore elegge come propria patria tanto
da farsi chiamare, appunto, Lu Mommu de Salice. Qui infatti la sua famiglia si trasferì presto in seguito alla morte del capofamiglia.
Dalle ricerche del Marti sappiamo inoltre che don Geronimo fu arciprete per circa otto anni a Guagnano, località a qualche chilometro da
Salice, e che visse l’ultimo periodo della sua vita a Casalenèu, cioè a
Manduria, dove morì il 28 febbraio del 1714. Come risulta esplicitamente dalla dedica che apre il componimento, qui egli godette, come altri
artisti e letterati suoi contemporanei, della tutela del mecenate don
Michele Imperiale, principe di Francavilla e marchese di Oria.
Quella del Marti è una rigorosa edizione critica che non solo si preoccupa di riportare integralmente il testo, ma aggiunge anche le opportune proposte di modifica e di integrazione alla trascrizione del manoscritto pubblicata per la prima volta dal Greco e mai messa in discussione.
Marti presenta, naturalmente, anche una puntuale traduzione che,
nel rispetto della lettera, restituisce senza soluzione quei punti oscuri
denunciati dalle altre edizioni e, anzi, ne addita di nuovi. A volte la
causa di questi costrutti oscuri viene attribuita ad “arditi metaforismi linguistici”; altre volte si avverte il tentativo di risolverli ricorrendo a possibili sviste dell’anonimo copista.
Un altro accenno alla personalità dell’autore, soffermandosi soprattutto sul peso che ebbe il suo poemetto nella produzione poetica successiva, lo fa Donato Valli quando si occupa degli inizi della letteratura
dialettale nel Salento, nella sua Storia della poesia popolare nel Salento
pubblicata a Galatina per l’editore Congedo nel 2003.
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Questa edizione
L’edizione che qui presentiamo non ha pretese critiche né filologiche; basa le sue conclusioni sugli studi precedenti testè citati e, per
volersi soffermare in modo particolare sul contenuto dell’opera, si ripropone di risolvere a tutti i costi i dubbi interpretativi finora avvertiti e
segnalati. A tale scopo non ha esitato a fare ricorso anche all’intuizione
che, notoriamente, non è ammessa a chi persegue con rigore una metodologia prettamente filologica o critica. Volendo analizzare il contenuto
dell’opera, avevamo bisogno di un testo scorrevole, libero dai singhiozzi interpretativi a cui obbliga un approccio rigorosamente scientifico. Le
nostre soluzioni, naturalmente, tengono conto delle questioni riguardanti l’aspetto formale del manoscritto ma si concedono anche la libertà di interpretare a senso quei passaggi oscuri che, per essere sciolti,
avrebbero bisogno di maggiori verifiche in una tradizione linguistica di
cui, ahinoi!, abbiamo pochi altri documenti scritti. Il senso generale del
testo, d’altra parte, ritrova concordi tutti gli editori precedenti, che si
limitano ad interpretare in maniera diversa solo alcune probabili sviste
del copista oppure la natura di alcuni suoi vezzi grafici che danno luogo
all’incertezza circa la natura di alcune vocali, ad una punteggiatura
approssimativa e a tentennamenti sia nell’accentazione che nella notazione delle maiuscole.
Da parte nostra, per tentare di risolvere con una certa coerenza i passaggi dubbi, abbiamo messo a frutto, oltre alla nostra personale competenza di parlanti dialettofoni, anche i risultati del confronto con la competenza più accreditata di numerose persone anziane originarie dell’area leccese e salicese. Abbiamo sottoposto alla loro attenzione la lettura del testo e abbiamo tenuto in debito conto le considerazioni che
ne emergevano. Questa verifica ha portato in diversi casi a delle soluzioni illuminanti che, per il fatto di essere dettate dal buon senso dei
parlanti più che da complessi ragionamenti di natura dotta e filologica,
appaiono ragionevolmente plausibili e coerenti con le intenzioni dell’autore.
Nel commento al testo abbiamo, comunque, dato sempre atto della
natura delle nostre proposte esegetiche affidandone, in ogni caso, l’accettazione definitiva ai linguisti e agli specialisti.
Il nostro lavoro di interpretazione è stato integrato anche dai dati di
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natura extralinguistica raccolti nel corso di un’accurata indagine sul territorio, effettuata ripercorrendo passo per passo l’intero itinerario descritto nel Viaggio. Questa ricerca, condotta alla lettera sul campo, ha richiesto anche la consultazione di materiali extraletterari, come la cartografia
storica, il Servizio Interattivo Territoriale (SIT), messo in rete dalla
Provincia di Lecce e le carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare
(I.G.M.). È risultata altresì utile la consultazione di altri testi che, direttamente o indirettamente, forniscono notizie utili per una verosimile ricostruzione della viabilità antica del Salento e di altri dati riguardanti il territorio. Seguendo il cammino descritto dal Marciano ci siamo soffermati
nelle località nominate. In vari punti del percorso abbiamo confrontato i
nostri pareri anche con coloro che, per motivi diversi, si dichiarano interessati alla memoria, al dialetto o alle questioni riguardanti i cambiamenti del territorio. Allo scopo di verificare la natura di alcune osservazioni
del Marciano abbiamo tentato, per di più, di trovarci nei vari luoghi nella
stagione e nelle ore corrispondenti al suo passaggio.
Riporteremo più avanti, dettagliatamente, il resoconto di questa
nostra esperienza di viaggio che ci ha permesso la puntuale ricostruzione di alcuni particolari del poemetto.
Per la traduzione in italiano abbiamo cercato uno stile scorrevole e
consono al linguaggio attuale, che volgesse i versi di un dialetto arcaico e obsoleto in una prosa il più possibile piana, tanto dal punto di vista
lessicale che del costrutto. Per ottenere questo scopo ci siamo talvolta
concessa qualche libertà, sforzandoci comunque di non aggiungere nessun concetto che non fosse già presente (in modo esplicito o implicito)
nel testo dialettale.
Le note che abbiamo apposto al testo sono molto numerose e, per
alcuni, possono risultare anche ridondanti. Ciascuno ne faccia un uso
relativo alla propria competenza del dialetto e della cultura salentini, e
sia disposto a tollerare il carattere pleonastico di talune osservazioni che
si propongono comunque lo scopo di rendere comprensibile il testo
dialettale anche a chi ha poca esperienza di questo idioma.
Nel chiarire il significato dei termini si è sempre fatto riferimento,
naturalmente, agli studi del Rohlfs e, in particolare, al suo Vocabolario
dei dialetti salentini (Congedo 1976) al quale si rimanda per ogni dubbio lessicale non sufficientemente chiarito.
24
25
Testo, traduzione e note
Viaggio1 de2 Leuche3
a lengua de Lecce compostu dallu4 Mommu de Salice, ed ultimamente dallu medesimu rinuàtu mpiersu lu Scegnu de Casaleneu,5 e ddedicatu allu Marchese d’Oria D. Michele Imperiale.6
Divisu ‘n tre canti
Non sempre, Eccellentissimo Signore, se usano le cètere, ca pure alle
òte nu calasciòne7 buènu sunàtu te dàje spassu e piacìri; e glièu aggi ntìsu
e lesciùtu cà nu certu rè durmiscìu allu cantu delli riddi,8 co quiddu cantàri a trìpula ce fàcenu la notte trì trì; oh ce bedda armonia,9 iammedìu.10
1 Il motivo del viaggio, soprattutto quello allegorico, può riportarsi ad una moda letteraria molto diffusa ai tempi del Marciano. Il Croce nei suoi Saggi ne parla in questi termini: «L’invenzione dei Viaggi in Parnaso ebbe grande fortuna tra il Cinque e il Seicento.
Pareva una forma assai arguta di esporre concetti morali, politici e letterari, elogi o satire di persone e di cose».
Considerando la dichiarata giocosità del poemetto, il viaggio reale dell’autore verso il
sacro monte di Leuca può alludere ironicamente al viaggio topico e letterario verso il
sacro monte della Poesia, il Parnaso.
2 Questa forma genitiva con cui si esprime il titolo non troverebbe piena corrispondenza nella traduzione italiana Viaggio di Leuca che risulta ambigua e poco comprensibile.
Saremmo tentati di utilizzare la forma più scorrevole di Viaggio a Leuca, senonché tale
traduzione implicherebbe solo un’indicazione di moto a luogo e lascerebbe inespressa
quella di argomento che prevale nella forma dialettale. Abbiamo optato per la traduzione Il viaggio di Leuca, caricando l’articolo da noi aggiunto di un marcato valore dimostrativo che conferisce all’espressione il significato della perifrasi Racconto di quel viaggio che parla di Leuca.
3 Leuca, la destinazione del Viaggio, è sede di un importante santuario dedicato a santa
Maria de Finisterrae. Tutto il viaggio si configura come una sorta di pellegrinaggio verso
questo luogo santo o, almeno, come un viaggio di devozione. Il nome della località originariamente era al plurale (sul modello, per esempio, di ‘Atene’) come risulta anche
dalla redazione latina delle visite pastorali avvenute nello stesso periodo nelle quali
anche le concordanze sono espresse al plurale.
4 Il dialetto salentino, diversamente dalla lingua italiana, richiede l’articolo davanti ai
nomi propri di persona.
26
Il viaggio di Leuca
in lingua leccese composto da Mommo di Salice e, di recente, da lui
stesso rivisto nei pressi del fonte pliniano di Manduria, e dedicato al
Marchese di Oria don Michele Imperiale.
Diviso in tre canti.
Non sempre, Eccellentissimo Signore, per provare piacere bisogna
ricorrere alle cetre, perchè a volte, anche uno strumento umile come il
colascione, se suonato bene, può fornire spasso e divertimento. Infatti
ho sentito dire (e ho letto) che una volta perfino un re è rimasto incantato dal verso rustico dei grilli che la notte riempiono l’aria con il loro
tri-tri. Che armonia incantevole, quant’è vero Iddio!
5
Scegnu è il nome locale dato ad una sorgente monumentale nota come Fonte
Pliniano, che sgorga in una grotta nei pressi di Manduria; Casalenèu è appunto il nome
con cui, ancora all’epoca della composizione, si denominava la città di Manduria. Con
questo nome compare anche nella cartografia storica.
6 Michele Imperiale, principe di Francavilla e marchese di Oria, alla cui corte era evidentemente attivo l’autore.
7 Le cètere e lu calascione, la nobile cetra, strumento di Apollo e il chitarrone di uso popolare, sono qui, rispettivamente, simboli della poesia aulica (in lingua toscana) e della poesia
dichiaratamente più dimessa, che si esprime con il registro linguistico dialettale.
Fin dal suo esordio il componimento si dichiara conforme ai suoi modelli di riferimento, cioè
alle opere di Giulio Cesare Cortese e a quelle di Gianbattista Basile, nel corso delle quali si
fanno continui riferimenti alla musica, agli strumenti musicali e alle tecniche esecutive sia
canore che strumentali.
8 Lo avrà letto anche in uno dei Cunti del Basile, il quinto della terza giornata Lo scarafone,
lo sòrece e lo grillo.
9 Quest’espressione di lode nella contemplazione di una manifestazione della natura fa eco
a quella della strofa 14 del primo canto, quando, altrettanto francescanamente, l’autore loderà la luna per la sua bellezza.
10 Iammediu; questa interiezione, oggi in disuso, ricorrerà più volte anche nelle forme iemediu, ieme Diu. Vale come generico asseverativo e, come tale, può essere tradotto in vari modi
a seconda del contesto in cui si trova. Si pensi a quanti modi diversi ci possono essere per
intendere l’analoga espressione italiana “per Dio!”.
27
Via, làscia nu picca lu Fùrviu e lu Marìnu11 e sienti sta tiòrba a taccùne,12 ch’è passata fin’allu Sabètu13 ed ha uddàta la vocca a quiddi cigni
di Napoli beddu. Canta ìdda nu certu viaggiu ci fici jèu l’anni passati a
Leuche cu tre amici, unu currìu Marcici14 per nume Vanne Passanti,15
l’àutru chiamatu Cicciu Mangiòni e l’àutru Nardu Smargiassòni,e puru
due pedùni, unu chiamatu Ventura e l’àutru Catarèna; e percè ch’eranu
tutti d’umòri dièrsi, mi misi a fàrace una cantata a lengua noscia de
Rusce.
Gùstatela proìta16 dellu Signore, e cumàndame a bacchetta.17
11
Fulvio è da identificarsi molto probabilmente o con lo scrittore genovese Francesco Fulvio
Frugoni (1620 ca.-1684 ca., autore del romanzo in lingua toscana Il cane di Diogene) o con
il poeta napoletano Fulvio Testi (1593-1625). Il primo dei due è più vicino, per poetica, a
G.B. Marino, considerato il maggiore esponente della poesia aulica barocca in lingua toscana, che qui si esorta esplicitamente a mettere da parte.
12 La tiorba è, al pari del calascione, uno strumento musicale simile al liuto e molto popolare nel XVI sec. Se ne distingue organologicamente per avere un doppio manico, uno provvisto di tasti e l’altro a corde libere, e per la sua cordatura che poteva giungere ad avere sino
a quattordici corde doppie di metallo da pizzicarsi con un plettro, mentre il calascione (o
colascione) era dotato, generalmente, di tre sole corde doppie. Il taccone è un pezzo di cuoio
con cui, a mo’ di plettro, si pizzicavano le corde di tali strumenti.
La Tiorba a Taccone è il titolo di un’opera poetica attribuita a Felippo Sgruttendio ma che,
molto probabilmente è stata scritta, per affinità di temi e di stile con le altre sue opere, da
Giulio Cesare Cortese, dichiarato modello del Marciano.
Il Viaggio farà continui riferimenti, nel suo svolgersi, a quest’opera come al Viaggio di
Parnaso, alla Vaiasseide e agli altri componimenti del Cortese.
13 Il Sebeto è un corso d’acqua nei pressi di Napoli, più volte citato anche nelle opere del
Cortese e in quelle del Basile, soprattutto per il ponte della Maddalena, o ponte Licciardo,
che vi passava sopra. La fama di questo ponte era dovuta al fatto che dai suoi spalti venivano buttati giù i corpi dei giustiziati, quelli dei suicidi e le carogne degli animali.
Qui l’espressione sta semplicemente per dire “dalle parti di Napoli”.
14 Questo passaggio è risultato di oscura interpretazione per tutti coloro che si sono cimentati con il Viaggio, non riuscendo facile trovarvi un senso se si parte dalla voce currìu che,
da aggettivo, significa imbronciato. Qui si propone originalmente il significato di “conosciuto come Marcici (o il Marchese)”. In tale interpretazione currìu viene inteso non come aggettivo, ma come passato remoto del verbo cùrrere (correre), nell’accezione metaforica di “avere
l’appellativo di”, “essere conosciuto come”. Ancora oggi il dialetto usa, infatti, una fraseologia analoga per dire, metaforicamente, “essere nominato”: scire ‘nnanzi (andare avanti) che
ha lo stesso significato letterale di correre. Metaforicamente si dice per es. Comu àe ‘nnanzi
lu tale? per dire “Come viene nominato nel suo paese? Con quale soprannome è conosciuto?”
28
Via, lascia stare i poeti aulici come Fulvio e Marino e presta orecchio
al suono di questa tiorba suonata a taccone, umile ma capace di incantare tutti, da qui fino al corso del fiume Sebèto, e di tappare così la
bocca anche ai cigni della bella Napoli.
Servendomi di questo strumento rustico canterò un viaggio che io
stesso ho fatto alcuni anni fa a Leuca, in compagnia di tre amici. Uno
risponde al nome di Vanni Passante, nominato Marchese, l’altro lo chiamano Ciccio Mangione e l’altro ancora Nardo Smargiassone. Ci accompagnarono, camminando a piedi, anche due aiutanti, uno di nome
Ventura e l’altro Catarena. Ognuno di noi, in questo viaggio, ha fatto
cose degne di nota, per cui ho pensato di farne una cantata, e l’ho composta nella lingua nostra di Rudie.
Goditela in grazia di Dio e disponi di me come più ti piace.
Marcici, in questa lettura, è predicativo.
Volendo ricercare poi il significato di questo soprannome si potrebbe anche accostarlo a
“Marchese” ritenendo che il segno grafico [ci], ripetuto due volte nella trascrizione della parola, sia servito allo scrivente per rendere due diversi suoni: sia quello occlusivo gutturale sordo
[ki] che quello sibilante [si].
15 È il suo camerata più vicino, quello con il quale dividerà, nelle soste, anche il letto e con
il quale si permetterà anche di entrare, confidenzialmente, in dialettica.
16 Proìta è una voce forse derivata (Rohlfs) dalla formula avverbiale lat. pro vita. Ha comunque un significato oscillante fra il “provveduto” e il “protetto”.
17 È d’obbligo licenziarsi dai potenti dichiarando la propria disponibilità incondizionata a
soddisfarne la volontà. Ugualmente si esprime il Basile nella dedicatoria Allo re delli viente
scritta per la Vaiasseide del suo amico G. C. Cortese: Nui, che te simmo serveture e nce puoie
comannare a bacchetta.
Tale è, inoltre, il senso della più corrente formula di congedo italiana “ciao”, con la quale ci
si dichiara “schiavo” della persona che si saluta. Il Marciano la riporterà, più innanzi, nella
forma intermedia schiau.
29
Cantu Primu
1.
Cantu de Leuche jeu lu viaggiu santu
fattu cu lu Passanti, ed autri amici
la sciuta mberu la cità d’Utrantu
matre de tanti martiri felici;
comu propriu successe18 ve lu cantu,
quantu vidi cu st’ecchi, e quantu fici;
senta chi ole, e senta e gusti, e guai
chi no bolisse19 poi, nè mò, nè mai.
2.
No chiamu tie ci stai sopra stu monti
miezzu dell’atri soru, bionda Cliu;20
ma tie, Micheli, di sapienza fonti
grande fra quanti ne creau nu Diu;
a tie ste rime mei currenu pronti,
ed allu mperiu tou, Mperiari miu,
percè ca jeu su puirieddu, e sulu,
e chiù d’unu uleria me tegna ‘n culu.
18
Questa dichiarazione di assoluta veridicità delle cose descritte è, con ogni probabilità, sincera. Si nota infatti una puntuale corrispondenza nella descrizione del territorio e
nei tempi necessari per percorrere ogni singola tappa. Qualche dubbio può venire circa
l’occorrenza dei tanti fatti straordinari che l’autore chiamerà in causa con una frequenza quasi regolare e che rispondono, più verosimilmente, alla necessità letteraria di alleggerire lo scorrere del racconto introducendo continuamente altri microracconti, magari
inventandoli o attingendoli dall’aneddotica che circolava al suo tempo.
19 L’invidia era un argomento corrente nella società di corte, dibattuto in numerosi trattatelli. Uno dei riferimenti topici di questo dibattito, dall’autorevolezza riconosciuta, era
un passo delle Metamorfosi (lib. 2) in cui Ovidio la descrive orrenda e brutta, decrepita, magra, secca, pallida, livida, con gli occhi torvi.
Ne La vecchia scorticata, racconto della prima giornata del Pentamerone del Basile, si
legge: “la ‘nmidia, figlio mio, se stessa smàfara” e nel trattatello Consigli degli animali
di, A. Firenzuola, (Venezia, 1622): “Habbiti cura della invidia la quale come palla di
30
Canto Primo
1.
Canto il viaggio santo di Leuca, fatto
con Vanni Passante e con altri amici;
e di quella visita ad Otranto,
la città dei Santi martiri.
Racconto esattamente ciò che successe,
quello che vidi coi miei occhi e quello che feci.
Chi vuol ascoltarmi ne avrà godimento;
a chi si rifiuta, invece, auguro i peggiori guai.
2.
Non chiedo niente a te, o Clio patrona dei poeti
che te ne stai sul tuo monte con le altre muse;
mi rivolgo invece a te, o Michele, fonte di sapienza
e supremo fra tutti i mortali.
I miei versi li affido alla tua protezione,
o mio Imperiale, perché io, con le mie sole forze,
non saprei difendermi da quanti,
e sono tanti, mi vorrebbero in rovina.
sapone si mette sotto i piedi de’ favoriti e de’ grandi per farli sdrucciolare e cascare del
luogo loro”.
20 Puntuale, dopo l’esposizione della materia, l’invocazione alla Musa.
Clio, nella mitologia greca, è una delle nove muse figlie di Zeus e di Mnemosine, uno dei
titani preolimpici. Tutte insieme presiedevano alle arti e alle scienze e ispiravano poeti,
filosofi e musicisti. Secondo l’attribuzione più diffusa, Calliope era la musa della poesia
elegiaca, Clio della poesia epica e della storia, Euterpe della poesia lirica e della musica,
Melpomene della tragedia, Tersicore della danza e dei cori, Erato della poesia d’amore,
della geometria e del mimo, Polinnia della danza e della poesia sacra, Urania della poesia didascalica e dell’astronomia e Talia della commedia e della poesia bucolica.
Le muse erano considerate compagne delle Grazie e di Apollo, il dio della musica.
Sedevano presso il trono di Zeus, re degli dei, e cantavano la sua grandezza, l’origine
del mondo, i suoi abitanti e le gesta gloriose dei grandi eroi. Erano venerate in tutta la
Grecia antica, specialmente sull’Elicona e in Pieria, vicino al monte Olimpo.
Nella mitologia romana ebbero il nome di Camene e si identificarono con le ninfe delle
acque e dei boschi.
31
3.
Cusì li crepu jeu, cusì li schiattu,
se stu gran nomi allu principiu stampu,
cusì lu lauru miu restarà ntattu
e non lo poterà trenu, né lampu.
Chiù versi poi, ca no so vecchiu sfattu,
jeu te promettu se n’autr’annu campu.21
Mpizza le ricchie gran Segnore mone
ca no te spiacerà stu calascione.
4.
A nu caaddu miu pe nome Moru
jeu ncavarcatu fici la partenza
quandu lu Febbu sopra a carru d’oru
scia ffazza a re de Franza reverenzia.22
Na vozza23 jeu purtai, ci nu tesoru
valia, e dava a mie muta loquenzia,
mprimu me la cercau lu camberata24
e ci deze na bona ncuppulata.
21 L’espressione ricalca la conclusione alla dedicatoria del Cortese per il suo Viaggio di
Parnaso: Ca si me vene netta, n’autro iuorno / lo nomme tuo lavoro a meglio tuorno.
22 Gli spostamenti, durante tutto il viaggio, si faranno sempre cercando di evitare le ore
più calde della giornata. Le ore di attività non saranno necessariamente quelle diurne e,
viceversa, le ore di riposo quelle notturne. Si mangerà, si dormirà e si riposerà secondo i ritmi richiesti dal viaggio e suggeriti dalle condizioni atmosferiche.
La partenza ha luogo, dunque, di pomeriggio, quando il sole, trascorso lo zenit, si avvia
verso Occidente (per portare i suoi omaggi al re di Francia). Tant’è vero che si giungerà ben presto, in serata, a San Pietro in Lama, che dista da Salice solo una quindicina
di chilometri (la misura media di una tappa).
23 Il termine è un’esagerazione e si riferisce propriamente ad un grande contenitore di
terracotta per il vino (il Rohlfs specifica “fino a 250 litri”), intrasportabile in groppa ad
32
3.
Li sistemo io, e li faccio morire di invidia,
stampando sulla mia opera il tuo nome insigne.
Così proteggerò la mia fama di poeta
e niente, né tuoni né fulmini, potranno insidiarla.
Inoltre ti prometto che, se campo (e non sono poi
così vecchio), ti dedicherò anche altri versi.
Perciò, signore, presta ascolto alla mia musica
e giuro che non te ne pentirai.
4.
Partii per questo viaggio in sella
al mio cavallo di nome Moro,
nell’ora in cui il Sole, sul suo carro d’oro,
si dirigeva verso la Francia.
Portai con me un recipiente col vino,
che serve a sciogliere la lingua.
Il mio amico Vanni me la chiese quasi
subito e se ne scolò già una buona parte!
una bestia. Qui si sarà trattato, più verosimilmente, di un umbìle (dalla capienza di ca.
5-7 litri) o di una uzzèddra (fino a 10 litri).
Il vino, insieme al sole, citati entrambi in questa ottava di esordio, rappresentano un
leitmotiv nel corso di tutto il Viaggio. Ogni volta che la compagnia si ferma a mangiare
spunta fuori, puntuale, anche lu mieru (il vino), accompagnato da attributi e da perifrasi che ne celebrano le caratteristiche: sarà detto te cute (forte, di roccia), cumpremientu te la taola (complemento della tavola), no vattesciatu (non battezzato, non allungato con acqua), bedd’umore (liquido vitale), brau (bravo, efficace).
L’attaccamento al vino ostentato da don Geronimo, così come la sua morbosità nel
descrivere le bellezze femminili, sono, come si vedrà meglio altrove, caratteristiche topiche della figura del prete in quel periodo.
24 Il camberata per eccellenza è quasi sempre, lo dicevamo, Vanni Passante.
33
5.
Passammu de Carmianu; a do nu puzzu
tandu acqua sta tiràa na quatraredda,25
e percè jeu ce di beddizza spruzzu
dissi allu Cicciu: -Quista si ch’è bedda;
e peccè ca tenìa de sete mbuzzu
co doje mane pigliàu na quartaredda;26
e butàtosi a mie me disse: Schizzi!27
Le respùsi glieu: -A st’ecchi rizzi.28
6.
Se fice ‘n facci russa la carusa
ci nu milu masciàticu parìa,
e quantu se musciàu chiù vergugnusa
tantu chiù bedda all’ecchi mei parìa.
Finzemi,29 cresciu jeu, la vergugnusa
ma antecore30 la cosa le piacìa,
percè sott’ecchi poi tutta presciata
me fice na curtise lecenziata.
25
Quatrara, col significato di “bella ragazza”, è un termine ormai scomparso nei dialetti salentini. Il Rohlfs lo rileva anche nell’altro componimento della letteratura dialettale salentina delle origini ‘Nniccu furcedda. È ancora in uso, invece, in altre aree del
sud Italia, come in area calabrese e lucana.
26 La quartara, invece, è una brocca o, in generale, un recipiente per liquidi. Si noti il
gioco ottenuto con questa parola, che si differenzia da quatrara solo per una semplice
metatesi.
27 Schizzi può essere un’interiezione volutamente oscura e ambigua, che i due viaggiatori si scambiano, in maniera complice e ammiccante, per confondere la ragazza. Noi la
interpretiamo in una polivalenza oscillante fra diversi possibili significati: 1) come un
nonsense tirato in ballo solo per predisporre la rima; 2) come formula augurale per la
bevuta, equivalente ad un prosit, con il senso di «che questo schizzo ti possa far bene!»
(farsi uno schizzetto è usato ancora oggi gergalmente per dire bere un goccetto); 3)
come allusione triviale all’emissione di indicibili umori (che tu possa schizzare!), e quindi come incoraggiamento alla subdola corte che il Marciano aveva ingaggiato già semplicemente chiedendo da bere alla ragazza. La richiesta di una bevuta è, infatti, un
modo topico di fare la corte che ritorna spesso nei versi dei canti popolari salentini. Si
veda per es. il brano Alle beriferìe della raccolta di canti da noi pubblicati col titolo Le
34
5.
Passammo da Carmiano; vicino a un pozzo
c’era una bella ragazza che tirava acqua e,
dato che io non mi trattengo di fronte alla bellezza,
dissi all’amico Ciccio: – Questa si che è una bella figliola.
Stavo morendo di sete e lei, a due mani,
mi offrì un bel boccale.
Ciccio, con uno sguardo, mi incoraggiò e io
brindai a quei begli occhi di ragazza!
6.
Quella arrossì a tal punto
da sembrare una mela di maggio ma,
quanto più mostrava vergogna,
più diventava bella.
Probabilmente faceva finta di vergognarsi
perché senza dubbio la cosa le piaceva.
Infatti alla fine, tutta contenta,
ci salutò con ogni cortesia.
Cicale (Kurumuny, 2007). Allo stesso tema appartiene l’altro motivo topico della ragazza alla fonte che rischia di tornarsene con l’orciuolo rotto. La fonte che schizza e l’orciolo che si riempie sono figure che rimandano rispettivamente, senza alcun dubbo, al
sesso maschile e a quello femminile; 4) il giro di parole può essere estrapolato dal testo
di qualche motto o canto popolare non giunto fino a noi o, comunque, a noi ignoto, al
pari di altri che saranno accennati nel corso del Viaggio.
28 Gli occhi possono essere “ricci” tanto per le loro lunghe sopracciglia ritorte che per
il loro taglio netto e sinuoso; sta di fatto che anche nel repertorio popolare cantato ricorre spesso la formula elogiativa occhi rizzella, uecchi rizzi.
29 Non possiamo fare a meno di notare l’ipocrisia maschilista che si esprime in questi
versi. Perché la ragazza avrebbe dovuto accondiscendere alla corte morbosa di due
anziani sacerdoti? Il Marciano, all’epoca del viaggio, era presumibilmente sessantenne.
Se realmente si vergogna la giovane lo fa al loro posto, e finge cortesia al momento del
congedo contenta, se mai, di liberarsi delle loro attenzioni.
30 Antecore è un’espressione che assume il suo significato dal contesto in cui viene
usata; a seconda dei casi si tradurrà con “comunque”, “però”, “tuttavia”, con significato
ora assertivo, ora avversativo.
35
7.
Arrevammu a San Pietru de la Lama
addò lu cammarata avìa n’amicu,31
ci fosse quistu poe, comu se chiama
no me recordu moe, cu be lu dicu,
basta32 de quantu s’appetisce ed ama
nc’era alla tàola, puru me ne sbrigu,
carne, casu, recotta, e cose giunte,
mieru de cute33 che ne deze ‘n frunte.
8.
Mpiersu me viddi jeu na munacazza34
nìura chiù de nu fundu de caudàra,35
avia lu nasu a muedu de fucazza,
paria de li nasuti campanara.
Portava jeu na gra’ tabbaccherazza36
ci servia pe’ resbigliu alla carrara;
ma stabbaccàu, che com’avìa pe usu
na libra ne ulìa pe ‘gni pertusu.37
31
“Avere qualcuno” in una località significa poter fare a lui riferimento per riceverne
ospitalità. Così sarà inteso anche più avanti nel testo a proposito di Orazio, massaro a
Capriglia e di Ulisse, presso la masseria Li Fachechi.
32 Basta è un’espressione sintetica che riassume la frase “basta dire che”. Così sarà inteso anche più avanti nel testo.
33 Cfr. n. 23. Vino ricavato da un vigneto piantato su terreno roccioso, quindi forte come
la roccia. L’opposto è mieru te patùla – vino di palude – cioè un po’ annacquato per
sua natura.
34 Non si tratta di una monaca, come altri hanno inteso. Munacazza è da intendere piuttosto come moderatamente dispregiativo del generico “donna”, “ragazza”, in opposizione a quatrara che è un vezzeggiativo dello stesso termine.
35 Giuseppe De Dominicis, circa duecento anni dopo, riporterà, citandolo in un suo
componimento poetico, uno stornello popolare che poteva esser noto già ai tempi del
Marciano: Si bàutu quantu a chianta te brucacchia / si nìuru comu a culu te fersùra –
sei alto quanto una pianticella senza gambo, sei nero come un fondo di caldaia. Poiché
i due termini fersùra e caudàra sono sinonimi (e, in più, sono entrambi trisillabi lega-
36
7.
Arrivammo a San Pietro in Lama
dove il mio compagno Vanni aveva un amico
(non mi ricordo e non so dirvi chi fosse
costui, né come si chiamasse); mi ricordo
solo che a tavola mise ogni ben di Dio:
per farla breve, c’era carne, cacio, ricotta, e tutto
ciò che ci vuole. E in aggiunta ci mise anche
un vino pesante che finì col darci alla testa.
8.
Mi ritrovai seduto accanto ad una sorta di donna
più nera del fondo di una caldaia;
il suo naso, schiacciato come una focaccia,
la faceva regina di tutti i nasuti.
Io avevo una grossa tabacchiera che serviva
a tenermi sveglio durante il viaggio. Quella me la
chiese più volte e non la smetteva mai di tirare.
Non le sarebbe bastata neanche una libbra per narice!
ti da un’allitterazione), abbiamo pensato che anche la locuzione del Marciano può rifarsi alla stessa frase fatta.
36 Il tabacco, portato di recente dalle Americhe, era già entrato nell’uso comune e veniva considerato anche come un ottimo medicinale contro la stanchezza (come in questo
caso pe’ resbigliu alla carrara ) e come panacea per i più diversi malesseri. Il Basile nel
cunto della terza giornata Lo viso conferma questa credenza facendo dire a Cecio fai
buono a perdere no pasto, ca la dieta è più ottemo tabacco d’ogne male – fai bene a saltare un pasto perché il digiuno è medicinale più efficace del tabacco – Fin dalla seconda metà del Cinquecento si diffusero numerosi trattati, seri o giocosi, su questa pianta
denominata anche “peto” o “nicotina”.
V. anche n. 153.
37 Nella Tiorba a Taccone il Cortese inserisce anche un sonetto dal titolo A Checca che
pigliava lo tabacco e anche lì si fa un apprezzamento, negli stessi termini, sulla spropositata capacità delle narici della vaiassa: Ma tu tanto haie ssa forgia squacquarata / che si pigliasse na tabaccaria / tutta la strodarrisse a na sorchiata – Ma tu hai queste narici tanto sformate/ che, se anche ti servissi di una tabaccheria, la esauriresti tutta con una sola tirata.
37
9.
Eccu che vinne poe nu giuvinettu
e de chitarra fice na sunata;
ntìsemu che d’amuri iddu stia cuettu
pe’ la carusa de lu cambarata;
parlàanu secrèti, e ghieu lu nettu
poe nde cacciài de quidda faeddata,
Papa Nardu trattàa la faccendedda
puru lu ‘cocchia cu la Barbaredda.38
10.
Di poe che nui mangiammu a crepa panza
eccu Morfeu de quiddi all’ecchi vinne,
e conforme ca iddu ha pe usanza
de papaveri soi l’anchìu le pinne;39
jeu de lu Febu che timìa la lanza,40
– Cce sennu è quistu, olà ce vi trabbinne,
gridai, – All’erta, all’erta, ca ogni nturnu
luce la luna, comu miezzu giurnu.
38
Barbaredda può essere il nome proprio di una ragazza oppure, come più verosimilmente qui, un appellativo generico per indicare una ragazza di cui non si conosce il nome.
Analogamente in tutto il meridione si usa chiamare “Giorgio” uno di cui non si conosce il
vero nome e che si vuole, in qualche modo, deridere. Quest’atteggiamento di superiorità dell’autore trova riscontro nel dispregiativo munacazza con cui introduce l’altro personaggio
femminile e nel termine faccendedda che minimizza la vicenda; tanto minuta da non meritare neanche l’attribuzione di nomi propri ai suoi protagonisti. Infatti ci troviamo a casa di un
amicu non meglio identificato in cui, ad un certo punto, giunge un altrettanto anonimo giu-
38
9.
Ad un certo punto arrivò un giovanotto
che si mise a strimpellare una chitarra.
Era chiaro che stava cotto per la
figlia del padrone di casa. Si scambiavano
di nascosto cenni e occhiate, ma io afferrai
subito il senso di quel dialogo.
Papa Nardo prese in mano la faccenda per
favorirlo in quel corteggiamento.
10.
Dopo aver mangiato a crepa pancia,
ecco che arrivò il Sonno ad annebbiare la vista
a tutti e, come sa fare, ad appesantire le ali
col suo potere. Allora io, pensando
al caldo che avremmo avuto l’indomani
gridai: – Cos’è questo sonno? Che vi succede?
Sveglia, sveglia! che la luna splende da ogni parte
e sembra mezzogiorno.
vinettu. La mancanza di particolari nel racconto potrebbe anche ascriversi ai fumi del vino
pesante (mieru de cute che ne deze ‘n frunte).
39 Le pinne possono essere tanto le ciglia (le pinne te l’ecchi), quanto le penne delle ali che,
tarpandosi (per effetto dei papaveri), avrebbero immobilizzato la compagnia e impedito ad
essa di “volare” verso altri luoghi.
40 Cfr. n. 22. Si sottolinea anche qui la necessità di evitare i raggi cocenti del sole viaggiando
al fresco della notte.
39
11.
– All’erta, all’erta lu Vanni gridàu,
– Cicciu, Nardu, Ventura e Catarena.
Mberu Santu Dunatu se pighiàu:
e ci cantàa – la ntanena nena 41
e ci c’a muedu stisu42 secutàu:
– Donna, ca st’ecchi toi me dannu pena,
– Becòcula becòcula 43 cantàa
lu Vanni, e quistu sempre reprecàa.
12.
Scìa pe la site jeu già voccapiertu,44
lu Vanni, puperieddu, se brusciàva
cu la lengua de fore, e miezzu muertu
lu Nardu quasi l’anima spiràva:
ma de l’Arabia parìa lu desièrtu
lu luècu ca nesciùnu camenava.
Chiamàu a nu puzzàru lu Passanti
e je fice le ricchie de marcanti.
41 Il Basile e il Cortese fanno riferimenti continui ai canti, ai balli e ai giochi in voga nel
loro tempo. I loro componimenti sono preziosi per la ricostruzione dei relativi repertori sui quali si è soffermato il ricercatore, antropologo e compositore Roberto De Simone.
Rispetto ai suoi modelli napoletani il Marciano compie quest’operazione solo in pillole,
ma si compiace, comunque, di riportare alcuni frammenti di canti popolari in voga.
42 Altro riferimento alla musica, agli strumenti musicali e alle tecniche esecutive, canore e
strumentali. Sul canto a muedu stisu, alla distìsa, a para uce; su ‘ttaccare, secutare, girarla, ecc. cfr.: L. Lezzi, Le Cicale, canti salentini di tradizione orale, Kurumuny, 2007.
40
11.
–Sveglia, sveglia! Si mise a gridare anche Vanni,
– Ciccio, Nardo, Ventura e Catarena, Alzatevi!
Prendemmo il cammino verso San Donato;
Uno cantava – la ntanena nena
e un altro gli tenne dietro “a modo steso”:
– Donna, ca st’ecchi toi me dannu pena.
Vanni attaccò – Becòcula becòcula
e non la smise più con questo ritornello.
12.
Io andavo già boccheggiando per la sete,
il povero Vanni si sentiva ardere la gola
e Nardo, allo stremo, quasi spirava.
Ma quel posto sembrava il deserto d’Arabia,
non si vedeva anima viva. Il mio amico Passante
dette voce ad uno che lavorava a scavare un pozzo,
ma quello fece finta di non sentire.
43
La parola ripetuta non ha un senso compiuto e va intesa come un’onomatopea che ripropone, con la voce, il suono di un crepitacolo. Nel canto salentino sono frequenti questi versi
che hanno la funzione di accompagnare ritmicamente la voce altrui.
44 Con quest’unico aggettivo nel dialetto salentino si rende la perifrasi “con la bocca
aperta”. Analogamente nella penultima strofa del terzo canto si troverà manuzzeccatu
che riassume la locuzione italiana “mano nella mano”. Il costrutto rimanda a quello latino dell’ablativo assoluto.
41
13.
Per tanta scurtesìa ch’ebbe musciata
lu Cicciu ce sedìa a nu pesùlu
si fici na solenne licenziata
cu tre momme terribili de culu
e de la vocca soa no45 difrescata
fici vendetta lu culeddu sulu;
poi ci ndrizzammu senza nuddu sgarru
meru le curti di Lattanziu Carru.46
14.
Era la notti, e lu steddatu velu
chiaru scuprìa, e senza nubbi arcuna
scettava rasci resprennenti, e scelu
de perle quintadecima47 la luna.
Cuntemprannu la scia utatu a ‘n celu
e le stidde cuntàa ad una ad una
settatu alla scaccuni, e all’antica
decìa: – Ce luna! Diu la benedica.
45
Tutte le trascrizioni del manoscritto riferiscono na difrescata, ma comportano, a parere stesso dei traduttori, un senso poco chiaro. Il senso è invece lineare se si suppone,
come si fa qui, no difrescata (rimasta secca, senza rinfresco).
46 Probabilmente il nome di una masseria, la cui architettura comporta necessariamente le curti – i recinti – per le bestie. Poco dopo, infatti, si fermeranno a riposare in una
42
13.
Di fronte a tanta scortesia
Ciccio, che intanto si era seduto su una pietra,
rispose con un sonoro ringraziamento:
tirò fuori dal culo tre sonori rimbombi.
L’unica difesa per la sua bocca rimasta asciutta
fu questa risposta pronunciata col culo.
Poi, senza esitare, continuammo
verso i recinti di Lattanzio Carro.
14.
La notte mostrava il cielo
stellato e senza nuvole, dalla luna
piena sembravano cadere raggi lucenti
e gocce di perle trasparenti come ghiaccio.
Io la contemplavo con gli occhi al cielo
e contavo le stelle ad una ad una.
Comodo sulla mia sella, ripetevo
all’antica: – Che luna! Dio la benedica.
masseria abbandonata fatta di casi e curti dirupati.
Per quanto abbiamo ricercato, nella zona non abbiamo individuato alcun toponimo che
possa riferirsi a quest’indicazione.
47 Il dialetto salentino mantiene la denominazione latina “quinta decima die”, al quindicesimo giorno (dalla luna nuova).
43
15.
No mutu ntanu de Santu Dunatu
chiammu do jaticari:48 unu cantandu
scia nserta ottàa a muedu disperatu,49
e l’autru cu la ucca scia sunandu.50
Ad unu c’era lu chiù calafatu
lu Vanni addemandàu, quasi burlandu:
– De dae a Calimberda quantu nc’isse? 51
– De lu nasu alla vucca 52 iddu le disse.
16.
Restàu mutu confusu lu Passanti
alla risposta de stu gra’ vigliaccu,
e dissi: – M’ha chiarutu 53 lu furfanti
pe la farina nce lassài lu saccu;54
jeu muvìi la petina, lu gnuranti,
e iddu mprima mie me fice scaccu.
Basta55 ch’era de Lecce stu ellanu,
prontu de lingua e chiù prontu de manu.
48 Il Rohlfs riporta per il termine jaticaru, oggi scomparso, il significato di “ colui che
trasporta con bestie da soma”.
49 Un altro modo musicale e canoro parallelo a quello a muedu stisu già incontrato.
50 Anche qui si fa riferimento alla modalità esecutiva di accompagnare un canto con
suoni ritmici di vario tipo (soffi, pernacchi, gracidii, suoni vocalici o consonantici, ecc.)
che imitano, con la bocca, un reale o ipotetico strumento musicale.
51 Il tono burlesco della domanda consiste nella storpiatura del nome della vicina località di Calimera. L'epentesi di quelle due consonanti finisce col dare subdolamente della
merda (mberda) all'interlocutore.
44
15.
Non molto lontano da San Donato
ci imbattemmo in due altri viaggiatori;
uno cantava certe ottave “a modo disperato”
e l’altro lo accompagnava con versi della bocca.
Vanni si rivolse, con l’aria da sfottò, a quello
che si rivelò essere il più scaltro:
– Quanto ci potrebbe essere da qui a Calimerda?
E quello gli rispose – Attento a non sbatterci il muso!
16.
Il mio amico Passante restò di stucco
alla risposta pronta del malandrino,
e disse: – Mi ha saputo rispondere il furfante;
per tentare di rubare la farina ci ho rimesso
anche il sacco; io, da fesso, ho fatto la prima mossa
ma lui subito mi ha fatto scacco. L’avevo preso per
un bifolco, ma quello era certo uno che veniva dalla
città, pronto di lingua e, certo, ancor più di mano.
52 Frase fatta, a sua volta canzonatoria nel tono e nella prontezza con cui viene profferita, che lascia intendere di aver capito il tono offensivo della domanda e di saper
rispondere per le rime.
53 Mi ha messo in luce, allo scoperto.
54 «Per tentare di rubare la farina, mi son dovuto ritirare precipitosamente abbandonando anche il sacco che avevo portato con me, perdendocelo».
55 Cfr. n. 32.
45
17.
Intru na massaria ci n’anticaglia
parìa de casi e curti56 dirupati,
chiùsimu na mezz’ura intu la paglia
l’ecchiùzzuli de sennu turmentati;
ma de lu Cicciu57 li ai, ci sempre raglia,
solliciti ne tinne e resbegliati
finchè na campanedda de Zuddinu
ntìsimu ci sunàa lu mattutinu.
18.
Tandu de le fenesce levantine
se nfacciàa de Titone la mugliere,58
tutta tinta de rose tamaschine,
ce suntu de lu sole le bandere:
iddu59 lavàa le rote alle marine
puru cu fazza le solite currere
senza cu lu vedimmu, chianu chianu,
ce chiantammu allu friscu60 intu Martanu.
19.
A Martanu chiaie nu sbirru61 nuratu62
quandu no nd’acchie de sta cundezione
beddu pastu ci fice preparatu
comu se fusse principe o barone.
56
Curti sono gli alti recinti di muri a secco che fanno parte del complesso della masseria. In questo senso abbiamo inteso, più sopra, Le curti di Lattanziu Carru. Di tale
fattura sono le mura, ancora visibili, a Capriglia e a Li Fachechi, dove la compagnia si
fermerà a riposare.
57 Il testo riporta pe nu ciucciu dae e lascia oscuro il soggetto del verbo principale ne
tinne. Con la nostra proposta di correzione si giunge ad un’interpretazione chiara e consona all’ironia che l’autore fa di continuo sul comportamento dei suoi compagni.
Analogamente, Nardo russerà nella notte a Capriglia “governando i suoi porci” e appesterà l’aria a Cutrofiano con la puzza dei suoi piedi sudati.
58 La moglie di Titone è Eos, l’aurora.
46
17.
In una masseria che sembrava
un’anticaglia di costruzioni e di recinti crollati,
stesi sulla paglia, provammo a chiudere i nostri
occhi tormentati dal sonno per una mezz’oretta.
Ma per colpa dei soliti ragli che Ciccio fa quando
dorme, ci toccò restare svegli fino a che
non si sentì provenire da Zollino il suono
della campana di mattutino.
18.
Proprio allora, dalla parte di levante,
si affacciava l’Aurora, moglie di Titone,
ornata di quelle rose damaschine,
che annunciano, con la loro luce, l’arrivo del Sole.
Costui, al bordo del mare, lavava le ruote del suo
carro per fare il solito percorso. Noi, prima ancora di
vederlo nascere, piano piano, ci ritrovammo,
senza soffrirne la calura, nel centro di Martano.
19.
A Martano trovai un militare
gentile come pochi;
ci preparò un bel pasto con modi
degni di un principe o di un barone.
59
“Lui” per antonomasia, in queste citazioni mitologiche è, naturalmente, il sole, Febo
Apollo che lava le ruote del suo carro di fuoco sulle sponde del mare.
60 Cfr. n. 22. Prima che il sole scaldasse l’aria. Si viaggia preferibilmente all’aurora, al
crepuscolo o di notte.
61 Senza pensare necessariamente ad uno sgherro o a un militare, lo possiamo intendere anche genericamente come “un pezzo d’uomo”.
62 Lo intendiamo affine al siciliano “uomo d’onore”, che conosce cioè le regole sociali
e le sa applicare con discernimento. Anche Ulisse, nella penultima strofa della composizione, è chiamato amicu miu nuratu, ed è lui che compone la lite in corso, basandosi sul rispetto tributatogli da tutti i presenti.
47
Stu tiempu quistu foe beneficatu
da mie e nd’aìa ubbrecazione.
– Fa bene e te ne scerra, e tiene a mente
lu male,63 sole dicere la gente.
20.
Mangiàmmu ntra na chiesa addò troài
unu ca me parìa ommu cevile,
era marcanti, e jeu lu cummetài,64
vinne e mangiàu, [pocca],65 lu gentile;
sta cummetata mia despiazze assai
allu Passanti stìtecu e suttile,
tantu ci sotta lengua curreatu
disse: – Va ca cu mangia oze precatu? 66
21.
Rungulandu scia poe pe quidda via
comu atta ce mangia ficatale67
contru lu Cicciu ci pigliatu avìa
cu stu marcante n’amicizia tale
ci a spacu dubbiu cusutu nci scia
descurrendu no sacciu o bene o male.
Ma lu Vanni decìa: -Pe quiddi trueppi
fa ce buei, Cicciu miu, ca no lu scueppi.68
63
Vale anche per i proverbi quanto detto nella n. 41 sul repertorio di canti.
Cummetare (co-invitare) significa specificamente “invitare a mangiare”. Forse per la
confluenza semantica anche della voce lat. Com-edere.
65 Nel testo, a questo punto, manca una parola di due sillabe. Di nostra iniziativa abbiamo arbitrariamente colmato tale lacuna con questo termine, un comune asseverativo.
66 Si tratta di un’interrogativa retorica che intende affermare ironicamente il contrario.
L’intonazione con cui va accompagnata la domanda, tipica dell’area di Salice e inesistente in italiano, rende inequivocabile il senso ironico della frase.
67 Nel Cunto della seconda giornata Cagliuso, il Pentamerone del Basile parla di gatta
64
48
Ad oggi io gli ho largamente restituito il favore,
tanto che me ne resta perfino obbligato.
– Fai del bene e scordatene; il male che fai,
invece, tienilo a mente, dice la gente.
20.
Mangiammo in una chiesa dove trovai
un tale che mi sembrò una brava persona;
era un mercante, e io lo invitai.
Si accomodò, infatti, e mangiò senza farsi problemi.
Questo invito, però, dispiacque molto al mio amico
Passante, di carattere tirchio e diffidente,
tanto che, a bassa voce, contrariato, disse:
Non è che si è fatto pregare poi tanto!
21.
Continuò a borbottare allo stesso modo e sembrava
una gatta alle prese con del fegato. Ce l’aveva
con Ciccio che, intanto, aveva allacciato
con questo mercante una tale amicizia
da sembrarci cucito a spago doppio. Si limitavano
a parlare del più e del meno ma Vanni
continuava: – Guarda che con quelli troppo furbi,
fai che vuoi, Ciccio mio, ma tu non la spunti!
alle prese non col fegato, ma col polmone. La figura è la stessa: l’uno e l’altro cibo piacciono tanto all’animale che, ignorando tutto il resto, lo divora e lo difende emettendo
mugolii e ruggiti (rungulandu).
68 Altro luogo oscuro. Qui si propone l’interpretazione di trueppi come un sostantivato plurale a partire dall’avverbio troppu, inteso come “quelli troppo capaci, più capaci di te”.
Conseguentemente, a scueppi si attribuisce il valore di verbo attivo (fare scoppiare e, quindi,
spuntarla). Si avverte l’assonanza con il diffuso proverbio Lu troppu stroppia, “il troppo storpia”, in cui, analogamente, l’avverbio risulta sostantivato, sia in dialetto che in italiano.
49
22.
Ca megliu iddu de tie sape lluttari
e ne passa lu Cicciu e Pizzumuzzu 69
e nanzi cu lu gabbi, ài tu ce fari;
oh! Quantu, Cicciu miu cupu è lu puzzu;
sai ce te dicu? Cu lu lassi stari,
ch’è cane curzu 70 e tu si cane uzzu.
Basta 71 sulu le dici ch’è marcanti,
pe dicere ca iddu è nu furfanti.
23.
Ma lu Cicciu decìa: -Tàciti Vanni
ch’è nu retrattu de galanteria.
– Te vegna nu càntaru 72 de malanni,
tu ce n’ae vistu? Lu Vanni decìa;
– Cicciu proìta 73 mia vi ca te nganni,
ca è lu re de la pezzentaria,
lu prucedere sou troppu me stuffa,
nienze ole spende e ole mangia a uffa.
24.
Passatu a quidda vanda Carpegnanu,
eccu li beddi Lìmini a mirari
stezimu tutti nui ci de luntanu
parìanu sbuccaturi de lu mari;
lu Ventura zeccatu a manu a manu
cu lu cumpagnu pùsesi a cantari
– Bedda delizia, oh se tu fusse mia,
ca paura de tassa no facia.74
69 Pizzumuzzu può essere il nomignolo di un personaggio più o meno noto all’epoca della
composizione, ma può anche essere un nome inventato per dire “chicchessia”.
70 Il cane corso (di razza corsa) ricorre numerose volte anche nell’opera del Basile come
esempio di ferocia e di abilità.
È stata una razza canina molto diffusa, fino a tempi recenti, in difesa delle masserie
salentine. Qui è efficace la contrapposizione con il cane uzzu, cioè bolso, capace solo
di ingozzarsi, che cela anche una velata offesa nei riguardi di Ciccio, interlocutore in
disaccordo, soprannominato, per di più, mangione, cioè, appunto “bolso e ingordo”.
50
22.
Che lui sa combattere meglio di te.
E ne vuole di Ciccio e di chiunque altro! Hai
tanto da imparare prima di potergli stare dietro!
Sai che ti dico, Ciccio mio? Che il pozzo è profondo!
Lascialo perdere, che c’è da averne paura quanto
di un cane corso, mentre tu sei solo un cane grasso.
Basta dire che è un mercante, e hai già detto
che è un furfante.
23.
Ma Ciccio rispondeva: – La vuoi finire, Vanni?
Non vedi che è un modello di galanteria?
E Vanni: – Ti venga un càntaro
di malanni, ma che ne hai visto?
Ciccio, caro mio, guarda che ti sbagli,
quello è solo il re della pezzenteria;
il suo fare non mi incanta: vuole solo
mangiare a sbafo, e non spendere nulla.
24.
Dopo aver superato Carpignano
restammo tutti sorpresi dalla
bellezza dei laghi Alimini che, da lontano,
sembravano canali di mare;
Ventura, preso per mano
col compagno, si mise a cantare:
– Bedda delizia, oh se tu fusse mia,
ca paura de tassa no facia.
71
Cfr. n. 32.
L’alterco si fa più colorito, ma non sfiora nemmeno lontanamente lo sfoggio di epiteti riportati a profusione sia dal Cortese che dal Basile nelle loro opere e ripresi da
Roberto De Simone in alcuni passaggi della sua opera La gatta Cenerentola.
73 Cfr. n. 16.
74 Cfr. n. 41.
72
51
25.
Avìamu fattu chiù de meglia sei
e punta no parìa de la cetate,
– Quandu reàmu? Alli compagni mei
jeu dissi spintu de curiositate.
Passate poe nzerte renuse vei
e de quai, e de dai crutte sgarrate,
senza cu me nde pozzu mai dunari
quantu nd’acchiammu d’Otrantu intu lu mari.
Cantu Secundu
1.
Utrantu ncora, ca cèttade granne
no ede, anzi ede idda piccinna,
de le rannizze soe la gloria spanne
ca ‘mbucca de la fama auta rentinna
dell’Unièrsu a tutte quattru vanne.
Ma càntala pe mie più dotta pinna,75
ed autra musa merita, e autri canti
città ci madre foe de muti santi.
2.
Quandu dicu Maumettu lu tirannu
vinne da la Ulòna a quiddu vientu
e purtàu a st’afritta tantu dannu,
e allu populu sou straziu e turmentu,
ce a na dia decollàu, se no me ngannu,
de cittadine soe chiù d’ottocentu
finu lu mari tandu s’arrussìu
de sangue de li martiri de Diu.
75
Già con il Cortese, cioè fin dal suo affermarsi, la poesia dialettale del meridione
d’Italia ama dichiararsi umile e inadeguata a trattare temi alti. Nell’introduzione alla
Vaiasseide si legge un’espressione che ritroviamo sostanzialmente uguale qui e altrove
52
25.
Avevamo percorso più di sei miglia
e non si vedeva nemmeno l’ombra della città,
– Quando arriviamo? Dissi ai miei compagni
spinto dall’impazienza.
Superati poi alcuni sentieri sabbiosi e,
da entrambi i lati, i resti di antiche grotte,
quasi senza rendermene conto, ci ritrovammo
d’un colpo nel mare di Otranto.
Canto Secondo
1.
Otranto oggi non è una grande città,
anzi è modesta; tuttavia fa ancora parlare
della sua gloria e della sua grandezza,
e si fa ancora onore
in tutti e quattro gli angoli dell’Universo.
Qui ci vorrebbe, per descriverla, una penna
più dotta della mia perché merita più alte capacità,
questa città madre di tanti santi.
2.
Parlo di quando il crudele Maometto
arrivò da Valona e portò
tanto danno a questa città afflitta,
con strazio e tormento della sua popolazione.
Decapitò, in un giorno solo, se non mi sbaglio,
più di ottocento abitanti.
Perfino il mare allora diventò rosso
del sangue di questi martiri di Dio.
nel Viaggio: L’autezza de la materia è accossì granne che nce vorria autra chiricoccola
che la mia.
In realtà è un atteggiamento di falsa modestia, come si evince anche nel Marciano nei
versi relativi alla n. 114.
53
3.
Era na compassione e na pietate,
le viddi ncatastati a due stepuni,
e mani e piedi e capure tagliate,
e bientri e ntrame e ficati e purmuni;
viddi punte de frezze ntussecate
intra l’ecchi ci tenìanu arcuni;
tandu gridàe: – O crudi Maumettani,
cori d’èmmeno no, cori de cani.
4.
Viste già tutte le terliquie sante,
ne scemmu cu lu Vanni intra lu puertu,
de ntanu secutava lu mercante,
e camenava comu fosse tertu;
– Antecore 76 le77 disse lu Passante
no bole spenda stu peducchiu muertu;
si, vegna, si, vegna mangia e sciacqua,
fazzu no troa, iemediu,78 manc’acqua.
5.
Muti pisci diersi ‘n quantetate
chiammu ‘llu puertu nui quidda matina,
c’eranu tutte cose ndelecate,
piscati frischi a quidda gra’ marina:
grosse ope, sarde frische, àcure, cchiate,
treglie, aurate, lutrine e pisce spina;79
ma tra l’autre na cergnia c’uddecàa,
quista ccattae, percè cchiù quist’amaa.
76
77
78
Cfr. n. 30.
Non “gli disse” ma “disse di lui”
Cfr. n. 10.
54
3.
Fui preso dalla compassione e dalla pietà
quando vidi, accatastati in due grandi stipi,
le mani, i piedi e le teste tagliate,
e ventri e viscere e fegati e polmoni;
vidi punte di frecce avvelenate
conficcate negli occhi di alcuni.
Allora esclamai: – Oh crudeli Maomettani,
voi non avete cuore di uomini, ma di cani.
4.
Dopo aver visitato le sante reliquie
io e Vanni scendemmo giù al porto.
Il mercante ci seguiva da lontano e camminava
storto come uno zoppo per poterci spiare.
– Senza dubbio disse il Passante vuole evitare
di dover pagare lui, quel lurido pidocchio;
provi pure a venire e a mangiare a sbafo!
Parola mia, non gli faccio trovare manco acqua.
5.
Al porto, quella mattina, c’era
tanta varietà di pesce,
tutta roba fresca e raffinata,
appena pescata in quel grande mare:
grosse boghe, sarde fresche, aguglie e occhiate,
triglie, orate, lutrini e spigole.
Ma, in mezzo, vidi una cernia che ancora
si muoveva; comprai quella, perchè la preferivo.
79
Altra caratteristica del filone dialettale a cui appartiene la composizione è l’indugiare in lunghi elenchi dettagliati di oggetti e di concetti. Lo fa spessissimo il Basile nel suo Cunto e lo
fa qui il Marciano, in verità contenendosi alquanto.
55
6.
Viddi nu preete diersu80 a dae becinu,
ma ‘n facci galantommu a mie paria.
L’èmmeni a fronte jeu te le ndevinu
ca me delettu de fesonomia.81
Nce portau a nu sou beddu sciardinu
addò scialammu nui tutta na dia,
e repusammu dae secundu l’usu
e iddu se chiamàa Chinu Pelusu.
7.
Nue dae sotto l’umbra de meranzedde
nce stèzimu cuntenti e stindecchiati,
e allu ndore delle lumenciedde
nui ne sentimmu tutti ndecreati;
no me ne scerru mae de tante bedde
delizie de quidd’arveri beati;
ieme82 Diu ca ci urria lu chiamu
quiddu sciardinu de lu patri Adamu.
8.
Iàbbole foe de quiddi Campi Lisi
descritti de poeti menzugnari
sti sciardini chiamati Paradisi;
quae me lassàte stare amici cari;
quae cu me fazzu l’anni, e quae li misi,
80 La parola diersu compare altre volte nel testo col significato di “diverso” (umòri dièrsi, muti
pisci dièrsi, dièrsi lechi); in questo contesto, però, la frase assumerebbe, in tal modo, un senso
poco chiaro, risultandone un prete inspiegabilmente “diverso da tutti”, “particolare”, “eccentrico” che non trova corrispondenza nel testo. Noi preferiano pensare la parola come avverbio di luogo, col significato di “verso”, e intimamente collegata con il seguito (diersu a dae
becinu, “verso lì vicino”, “nei paraggi”). Il concetto locativo o temporale di “appresso” è reso
altrove con mpiersu (mpiersu lu Scegnu, mpiersu depoe voze cu ndacqua), ma niente esclude che diersu sia una variante grafica risultante da una plausibile trasformazione fonetica che
trova riscontro in altre oscillazioni di pronuncia (e quindi anche grafiche), comuni nel dialet-
56
6.
Vidi, lì vicino, un prete che
mi sembrò una persona a modo.
Io le persone te le giudico alla prima occhiata
perchè sono uno che se ne intende di fisionomia.
Infatti ci condusse nel suo bel giardino,
e lì restammo a gozzovigliare per tutto il giorno
e a riposarci come si deve.
Il nome di questo prete era Chino Peluso.
7.
Rimanemmo lì, all’ombra
del suo agrumeto, felici a rilassati e,
avvolti in un soave profumo dei limoni,
ci sentivamo come rinati.
Non mi scorderò mai delle
delizie di quegli alberi incantati! Quant’è vero
Iddio, quel giardino, io lo chiamerei
proprio col nome di paradiso terrestre.
8.
Era ancora più bello di quei famosi Campi Elisi
di cui parlano i poeti pagani,
quel giardino chiamato Paradiso!
– Io resterei per sempre qui, cari amici; la mia vita,
i mesi e gli anni, li vorrei trascorrere proprio qui
to. Si pensi all’oscillazione che può subire la frase dialettale corrispondente all’italiano “che
sia”: cu bessa / cu gessa / cu dessa / cu vessa / cu essa.; o anche, nel testo, alle varie forme
con cui oscillano (con uguale frequenza fra di loro) gli avverbi di luogo “là” e “qua”: addae
/ addà / addai / dae; quai / quae; o l’avverbio di tempo “poi”, poe / poi.
81 La fisiognomica era un argomento comune all’epoca dell’autore. Aveva trovato un suo speciale cultore nel letterato napoletano Giambattista Della Porta (1535-1616) e non è improbabile che le sue opere e la sua fama fossero giunte alle orecchie del nostro autore che non
perde occasione per mostrarsi colto e informato.
82 Cfr. n. 10.
57
no alli salici83 mei arveri amari!
Decia lu scucetatu camberata:84
– Oh! Vita assai felice, assai beata.
9.
A quae la Musa mia propiu se perde
a ste delizie se a cantare ncrinu;
de quae t’allegra cu lu mantu verde
Pumona, Teti85 addae cullu turchinu;
cantu de griddi mae cquae se sperde
addà bulla lu pisce, e lu derfinu,
ogni malencunia l’ommo già sgumbra
ci pe lu mare vae, ci sede all’umbra.
10.
Finarmente partemmu e lu sio’ Chinu
voze cu essa jeu remuneratu
e le dezimu a testa no carrinu,
de marange pe n’arveru mangiatu.
Mberu a Bigne-Castrì fu lu caminu,
essendu già lu Febu decrenatu,86
c’avìa87 jeu dae lu Raziu, ommu galanti
capu massaru a Capriglia88 e suprastanti.
83
Allude al nome del suo paese Salice Salentino.
Vanni, il camberata per antonomasia.
85 Pomona e Teti, divinità classiche della terra (verde) e del mare (turchinu), corrispondono retoricamente a “grilli” e “pesci”, ad “andar per mare” e “riposare all’ombra”.
86 Cfr. n. 22. Per gli spostamenti si aspetta sempre che il sole cali.
87 Cfr n. 31.
88 “Nella masseria di Capriglia”. Come si fa per gli agglomerati urbani più consistenti
(paesi e città), per una masseria basta il nome senza altra indicazione; così si dirà “anda84
58
e non all’ombra dei miei salici amari!
E il mio compagno spensierato mi faceva eco:
– Questa si che è vita, felicità, e beatitudine!
9.
Ma qui la mia poesia rischia di non fermarsi più
se mi metto a lodare quelle delizie. Da una parte
la chioma verde degli alberi,
dall’altra il turchino del mare,
in un continuo cantare di grilli,
di pesci e di delfini che sguazzano.
Chi va per mare e chi sta steso all’ombra
tiene lontana ogni malinconia.
10.
Alla fine partimmo e io insistetti perché
il signor Chino fosse adeguatamente ricompensato;
gli demmo un carlino a testa per avere spogliato
uno dei sui alberi di arance.
Quando il Sole si era già abbassato
prendemmo la direzione verso Vignacastrisi; da
quelle parti c’era il mio amico Orazio, capo massaro
e sovrintendente nella tenuta di Capriglia.
re a Capriglia”, “lavorare a Capriglia” “Da Capriglia a Lecce”, per dire “andare alla masseria di Capriglia” ecc. Espressioni che indicano la particolare considerazione dello spazio e delle sue suddivisioni al tempo dell’autore.
Capriglia è nome di due masserie (Capriglia di sopra e Capriglia di sotto) i cui ruderi,
tuttora esistenti, si trovano, a breve distanza l’uno dall’altro, proprio nell’itinerario del
Viaggio, poco prima di Vignacastrisi, in una contrada rurale e sulla serra denominate
con lo stesso nome.
59
11.
Giunsi e, quandu me vidde stu massaru
Se scettau comu lìpore ‘n carrera,
e no be dicu quantu l’ibbe a caru
la venuta la figlia e la mogliera;
restàu nfumatu lu marcanti avaru
vedendu pasti de tanta manera;89
scialammu e poe se fice na sunata
e de bedde caruse na ballata.90
12.
Rande lu gustu foe ce nde pegliammu,
poe scemmu pe dormire a doe a doe,91
mala pena allu liettu nce curcammu,
e lu Nardu cuglieu li puerci soe,92
allu rumore tutte tre ci auzammu
ed, oh ce scena, iemediu,93 ce foe,
dda viddi (oh mamma mia) nu carusieddu,
c’avia lu musu comu a nu vitieddu.94
89
Si trattiene dall’elencarli (lo aveva già fatto nella str. 7 del canto primo) dimostrando
un certo senso della misura.
90 Ad intervalli quasi regolari interviene sempre la citazione di un canto, di una musica
o di un ballo. Questo lascia pensare, dato il carattere di intrattenimento di questo genere di composizioni, ad una possibile pausa nella narrazione e all’introduzione di intermezzi suonati, cantati e danzati, come era nell’uso delle “conversazioni” del tempo.
Non è improbabile, in questo caso, che il ballo fosse una pizzica-pizzica, il ballo per
antonomasia del territorio salentino, che si poteva effettuare al termine di un banchetto
anche senza l’ausilio di strumenti musicali melodici o armonici (che qui di fatto non vengono citati), ma con il solo battito dei pugni sul tavolo o servendosi delle stoviglie (una
coppia di cucchiai, per esempio, che danno un suono simile a quello delle nacchere).
60
11.
Giunsi e, quando mi vide,
si lanciò verso di noi come una lepre in corsa.
E non vi dico quanto fece piacere a sua
figlia e a sua moglie la nostra visita.
Il mercante avaro restò di stucco quando vide
a tavola l’abbondanza dei pasti. Mangiammo
a sazietà e poi si fece un po’ di musica
per far ballare le ragazze.
12.
Quella serata fu davvero uno spasso!
Poi andammo a dormire a due a due.
Ci eravamo appena coricati quando Nardo
attaccò a russare come un maiale.
Al che ci alzammo tutti e tre
e ci capitò di vedere una scena spaventosa:
ci trovammo di fronte a un ragazzino
che aveva l’aspetto di un vitello.
91
Bastano sempre due letti per ospitare i quattro viaggiatori; uno per l’autore e il suo
camberata Vanni, l’altro per gli altri due. I due pedoni-scudieri non vengono mai presi
in considerazione in questi casi; probabilmente si arrangiano nelle stalle accanto ai
cavalli, come il viaggiatore aggiunto, il mercante.
92 Come il russare di Ciccio (nella strofa 17 del Canto II) è paragonato al verso dell’asino, così quello di Nardo è paragonato ad un grugnito di maiali. Nella nostra interpretazione di quest’espressione, finora lasciata oscura, pensiamo all’allusione alla frase fatta
‘ccoiere li puerci (radunare i maiali, e quindi provocarne il grugnito) riferita al russare.
93 Cfr. n. 10.
94 Anche l’evocazione di “mostri e meraviglie” è un luogo comune al genere letterario
a cui si ascrive il Viaggio.
61
13.
Me tterrìu quiddu mostru de natura
ottava meraviglia de la terra,
ci mo cresce e mo smanca de statura,95
secundu charche doglia iddu lu nferra.
Ce brutta spaventusa creatura!
Tra quanti l’uniersu ne rinserra,
n’autra nce n’era, lu Vanni decìa,
a quiddi tiempi de lu bate Stia.96
14.
Oh! Se s’isse troatu stu carusu
a tiempi antichi a quidda gran citate
a do regnava la Giovanna97 all’usu
delle puttane nobili nurate,
quistu lu spassu sou lu chiù gustusu
statu sarìa pe dicere verdate,
tra cutri e fassi d’oru lu purtava
e la notte e la dia se lu sciucava.
95
A crescere poteva essere tanto la sua dimensione (statura) quanto, in accordo con
ciò che verrà detto nella strofa seguente, quella del suo organo sessuale.
96 Come dire “al tempo dei patriarchi”. Altra espressione simile del dialetto salentino è
alli tiempi te lu bate cuccu che, con uguale significato, si riferisce, per deformazione, ai
tempi del profeta biblico Abacuc.
97 Giovanna II d’Angiò-Durazzo (Napoli 1371-1425), regina di Napoli (ma anche di
Gerusalemme, Sicilia, Ungheria, Dalmazia, Croazia, Rama, Serbia, Galizia, Lodomania,
Cumania, Bulgaria e contessa di Provenza e del Piemonte), restò nella memoria popolare come “Giovannetta”, “Giovanna la dissoluta”, “Giovanna cacciatrice di uomini”,
“Giovanna l’insaziabile”, “Giovanna dai cento amanti”, considerata capace di attirare nel
suo letto ogni notte un militare del suo esercito per poi liberarsene crudelmente facendolo morire prima dell’alba.
Questa leggenda (che avesse o meno una base di verità) si diffuse in tutto il regno di
Napoli generando altre microleggende locali una delle quali interessa anche la città di
Lecce. Qui è viva tuttora la voce che l’edificio denominato Torre del Parco fosse uno
dei suoi numerosi nidi d’amore e che il fossato, i sotterranei e il grande giardino circostante erano i luoghi dei suoi delitti. La costruzione di questo monumento cittadino fu
avviata nel 1419 dal diciottenne G. A. Orsini del Balzo che nel 1420 ottenne proprio
62
13.
Mi terrorizzò quel mostro di natura,
ottava meraviglia della terra.
Sembravi allungarsi e accorciarsi a seconda
che lo pigliassero strani dolori.
Orribile e spaventosa creatura!
Tra quante ne contiene l’universo,
un’altra sola ce n’era, diceva Vanni,
ai tempi dell’abate Stia.
14.
Oh! se quel ragazzo si fosse trovato nei tempi
antichi, in quella gran città dove governava
la regina Giovanna, quando le puttane
nobili e onorate non facevano specie!
Questo mostro sarebbe stato certamente il suo
giocattolo preferito; lo avrebbe
tenuto tra coperte e fasce d’oro, e, giorno
e notte, ne avrebbe fatto il suo divertimento.
dalla regina Giovanna II il riconoscimento dei privilegi sul Principato di Taranto; ma non
si hanno dati per affermare storicamente la sua frequentazione da parte della sovrana.
Altri “bagni della regina Giovanna” sono considerati, fra i tanti sparsi in tutto il regno
dalla Campania alla Sicilia, Castelcapuano e il Palazzo di Poggioreale a Napoli, la torre
di Amalfi, la torre fra Resina e Portici e, appunto, i “bagni” di Sorrento.
Di recente alcuni critici hanno puntualizzato che la fama di ape regina, pur basandosi
su una certa spregiudicatezza dei costumi di Giovanna II, sia stata esageratamente
ingrandita da parte dei suoi detrattori che intendevano così renderle ancor più arduo il
compito di regnante in un periodo già particolarmente turbolento della storia di Napoli.
È accertato comunque che la sovrana, costretta a destreggiarsi fra i mille ostacoli di un
difficilissimo governo, ricorse all’appoggio politico, militare e umano di diverse figure
maschili. Una di queste fu il capitano di ventura Bartolomeo Colleoni, che ostentava fin
nelle sue insegne la sua abnorme dotazione di tre testicoli, con il quale ella condivise
realmente anche vicende domestiche e sentimentali.
La regina Giovanna II è spesso associata, in questa fama di dissoluta, all’altra Giovanna,
anch’essa regina di Napoli, Giovanna I d’Angiò. Anche da qui, forse, il plurale usato nel
testo all’usu delle puttane nobili nurate.
63
15.
Malapena sunatu matutinu98
pigliammu nui la via mberu Lessanu,
diersi lechi acchiammu allu camminu,
diersi ne parìanu de luntanu;
passammu pe Dupressa e pe Tutinu,
e lassammu Tricasi a manca manu,
poi giunsimu alla citate e riverenzia
jeu fici di Ragona99 all’Eccellenzia.
16.
Quandu me viddi lu duca ngarbatu
cu mi restu jeu ‘mpranzu me nferìa.
Ma foie cu ceremonie ringraziatu
puru no lassu jeu la compagnia;
me disse: – Comu staie, Mommu miu amatu?
– Allu serviziu tou jeu le decìa.
Da poi muti descursi me sunau
lu miezzu giurnu ed jeu li dissi schiau.100
17.
Quannu jeu scii, ogne cosa preparata
trovae de lu mercante a proprie spese.
Le fo allu Vanne la vucca uddata
peccè no spise mancu nu tornese.
Disse lu Cicciu: – Vi lu cambarata,
Vanne, ce dici mo, iddu è scurtese?
Iddu de curtesia mo nu t’ha bintu?
Non ce respuse ca restau cubintu.
98
Questa volta si parte alle prime ore del mattino, ma solo perchè si tratta di una tappa
breve che si concluderà, infatti, molto prima di mezzogiorno.
99 Alessano è stato feudo della famiglia Ayerbo d’Aragona fino al 1806. Al periodo del
Viaggio dovrebbe corrispondere il ducato di Filiberto d’Aragona.
64
15.
Era appena suonato mattutino
quando ci incamminammo verso Alessano.
Strada facendo, vedemmo tanti luoghi, e
tanti altri ne scorgevamo da lontano.
Attraversammo Depressa e Tutino,
e ci lasciammo, a sinistra, Tricase.
Finalmente arrivammo alla città e lì andai a
fare i miei omaggi al Duca di Aragona.
16.
Appena mi vide, cominciò a insistere
cortesemente per obbligarmi a restare a pranzo.
Ma io rifiutai con altrettanta cortesia per non
dovermi separare dal resto della compagnia.
Mi chiese: – Come stai, Mommo mio caro?
– Sempre disposto al vostro servizio, gli risposi.
Tra una parola e l’altra si fece mezzogiorno
suonato, per cui io lo riverii e mi congedai da lui.
17.
Tornato, trovai che il mercante aveva
preparato da mangiare per tutti a spese sue.
Ciò bastò a chiudere la bocca a Vanni, dal momento
che non gli toccò sborsare neanche un tornese.
Allora Ciccio disse: – Lo vedi Vanni?
Lo chiami ancora scortese? Non ti sembra
Che lui è più cortese anche di te?
Vanni incassò e non gli rispose.
100
“Ciao”, la formula di saluto più usuale della lingua italiana, deriva dal congedo riverente schiavo (vostro) che solo verso la fine del ‘700 assunse la forma attuale, passando attraverso il veneziano schiao (pronunciato s-ciao).
65
18.
Diu cu te fazza ‘n taula mangiare
d’avaru e bire mieru de pezzente,
se mai n’avaru òlite mitare,
llenta lu lazzu e mulate le diente;
tutte veande prezïuse e care,
nce fora dae e no mancàuce niente,101
e ntramìse lu mieru102 e no me mentu,
lu mieru de la tàola cumpremientu.
19.
Cacciava le scamodde Papa Nardu
percè ca no lu vippe vattesciàtu,103
sculava pe lu caudu comu a lardu
e parìa Cicerone allu parlatu;
a fare jerzi jeu no era tardu
da quiddu bedd’umore104 rallegratu.
Ci grecu e ci spagnulu faeddava,
ci lientu ‘malapena pronunziava.105
20.
Cussì partemmu e lassammu lu sierru
de Monte-Sardu a do lu moru miu
tra quidde petre nce lassàu nu fierru,
e de cavaddu lu Nardu cadìu;
se no ca lu sarvàu, se jeu no scerru,
lu Catarena, se ccedìa, pardiu!
Mpiersu depoe voze cu ndacqua
lu mieru e se vevìu nu catu d’acqua.
101
Cfr. n. 88.
Cfr. n. 23.
103 Non battezzato, cioè non miscelato con acqua, puro e quindi con maggiore effetto
inebriante.
102
66
18.
Augurati di poter mangiare a tavola con un avaro
e di bere il vino offerto da un pezzente.
Se mai un avaro ti volesse invitare preparati
ad allentare la cinghia e a limarti i denti.
C’erano a tavola tutte cose ricercate
e costose, e non fece mancare niente, dal momento
che ci aggiunse anche il vino, che io chiamo
a ragione complemento della tavola.
19.
Questo vino fece venire gli occhi gonfi a Papa Nardo,
perché se lo bevve senza allungarlo con l’acqua.
Si mise a sudare come un maiale e fu preso
da una tale parlantina da sembrare Cicerone.
Da parte mia, ispirato da quel divino umore,
non la smettevo di comporre versi. Chi si mise
a parlare greco e chi spagnolo, e chi, invece,
non riusciva neanche a pronunciare bene le parole.
20.
In tali miserande condizioni ci incamminammo
e abbandonammo la serra di Montesardo dove il
mio Moro, tra tutte quelle pietre, ci lasciò un ferro;
Nardo cadde addirittura da cavallo;
e si sarebbe ammazzato, per Dio, se uno,
credo Catarena, non lo avesse aiutato!
A quel punto si decise ad annacquare il vino
e lo fece tracannandosi un catino di acqua.
104
Cfr. n. 23.
Sono gli effetti del vino a produrre in tutti i più vari vaneggiamenti e addirittura a
far cadere da cavallo uno di loro.
105
67
21.
Arrevammu allu monte106 fenarmente,
ma cce! La chiesa tantu china stava
ci largu jeu me fice tra la gente
cu le botte de vùture ce dava.
Lu camberata ncora scia cadente107,
e de trasìre no se rresecava.
Depoe cessata quidda chioma tanta
Trasìu e bisetàu la Madre Santa.
22.
‘Scemmu da dintu la chiesia e nu vascieddu
viddi, che ognunu tenìa mente fittu,108
parìa de mari natanti castieddu,
poe se fermàu mbera mie derittu;
de iddu se parlàa a gne ruscieddu,109
lu populu nde stìa tremante, affrittu,
ch’era ognunu decìa de maumettani,
ci sempre ‘n caccia vannu alli cristiani.
23.
Ntantu nce puse tutt’a resbigliu,
e chiù d’unu vurìa cu no se curca,
e, veru, alluntanatu cchiù de migliu
mberu Lessanu ci derittu nzurca.110
– Così a Maria fedàti e allu Figliu
ci ne po’ liberare de la furca?
Jeu li decìa, – Ce male, ce ruina
se time a casa de sta gran Regina?
106
Il promontorio Japigio su cui sorgeva e sorge tuttora il santuario di S. Maria de
Finibusterrae a Leuca.
107 Cfr. n. 104. Sotto l’effetto del vino; non era bastato innaffiarlo con un bacile di acqua.
108 Tenire mente significa “guardare”; in alcune aree del Salento diventa una sola parola: trimentere, trimentire. Se la locuzione era seguita, come in questo caso, dall’avverbio fittu acquisiva il senso generale di “fissare”; nel nord del Salento esiste anche il
68
21.
Finalmente arrivammo al monte di Leuca,
ma la chiesa era talmente affollata
che mi dovetti fare largo tra la gente
a colpi di gomiti.
L’amico Nardo barcollava ancora e perciò
non si arrischiò nemmeno a entrare.
Solo quando la folla si diradò si decise:
entrò e visitò la Madre Santa.
22.
Quando uscimmo dalla chiesa vidi che tutti
fissavano un vascello all’orizzonte.
sembrava un castello galleggiante
e, avvicinandosi, si fermò proprio di fronte a me.
Quello era l’argomento di tutti i discorsi.
Tutti ne erano atterriti e preoccupati perché,
dicevano, si trattava certo di una nave maomettana,
venuta a caccia di cristiani.
23.
Il fatto tenne tutti in allarme e nessuno
se la sentiva di andare a dormire.
C’era chi già prendeva la via della fuga
sulla strada per Alessano. – È così che dimostrate
la vostra fede in Maria e in suo Figlio che ci può
liberare anche dalla forca? Gridavo a tutti,
– Quale male e quale rovina si può temere stando
qui, nella casa di questa gran Regina?
verbo derivato fittare / affittare che riassume l’intera locuzione tenire mente fittu.
109 Il Rohlfs, nel suo Vocabolario, riporta questa frase come un apax legòmenon e non
se ne dà conto; a noi pare che la parola si debba intendere come diminutivo di rusciu
– brusìo. La frase ha così il senso di “ad ogni bisbiglio”.
110 Altro luogo tradizionalmente ritenuto oscuro. ‘Nzurca è, in realtà, un verbo e significa, alla lettera, “insolca”, cioè “si infila”, “si dirige”.
69
24.
Jeu pe mie no me mou, e de nemici,
sia tutta la Turchia, nu aggiu mprenzione.
Arma peghiàru, e stetteru felici
allu monte, do è tanta deozione.
Mangiai poe cu tutte quidd’amici
de neu a spise de lu mercantone:
alla vergine Santa cunfedatu,
cu Morfeu me mbrazzai miezzu mbudatu.111
Cantu Tierzu
1.
Descetàeme poe jeu miezzu spantutu
alle gridi ce decìanu: – A missa! A missa!
percè lu sennu mia nn’era furnutu;
intu la gente ncatastata e spissa
alla chiesia trasìj mienzu sturdutu,
addò jeu nce troae chiù de na rissa;112
cu arìu all’altare faticai oh quantu
pe fare a Diu lu sagrifiziu santu.
2.
Cu llu faore de lu cappeddanu,
lu Peppu, amicu miu, lu Fersuredda,
la missa celebrai jeu nanzimanu,
fuerse d’ogni autra chiù deota e bedda,
111
112
70
“Mutato d’abito”; in dialetto salentino il termine ha il senso di “vestito di tutto punto”.
I festeggiamenti di Leuca dovevano colpire soprattutto per il gran numero di parte-
24.
Da parte mia io non mi muovo, e non temo alcun
nemico, dovesse venire qui anche tutta la Turchia.
Si fecero coraggio e, fiduciosi, non si mossero da
quel monte su cui regna tanta devozione.
Poi, con tutta la compagnia, mangiai di nuovo
a spese del nostro prodigo mercante.
Confidando nella Vergine Santa mi abbandonai
al sonno e mi addormentai tutto vestito.
Canto Terzo
1.
Fui svegliato prima di essermi completamente
Riposato, dalle grida generali
Che dicevano: – A messa! A messa!.
Mi feci largo in mezzo a una folla impenetrabile
e mi ritrovai in chiesa mezzo stordito,
sorpreso di trovarvi persino gente che litigava.
Quanta fatica mi toccò fare prima di giungere
all’altare per fare il santo sacrificio a Dio.
2.
Col favore del cappellano Peppo
detto Fersuredda, che era mio amico,
riuscii facilmente a celebrare quella messa,
che forse fu la più devota e bella della mia vita;
cipanti in una società salentina che poteva considerarsi quasi una faccia-a-faccia.
71
la carta113 cuntemprai pe lu crestianu
scisa de subbra celu a sta cappedda;
– Ci trase quae, dice lu scrittu amatu,
– liberu resterà d’ogne peccatu.
3.
Oh! Carta santa de lu celu menata,
deritta a nui de lu Segnore nesciu,
la musa mia c’è tanta strascenata114
ce pote fare a beneficiu esciu?
Autra musa, autra pinna numenata
pe tie nce uleria e autru mesciu,
e puru a laude toa sarisse stracca
la cetra te Marinu e de Petracca.
4.
Tie monte de Leuche nfortunatu,
laudare te uleria de pizzu ‘n fundu
e cu nu sia chiù Pindu numenatu115
ma tie ddo nce vae tuttu lu mundu;
oh monte come Orebbu116 assai beatu,
monte e mare de grazie autu e profundu,117
quiddu monte de Diu chiamatu sia
monte tu de la madre soa, Maria.
113
Nel 342 Papa Giulio I consacrò alla Beata Vergine Maria la chiesa del promontorio di
Leuca. La tradizione vuole che, al momento dell’elevazione della messa da lui celebrata sul
posto, un cartiglio scendesse dal cielo confermando la natura divina della sua concessione
di indulgenza plenaria ai fedeli in visita nel primo giorno di agosto. La notizia è riportata nell’opera del padre cappuccino di Casarano Luigi Tasselli, Antichità di Leuca e del venerando
tempio di Santa Maria di Leuca detto volgarmente de Finibus Terrae, delle preminenze di così
riverito pellegrinaggio e delle sacre indulgenze che vi si godono, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1693, quindi contestualmente al periodo in cui si situa il Viaggio.
Girolamo Marciano (1571-1628), nonno dell’autore, nel suo Descrizione, origini e successi della provincia di Terra d’Otranto, cita anche lui il primo di agosto come data di
massimo afflusso dei pellegrini provenienti da tutto il mondo cristiano e parla di circa
40.000 presenze. Numero tanto consistente da giustificare lo spaesamento dei nostri visi-
72
poi mi fermai a meditare sul cartiglio sceso dal
cielo su questa cappella per la salvezza dei
cristiani; – Chi entra qui, recita lo scritto sacro,
resterà per sempre libero da ogni peccato.
3.
Oh carta santa, inviata dal cielo
proprio per noi da Nostro Signore,
la mia musa, così modesta,
cosa mai può fare per glorificarti?
Altra musa e altre capacità poetiche ci vorrebbero
per cantare te, e altro maestro, tanto che,
per farlo degnamente, non basterebbero
né le capacità del Marino, né quelle del Petrarca.
4.
Oh, monte di Leuca fortunato,
io vorrei cantarti in tutta la tua sublimità.
Che nessuno si permetta di celebrare il Pindo
ma solo te, monte a cui accorre tutto il mondo;
tu sei sacro quanto lo è il monte su cui si è palesato Dio,
monte e mare di alta e profonda grazia.
Questo monte di Dio porta giustamente
il nome di sua madre, Maria.
tatori abituati a realtà urbane molto più contenute e limitate ai soli abitanti usuali.
114 Cfr. n. 75.
115 La celebrazione del monte nostrano di Leuca, contrapposto al classico Pindo, caro
ai poeti pagani, è metafora anche della tematica minore che, in realtà, non è da considerarsi inferiore rispetto a quella aulica in lingua; lo stile dialettale non ha niente da
invidiare a quello del Marino o del Petrarca appena nominati.
116 Oreb; in molti passi della Bibbia è così denominato il monte ove Mosè ebbe vari
incontri col Signore e promulgò il Decalogo. È controverso se sia da identificare col
Sinai. Allo stesso monte si diresse Elia fuggendo l’ira di Jazabel e vi ebbe un famoso
messaggio dal Signore (III Reg., XIX, 8).
117 Profondo di verità come è profondo il mare che lo circonda.
73
5.
Da poe ce celebrammu tutti trede,118
ringraziandu la Vergine beata,
nui nde partimmu e glieu tre miglia a pede119
vozi cu bau pe quidda brutta strata;
tutt’autra forza avia, ci mo no c’ede
a st’etade cadente e assennata,
e ‘nfine caarcae, ca lu suverchiu
te rompe la pegnata e lu cuperchiu.120
6.
No ancora Pirou, Eou e Flegetonte121
Febbu allu carru a sciungere tardava;
e l’alba dellu lucidu orizonte
cu le trezze de rose no spuntava.
Dalla marina e dallu sacru monte
aura beata mberu nui spirava,
frusciàa lu Moru miu senza na ntuppa,
comu vascieddu c’ha lu vientu mpuppa.
7.
Si fici quidda dia caminu mutu
e n’auta culazione se pigliau
sotto n’umbra de n’arveru mapputu
de pane e casu e de nu mieru brau.122
– A Cutrufianu poi megliu me stutu
disse lu camberata, e ncravaccau.
Arrivammu la sira tutti pari
a quiddu lecu delli pignatari.123
118
I compagni sono quattro, tre dei quali, evidentemente, sacerdoti.
Percorrere tre miglia a piedi per sentieri pietrosi e sconnessi (sullo stesso tratto il cavallo dell’autore ce lassau nu fierru) rappresenta un atto di penitenza, uno degli aspetti fondamentali del pellegrinaggio che fin qui è stato, in verità, un viaggio di piacere.
120 Il proverbio esiste ancora, nell’identica forma e nella variante lu troppu stroppia (lett.
“il troppo storpia”). Compare anche in Basile, nel racconto Lo viso, della terza giornata
del Pentamerone: lo sopierchio rompe lo copierchio
119
74
5.
Dopo che tutti e tre celebrammo messa,
ringraziammo la Vergine Beata e prendemmo
la via del ritorno. Io, in aggiunta, volli percorrere
anche tre miglia a piedi per quella via sconnessa.
Certo allora avevo altra forza, quella che oggi, a
quest’età cadente e assennata, non ho più. Infine
però montai a cavallo perché si sa, se si esagera,
si finisce per rompere pentola e coperchio.
6.
I cavalli che trascinano nel cielo il carro del Sole
aspettavano ancora di essere aggiogati
e l’alba, con le sue trecce di rose, non era
ancora apparsa sul limpido orizzonte.
Dalla marina e dal sacro monte
arrivava un vento dolce, per cui sembrava che
il mio Moro procedesse come un vascello
che ha il vento in poppa.
7.
Quel giorno facemmo molta strada; ci fermammo
solo, sotto la chioma ombrosa di un albero,
per consumare uno spuntino con un po’ di pane,
di formaggio e con un vino sincero – quando saremo
a Cutrofiano soddisferò meglio il mio appetito!
Disse il mio compagno, e rimontò subito in sella.
Era sera quando riuscimmo ad arrivare
in quel paese che chiamano “dei pignatari”.
121
Sono i nomi dei cavalli del mitologico carro di Febo-sole.
Cfr. n. 23. Qui il vino è detto “bravo”, aggettivo tuttora in uso per la bevanda quando si presenta corposa ed efficace.
123 Gli abitanti di quasi ogni paesino, nel Salento, hanno un soprannome; quelli di
Cutrofiano sono detti ancora oggi così, per la loro attività artigianale di lavoratori delle
terrecotte (pignate).
122
75
8.
Propriu firmammu nui addai li passi
quandu ‘n palazzu taola se mettia
de piatti e de trumbuni124 alli fracassi.
Oh che soavi e nobili armonia!
La segnura nce coze stanche e lassi
cu la solita sua galanteria125
quidda ce de costumi è n’angeledda
bedda de facce e chiù de core bedda.
9.
Meriterebbe di essere regina; d’altronde
è moglie a don Giovanni,
a colui che vanta l’antica nobiltà
del casato dei Filomarino.
Qui ci vorrebbero altre capacità!
Mente mia, i tuoi sforzi sono inutili!
Abbandona l’impresa e lascia che altri
cantino questa signora come si deve.
10.
De quidda corti poe quasi regale
jeu remasi de spantu ad ogni fiziu,
ca servitù avia tanta e tale
ci de re saria bona allu serviziu;
dicere non se pò quistu no bale,
gente bona, galante e senza viziu.
Lu palazzu è depintu comu a chiesia,
ma lu guarnisce chiù Donna Teresia.
124
Non strumenti musicali a fiato ma recipienti di terracotta (siamo nel paese de li pignatari) adatti a contenere vino. La voce trimòni, con le sue varianti trimmoni, trummone,
non è attestata dal Rohlfs per l’area di Lecce, ma solo per quelle di Brindisi e di Taranto;
doveva perciò essere ben nota nell’area di Oria-Manduria-Salice, frequentata dall’autore.
125 Inizia qui una serie di elogi per la nobiltà degli ospiti. Non basteranno a descriver-
76
8.
Giungemmo proprio nel momento
in cui a palazzo veniva servita la cena,
con gran fracasso di piatti e di brocche.
Che musica per le nostre orecchie!
La padrona di casa ci accolse stanchi morti
con la galanteria di cui solo lei è capace,
lei che è un angelo di buone maniere,
bella d’aspetto e più ancora di sentimenti.
9.
Mereteria d’essere regina,
basta ch’è mugliere a don Giovanne,
ci de la stirpe soa Filomarina
vanta la nobertate de tant’anne.
Autra musa126 nce vole, ed autra vina,
ce pienze mente mia, vi ca te nganne;
lassa sta mprisa e fa che l’autre soru
cantanu sta segnura a cedre d’oru.
10.
Rimasi di stucco, tanto tutto era perfetto
in quella corte che si potrebbe dire regale;
la servitù era così numerosa e così compita da
essere veramente adatta al servizio di un re.
Non si potrebbe trovare niente da ridire su
quella gente buona, cortese e senza eccessi.
Il palazzo è affrescato come fosse una chiesa
ma il suo fregio più prezioso è lei: donna Teresa.
la nemmeno le due intere ottave successive. È molto di più di un ringraziamento per
l’accoglienza ricevuta; probabilmente doveva correre un filo di reciproci interessi fra i
Filomarino di Cutrofiano e il Mecenate dell’autore don Michele Imperiale.
126 Cfr. n. 75.
77
11.
Intu na stanzia frisca e de respettu,
ficemu nui na nobile mangiata,
cu lu Vanne ebbi jeu nu bellu liettu
e n’autru lu Cicciu cu lu camberata127;
quandu ntìsemu d’animale criettu128
nu fiezzu ci la stanzia avia mburbata.
Scia ruddandu lu Vanne, e no bedia
da ddò tantu fetore provenia.
12.
Va sacci ca lu pede muddecutu
de lu Nardu è c’avia sta malagna;
tandu gredai jeu miezzu sturdutu
e allu nasu mettia ddore de Spagna.129
Oh bruttu all’ecchi mei pede chiantutu,130
aura spira de tie ca mi stampagna!
Così me durmescii po ca s’era
imbreacata de fiezzu sta chiumera.
13.
Alla sanza de corte la matina
nde partemmu durmendu li segnuri.
Giunti a San Pietru della Galatina,
succìsera fra nui varii rumuri
percè lu Vanni no bulia cu ncrina
pe li bestiali soi soliti umuri,
cu sciamu pe Nardò nui pe la strata
alla gra’ festa de la Ncurunata.
127
Cfr. n. 90.
“Una puzza di animale morto”. Un altro dei fatti eccezionali e curiosi che farciscono il racconto principale suscitando ora meraviglia, ora ilarità.
129 Come oggi abbiamo l’acqua di Colonia, così allora era diffusa un’“acqua di Spagna”
128
78
11.
In una stanza fresca e riservata
si tenne un nobile convito;
poi ebbi un bel letto da dividere con Vanni
e un altro toccò a Ciccio e al suo compagno. Ad un
tratto però si sentì una puzza, come di animale
morto, che ammorbò completamente la stanza.
Vanni si mise a cercare dappertutto, ma non
riuscì a capire da dove provenisse tanta pestilenza.
12.
E chi poteva pensarlo che erano i piedi fradici
di Nardo a diffondere quella malagna!
Allora, sebbene stanco, mi misi a gridare, e mi difesi
come potevo, spruzzandomi addosso acqua di Spagna.
Maledetto piedaccio! Ne veniva fuori un fetore
che avrebbe potuto anche lasciarmi secco!
Non so come feci ma, alla fine, riuscii anche ad
addormentarmi in quell’aria pregna di pestilenza.
13.
Come si usa fare a corte, l’indomani partimmo presto,
lasciando i padroni di casa ancora a letto.
Una volta giunti a San Pietro di Galatina,
nacque qualche dissenso fra noi
perchè Vanni non voleva accondiscendere,
per il suo caratteraccio,
ad andare, tutti insieme, a Nardò,
dove c’era la grande festa dell’Incoronata.
da cospargere per igiene o, come in questo caso, per difendersi da odori indesiderati.
130 Marti nota: “Speculare deformato, grottesco, del tassiano: Oh belle agli occhi miei
tende latine (Ger. Lib., VI, 104, 2)”.
79
14.
Capitulu131 se fice mentretantu,
e cusì lu Decanu cumenzau:
Ulia cu sciamu jeu, ma poi me spantu,
percè la ursa mia me lecenziau;
ma cunfermai jeu lu penzieri santu
e lu Nardu e lu Cicciu secutau.
Restau lu Vanne e a niente chiù se puse:
vinse la magior parte e se concruse.
15.
Sce bedemmu la festa, addò mmerai
cu mpeddizza132 e cu ntorcia ncavarcatu
gni preete, cosa ci n’ia vistu mai,
dicu la eretà, de ce so natu.
Stravaganti è lu fattu, e lu nutai
intru stu libru, ca vulia nutatu,
lu spassu, li sbianduri e li caaddi
e di sopra li preti comu taddi.
16.
Vistu c’èbbimu poi tutti li fechi,
disse lu camberata: – Sciamu a stari
131
Il Capitolo è un convegno di alti prelati in cui sono i decani ad avere voce in capitolo. Qui è inteso ironicamente come per dire “la discussione si stava facendo interminabile”.
80
14.
Cominciò una discussione che andava per le lunghe,
quando il Decano si mise a dire: – Io vorrei andarci;
se mi sto tirando indietro è solo perchè
le mie finanze mi hanno abbandonato.
Io però ci tenevo molto a quella santa missione
e Nardo e Ciccio mi appoggiarono.
Siccome Vanni era rimasto solo ad opporsi, non se ne
parlò più: vinse la maggioranza e il discorso si chiuse.
15.
Andammo alla festa, e restai di stucco nel vedere
tutti i sacerdoti a cavallo, ornati di pelliccia e,
ciascuno, con una torcia in mano. In verità non
avevo mai visto, da che ero nato, una cosa simile.
Era tanto eccezionale che dovevo riferirla,
come ho fatto, in questo libro:
lo splendore della festa, delle luci, dei cavalli e,
di sopra, i sacerdoti, dritti come steli.
16.
Dopo aver visto anche i fuochi d’artificio
Vanni disse: – Adesso potremmo andare a
132
I sacerdoti vestiti riccamente colpiscono perché solo le alte gerarchie ecclesiastiche
vestivano, normalmente, in modo fastoso. Il sacerdote comune indossava correntemente una veste dimessa, magari lisa, sporca e rattoppata.
81
addò aìmu 133 lu Lissi e lu Fachechi.134
N’aìsse mai pegliatu sti carrari,
percè jeu, rispettatu a tutti lechi
tra cumprimienti e amicizie cari,
patìi nu scontru poi tantu bruttu,
che quandu lu mentùu me cacu tuttu.
17.
Cu d’unu munacone135 me ncontrai
c’era de la superbia padre abbate;
de quiddi amici jeu lu dumandai,
tuttu creanza e tuttu umeletate;
na vucca iddu m’apriu (culu de crai),
ci ogne monacu curze alle gredate;
tandu jeu dissi: – Oh novetate strana,
cu bascia 136 la superbia intu sta lana!
133
Cfr. n. 31.
Lu Lissi e lu Fachechi sono stati finora intesi come due nomi, cognomi o soprannomi
che indicano due conoscenti presso cui andare a riposare (sciamu a stari). Siccome però
esiste tuttora a qualche chilometro da Nardò, proprio sulla strada per Leverano-VeglieSalice (cioè lungo l’itinerario che la compagnia doveva necessariamente fare per tornare
a casa), una masseria denominata Li Fachechi, propendiamo per la lettura “addò aìmu
lu Lissi, a li Fachechi”, “dove c’è il nostro amico Ulisse, alla masseria Li Fachechi”; frase
del tutto analoga a “Lu Raziu a Capriglia” del canto secondo. Questa interpretazione trova
conferma nel fatto che lu Lissi, amicu miu ‘nuratu verrà nominato, di qui a poco, da
solo e non si parlerà più dell’altro ipotetico compagno il cui nome sarebbe Fachechi.
In questa masseria potevano trovarsi, ospiti in occasione della festa, un certo numero
di monaci fra cui quello bisbetico con il quale il Nostro verrà a litigare. Le masserie
erano liberali con i monaci che prestavano presso di esse servizi liturgici di vario tipo
(confessioni, comunioni, battesimi, ecc.) o anche celebrazioni di messe laddove c’era
una cappella. A pochissima distanza dalla masseria Li Fachechi ce n’è un’altra dalle
dimensioni imponenti (masseria Colucci) dotata appunto di una cappella dedicata a san
Giorgio, sul cui frontone compare la data 1682 che rende conto, con tutta evidenza, di
un restauro della costruzione messo in atto in tale anno.
134
82
trovare il nostro amico Ulisse a Li Fachechi.
Ma non avrei mai dovuto prendere quella strada
Perché lì io, rispettato dappertutto e
circondato sempre di disponibilità e di amicizia,
dovetti sopportare uno scontro così amaro che,
anche solo a nominarlo, mi viene la diarrea.
17.
Mi imbattei in un monaco tanto altezzoso
che sembrava padre e abate della superbia;
gli avevo chiesto solo, con le maniere e con l’umiltà
che mi sono solite, se sapeva qualcosa di Ulisse;
quello mi aprì una tale bocca (che si sarebbe mostrata
essere una latrina) da fare accorrere tutti gli altri monaci.
Allora io sbottai: – Ma che gli prende! Che moderi
la sua superbia, questo brutto barbone!
Questa nostra interpretazione ci porta a forzare il testo del Viaggio correntemente accreditato non solo in questo punto ma anche nell’ottava seguente dove quiddi amici assume valore singolare.
135 Accrescitivo con valore dispregiativo.
136 La resa grafica della sibilante fricativa sorda
per mezzo della grafia [sc] può portare,
come in questo caso, a qualche ambiguità. Nel dialetto salentino infatti esiste, a differenza
dell’italiano, sia il suono semplice di questo fonema, che quello doppio , che non trova
una corrispondente differenziazione nella grafia. Nel nostro caso, a seconda che si legga la
parola bascia con il suono scempio o con quello doppio [ba a / ba a] si avrà un diverso
significato dell’intera frase: 1) “è molto strano che tanta superbia riesca ad esser contenuta in
questa lana”; in tal caso bascia [ba a] è terza persona singolare del congiuntivo presente del
verbo scire, “andare”, “entrarci”; 2) “Che cosa strana è mai questa! Che quegli moderi la sua
superbia, covata in tanta lana!”; qui bascia [ba a] è terza persona singolare del congiuntivo
presente del verbo basciare, “abbassare”, “moderare”.
Altre analoghe coppie di opposizione in cui lo stesso fonema può dare luogo a diversi significati a seconda che sia considerato, rispettivamente, scempio o doppio: cascia “cada” /
“cassa”; piscia “Luigia” / “orina”; biscia “veda” / “biscia”; pesciu “peggio” / “orino”.
83
18.
Fuerze ca scia cu muccaturu ‘n canna
se credìa ca venimu de Gravina137
quiddu vecchiu bezzarru de Susanna138
delli miessi, dell’ergiu, e della vina.
Stu core, jemmediu, tuttu s’affanna
penzandu a quiddu pazzu de catina;
ma jeu no nce lassàe la parte mia,
c’aggiu puru nu ramu de pazzia.
19.
Me disse poi lu caru camberata139
ca stu monecu è statu pruvenziale;140
dissi jeu: – Ce servia quidda gridata,
mo ca iddu fosse generale,
da iddu no urria mancu salata
o quantu fosse n’àcenu de sale;
s’iddu è tantu bezzarru, no è sulu;
jeu su lu Mommu, e me lu tegnu ‘n culu.
20.
De poi ci tantu m’ibbe scudecatu
quiddu pazzu e bezzarru munacone,
giunse lu Lisse, amicu miu nuratu,141
e li deze gra’ tertu e a mie ragione;
poe supra me purtàu manuzzeccatu142
cu la solita mia cumbersazione,
ma prima e sagliu jeu li fici pattu
cu no bisciu tal’ommo comu e fattu.
137
Per comprendere il significato di questo passaggio si deve fare riferimento ai braccianti salentini che, in squadre, si recavano a mietere (miessi) nell’alta Puglia (Gravina)
e nella Basilicata. Avevano una reputazione di poveri diavoli, disposti a sopportare maltrattamenti e sottomissioni. L’autore invece saprà ribellarsi a dispetto del suo aspetto (cu
muccaturu ‘n canna).
138 I vecchi di Susanna sono quelli citati nel XIII libro di Daniele della Bibbia che,
approfittando del loro ruolo di giudici, insidiano la casta Susanna e poi la minacciano
84
18.
Forse perché mi aveva visto col fazzoletto
al collo, quello stranito vecchio di Susanna
pensava che venissimo da Gravina,
dalla mietitura dell’orzo o dell’avena.
Il cuore mi si agita ancora tutto
se penso a quel pazzo da legare.
Però, a dire la verità, io non me le tenni,
che il mio ramo di follia ce l’ho pure io!
19.
Il mio compagno mi disse in seguito che se la
credeva tanto perchè era stato Provinciale;
ma, dico io: – A che serviva quella scenata?
Ma ammesso anche che fosse stato Generale!
Da lui io non accetterei, non dico una foglia
di insalata, ma nemmeno un acino di sale;
sappia che, se lui è pazzo, non è l’unico: io gli so
stare dietro, tant’ è vero che mi chiamo Mommo.
20.
Dopo che quel pazzo monacone
mi ebbe maltrattato in tal modo, arrivò Ulisse,
il mio amico, da tutti ritenuto giusto e saggio.
Egli finì col dare torto a lui e ragione a me;
mi prese per mano e mi accompagnò di sopra,
lieto, come sempre, di conversare con me.
Io lo seguii ma, prima, mi feci promettere
che non avremmo più incontrato quel fetentone.
accusandola di adulterio.
139 Sempre Vanni.
140 Provinciale e Generale sono alti gradi della gerarchia monastica.
141 Cfr. n. 62.
142 Cfr. n. 44.
85
21.
Mangiammu a spese nue de San Frangiscu143
e poi ne scemmu subetu a curcare;
n’azzammu a mezzanotte e allu friscu,
ca la Cinzia144 musciava le carrare;
giunsi a casa e me misi allu defriscu,
comu me fice mamma,145 a reposare.
E quae la musa mia, essendu stracca,
mpise lu calascione alla trabacca.146
Fine della composizione di don Geronimo Marciano di Salice, olim
Arciprete di Guagnano. Morì in Casalnuovo.147
143
Mangiare a spese de San Frangiscu vuol dire, genericamente, essere invitato a mangiare
e non spendere niente. La locuzione è derivata dall’ospitalità gratuita e disinteressata offerta
dalle opere francescane disposte lungo i percorsi di pellegrinaggio. La frase ricalca quella dell’ultima strofa del secondo canto in cui si dice Mangiai...a spise de lu mercantone.
144 Cinzia è altro nome della divinità classica Diana, cioè la luna.
145 A differenza di quando, a Leuca, si era addormentato fra i pellegrini, semivestito,
miezzu mbudatu.
146 Anche Basile chiama travacca il letto a baldacchino nel secondo racconto della
quinta giornata del suo Pentamerone.
147 Questa conclusione è dovuta alla mano che ha copiato il testo per la collazione del Pacelli.
86
21.
Fummo invitati a mangiare
e poi andammo subito a riposarci.
Ci alzammo a mezzanotte, col fresco
e col sentiero ben illuminato dalla luna.
Giunto a casa corsi a coricarmi
svestendomi, questa volta, completamente.
E a questo punto anche la mia musa, stanca morta,
appese il suo strumento al baldacchino del letto.
87
Dialetto, teatro e viaggio
Don Geronimo, in qualità di sacerdote, doveva conoscere bene,
prima ancora del latino e del toscano letterario, il dialetto usato dai suoi
fedeli e il relativo orizzonte culturale nel quale egli stesso agiva quotidianamente. Al suo tempo sia i nobili che il clero erano in possesso di
una sorta di “bilinguismo culturale”148 che permetteva loro di muoversi
agevolmente tanto nell’ambito della cultura “alta” che in quello della
cultura “bassa”. Molta parte del clero, anzi, conduceva gran parte della
sua esistenza in ambienti periferici, lontano dalle sedi vescovili nelle
quali, per dover intrattenere rapporti con le autorità ecclesiastiche centrali e col ceto nobile, si era obbligati ad esprimersi in latino o in lingua
toscana. Questa gran parte dei sacerdoti, che svolgeva la sua missione
nelle piccole parrocchie rurali, si limitava a biascicare (spesso senza
neanche capirne il senso) i formulari latini dei principali uffici liturgici
e si serviva, per comunicare quotidianamente, dell’unico registro linguistico a sua disposizione, cioè il dialetto. Il sacerdote di questa fatta,
ignorante e culturalmente sprovveduto alla pari dei suoi fedeli, aderiva
in tutto e per tutto allo stile di vita delle classi più umili.149 La sola lingua in suo possesso era, comunque, il dialetto e, in particolare, quello
parlato negli ambienti più popolari.
148
Lo fa notare, fra l’altro, Peter Burke in Cultura Popolare nell’Europa moderna
(Mondadori, Milano 1980), sottolineando che questo “bilinguismo” costituiva, nelle mani
dei ceti “alti”, un ulteriore strumento di esproprio ai danni della classe ad essi sottomessa.
149 C. Corrain-P. Zampini, Documenti etnografici e folcloristici nei Sinodi Diocesani italiani, Forni, Bologna 1970.
A varie riprese i documenti diocesani presi in considerazione dagli autori (relativi a tutto
il territorio nazionale) condannano la condizione vile e l’ignoranza del clero di quel
periodo, che giungeva spesso ad assumere la tonsura, per i privilegi ad essa connessi,
o attraverso la raccomandazione dei potenti o dietro pagamento di una congrua somma
di denaro e, quindi, sprovvisto anche della preparazione seminariale.
Per il Salento si veda anche il duro monito del vescovo A. Pappacoda che, nel Sinodo
da lui promosso nel 1663, tentava di porre un argine a questa generale situazione di
degrado culturale oltre che morale dei suoi ministri.
Vi si ripete, fra l’altro, una denuncia già espressa qualche decennio prima, nel 1628, dal
vescovo di Venosa Andrea Perbenedetti, messo pontificio in visita apostolica nella dio-
88
Tuttavia non era questo il caso di don Geronimo che era invece
indubbiamente colto e mostra una buona conoscenza delle lettere e
delle letterature. Come ben si evince dalla lettura del suo poemetto, egli
non decise di utilizzare il registro dialettale perché non era in grado di
usarne altri, ma per una precisa scelta stilistica ed espressiva. Tale scelta è motivata da un sincero interesse per l’ambito linguistico e culturale del popolo ed egli vuole intenzionalmente fare nuova letteratura con
questa materia tradizionalmente ritenuta inadatta.
Altrettanto interesse egli ebbe nei riguardi del linguaggio teatrale,
come ci testimonia, in primo luogo, la notizia pervenutaci secondo cui
egli curò la messa in scena, a Salice, di una sacra rappresentazione, una
Passione di Cristo, di cui era anche l’autore. Da parte nostra andremo
oltre e ci spingeremo a considerare anche il suo Viaggio come il testo
di una performance teatrale, non destinato solamente alla lettura individuale ma, presumibilmente, ad una declamazione pubblica, corredata
anche di un certo apparato drammaturgico.
Per ciò che riguarda la sua capacità di trovarsi perfettamente a proprio agio nelle vesti del viaggiatore, la lettura del poemetto non lascia
dubbi. Egli sa muoversi nel territorio in maniera, diremmo quasi “creativa”, riuscendo a seguire una tabella di marcia preventivamente pianificata ma, allo stesso tempo, mostrandosi pronto a cogliere e ad interpretare tutte le varianti occasionali suggerite dagli eventi e dal paesaggio che incontra.
cesi di Alessano. La sua relazione, conservata nell’Archivio Segreto Vaticano, restituisce
un’istantanea per molti versi interessante della condizione del clero in quel periodo. I
sacerdoti vi risultano in gran parte esercitare le professioni più umili (come guardiani
di mandrie, zappatori a giornata, fabbri, cavamonti o ciabattini) che mal si adattano alla
figura del ministro esemplare voluta dal Concilio di Trento.
89
La letteratura dialettale
Anche se l’autore visse e operò nel territorio salentino, zona certo
periferica rispetto ai grandi centri culturali del suo periodo, egli avvertì
in qualche modo e tentò di interpretare anche le tendenze culturali e
letterarie sia nazionali che europee della sua epoca.
In Spagna, circa trent’anni prima della sua nascita, Miguel de
Cervantes aveva pubblicato il Don Chisciotte. Anche se non ci sono
espliciti riferimenti a quest’opera, nel Viaggio aleggia comunque lo spirito picaresco che anima quel modello. Anche la brigata salentina si cala
in avventure che, introdotte in maniera epica e altisonante, si risolvono
puntualmente in azioni minute e quotidiane, comiche e grottesche. Non
ci pare molto azzardato intravedere la figura del cavaliere errante in
quella dei tre sacerdoti avvinazzati e barcollanti (don Geronimo, don
Vanne e don Nardo) che, anch’essi in groppa a dei ronzini, vanno da
Salice a Leuca accompagnati dal loro scudiero Sancho Panza rappresentato, in modo altrettanto triplice, da Cicciu Mangione (nome, peraltro,
direttamente associabile a panza) e dai due peduni.
Come nella Spagna di Cervantes, anche da noi in Italia gli eroi dell’epica e le tematiche cavalleresche erano oramai sentiti come superati
ed estranei, e lo spirito critico e ironico nei loro riguardi aveva già dato
vita ad opere come La secchia rapita del Tassoni (pubblicata nel 1621)
e al sorprendente fiorire della letteratura dialettale in area napoletana.
Fu l’opera dei due “lumi” di questa poesia, Giulio Cesare Cortese (15751627) e Giambattista Basile (1575-1632), a costituire il principale stimolo
per il Marciano a scrivere in dialetto. In maniera coraggiosa e con un inequivocabile effetto dirompente nei riguardi della tradizione, i due letterati
partenopei non si erano limitati a mettere da parte solo le tematiche cavalleresche ma anche il registro linguistico tradizionalmente proprio della letteratura “seria”, quella lingua letteraria nazionale che, appena un secolo
prima, era stata fissata dal Bembo come unico mezzo adatto alla letteratura. Il dialetto napoletano e, per di più quello parlato dalle frange sociali
più basse, era stato portato a dignità letteraria e diffuso nelle corti.
L’attenzione della letteratura per le parlate regionali serpeggiava già
da almeno un secolo (si consideri la figura del Ruzzante) e si era
comunque ampiamente affermata in ambito teatrale con le rappresentazioni dei Comici dell’Arte. Per loro tramite, anzi, aveva anche attraver-
90
sato le Alpi e raggiunto le più prestigiose corti europee. In Francia, oltre
che nel nord d’Italia, era anche passata alle stampe in occasione della
pubblicazione degli scenari da parte dei direttori delle compagnie.
Questa scelta di registro, dai professionisti del teatro, era passata anche
al settore dei “dilettanti” della cosiddetta commedia ridicolosa, con la
motivazione «che non tutti gli orecchi son tanto delicati come quelli che
non possono lassar passare un verso se non è vestito di seta, se non ha
le forme delle braghe del Petrarca».
Così si era espresso G. Briccio già nel 1619 nella dedica al suo scenario La ventura di Zanne e Pascariello ricalcando il tono delle dichiarazioni d’intenti dei capocomici Flaminio Scala (nel suo Il teatro delle
favole rappresentative) e Francesco Andreini (in Bravura del Capitan
Spavento), entrambi più o meno contemporanei del Briccio.
Non certo a caso, quindi, anche il Marciano prende le distanze da
quello stesso canone stilnovistico e lo cita come suo antimodello.
Ma se la scelta del dialetto appare quasi naturale nel contesto della rappresentazione teatrale comica, diventa significativamente più coraggiosa nella
penna dei letterati napoletani e, di conseguenza, nel loro emulo salentino.
Come abbiamo rilevato durante la lettura del testo, il Marciano non fa
segreto del suo desiderio di essere accostato ai due autori napoletani che
riscuotevano già gli onori delle maggiori corti. Anche per lui la scelta del
registro dialettale corrisponde ad un progetto di palese trasgressione nei
riguardi dei canoni della letteratura in lingua che egli mostra comunque
di conoscere e di saper manipolare con una certa disinvoltura.
L’attenzione per le figure di antieroi pescate provocatoriamente nel
quotidiano più becero si manifestava da più parti e, ai tempi del
Marciano, era già una tendenza affermata. La rivoluzione portata nel settore delle arti figurative dal Caravaggio,150 con la sua coraggiosa propo-
150
G. Pietro Bellori, nel suo Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, nel 1672 (e quindi nello stesso torno di anni in cui avvenne il viaggio del nostro) testimonia come questa attitudine ad occuparsi di soggetti provenienti dal mondo popolare era diventata una vera e propria moda, seguita anche da molti altri pittori: Invaghiti della sua maniera (del Caravaggio)
molti l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza. […] Allora cominciò l’imitazione
91
sta di santi e di madonne dall’aspetto sporco e trasandato, collocati in
stanze buie o nei vicoli dei quartieri più bassi, è del tutto coincidente
con la produzione letteraria dei due lumi. Il Cortese e il suo amico
Basile (l’uno con la Vaiasseide e l’altro con il Cunto delli cunti) forniscono quasi una colonna sonora alle tele del discusso pittore lombardo
e ne descrivono a tutto tondo il contesto ambientale.
Un’operazione analoga intese fare il Marciano nel suo Viaggio scavando, naturalmente, nell’ambiente geografico e culturale a lui più vicino, quello salentino. E, nella sua ricerca, non si accontentò di descrivere il mondo urbano dei vicoli della città di Lecce, ma decise di andare
a cercare ancora più in “basso”. Scese fra i sentieri sassosi del Capo di
Leuca, l’estrema punta di un territorio che rappresentava, per la cultura
europea dell’epoca, l’area (sia geografica che antropologica) più liminale. Come per affiancarlo giocosamente al Viaggio di Parnaso del
Cortese, Lu Mommu de Salice intitola il suo poema Viaggio de Leuche,
e lo ambienta, dunque, nella periferia della periferia, in un territorio
situato alla fine del mondo. Nel suo viaggio di andata e ritorno verso
Santa Maria de finimunnu, egli peregrinerà in quella costellazione di
masserie e di villaggi che costituivano (e costituiscono tuttora) la geografia estrema della Terra d’Otranto. Di questa geografia egli sembra
voler restituire anche i suoni e gli odori indugiando, alla ricerca di effetti comici, in quelli più umili e sgradevoli.
Anch’egli sceglie deliberatamente di esprimersi in dialetto e, tramite
questo registro mai usato prima in una composizione poetica, si perita
di illustrare le situazioni più diverse. Quasi a sperimentarne le possibilità espressive, si ferma ora a dipingere delicati quadretti tratti dalla
mitologia classica e ora, per contrasto, si addentra nella descrizione
iperrealistica di rutti, pernacchie e scorregge; ora si sofferma compitamente sulle squisite usanze di corte e ora entra nei particolari di solen-
delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità: se essi hanno a dipingere un’armatura,
eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sbeccato e rotto. Sono gli abiti
loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare li corpi si fermano con tutto lo studio sopra
le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi.
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ni sbornie e di violenti litigi non propriamente cortesi; ora descrive poeticamente l’incanto di una notte estiva e ora si mette a fare pesanti allusioni sessuali al limite della pornografia.
Con l’adozione del dialetto egli esprime dunque una precisa scelta
stilistica e, così facendo, inaugura una fertile stagione di letteratura e di
poesia dialettale salentina che si protrarrà per oltre due secoli e che si
concluderà con la vasta opera poetica di Giuseppe De Dominicis, il
poeta salentino che si faceva chiamare Capitano Black.
Donato Valli, nell’opera citata, avverte l’esistenza di un filo
rosso che collega questi due autori ma, nel seguirne il corso, si
dimostra molto cauto, a causa della scarsa consistenza scientifica
e filologica degli argomenti adducibili a questo scopo. Dopo aver
sottolineato due sospette corrispondenze in altrettante espressioni
riportate da entrambi gli autori (nel Marciano si legge bedda de
facce e chiù de core bedda e, quasi in controcanto, De Dominicis
scrive Bruttu de facce e chiù bruttu de core; poi, parallelamente,
nel Viaggio troviamo Stravaganti è lu fattu, e lu nutai, che Valli
sente vicino all’endecasillabo del De Dominicis Sti fatti su’ curiosi e me li scrissi), si sente quasi obbligato a smentirsi e a dire che
«la coincidenza non è, comunque, filologicamente significativa –
e che, in definitiva, non si possono attribuire – a queste coincidenze particolari significati – né trarre – conseguenze di consapevole imitazione».
Oggettive corrispondenze analizzabili con gli strumenti della
filologia, infatti, non ce ne sono; tuttavia resta forte la sensazione
di una stretta parentela fra i due autori, che potrebbe correre su
di un altro piano, senz’altro meno documentabile ma, non per
questo, meno consistente.
I due autori sono molto vicini, intanto, per la scelta dello stesso sottoregistro all’interno del dialetto. Bisogna tener conto del
fatto che, fino alla metà del secolo scorso, questo idioma rappresentava un mezzo corrente di comunicazione, utilizzato trasversalmente sia dalle classi umili che dai borghesi, dai funzionari pubblici per la redazione di alcuni atti come dalle lavandaie per i loro
battibecchi. Non c’era, però, un solo dialetto, comune a tutte le
classi sociali, ma diversi registri gergali fra i quali le differenze
potevano anche essere notevoli.
Un registro senz’altro più borghese e urbano, per esempio,
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caratterizzò la vasta produzione poetica che si ebbe nel corso del
diciannovesimo secolo e che è compendiata nel volume Ottocento
poetico dialettale salentino (a c. di Ribelle Roberti, Ed. Pajano,
Galatina 1954). Sia il Marciano che il De Dominicis, invece, restano costantemente legati a quel registro proprio dello strato sociale più basso, corrispondente alla classe dei contadini e degli artigiani. Anche quando devono esprimere concetti provenienti da
un mondo diverso (quello urbano, colto, borghese o letterario),
entrambi gli autori si sforzano di farlo come lo farebbe un contadino, con il suo stesso giro di pensieri e con la stessa disposizione d’animo, estremamente pragmatica e concreta.
Non sappiamo neanche se il De Dominicis abbia realmente
avuto fra le mani il Viaggio del Marciano, tuttavia si sente in lui
una parentela più stretta con questo poeta che non con quelli
ottocenteschi, a lui certo noti perché più vicini negli anni, come
Francesco Marangi, Raffaele Pagliarulo, Enrico Bozzi o Francesco
Antonio D’Amelio.
Nel Capitano Black, vissuto fra il 1869 e il 1905, si avverte
quasi la necessità di ricondursi, consciamente o inconsciamente
(come non è raro che succeda per un artista), nello stesso solco
tracciato due secoli prima di lui dal Marciano. Entrambi fanno
costante riferimento a quella cultura artigiana e contadina orale
che si esprimeva attraverso i proverbi e le frasi fatte. Entrambi
riconoscono il valore evocativo che hanno i testi dei canti popolari e ne riferiscono, a volte pari pari, le formule; altre volte ne
piegano abilmente il senso e lo adattano al contesto di loro produzione.
Entrambi conoscono a fondo i diversi “modi” del canto contadino e ne fanno apertamente cenno nelle loro citazioni; ne conoscono le formule melodiche e le possibilità di accompagnamento
strumentale. Nel Viaggio si evoca un canto a muedu stisu e uno
a muedu disperatu. In Vendetta rusticana del De Dominicis si cita
un cantu de stegnu, che corrisponde, nella tradizione salentina, al
genere letterario del “contrasto” (quantu si brutta mèrula de macchia / nu te cummène nudha gnettatùra; si bautu quantu chianta te brucacchia / si niuru comu a culu te fersura – sei brutta
quanto un merlo di macchia / non ti si addice nessuna acconciatura / sei alto come una pianta senza gambo / sei nero come un
fondo di caldaia).
Fra gli altri canti citati espressamente abbiamo nel Marciano
bedda delizia oh se tu fusse mia / ca paura de tassa no facia –
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bella delizia, se tu fossi mia / non avrei paura di espormi ad
ammende, e in De Dominicis bedha carusa ca luntanu stai / jeni
quantu fatiàmu tutti doi – bella ragazza che lontano stai / vieni
che insieme non ci annoieremo.
In realtà, certo anche per la vastità dell’opera pervenutaci da
quest’ultimo autore a noi più vicino, le sue citazioni dal repertorio dei canti popolari sono molto più numerose e le ritroviamo in
diversi punti della sua produzione:
Rendinedha de marzu dimme
a dhu ai
ane a la bedha mia bi’ se la trei
gira a cqua nturnu e quandu
truata l’hai
cùntani tutte quiste pene mei
na lettera te scriu cu ni la dai
tutta mmudhata de làcreme mei
o rendinedha me l’ha scire ttruare
ola qua ‘nturnu e nu la puei scarrarescarrare nun la puei rendinedha
te tutti sti cunturni è la cchiù bedha.
Rondinella di marzo, dimmi
dove sei diretta
vai a cercare la mia bella
gira qua intorno e quando
l’avrai trovata
raccontale tutte le mie pene
ti scrivo una lettera e te la affido
tutta bagnata delle mie lacrime.
Rondinella mia devi trovarla
vola qua attorno e non puoi sbagliare
sbagliare non puoi o rondinella
di tutti i dintorni è la più bella.
Oppure
La rosa quandu è perta mina ndore
tiempu nu nni nde tare ca spugghiazza
àusate bedha mia percè stu core
la rrecina de tutti ole tte fazza
jeni bedha cu mmie ca crammatina
si ddentata de tutti la rrecina
prima bessa lu sule o bella fata
la rrecina de tutti si dentata.
La rosa quando è aperta dà profumo
non darle tempo perché perde le
foglie
alzati bella mia perché il mio cuore
la regina di tutti ti vuole fare
vieni bella con me che domattina
diventerai di tutti la regina
prima che esca il sole o bella fata
la regina di tutti sei diventata.
Oppure, ancora
Quannu te llai la facce la matina
l’acqua Ninnella mia nu lla menare.
Quando ti lavi il viso la mattina
l’acqua Ninella mia non la buttare.
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Il Marciano ci attesta poi l’uso della chitarra come strumento
musicale che può comparire in un contesto conviviale (de chitarra se fice na sunata), ma anche la possibilità, sempre a tavola, di
dare vita ad un ballo senza fare ricorso a particolari strumenti
musicali, battendo solo sul tavolo con le mani e facendo risuonare su di esso le stoviglie (uso ancora oggi vivo, specialmente se i
commensali hanno bevuto qualche bicchiere di troppo).
Alcuni dei versi citati sono giunti fino a noi provvisti anche del
loro corredo melodico; per altri (specie per quelli del Marciano,
più lontani nel tempo), pur essendo evidente la loro appartenenza alla tradizione musicale, non abbiamo il conforto della tradizione orale.
La cosa che qui ci interessa sottolineare è la perfetta contestualità che questi prestiti dall’ambito tradizionale assumono nell’opera di entrambi gli autori, che dimostrano così una piena competenza del linguaggio e del patrimonio culturale popolare.
Quasi a conferma di questo profondo legame che sussiste fra
il mondo letterario dei due poeti e quello degli artigiani e dei contadini, si registra il fatto che i prestiti culturali sono inoltre avvenuti in entrambe le direzioni: anche molti versi dei due autori,
risultando perfettamente plausibili come espressioni orali, possono essere o sono stati assunti come forme proverbiali e sono
diventati di dominio collettivo. La plausibilità delle loro espressioni risulta avallata anche dalla scelta dell’endecasillabo, utilizzato
da entrambi gli autori e, contemporaneamente, metro privilegiato
dei canti e della letteratura popolare e sapienziale salentina.
Per certo sappiamo che questo fenomeno di osmosi fra il
dominio scritto e quello parlato portò i Canti de l’autra vita di De
Dominicis a diffondersi non solo nell’ambiente letterario salentino
(urbano e borghese), ma anche fra le classi popolari. Ho raccolto
personalmente, a tal proposito la memoria di alcuni anziani
appartenenti alla classe contadina che mi hanno attestato la lettura collettiva del testo del Capitano Black, alla luce di un lume a
petrolio o della fiamma del camino durante le lunghe sere d’inverno. Pietru Lau, il protagonista di questa “Divina Commedia”
tutta salentina, divenne, durante la prima metà del secolo scorso,
un personaggio proverbiale, almeno nel territorio immediatamente circostante la città di Lecce (quello di Cavallino, paese di nascita del De Dominicis, di Lizzanello, Castrì, Merine, San Cesario, San
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Donato, Lequile, San Pietro in Lama). Di quest’opera erano noti a
grandi linee il profilo e le vicende e non mancava chi ne ricordasse interi canti a memoria. Le battute più felici del protagonista e
la sua furbizia basata sul buon senso finirono con l’essere citate
anche nei discorsi comuni.
Sulla base della popolarità del testo, verso la fine degli anni
Settanta (agli inizi della mia attività teatrale), ho curato una messa
in scena dei Canti de l’autra vita del De Dominicis e ho potuto
verificare l’adesione e la partecipazione del pubblico dialettofono
anche alle sue espressioni meno note. Lo spettacolo aveva per
titolo I dannati e, nel clima politico di quegli anni, utilizzava i
versi dialettali per propagandare la necessità di ribellarsi energicamente alla condizione di subalternità delle masse popolari. In De
Dominicis il contadino Pietru Lau, dopo morto, rifiuta la sua condanna all’inferno perché, benché colpevole di aver rubato nu
tùmenu te ranu – un tomolo di grano – lo aveva fatto solo in
quanto spinto da necessità, per sfamare la sua famiglia. Alle sue
urla di ribellione anche Belzebù si convince dell’ingiustizia e borbotta fra sé e sé:
Nu cristianu
ca nu me pare te natura trista,
ca pe necessità rrubba lu ranu
se ba cundanna?
Ma ce legge è quista?
Un cristiano
che non mi sembra di mala natura
che per necessità ruba del grano
va condannato?
Ma che legge è questa?
L’appello più convincente alla ribellione si concretizzava nei
versi in cui il protagonista esorta le anime ad unirsi tutte
insieme contro i loro aguzzini, perché nulla può fermare il
popolo, se si unisce e si mostra determinato alla vittoria
(erano gli anni di El pueblo unido jamàs sera vencido, l’inno di lotta degli Inti Illimani):
E a tutti ni decìa: “Ieu me nde presciu!
L’aggiu a piacere ca bu llamentati!
De quiddhu ca bu facenu,
cchiù pesciu,
cchiù pesciu de cussì bu mmeretati!
E diceva a tutti: “Io ne gioisco!
Mi fa piacere sentirvi lamentare!
Di quanto vi fanno,
peggio,
peggio ancora meritate!
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Se siti tutti de nnu sentimentu,
quale forza bu pote superare?
Lu nzartu ressu te nu bastimentu
ca nde tira
le pèntume de mare,
Se siete tutti di uno stesso sentimento,
quale forza vi può superare?
la corda grossa di un bastimento
capace di strappare via
anche uno scoglio
ete fattu te fili, ca se pigghi
cu ffaci peccussine l’ha’ spezzati;
mille, do mila fili se li mbrigghi
faci lu nzartu. Bu capacetati?
è fatta di piccoli fili che, se solo
li tiri, si spezzano;
mille, duemila fili, se li metti insieme
fanno la corda. Ve ne rendete conto?
Certo non c’è, nel Marciano, nessun momento dell’acceso
impegno sociale che si avverte nel De Dominicis, che fa suo invece l’insorgere, al suo tempo, delle idee anarchiche. Nel Viaggio
non si avverte alcun riverbero delle idee filosofiche e sociali di
Descartes o di Locke, pur contemporanee.
Un altro punto in cui si ravvisa un’analoga disposizione creativa nei due autori lo troviamo quando entrambi descrivono la
reazione di una fanciulla agli apprezzamenti maschili sulla propria
bellezza: il primo dice Se fice ‘n facci russa la carusa, e l’altro
idda tutta cunfusa, russecata. E ancora quando, nel descrivere
una lauta cena, entrambi usano due verbi che, pur non essendo
sinonimi, sono certo relativi ad un’identica adesione alla disposizione popolare. Il primo dice nce portau a nu sou beddu sciardinu / addò scialammu nui tutta na dia – ci portò nel suo bel giardino dove restammo a scialare tutto il giorno – e l’altro gli fa eco
dicendo sciacquara ca sciacquara nienti menu / s’aìanu sciuti
cuetti a nna manera / ca cu sse nd’ascia a ccasa nu foi buenu /
nisciunu e a ntàula stessu ddurmescèra – bevvero e bevvero; si
erano ubriacati in tal modo che nessuno riuscì più a tornare a casa
e si addormentarono tutti a tavola.
Così, quando descrivono una persona che ha approfittato del
vino (un’insistente scelta tematica che accomuna, ancora una
volta, i due), entrambi la vedono barcollante sul proprio cavallo,
sia che si tratti (per Marciano) di Papa Nardo (e de cavaddu lu
Nardu cadiu / se no’ ca lu sarvau se jeu no scerru / lu Catarena
se ccedia pardiu – e Papa Nardo cadde da cavallo; sarebbe morto
se non lo avesse aiutato, credo, Catarena), sia che si tratti (per De
Dominicis) di san Martino, pur provetto cavaliere nell’agiografia a
lui relativa (scia cignatu / lu etìi subbra lu caddhu banduliare /
comu se nu isse sciutu mai chiantatu – si era cotto; lo vedevi barcollare sul cavallo come se non avesse mai cavalcato).
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I due autori possono essere accomunati anche dal comune
gusto per le lunghe elencazioni.
Dal De Dominicis estraiamo alcune sequele di nomi di piante
e di animali.
Fra le piante
murteddhe / rosa marina / tàmaru / spina ruta / scuerpi te brunitte / èllera / menta / verbena / urdìcula / brucacchia / lapazzi /
sciugghiarine / ausapieti / rafuegghiu / nànuli / lattarole / paparine / scegghiu / rapeste;
fra i fiori
rose / amaranti / giacintu / viola màmmula / gigliu / carrofali / amurini / camelie / margherite / magnolie;
fra gli animali
cudirussu / ranecchi / pàparu / pagghioneca / muschidhi /
secàra / respu / furmìcule / àcche / capinìura / culilùcide / lucernedhe.
Nel Marciano troviamo
elenchi di pesci
grosse ope / sarde frische / àcure / ‘cchiate / treglie / aurate /
lutrine / pisce spina / cernie
di vivande
carne / casu / recotta e cose giunte / mieru de cute
e delle reliquie dei martiri di Otranto
mani e piedi e capure tagliate, e bientri e ntrame e ficati e purmuni.
Del Marciano (e non vogliamo dire necessariamente dal
Marciano) il De Dominicis riprende anche la destinazione segnatamente orale della sua opera. Il Marciano (si vedrà meglio più
avanti) non scrive per essere letto, ma per essere ascoltato durante i momenti di conversazione di corte. Dalla biografia del
Capitano Black (tracciata nella monografia che di lui fece, pubblicandone i versi, Francesco D’Elia in Vita e opere di Giuseppe De
Dominicis, Lecce, 1926), sappiamo che egli usava spostarsi qua e
là nei salotti letterari di Terra d’Otranto per declamare di persona
i suoi componimenti, arricchendoli verosimilmente di quei tratti
paralinguistici ed extralinguistici particolarmente consoni al registro dialettale.
Entrambi avvertono inoltre la necessità di difendersi dalle
malelingue e dall’invidia che proviene da chi ti sta accanto; così
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se all’inizio del Viaggio si legge e chiù d’unu ulerìa me tegna ‘n
culu – a più di uno piacerebbe nuocermi – il Capitano Black raccomanda ai suoi versi di girare alla larga da Cavallino, il proprio
paese natale, per non incorrere nell’invidia dei suoi compaesani. È
questo il senso della poesia intitolata Sciati… (Andate…), con la
quale il poeta si distacca a fatica dalla sua opera che sente il dovere di difendere accompagnandone personalmente l’esposizione:
Iersi mei, decitime: a ddhu sciati,
mo ci de casa mia bu nde sta mandu?
Intru Caddinu, accorti, nu turnati:
sentiti quiddu ci bu raccomandu.
Sape quanti nemici bu iti truare!
Quanti lu tata uesciu nu nde tene!
Però dda gente a rretu
iti lassare.
e cu scià truati cinca bu ole bene
Versi miei, ditemi: dove andate
ora che vi mando via da casa mia?
A Cavallino, attenti, non tornate:
date ascolto alla mia raccomandazione.
Chissà quanti nemici trovereste!
Quanti il vostro genitore non ne ha!
Perciò quella gente
lasciatevela alle spalle
e andate a trovare chi vi ama.
Il Marciano ha dunque una posizione di grande responsabilità nel
panorama della letteratura dialettale salentina. Qui si vuole però anche
accennare ai limiti che egli mostrò nel comprendere e nell’interpretare
le nuove istanze storiche e sociali che, ai suoi giorni, stavano per proiettare la sua epoca nell’età moderna.
Collocandosi la sua vita e la sua opera fra il Seicento e il Settecento
egli appare, infatti, più rivolto a quel secolo che si concludeva che a
quello che sopraggiungeva e che sarebbe stato quello della modernità
e dei lumi.
Questa scarsa aderenza alle nuove idee illuministiche caratterizzerà,
in verità, anche tutta la produzione dialettale salentina del XVIII secolo
e ciò, forse, in ragione del fatto che quasi tutti i suoi autori provengono da quel mondo clericale tradizionalmente avverso alle novità e ai
cambiamenti.
Geronimo Marciano, infatti, da sacerdote, fu sicuramente coinvolto
nella battaglia che il clero tutto, con le sue alte gerarchie in testa, si impegnava a condurre contro le idee moderne e a favore di quell’efficace
restaurazione controriformistica programmata nel Concilio di Trento. La
sua vita si svolse tutta in quella particolare stagione che avrebbe fatto di
100
Lecce e del Salento una roccaforte del cattolicesimo e un baluardo della
resistenza nei riguardi delle novità confessionali e sociali.
La sua formazione seminariale ebbe luogo proprio negli anni del
vescovato di Aloisio Pappacoda (1639-1671), colui che, proprio per
affermare in maniera evidente la presenza e il ruolo egemone della
Chiesa cattolica e per tenere lontana ogni tentazione di cedere alle
lusinghe di altre confessioni, progettò e realizzò per gli edifici sacri della
città di Lecce quella vistosa veste barocca che tuttora li caratterizza. Né
le cose cambiarono quando il vescovato fu assunto dal suo successore
Antonio Pignatelli (1671-1682) che, tanto si distinse nella sua opera
restauratrice, da pervenire addirittura al soglio pontificio col nome di
Papa Innocenzo XII.151
Nel 1659 il Marciano aveva 24 anni quando a Lecce si iniziavano i
lavori per la ricostruzione monumentale del duomo e del suo campanile (che assunsero l’aspetto che hanno tutt’oggi) e quelli per la realizzazione del fastoso prospetto del convitto dei padri Celestini, che divenne sede di un’autorevole scuola di filosofia e di teologia nota in tutto il
Regno di Napoli. Per tutto il corso del XVII secolo l’intero territorio
salentino ebbe l’aspetto di un immenso cantiere edile dedito alla ricostruzione e al restauro dei suoi già numerosi edifici sacri e all’edificazione di molti nuovi.
In questo contesto l’autore prese gli ordini sacerdotali e operò sia
come letterato che come uomo di chiesa. Se giunse a ricoprire l’arcipretura di Guagnano (dal 1669 al 1676) è segno che il suo comportamento
fu tale da meritare la fiducia degli apparati gerarchici da cui dipendeva.
151
Paradossalmente al vescovato di costui, che viene ricordato dai vaticanisti per il suo
impegno contro la piaga del nepotismo, fece seguito a Lecce quello di altri due vescovi che portano il suo stesso cognome: Michele Pignatelli (1682-1696) e Fabrizio
Pignatelli (1696-1737).
101
Teatro
Il Viaggio de Leuche è il risultato di una capace manipolazione della
lingua, non un’opera di alta ispirazione poetica. Non contiene né profonde riflessioni etiche e filosofiche né intense risonanze spirituali. È
piuttosto una poesia d’occasione, creata con l’intenzione di intrattenere
amabilmente il pubblico di una corte di provincia, quella del Marchese
di Oria, tentando così di ricreare anche nella periferia le circostanze
conviviali e festose che caratterizzavano le corti più centrali.
Sebbene lontana da Napoli, Lecce ha sempre tentato di distinguersi
dalle altre città del Regno, tanto da essere chiamata ora “Picciolo
Napoli” (già da P. Scardino, nel suo Discorso sopra l’antichità e sito della
fedelissima città di Lecce, Bari 1607), ora “Seconda Napoli” (come accade, fra l’altro, nello zibaldone settecentesco composto dal diarista leccese Emanuele M. Buccarelli, autore de Le cronache leccesi, 1711-1807,
pubblicate a cura di N. Vacca a Lecce nel 1934).
Dunque anche la corte di Manduria, presso cui opera l’autore, sente
l’esigenza di avere i suoi momenti di intrattenimento e di festa e, a questo scopo, ospita e protegge un letterato che ama scrivere per le scene.
In questo il Marciano si era già distinto: ricordiamo la notizia pervenutaci per cui nel 1666 e nel 1667 organizzò e rappresentò più volte,
anche per il pubblico della piazza, all’aperto, a Salice, la sacra rappresentazione in versi di sua composizione, una Passione di Cristo, andata
perduta.
Gli organizzatori di feste e di giochi collettivi di ogni tipo avevano un ruolo primario nella società barocca, la cui visione del
mondo corrispondeva notoriamente a quella di una selva di vari
giochi. Nelle grandi come nelle piccole città si organizzavano continuamente eventi giocosi e spettacolari come concerti, spari di
artiglierie, luminarie, cortei, tornei, trionfi sacri e profani, entrate
regali, quintane, corse di gobbi o di ebrei, rappresentazioni allegoriche su carri o processioni. Sia la nascita che lo spegnimento
di una vita potevano dare occasione a rappresentazioni più o
meno pompose a cui prendevano parte tutti gli strati sociali.
Qui ci interessano, in particolare gli intrattenimenti che, nelle
grandi come nelle piccole corti, erano un’usanza molto diffusa e
quasi una necessità per quella fetta della società che viveva del
102
lavoro altrui e che quindi era, per così dire, costretta all’ozio.
L’uso di organizzare riunioni che prolungavano il momento rituale del dopopranzo, del momento in cui le tavole venivano sparecchiate e aveva inizio, per i convenuti, la conversazione, si era
ampiamente diffuso e istituzionalizzato e aveva avuto la sua formalizzazione letteraria con il Pentamerone del Basile che ha
appunto, come sottotitolo, lo trattenemiento de’ peccerille. I peccerille qui non sono evidentemente intesi in senso anagrafico ma
si riferiscono ai membri della corte da divertire amabilmente come
bambini.
Questi trattenimenti dovevano essere molto frequenti anche
nella periferia del Regno e, per ciò che ci riguarda, anche nella
provincia salentina. È quasi certo che anche qui circolavano, a
questo scopo, i testi del Basile e del Cortese, sicchè il Marciano
può porsi giocosamente in loro contrapposizione quando li cita,
nella dedica al Viaggio, accennando ad essi con la sintetica
espressione quei cigni della bella Napoli. Tanto più, inoltre, che
la prima edizione de Lo cunto delli cunti del Basile (1634) è dedicata a Galeazzo Francesco Pinello “duca dell’Acerenza, marchese
di Galatone, signore di Cupertino, Veglie, Liverano e Giuliano”,
feudi situati tutti nell’area immediatamente confinante col territorio di Salice, patria de Lu Mommu.
Se pensato in quest’ottica il Viaggio, come già dicevamo, può essere
considerato alla stregua di un testo di letteratura orale, non destinato
alla lettura individuale, ma all’ascolto corale nel corso di una declamazione pubblica. Un testo, quindi, che non basta a se stesso ma che
necessita di tutte quelle componenti espressive proprie della lingua parlata e largamente impiegate anche nella pratica del teatro: la gestualità,
l’intonazione della voce, gli ammiccamenti e le allusioni che il declamatore suscita guardando negli occhi questo o quello fra i suoi ascoltatori, dei quali è ben disposto ad accettare la complicità. I testi di questo
genere raggiungono il massimo della loro efficacia quando sono declamati dal loro stesso autore che, meglio di chiunque altro, li può arricchire di tutti quei tratti extralinguistici necessari al raggiungimento delle
intenzioni compositive.
In questo senso la figura dell’autore viene ad essere molto vicina a
quella dell’attore-sceneggiatore della Commedia dell’Arte che pubblica
103
il suo scenario. Di conseguenza, la sua declamazione può essere assimilata ad una vera e propria performance teatrale. Il testo scritto rappresenta poco più di un canovaccio ad uso dell’istrione che, in presenza del pubblico, sa di poter farcire di numerosi altri espedienti in
aggiunta a quelli linguistici, al fine di ottenere dalla sua performance
l’effetto più pieno.
Questa è forse una delle ragioni di quelle difficoltà interpretative
notate da tutti i commentatori del testo. Il senso pieno delle frasi non
risiede unicamente nella lettera, ma si appoggia anche a quello veicolato dagli altri tratti extralinguistici (teatrali) che non compaiono nel testo
ma attendono di manifestarsi nel corso della declamazione.
Le difficoltà interpretative sono aggravate, inoltre, dal fatto che ci troviamo di fronte ad un testo scritto a mano, che tenta per di più di riportare sulla carta un linguaggio orale che mancava di una qualsiasi tradizione di scrittura.
Una certa tradizione poteva essersi formata, nel Salento come altrove, appunto nella pratica del teatro popolare, che necessitava notoriamente di canovacci scritti e di promemoria ad uso degli attori per la
messa in scena dei loro lazzi. Essendo però compilati ad uso personale dai saltimbanchi e dai cantori, nella redazione di questi canovacci
non ci si preoccupava più di tanto della loro veste grafica o dei problemi connessi con la normalizzazione della scrittura.
Il Viaggio, che viene collocato alle origini della tradizione letteraria
in dialetto salentino, può avere assecondato più di quanto non si pensi
la tradizione dei saltimbanchi, della quale può aver ripreso anche l’uso
dell’ottava narrativa.
Senza essere necessariamente perentori in questa nostra collocazione del testo del Marciano in un ambito strettamente teatrale, non escludiamo comunque che il testo stesso possa aver avuto una vera e propria sceneggiatura che trova numerosi rimandi al suo interno. Ci conforta in questa lettura la generale tendenza di quel periodo a vedere il
Theatro in tutti gli aspetti della vita e, ancor più, nella festa in cui stiamo collocando il Viaggio. La società barocca amava autorappresentarsi
in maniera teatrale e, notoriamente, estese la categoria del teatro a molti
aspetti della sua cultura: l’architettura, l’abbigliamento, le arti figurative
e, naturalmente, anche alla sua letteratura. Le forme ricche e ridondan-
104
ti della finzione scenica, presente in vario modo in tutte queste forme
espressive, rappresentavano un vero e proprio strumento di propaganda della potenza e della maestà della classe dominante. Geronimo
Marciano non nasconde la sua adesione a tale ideologia anzi se ne fa
espressamente strumento nel decantare esageratamente la grandezza
del suo mecenate, del duca di Aragona, della famiglia Filomarino, per
cui ci risulta molto verosimile pensare alla sua opera come ad uno strumento teatralmente guarnito per raggiunger gli scopi persuasivi e celebrativi della maestosità nobiliare.
L’intera declamazione poteva prevedere, per esempio, una complessa trama musicale, eseguita da uno o più strumenti che si alternavano
chiamati in causa dalla narrazione stessa.
Così, già nell’introduzione, quando il testo recita sienti sta tiorba a
taccune, perché non pensare ad una reale esecuzione di tiorba (strumento popolare della famiglia del liuto, molto diffuso in quel periodo)
che si fa sentire in sottofondo e che magari si prende, di tanto in tanto,
uno spazio esecutivo in primo piano?
Analogo ricorso ai relativi strumenti musicali possiamo immaginare
quando, altrove, si nomina il calascione o la chitarra o quando si dice
scialammu e poe se fice na sunata (intendendo, qui, di percussioni
improvvisate o anche di un tamburello, strumento facilmente reperibile
nelle case e nelle masserie) / e de bedde caruse na ballata.
Questa ipotesi circa la presenza di un ordito sonoro che si snoda nel
corso dell’intera trama del Viaggio trova conferma anche in altre citazioni che possono essere lette come vere e proprie indicazioni di sceneggiatura.
Numerose sono le citazioni di canti popolari certamente noti a tutto
l’uditorio, che poteva quindi lanciarsi a eseguirli o a ridosso della loro
citazione o in un momento canonico del trattenimento, per esempio
alla fine di ogni canto, a mo’ di entremets.
Numerosi sono anche i riferimenti e le allusioni ad altri fenomeni
sonori, che potevano trovare riscontro in una reale esecuzione musicale oppure restare semplicemente evocati dalle parole del narratore: lo
scampanio del mattutino (finchè na campanedda de Zuddinu / ntìsimu
ci sunàa lu mattutinu; Malapena sunatu matutinu / pigliammu nui la
via mberu Lessanu), il vociare della folla presso il santuario di Leuca, il
105
fracasso dei piatti e delle brocche nel palazzo dei Filomarino o i fuochi
d’artificio alla festa dell’Incoronata.
Lo stesso discorso che veniamo facendo per la musica può essere
fatto anche per l’evocazione di diversi momenti coreografici. Il testo
parla spesso di balli e la loro evocazione è sempre molto enfatizzata,
tanto da sembrare un vero e proprio invito alle danze. Il pubblico di
corte, come si diceva altrove, condivideva gran parte della cultura
“bassa” relativa agli artigiani e ai contadini, ed era perciò pronto a
rispondere a quegli stimoli che provenivano dalla citazione delle danze
popolari. Il Marciano stesso mostra di esserne fortemente affascinato. Il
canto e la danza popolari incuriosivano certamente il suo uditorio nobile e la forza trascinante della pizzica-pizzica avrà sicuramente esercitato la sua efficacia contagiosa anche su di esso.
Le componenti extratestuali della narrazione che andiamo supponendo davano adito, inoltre, all’insorgere di altrettanti microracconti che,
conformemente allo spirito dell’epoca, erano ben accetti per assecondare e contrappuntare il racconto principale.
Il Viaggio, infatti (come del resto anche le opere del Basile e del
Cortese), si snoda nella continua compresenza di altri “testi”. Ai microracconti di natura propriamente verbale, già presenti nell’opera qui stiamo aggiungendo anche quelli rappresentati dai balli, dai canti, dai giochi, dai gesti, e da ogni sorta di intervento evocato più o meno a proposito nel corso della narrazione principale. Sulla base della tendenza
alla superfetazione dei linguaggi supponiamo che, durante la pratica
sociale della conversazione, fosse lecito evocare di tutto, purché contribuisse ad un piacevole scorrimento del tempo. Il pubblico in ascolto,
sollecitato intenzionalmente, poteva intervenire in vario modo dando
vita, a sua volta, a vari altri “testi” più o meno previsti dalla “scaletta”
costituita dal racconto principale.
L’elenco dei pesci visti nei pressi del porto di Otranto potrebbe essere, per esempio, volutamente incompleto per stimolare l’uditorio a proporne tacitamente o espressamente la continuazione. Chi è che, in un
contesto goliardico, sentendo elencare grosse ope, sarde frische,
acure,‘cchiate, / treglie, aurate, lutrine e pesce spina, non avverte lo stimolo di continuare (mentalmente o ad alta voce) con il proprio reper-
106
torio di nomi di pesci, magari facendo anche grasse allusioni basate sul
ricorrente collegamento di questo animale con il sesso maschile? Da
parte nostra non ci stupiremmo se qualcuno possa essere intervenuto a
questo punto aggiungendo cefali, saracuni e cazzi de re (in dialetto
salentino tutti e tre considerati simboli fallici), magari illustrandone coloritamente il movimento e le dimensioni con il serpeggiare di un braccio.
La dimensione orale e collettiva della narrazione la dispone naturalmente a questo tipo di interventi che si potrebbero moltiplicare a volontà e ripetersi ad ogni verso del Viaggio grazie anche all’impiego del registro dialettale che stimola l’uditorio a calarsi nell’esuberanza del linguaggio popolare. La particolarità di tale registro, anzi, fa sì che il testo venga
percepito come una proprietà collettiva suscettibile, più che un testo in
lingua, di aggiunte e di aggiustamenti da parte di chiunque ne avverta
la necessità. In una siffatta situazione il pubblico, oltre che spettatore, è
invitato a sentirsi anche attore e autore.
Analogo comportamento possiamo supporre durante le citazioni dei
proverbi e delle frasi fatte, che portano l’ascoltatore a pensarne e magari a profferirne la conclusione, anticipando la voce del narratore. Anche
in questo caso facciamo un esempio che vale per le molte circostanze
analoghe presenti nel testo. Quando si giunge al punto basta ch’era de
Lecce stu ellanu / prontu de lingua..., se il narratore esita volontariamente a concludere la frase non mancherà certo chi, tra il pubblico, sarà
pronto a completarla con e chiù prontu de manu.
Analoga partecipazione rumorosa è prevedibile in tutte le circostanze (e sono molte) in cui si evoca la sfera delle vergogne, sia nella loro
funzione fisiologica che in quella sessuale.
A questo proposito non possiamo fare a meno di notare che,
se dovessimo giudicare facendo riferimento a quelli che sono i
parametri odierni, si avvertirebbe un notevole attrito fra la figura
sacerdotale dell’autore, che si infervora nella celebrazione della
sua più devota messa nel santuario di Leuca (fuerse d’ogni autra
chiù deota e bedda), e le molteplici occasioni in cui egli rivela un
comportamento non proprio castigato alla presenza delle bellezze femminili.
La condotta del prete, per tutto il periodo preindustriale (fino
alle soglie dell’Ottocento e anche oltre), è tale da rendere neces-
107
sari i reiterati (in quanto inefficaci) interventi delle autorità ecclesiastiche, che li diffondono attraverso bolle, sinodi e altre disposizioni. I numerosi sinodi diocesani presi in considerazione da C.
Corrain P. Zampini (Documenti etnografici e folcloristici nei
Sinodi Diocesani italiani, Forni, Bologna 1970), per esempio, tentano di arginare (attestandone così l’esistenza) i comportamenti
anomali e peccaminosi dei membri del clero. Altrettanto probanti sono i documenti relativi alla narrativa e alla drammaturgia
popolari, all’arte figurativa e all’aneddotica, analizzati da P. Burke
in Cultura Popolare nell’Europa moderna (Mondatori, Milano
1980) che dipingono il sacerdote, nel migliore dei casi, come un
buon diavolo, ignorante e grasso, allegro e conviviale ma più
spesso anche borioso, avido, pigro e, come nel caso del Marciano
e dei suoi accoliti, disposto a importunare le donne e a desiderarne apertamente i favori.
Il motivo del prete o del frate incontinente ha radici lontane,
visto che si trova già rielaborato letterariamente nelle novelle del
Boccaccio (il frate Auberto della seconda novella della quarta
giornata del Decamerone) o, in tempi più vicini al Marciano, in
quelle del Bandello.
Vari riferimenti allo stesso proposito si trovano anche nella
narrativa popolare salentina, piena di aneddoti che riportano a
profusione episodi di sacerdoti poco rispettosi dei precetti e delle
disposizioni curiali che li riguardano. Pensiamo, per esempio, alla
figura comica e anticonformista di prete che risulta dai Cunti di
Papa Cajazzu,152 il parroco di Lucugnano che, stando alla ricostruzione che ne fa G. Cosi in Studi di Storia pugliese in onore di
Giuseppe Chiarelli (vol. III, 1974), sarebbe morto nel 1560.
Ancora più insidiosi per le ragazze sono rappresentati i monaci che spesso, approfittando dell’intimità richiesta dal sacramento
della confessione, finiscono col concupire le giovinette, specie
quelle deluse dall’amore. Per la conferma nella tradizione orale di
questi abusi possiamo fare riferimento anche al testo di un canto
popolare, Lu monecu cappuccinu, di cui esistono molte varianti,
due delle quali sono pubblicate in Le Cicale, L. Lezzi, Kurumuny
2007. Per la documentazione storica si vedano anche i perentori
152
Michele Paone, Il Breviario di Papa Galeazzo, Congedo, Galatina 1979.
108
richiami del sinodo diocesano del vescovo A. Pappacoda in materia di confessione, e specialmente della confessione di fanciulle e
di giovinetti, particolarmente esposti alla libidine dei confessori.
Tutta la compagnia del Viaggio, d’altra parte, benché descritta
nell’adempimento di un viaggio devozionale (lu viaggiu santu), si
comporta generalmente con la stessa libertà di una brigata goliardica, più gaudente che pia.
Va detto però, in ultima analisi, che il ricorrere degli apprezzamenti nei riguardi delle forme e delle grazie femminili potrebbe
anche essere un espediente retorico, corrispondente all’intenzione di conferire maggiore interesse al testo. La stessa funzione che
ha, nell’immaginario del pubblico della Commedia dell’Arte, l’introduzione in scena delle attrici donne, che con la loro avvenenza e con la loro provocatorietà incentivano l’interesse per il teatro
popolare. Ricordiamo che fuori e prima della Commedia dell’Arte,
nel corso delle rappresentazioni, anche i ruoli femminili erano tradizionalmente affidati ad attori di sesso maschile e che questa
novità dette luogo anche ad apprezzamenti di natura letteraria.
Anche tutti i richiami mitologici, che affiorano soprattutto nelle indicazioni temporali (l’aurora, il tramonto, la notte), vanno considerati nell’ottica di un testo adatto alla narrazione rivolta ad un uditorio espressamente invitato a calarsi nei panni popolari. Anche queste citazioni,
pur nella loro topicità, costituiscono altrettanti microracconti, presentati
come fatterelli dal sapore indubbiamente concreto e strettamente aderente all’immaginario popolare.
Fra le figure evocate campeggia quella di Febo Apollo alle prese col
suo carro di fuoco. Nel racconto dialettale questa personificazione del
sole perde la distanza olimpica che ha nella tradizione classica e assume la fisionomia quasi di un compaesano alle prese con le sue piccole
azioni quotidiane, calato nello stesso mondo rurale e contadino in cui
il viaggio si snoda. L’austero Apollo sembra avere i tratti di un massaro
che gestisce usualmente il suo traìnu, ne lava le ruote, aggioga i cavalli e con esso si reca quotidianamente al suo lavoro.
La presenza insistente di Febo Apollo (di gran lunga il più evocato
fra le figure mitologiche) e il terrore della sua lanza di fuoco assumono anche l’efficacia di chiari indicatori scenografici, suggerendo le con-
109
dizioni di luce e di clima in cui si svolge l’azione. Se ne ottiene un’inequivocabile collocazione spaziale e temporale: il lettore-ascoltatore è
costretto a calarsi nell’estate salentina, a sentire la minacciosa calura del
sole e il desiderio di ombra. La figura di Febo-Sole ritorna, statisticamente, per quattro volte e sempre si sottolinea la necessità di scansarne gli
effetti. Ad essa si preferisce sempre la compagnia della sua dolce antitesi, la luna piena (detta latinamente quintadecima) che, con i suoi
rasci resprennenti de perle, consente di viaggiare di notte comu a miezzu giurnu.
Per completare la rappresentazione a tutto tondo del suo racconto,
l’autore si serve con una certa frequenza anche di altre allusioni; fra
queste spiccano i riferimenti al vino. La parola mieru – vino – ritorna,
infatti, per sei volte.
In questa panoramica statistica aggiungiamo che un’altra parola
molto usata, probabilmente perché capace di provocare la risata e la
partecipazione del pubblico, è culu, che ricorre, anch’essa, sei volte, e
un’altra volta ricorre il verbo cacare. Anche le allusioni sessuali sono
frequenti: il voyeurismo in occasione dei balli di ragazze a Carmiano e
a Capriglia, il comportamento da ruffiano assunto da Papa Nardu a San
Pietro in Lama, l’indugiare sui piccanti costumi della regina Giovanna,
ecc.
Viaggio: tempi e luoghi
Il mondo contemporaneo, a causa delle sue accelerate trasformazioni, fa sentire la necessità dello sguardo antropologico,
cioè di una riflessione che abbia natura e metodi nuovi.
M. Augé
Lo spazio e il tempo (sia quello cronologico che quello meteorologico) sono continuamente gestiti dal Marciano in modo rilassato e non sembrano rappresentare mai un motivo di preoccupazione per l’esito del
viaggio. Le nostre domande su quando è avvenuto il viaggio, su che
tempo faceva, sull’esatto itinerario seguito e sulla sua scansione in tappe
trovano sempre una risposta puntuale, quasi ci trovassimo di fronte ad
uno scrupoloso cronista o, più ancora, ad un organizzatore di escursioni.
110
I tempi
Quando avvenne il viaggio?
Facendo riferimento ai personaggi storici citati (il principe don Michele
Imperiale dedicatario dell’opera, il duca Ayerbo d’Aragona salutato ad
Alessano, don Giovanni e donna Teresa Filomarino di Cutrofiano), è da
supporre che il viaggio abbia avuto luogo negli anni immediatamente
successivi al 1690. Fidando in questa indicazione si può fissare con maggiore precisione sia l’anno che i giorni in cui avvennero le varie fasi del
viaggio. I festeggiamenti solenni di Leuca cadevano (e cadono tuttora) il
primo giorno di agosto e quelli dell’Annunziata a Nardò (che nel viaggio
avvengono nel giorno successivo alla festa di Leuca) erano allora fissati
al primo sabato di agosto. Consultando un calendario perpetuo si può
verificare che, fra gli anni che seguono immediatamente il 1690, solo nel
1692 il primo giorno di agosto coincide con un venerdì, per cui il giorno
successivo risulta essere il primo sabato del mese.
Se ciò non bastasse c’è un altro dato che conforta quest’indicazione ed è il fatto che solo in tale anno, sia fra quelli immediatamente seguenti che fra quelli precedenti, anche l’effettiva fase
lunare coincide con quella che si evince dal testo. In più punti,
infatti, si accenna ad una luna piena che, in un passaggio, viene
espressamente definita tale col termine dialettale quintadecima.
È la sua luminosità a rendere possibile il viaggio durante le ore
notturne. Né si può pensare che l’astro d’argento sia stato evocato solo per l’aura poetica che topicamente lo accompagna. La presenza della luna in una delle sue fasi di massima luminosità era,
infatti, una condizione assolutamente necessaria nella programmazione di un viaggio estivo. Il buio notturno, infatti, avrebbe
costretto i viaggiatori a viaggiare di giorno, sotto l’insostenibile
calura del solleone (la lanza de lu Febbu). Fino all’avvento dell’illuminazione elettrica per gli spostamenti notturni non si poteva
fare a meno del chiarore della luna se non per compiere piccoli
spostamenti abituali, durante i quali erano anche le bestie a conoscere bene la direzione e le difficoltà del percorso tanto da permettere ai conducenti anche di dormire lungo il tragitto. Per un
viaggio vero e proprio, in zone poco note e per strade poco conosciute, la fase lunare era certo un elemento di cui tenere conto e
il Nostro, da buon viaggiatore, ne ha debitamente tenuto conto
111
facendo coincidere il viaggio con un periodo di luna piena.
Consultando un programma di elaborazione dei dati astronomici, capace di calcolare l’evoluzione dei fenomeni celesti relativi a tutte le epoche storiche, si giunge inequivocabilmente, per la
determinazione della data del viaggio, al 1692. Si scarterà l’anno
1690 in cui il primo di agosto la luna si trovava in una fase vicina al novilunio, così come il 1691 e il 1693, nei quali sarebbe stata
al primo quarto. Nel 1694, durante i giorni del viaggio (fine di
luglio), la luna era molto luminosa, trovandosi nella fase crescente dell’ultimo quarto (quindi prossima al plenilunio che sarebbe
avvenuto il 5 di agosto); ma in tale anno il primo di agosto (la
festa di Leuca) coincideva con un lunedì e quindi la festa
dell’Annunziata (il primo sabato di agosto) sarebbe venuta sei
giorni dopo, cioè il 7 di agosto.
Solo nel 1692, quindi, si verificarono le condizioni descritte nel
Viaggio per cui, tenuto conto anche dei giorni della settimana (riferiti al
sabato 2 agosto, festa dell’Annunziata), bisogna dedurre che la comitiva partì da Salice esattamente il martedì 29 luglio di tale anno.
Partì dopo pranzo, cioè quannu lu Febbu subbra a carru d’oru / scia
ffazza a re de Franza reverenzia, quando il sole si avviava verso la
Francia, cioè verso Occidente. Dopo circa quindici chilometri fece una
pausa di ristoro alla tavola di un amico a San Pietro in Lama e poi riprese il cammino in direzione di San Donato. Passò nei pressi di Calimera
e giunse a tarda notte nella campagna fra Zollino e Martano. Qui i viandanti trovarono ricovero fra i ruderi di una masseria disabitata, senza
peraltro riuscire a dormire per il russare-ragliare di uno di loro.
Questa località costituita da case e curti dirupati potrebbe individuarsi con i resti dell’antico nucleo abitativo di Apigliano, tuttora visibili
nella campagna fra Zollino e Martano. Sebbene con cautela, facciamo
quest’ipotesi perché da tale luogo si può sia udire il suono di una campana proveniente da Zollino (na campanedda te Zuddinu / ‘ntìsimu ci
sunaa lu matutinu), che raggiungere rapidamente Martano, come fecero i viaggiatori che vi arrivarono nel tempo che intercorre fra l’aurora e
la nascita del sole (senza cu lu vedimu chianu chianu / ce chiantammu allu friscu intu Martanu).
È curioso notare a questo punto che, se la partenza fosse
stata anticipata di soli due giorni, avremmo sicuramente
112
avuto, nel testo, la descrizione di un ulteriore fenomeno
celeste che certo non sarebbe sfuggito all’attenzione dell’autore. Il lunedì 28 luglio, poco prima della nascita del sole,
si verificò infatti, alle nostre latitudini, una vistosa eclissi
lunare. Era iniziata a partire dalle ore 2,30 per culminare alle
4,09, circa quaranta minuti prima della nascita del sole, che
in tale giorno si levava alle ore 4,41. Ma l’arrivo a Martano
avvenne all’alba del mercoledì 30 luglio, per cui il Marciano
dice ce chiantammu allu friscu intu Martanu (cioè prima
della nascita del sole) senza fare cenno a nulla di particolare nella faccia della luna che andava a tramontare (sarebbe
tramontata esattamente alle 4,46).
Queste che qui possono sembrare delle futili divagazioni astronomiche hanno la loro importanza perchè al tempo
del Marciano costituivano delle osservazioni fondamentali.
Di fatto l’autore del Viaggio non esita, per esempio, a soffermarsi per un’intera ottava sulla contemplazione del cielo
notturno, dei raggi lunari che sembrano perle gelate, della
mancanza di nubi nella notte estiva, della magnificenza del
plenilunio al quale invia le sue devote benedizioni con un
formulario dal sapore sentenziale e francescano (all’antica
decìa: ce luna, Diu la benedica!). L’osservazione del cielo e
l’interpretazione dei suoi segni era fondamentale, nella cultura premoderna, per modulare su di essi tutto il proprio
operato. Contadini e artigiani, appena svegli, si portavano
immediatamente fuori dalla soglia di casa per dialogare con
lo spazio celeste e per riceverne i dati in funzione dei quali
organizzare la propria giornata. Le nuvole, la nebbia, l’umido, la disposizione delle stelle, la luminosità del sole, il volo
degli uccelli sono stati, fino all’avvento della modernità, tutti
elementi che fungevano da calendario e da agenda per
organizzare e orientare conseguentemente le proprie attività, sia quelle pratiche che quelle spirituali.
Già Ovidio nelle sue Metamorfosi (I, 84-86), riporta l’osservazione del cielo come un vero e proprio precetto divino indirizzato all’umanità e solo ad essa:
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pronaque cum spectent animalia cetera terram
os homini sublime dedit caelumque videre
iussit et erectos ad siderea tollere vultus
e mentre gli altri animali stanno curvi e guardano
verso il suolo, all’uomo il Creatore dette lo sguardo
rivolto verso l’alto e gli ordinò di guardare il cielo
e di penetrare, eretto, il firmamento.
Continuando a seguire con il calendario dell’epoca il resto del percorso descritto dal Marciano, all’alba del mercoledì 30 luglio la comitiva arriva a Martano e da lì prosegue, nella stessa mattinata, per Otranto.
Vi giunge dopo aver contemplato la bellezza dei Laghi Alimini e nella
città portuale si ferma a mangiare e a riposare (scialare) in un agrumeto profumato. Poi, all’imbrunire dello stesso giorno, raggiunge la masseria Capriglia, presso Vignacastrisi. Qui cena in compagnia dell’amico
Orazio e della sua famiglia e poi va a dormire.
All’alba del giovedì 31 si parte alla volta di Leuca passando da Alessano,
dove il Marciano va a rendere omaggio al duca ngarbatu (compìto) di
Aragona. La notte la si passa in uno dei ricoveri destinati ai pellegrini nei
pressi del santuario di Leuca, in attesa delle solennità del giorno seguente.
E siamo al venerdì primo agosto. Colui che si trova a Leuca nel lasso
di tempo che va dall’alba al tramonto di questo giorno dell’anno ottiene le indulgenze plenarie. Questa è la ragione per cui il componimento si chiama Viaggio de Leuche, comprendendo in questa frase il senso
più esteso di viaggio al santuario di Leuca nel giorno in cui lì si guadagnano le indulgenze plenarie.
Dopo aver celebrato una messa solenne, la compagnia lascia il luogo
santo e, forse anche per penitenza, decide di fare una lunghissima tappa
sotto il sole cocente fino a Cutrofiano, che dista da Leuca, circa, quaranta chilometri.
Le altre tappe giornaliere, di circa trenta chilometri ciascuna, risultano
sempre inframmezzate da una lunga sosta di ristoro all’ombra, da cui si
riparte solo quando il sole comincia a declinare. Questa giornata del primo
agosto la si passa, invece, interamente in viaggio e ci si ferma solo per consumare una colazione di emergenza sotto n’umbra de n’arveru mapputu
(al riparo di un albero frondoso) durante la quale ci si riposa e ci si sod-
114
disfa solo parzialmente. Tanto che uno dei compagni dice a Cutrufianu
poi meglio me stutu (mi soddisferò più pienamente al mio arrivo a
Cutrofiano), approfittando della certa ospitalità dei nobili Filomarino.
All’alba di sabato 2 agosto ci si sveglia presto, lasciando il palazzo
degli ospiti in punta di piedi, e si decide di fare una deviazione rispetto al percorso più breve che condurrebbe a Salice perché, ricordandosi del fatto che il primo sabato di agosto a Nardò ci sono le grandi celebrazioni per la festa dell’Incoronata, si decide di passare da tale località. Da lì, dopo lo spettacolo dei fuochi d’artificio, si passa a trovare
l’amico Ulisse nella masseria Li Fachechi. A mezzanotte si riparte e, alle
prime ore della domenica 3 agosto, si fa rientro a Salice, dopo aver percorso, senza sosta, gli ultimi venti chilometri.
Tutto il viaggio comporta circa 200 chilometri di cammino; da un
luogo di sosta all’altro ci sono sempre poco più di 30 chilometri, che la
comitiva percorre in due tappe di circa quindici chilometri ciascuna. È
questa tabella di marcia, estremamente regolare e perfettamente plausibile, a farci dire, fra le altre cose, che il componimento prende spunto
da un’esperienza realmente portata a termine, in un territorio la cui
descrizione è puntualmente corrispondente alla realtà.
La gestione del tempo è modulata su quella di una società prevalentemente contadina, che fa poco uso dell’orologio e si regola, per scandire le sue azioni, solo in base alle condizioni di luce e al clima. Il
tempo cronologico, con il suo passare inesorabile, non ingenera nessuna ansia nè preoccupazione nel viaggiatore del XVII secolo. Gli avvenimenti paiono coincidere naturalmente con i ritmi umani e presentarsi a
portata di mano senza particolare impegno da parte di nessuno.
Nonostante l’estrema rilassatezza della comitiva, infatti, essa giunge
puntualmente a Leuca per il giorno utile al guadagno delle indulgenze;
altrettanto naturalmente sembra presentarsi la coincidenza, probabilmente non prevista (ingenera infatti una lunga discussione, un
Capitulu), con la data della festa dell’Incoronata a Nardò. Una sola
volta, durante la cena a San Pietro in Lama, il protagonista e il suo compagno Vanni sembrano avere fretta, quando svegliano gli amici dal torpore indotto dal vino. Ma quest’azione può ascriversi con più verosimiglianza alla voglia di continuare il viaggio appena intrapreso (si era a
poche ore dalla partenza e a circa quindici chilometri da casa) che ad
un’ansia relativa al tempo che passa.
115
I luoghi
Il percorso descritto coincide, grosso modo, con la rotta aerea che collega le tre località principali interessate: Salice, Otranto e Leuca. Per congiungere questi tre centri la comitiva salicese non percorre solo la viabilità convenzionale ma si serve anche di scorciatoie che consentono di non
deviare mai più del necessario dal percorso più breve. La forma sostanzialmente pianeggiante del Salento, e quindi l’assenza di ostacoli naturali,
si presta a questo tipo di andamento, quasi rettilineo, sul suo territorio.
La comitiva fa affidamento dunque sulla viabilità ordinaria ma ne
integra il percorso utilizzando anche la rete fittissima di strade e di sentieri minori tracciati dal transito locale nonché dal passaggio secolare
dei viandanti e dei pellegrini. Le località raggiunte di Otranto e Leuca,
infatti, sono due tradizionali luoghi sacri, meta di molti viaggiatori che
lì si recavano o per devozione o anche per altri interessi.
A Martano, infatti, ad unirsi alla compagnia è un marcante e ad essa
si accompagnerà fino al santuario di Leuca. Lì, probabilmente, si ferma
dal momento che nel seguito del racconto non viene più nominato. Era
quella la sua destinazione; per devozione, per interesse commerciale,
per desiderio di avventura?
Oltre a questi sentieri di pellegrinaggio (sulla cui probabile natura e
sulla cui origine sarà detto qualcosa più in avanti), non è escluso che la
comitiva abbia attraversato anche qualche terreno privato, provvisto o
meno di una qualche carrara (passaggio occasionale o provvisorio), che
permetteva di attenersi al percorso più breve. La tradizione, a questo
proposito, sanciva infatti una tacita convenzione che consentiva a chi
viaggiava a piedi o a dorso di animale di abbreviare il proprio percorso
attraversando liberamente i terreni privati (in dialetto si dice tagghiare te
intru nu fièu – abbreviare il percorso passando per i campi) servendosi
magari, con la dovuta discrezione, dell’acqua di un pozzo o dei frutti di
un albero eventualmente presenti al suo interno. Proverbialmente rubare con la pancia, cioè senza servirsi di un recipiente, non era considerato un reato. Questo atteggiamento tollerante da parte dei proprietari o
degli amministratori dei terreni era sentito come un ossequio nei riguardi del precetto divino e civile dell’ospitalità.
Le indicazioni dei luoghi nominati in successione nel poemetto
(paesi, masserie, specchi d’acqua o alture) ci hanno consentito di rico-
116
struire con grande approssimazione l’esatto itinerario della compagnia,
di verificarne le distanze e i tempi di percorrenza.
Per restituire con chiarezza l’andamento di questo percorso lo abbiamo organizzato in uno schema che appare, nella sua regolarità, una
vera e propria “tabella di marcia”, degna della progettazione di un
esperto tour operator. Come abbiamo già fatto notare, ogni tappa ha
una sua lunghezza quasi fissa, dettata dalle necessità fisiologiche dei
viaggiatori e delle loro bestie (la stanchezza e la fame). Ricordiamo che
i tempi devono essere rapportati alla velocità che può tenere un viaggiatore a piedi, dato che al percorso prendono parte anche i due peduni Ventura e Catarena.
SALICE
Km 39,5
Carmiano
San Pietro in Lama
San Donato
Km 36
Martano
Carpignano – Laghi Alimini
Otranto
ZOLLINO
VIGNACASTRISI
Km 30
Depressa – Tutino
Tricase
Alessano – Montesardo
LEUCA
Km 40
CUTROFIANO
Km 27
Galatina
Km 23
Li Fachechi
NARDÒ
SALICE
Km tot. 200.5
117
Questa tabella di marcia fa affidamento, peraltro, su una fitta rete di
amici e di conoscenti che appaiono opportunamente dislocati sul cammino. Ciò consente ai viaggiatori di sentirsi sempre a casa. Una sola
sosta notturna è lasciata al caso: la prima, quella trascorsa fra i ruderi di
un edificio nelle vicinanze di Zollino.
L’abito talare indossato dai tre sacerdoti accorda alla compagnia la
fiducia da parte di tutti e, in special modo, degli altri sacerdoti e delle
strutture ecclesiastiche. A Martano tutti vanno a mangiare al fresco di una
chiesa invitando alla colazione anche un mercante appena incontrato153.
Una volta giunti a Otranto, un prete sconosciuto, ma galantommu
all’aspetto, don Chino Peluso, viene avvicinato e da lui si ottiene ospitalità in un magnifico giardino di agrumi.
153 Non ci si stupisca di questo uso improprio dell’edificio sacro perché, al tempo, le
chiese erano oggetto di una considerazione alquanto diversa da quella a cui oggi siamo
abituati. Il già citato sinodo diocesano promulgato dal vescovo Aloysio Pappacoda nel
1663 interdice in esse una serie di azioni illecite che vi erano evidentemente praticate,
dalle più lievi alle più peccaminose:
«È proibito rappresentare drammi storici o anche non storici, profani o sacri, specialmente durante le quarantore e la settimana santa; le rappresentazioni sacre e profane;
soprattutto è proibito, durante le feste popolari, tenere e far vedere immagini profane,
o arazzi che rappresentano figure oscene, o qualsiasi altra cosa che susciti non pensieri santi, ma diabolici.
Chi (si riferisce ai sacerdoti) prende il tabacco nella chiesa o in cappella, o anche nella
sacrestia o durante la Messa è immediatamente sospeso a divinis… poiché ci sono alcuni sacerdoti che, non potendo stare per molto tempo senza prenderne, quando stanno
nel coro per la recita del divino ufficio, se ne allontanano e si portano in un luogo vicino per masticarlo o fumarlo e tornano… Sappiamo molto bene che le macchie di tabacco insozzano i sedili, gli altari e gli asciugamani che si trovano presso il lavabo… le
tovaglie e i messali dell’ufficio...
Sono proibiti i ritmi sincopati che sono più melodie profane che sacre... quindi si esortano i musici e i cantori a non abbandonarsi ai canti del volgo non corrispondenti alla
sacralità del momento religioso...
Di più; nessun sacerdote o altro costituito in sanctis, ardisca giocare a carte o a dadi
o ad altri giochi illeciti … di più se alcuno di loro tenesse berettaria de’ giochi suddetti... né fare mestieri o esercitii vili e sordidi, né esigere dazi, né gabelle, o vendere
qualsivoglia cose...»
118
Nel tentare una precisa ubicazione per questo meraviglioso giardino
che l’autore vorrebbe avvicinare a quello del padre Adamo, lo supponiamo situato in quel lembo di terra che si trova ai piedi del colle della
Minerva, alle spalle del porto di Otranto, al termine della cosiddetta
Valle delle Memorie, il canalone naturale ubicato nella periferia sud-est
della città. Lì, peraltro, si trova tuttora una discreta estensione coltivata
ad agrumeto. Per questa supposizione ci basiamo su due argomenti: la
vicinanza di questo luogo con il porto, dove il Marciano aveva appena
comprato una cernia, e il fatto che quello è nei dintorni uno dei pochi
spazi adatti alla coltivazione di agrumi, riparato com’è dai venti dominanti di tramontana e di scirocco.
A Leuca poi l’autore farà appello alla sua amicizia con il cappellano
(Peppu, detto lu Fersuredda) che gli accorderà il privilegio di concelebrare la messa nel giorno solenne della festività.
Gli altri punti d’appoggio per mangiare e/o per dormire sono costituiti dalle abitazioni di amici del Marciano o di qualche altro componente della comitiva. Gente conosciuta in altre circostanze oppure compaesani trasferitisi lì con la famiglia. A S. Pietro in Lama ci si ferma presso
un amico di Vanni Passante, il cui nome sfugge anche all’autore. Nei
pressi di Vignacastrisi ad ospitarli è Orazio, massaro e sovrintendente
della masseria Capriglia. Nelle vicinanze di Nardò si va a trovare un
altro amico, Ulisse che vive nella masseria Li Fachechi, dove si mangia
a spese de san Frangiscu, cioè senza spendere nulla, e ci si riposa per
qualche ora. Ad Alessano e a Cutrofiano i viandanti vanno a trovare i
nobili Filomarino, feudatari della zona, con la probabile presentazione
di una lettera o dei saluti di don Michele Imperiale, mecenate dell’autore, o di qualche altro nobile suo pari.
119
Strade e sentieri
Quando i bulldozer cancellano il territorio si cancellano, nel
senso più letterale, anche i riferimenti della sua identità.
M. Augé
Per poter raggiungere le varie località, il Marciano doveva avere
un’idea generale della geografia del Salento e della viabilità di cui poter
disporre. Per non perdersi bisognava anche sapere interpretare correttamente i vari segni disseminati sul cammino. I segni naturali, come i
boschetti, i canneti, le variazioni altimetriche, oppure i segni tracciati
dalla presenza umana come i centri abitati, i confini dei terreni, i fabbricati sparsi ma, soprattutto, i segnali stradali dell’epoca rappresentati particolarmente dalle cappelle e dalle icone.
La possibilità di orientarsi in un territorio poco conosciuto, specialmente quando si abbandona la viabilità ordinaria e ci si avventura sui
sentieri secondari, era certamente subordinata alla corretta interpretazione di questi segnacoli sacri e all’esistenza di un codice interpretativo che
permetteva di metterli adeguatamente in relazione tra di essi e con il
resto del territorio. Con la diffusione della cartografia e della segnaletica stradale si è abbandonato del tutto l’uso di questo vero e proprio
sistema di orientamento per cui oggi si è persa del tutto la sintassi di
questo codice e con essa le sue chiavi interpretative. Probabilmente il
preciso significato dei singoli segni dipendeva da molti fattori: dall’orientamento delle costruzioni sacre rispetto al percorso stradale, dalla
loro dimensione, dalla loro correlazione con gli altri segni, dalla santità
a cui erano intitolati, ecc. Il viandante disponeva di un vero e proprio
sistema semiotico che gli permetteva di non perdersi e, all’occorrenza,
anche di fare delle digressioni per poi riprendere il cammino lasciato.
Abbiamo già accennato al fatto che la natura essenzialmente pianeggiante del territorio salentino aveva permesso di tracciare, fin dalle
remote origini della prima presenza umana, una fitta rete viaria che
lasciava spazio a molte alternative per recarsi da un luogo all’altro. Al
tempo del Marciano esisteva così tanto una viabilità ufficiale, ben tracciata e adatta al transito di mezzi ingombranti, quanto una moltitudine
di altri percorsi di varia importanza, percorribili magari solo a piedi o a
120
dorso di bestia. Il Viaggio sembra svolgersi utilizzando sapientemente
entrambi questi sottosistemi viari dei quali ora vedremo brevemente le
caratteristiche e la genesi.
Il Marciano, molto probabilmente, non aveva percorso altre volte
l’intero itinerario che ci descrive; lo desumiamo dallo stupore che egli
prova in più punti del suo tragitto: di fronte allo spettacolo dei laghi
Alimini e alla consistenza sabbiosa di alcune strade attorno ad essi
(nzerte renuse vei); alla vista di un complesso rupestre abbandonato
prima di giungere ad Otranto (e de quai e de ddai rutte sgarrate; probabilmente qui si parla delle cosiddette Grotte di san Giovanni, oggi ricadenti all’interno dell’abitato); nel corso del tragitto panoramico fra
Vignacastrisi e Alessano (diersi luechi acchiammu allu caminu, diersi
ne parianu de luntanu); sul terreno particolarmente accidentato della
serra di Montesardo (addò lu moru miu tra quidde petre nce lassàu nu
fierru e de cavaddu lu Nardu cadìu).
Tuttavia, pur procedendo evidentemente a jentu, cioè a bussola, egli
sembra conoscere perfettamente la disposizione dei centri abitati che
attraversa o che scorge da lontano. Avrà consultato, prima della partenza, qualcuna delle pur rare carte geografiche dell’epoca? Aveva avuto la
descrizione precisa del percorso da parte di amici e di conoscenti? Forse
si servì di entrambe le fonti.
Nel programmare il suo viaggio, egli avrà sicuramente raccolto molti
dati parziali sui luoghi, parlandone con i suoi colleghi sacerdoti o con i
frequentatori della corte presso cui operava. Il compito di raccordare i
dati ottenuti per farsene un’idea generale restava affidato al suo senso
di orientamento e alla sua spiccata coscienza spaziale.
I sacerdoti erano allora certamente molto numerosi e, nelle loro missioni d’ufficio, si dovevano spostare continuamente da un luogo all’altro; in quel periodo il grande impegno controriformistico della Chiesa
necessitava dell’opera attiva di un nutrito esercito di militanti per raggiungere i suoi scopi politici ed egemonici rispetto alle altre confessioni da mettere a tacere. In questo ruolo i sacerdoti dovevano avere una
certa pratica dell’ubicazione delle varie sedi vescovili e dei seminari dell’area, ma anche, chi più chi meno, dei numerosissimi luoghi di culto
sparsi in tutto il Salento.
Le carte riguardanti il territorio del Basso Salento dell’Atlante
121
Geografico del Regno di Napoli (i fogli 22 e 23), redatte ai primi dell’800
(quindi circa un secolo dopo il viaggio del Marciano) da Giovanni
Antonio Rizzi Zannoni per conto del Re Giuseppe Napoleone Primo,
riportano, accanto ai nomi dei centri abitati, anche quelli di questi innumerevoli edifici sacri. Nell’area compresa tra Lecce e Leuca, considerando solo quelli ubicati all’esterno dei centri abitati (e quindi funzionali
anche alla viabilità), ne sono annotati più di un centinaio. Spesso la
stessa denominazione ne indica la gestione da parte dei diversi ordini
conventuali, alcuni dei quali avevano anche la specifica missione di
ospitare viandanti e pellegrini: Cappuccini, Francescani, Riformati,
Antoniani, Agostiniani, Olivetani, Domenicani, Carmelitani, Giovanniani,
Concezionali, Clarisse, Benedettine, Marcelline e Pasqualine. Altri compaiono solo con l’indicazione della santità a cui sono intitolati. A questo
centinaio di luoghi sacri di una certa importanza architettonica bisogna
aggiungere poi gli ancor più numerosi edifici minori, edicole, cappelle
e chiesette, che pure comportavano, in maniera permanente o occasionale, la presenza di sacerdoti e di ministri.
122
Queste carte sono le prime a dare conto, più o meno dettagliatamente, della situazione interna della penisola salentina e della sua viabilità.
Quelle precedenti erano state redatte soprattutto ad uso del traffico
marittimo da parte dei commercianti veneziani e per questo descrivono
con una certa precisione solo l’andamento delle coste e riportano con
cura solo la presenza su di esse di empori e di possibili attracchi per la
navigazione. Il territorio interno risulta invece riassunto solo con pochi
tratti dalla sommaria precisione. Tuttavia anche nelle carte dello
Zannoni, sebbene redatte con un impegno evidentemente già “scientifico”, la viabilità risulta tracciata ancora in una maniera abbastanza
essenziale. Viene riportata solo quella di una certa importanza mentre
risulta assente quel reticolo secondario che sicuramente esisteva e che
offriva la possibilità di innumerevoli varianti.
Ci sono buone ragioni per pensare che le vie che risultano tracciate
sulle carte dello Zannoni dovevano esistere anche un secolo prima, ai
tempi del Marciano. Il loro tracciato, infatti, coincide con quello “storico”, dato come già esistente in periodo protostorico e messapico negli
studi sulla viabilità più antica dell’area. Da tali studi emerge infatti un
estremo conservatorismo al proposito, tanto da lasciar supporre addirittura una situazione viaria protostorica che permane «sostanzialmente
inalterata fino alle soglie dell’epoca moderna» (Uggeri).
Il quadro di questa viabilità protostorica e della sua evoluzione nel
corso dei secoli risulta tracciato in maniera piuttosto precisa dagli studi
che sono stati fatti sull’argomento. Qui in particolare faremo riferimento ad alcuni di essi e cioè:
Giovanni Uggeri, La viabilità romana nel Salento (Mesagne 1983);
Domenico Novembre, Ricerche sul popolamento antico nel Salento
con particolare riguardo a quello messapico (Milella, Lecce 1971);
Cosimo Damiano Fonseca, La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente – La civiltà rupestre in Puglia (in A.A.V.V., Civiltà e cultura in Puglia, Milano 1980).
I centri maggiori, come quelli di Lecce, Otranto, Leuca, Ugento,
Gallipoli, Nardò, avevano sicuramente, già fin dal periodo messapico,
una certa importanza rispetto alle altre località e, conseguentemente,
almeno coevi si suppongono anche i tracciati viari che li collegavano (e
123
li collegano tutt’oggi); sia quelli con andamento subcostiero, sia quelli
istmici, che collegano cioè le due sponde della stretta penisola salentina.
La“parziale sopravvivenza (ancora oggi) di molti tronchi stradali così
antichi” non stupisce, per esempio, G. Uggeri che la motiva con
il perdurare di alcune costanti, legate alle condizioni ambientali
ed ai modi di vita che ha determinato un complesso di condizioni che sono risultate frenanti per le innovazioni radicali, e favorevoli per la conservazione di quei segni di umanizzazione già
impressi dai Messapi e dai Romani.
Le cause di questa situazione conservativa egli le individua nella
sostanziale continuità del quadro antropico, favorita da un paesaggio sostanzialmente immobile, fino alle lacerazioni recenti, in
conseguenza di interventi spesso violenti sull’ambiente.
Queste direttive principali, che all’origine erano costituite da semplici
sentieri, in epoca romana si sono gradualmente trasformate prima in glarea stratae (vie larghe, ma ancora a fondo naturale) e poi in silice stratae
(a fondo artificiale), tali da permettere in tutte le stagioni il transito dei
carri (per il trasporto di materiale militare e di merci) e delle carpenta (le
carrozze per il trasporto di persone).
Accanto a queste vie vere e proprie dovevano già esserci però, fin
dall’origine, anche numerosi percorsi minori, segnati da coloro che avevano sentito la necessità di collegare prima le varie grotte naturali e artificiali disseminate sul territorio, poi le varie capanne, agglomerati di
capanne e, in ultimo, questi agglomerati umani con i pozzi, con i campi,
con i pascoli e, fin da allora, anche con alcuni importanti luoghi sacri,
testimoniati nella nostra area almeno dal periodo neolitico. La grande
frequentazione attestata in questi primitivi luoghi sacri dagli scavi
archeologici presuppone anche, naturalmente, i relativi percorsi di pellegrinaggio nella loro direzione.
Sulla base dei dati archeologici il Salento risulta infatti frequentato a
scopi cultuali fin da tempi così remoti, precedenti di gran lunga anche
la classicità. I visitatori di questi primitivi santuari provenivano non solo
dalle zone circostanti ma anche da luoghi lontanissimi, disseminati in
tutta l’area Mediterranea.
124
Particolari condizioni geologiche, geografiche e storiche hanno favorito il sorgere, in questo luogo, di una notevole concentrazione di luoghi di culto. È attestata finora la presenza di almeno tre grandissimi
complessi cultuali arcaici, corrispondenti curiosamente, fra l’altro, con il
punto in cui i sistemi di serre, le modeste alture che percorrono la penisola, precipitano bruscamente in mare.
Quello di Roca Vecchia presso le marine di Melendugno, con la sua
grande grotta della “Poesia”, la cui volta risulta crollata ma le cui pareti sono ricchissime di iscrizioni votive.154
Quello delle grandi grotte di Porto Badisco, che custodiscono le
meravigliose pittografie dette dei “Cervi”, che risalgono al periodo eneolitico e che sono presentate fin dai primi studi155 come le sacre didascalie di un percorso iniziatico.
Quello della grotta Porcinara a Leuca, anch’esso ricco di iscrizioni votive, analizzate e riportate alla luce dagli scavi condotti da C. Pagliara.156
A questi siti certi se ne potrebbero aggiungere anche molti altri la cui
destinazione cultuale, però, non è ancora definitivamente accertata: la
grotta Zinzulusa presso Castro, il promontorio di San Gregorio presso
Patù, il canalone dei Fani presso Salve, la grotta dell’Alto presso Nardò,
le vicine grotte di Uluzzo, ecc.
Qui è fuori luogo addentrarsi nelle ragioni che hanno determinato,
di fatto, l’elezione del Salento a sito particolarmente adatto per l’ubicazione di questi grandi santuari. Ci limitiamo a segnalare solo la concomitanza di alcuni dati come la particolare natura geologica (che scava,
a causa del carsismo, grandi grotte sotterranee e costiere) e la posizione geografica (al centro delle grandi rotte marittime fra le aree orientali e quelle occidentali del Mediterraneo). La natura carsica delle rocce
salentine offre di per sé l’esistenza di grandi cavità naturali che impressionano come dei veri templi suggerendo, con la loro scarsa luminosità e con il gocciolio delle acque, la presenza della divinità e della sua
154
155
156
Tuttora oggetto di studi da parte di C. Pagliara.
P. Graziosi, Le pitture della grotta di Porto Badisco, Giunti Martello, Firenze 1980.
C. Pagliara, Leuca, Congedo, Galatina 1978.
125
voce. Si aggiunga poi la posizione storicamente liminale (e quindi elettivamente sacra) di questa terra che risulta sempre “di confine” da qualunque prospettiva la si guardi: dalla Grecia, da Roma, da Bisanzio
oppure, ancora oggi, dal centro dell’Europa.
Pensando all’estrema antichità di questa concentrazione di siti cultuali
Elettra Ingravallo,157 riassume la posizione assunta da altri studi specialistici in proposito158 e afferma che molte delle grotte adibite fin dal paleolitico ad uso abitativo e forse cultuale, vengono solo riscoperte dagli uomini del neolitico che “in quasi tutte continuano a svolgere riti, a formulare auspici e a esprimere voti”. Come dire che esse esistono, e sono già luoghi di culto, fin dalla prima comparsa dell’uomo su questo territorio.
Ma il fenomeno del pellegrinaggio assunse un particolare significato e
un particolare sviluppo nel corso del Medioevo, durante il quale il Salento
non rimase certo tagliato fuori dai grandi flussi di fedeli e di visitatori.
Quali sono, nel Salento, le strade utilizzate a questo scopo? Il santuario di
Leuca rientrava fra quelli canonicamente più accorsati: ne era stata sancita l’importanza con la concessione papale delle indulgenze plenarie ai
suoi visitatori già dal 342 d.C.,159 e per raggiungerlo per via di terra occorre attraversare tutta la penisola salentina.
Le caratteristiche con cui si presenta la viabilità dei pellegrinaggi
medievali sono ben definite nelle osservazioni fatte dagli studi antropologici del fenomeno e qui faremo riferimento a quello fondamentale
condotto da Victor & Edith Turner.160
Tale testo, però, non prende in diretta considerazione i santuari dell’area salentina. Nella sua analisi a campione sceglie di approfondire la
conoscenza solo di alcuni santuari europei e quello che risulta più vicino a noi è quello di San Michele sul Gargano. Quello di Leuca, tuttavia,
presenta le stesse caratteristiche di altri santuari puntualmente analizzati come, per esempio, quello di Santiago de Compostela e quindi si pos-
157
E. Ingravallo, Lontano nel tempo, Argo, Lecce 1999.
Fra i quali quello di A. Leroi Gourhani, Le religioni della preistoria, Adelphi, 1993.
159 Ripetiamo qui la notizia riportata dal Tasselli in Antichità di Leuca, 1693, per cui fu
il Papa Giulio I a concedere il privilegio.
160 Victor & Edith Turner, Il pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997.
158
126
sono estendere alla nostra località le stesse osservazioni fatte a proposito di quella spagnola. Entrambe sono situate ai confini del mondo cattolico ed europeo, in una posizione di confine oltre la quale c’è, geograficamente e antropologicamente, l’incognito e l’altro, da circoscrivere e da allontanare con l’imposizione di un segno inequivocabile di
natura sacra: appunto un grande santuario. Entrambi sono avamposti
del cattolicesimo da difendere con la presenza e con il flusso continuo
di fedeli che affermano e oppongono la propria confessione alle minacce di quelle altrui.
A ragione di questa “guerra di confine”, appena settant’anni prima
della visita del Marciano (nel 1624) la chiesa di Leuca era stata infatti completamente distrutta, depredata e incendiata, da un’incursione turca (da
ciò, forse, la minaccia immaginata dall’autore, di un vascello di infedeli
pronto a rinnovare l’attacco). Ma questo recente fatto luttuoso non scoraggia il gran flusso di pellegrini di cui si dà atto nel poemetto, anzi forse
lo motiva maggiormente.
Probabilmente non esisteva un solo percorso per raggiungere per via
di terra il santuario di Finisterrae, ma un sistema plurimo di tante direttive che si snodavano attorno ad alcune vie principali e più frequentate. La natura pianeggiante del territorio offriva una serie di varianti che
potevano rispondere alle diverse esigenze dei viandanti. Di questo sottosistema di strade dà atto l’esistenza diffusa dei numerosissimi edifici
sacri a cui si accennava prima: conventi (edificati spesso con la specifica funzione di hospitales, cioè di rifugio per i pellegrini), cappelle, icone
e altri indicatori sacri. Tutti questi edifici costituivano le stazioni minori e gli altari secondari intrabasilicali di cui parlano i Turner, necessari alla preparazione spirituale del pellegrino in vista del suo arrivo alla
meta santa.
Ricordiamo che nei numerosi hospitales era possibile pregare collettivamente, ma anche risolvere le necessità logistiche della ristorazione e
del pernottamento. Sono molti i toponimi che, in tutto il territorio salentino (masserie, case, vie e contrade), fanno riferimento a questa denominazione (spetale, spitalieddru, spetalettu, ecc.).161
161
Cfr. P. Salamac, Appunti di toponomastica rurale del Salento, Ecumenica , Bari 1984.
127
Il Salento è tuttora costellato di queste stazioni minori o di ciò che
rimane della loro edificazione. Questi altari intrabasilicali costituiscono, indipendentemente dalla loro monumentalità, gli “elementi di natura simbolica”162 strettamente connessi ad un percorso di natura devozionale. Marcano, con la loro presenza, la “strutturazione sociale del territorio” e ne sanciscono l’appartenenza ad una fede e, quindi, ad un
gruppo umano.
Anche l’esigenza di contrassegnare lo spazio sociale e di attribuire
carattere sacro ai segni che vengono posti su di esso è di gran lunga
precedente al periodo medievale. Su tutto il territorio sono ancora presenti, infatti, accanto agli edifici testè nominati, anche numerosissimi
monumenti megalitici come menhir, dolmen e specchie. È stato notato
che tutte queste costruzioni osservano sempre una rigida relazione
rispetto ai punti cardinali per cui essi assolvevano probabilmente tanto
a scopi cultuali quanto alla funzione dell’orientamento.
Tornando a considerare gli altari intrabasilicali che caratterizzano il
pellegrinaggio medievale, notiamo che, a volte, la distanza fra questi
segnacoli risulta pressoché costante. Ciò poteva consentire ai viandanti-pellegrini anche una stima delle distanze percorse. Tale stima poteva
poi essere mensurata anche con lo snocciolamento di una preghiera
costituita da varie “poste”, come è la recita del Santo Rosario oppure la
Via Crucis.
Abbiamo raccolto, a conferma di questa usanza, alcuni modi di dire
tradizionali che si riferiscono alla misurazione delle distanze in riferimento al numero di “poste” necessarie alla loro percorrenza. Si può
dire, per esempio: “quel luogo non è affatto lontano; tre poste di rosario e sei arrivato”. Oppure “dopo due stazioni di Via Crucis devi svoltare a mano mancina”. Un espediente di orientamento che ricorda, in
qualche modo, la stessa funzione che hanno i Canti mitici 163 presso gli
aborigeni australiani che si lasciano guidare, per compiere certi lunghi
162
Cfr. P. Scarduelli, La morfologia dell’organizzazione simbolica del territorio, in «La
ricerca folclorica», n. 11 – 1985, dedicato all’antropologia dello spazio.
163 B. Chatwin, Le vie dei Canti, Adelphi, 1987. W.E.H. Stanner, Aboriginal territorial
organization, in «Oceania», n.36, 1965.
128
spostamenti, dalla durata delle strofe e dall’andamento delle melodie.
Da notare inoltre il fatto che le parola “posta” e “stazione”, riferite al
Rosario e alla Via Crucis, indicano già da sole l’azione da compiere (fermarsi) durante un percorso che può essere sia reale che di preghiera.
Benché in cattivo stato di conservazione, queste edicole, icone, cappelle e tempietti resistono generalmente ai cambiamenti subiti dal territorio e molti di essi sono tuttora visibili. La maggior parte degli edifici
risulta visibilmente “sacrificata” (non nel senso etimologico ma in quello metaforico del termine) a favore di altre costruzioni o di un riassetto
territoriale. Il crollo del sentimento della pietas ha lasciato su molti di
essi il segno dell’incuria e del vandalismo. Molte immagini sacre, specialmente in corrispondenza degli occhi, risultano scrostate alla ricerca
di improbabili pietre preziose nascoste sotto gli intonaci. Tuttavia spesso nei loro pressi, anche quando si trovano lontani dai centri abitati o
anche quando sono ridotti ad un cumulo di pietre, si trova tuttora il
segno discreto di una devozione, testimoniata dalla presenza di un cero
oppure di qualche fiore. Magari di plastica.
Questi edifici si trovano soprattutto in corrispondenza degli
svincoli viari (lo notava anche lo studio di Uggeri: «tabernacoli,
croci, colonne, edicole, e cappelle, sorgono specialmente sugli
incroci»)164 per cui un’ulteriore minaccia nei loro riguardi è oggi
rappresentata anche dalle ruspe che in tali luoghi realizzano,
seguendo le direttive europee, le enormi rotatorie per la disciplina del traffico automobilistico. Per loro fortuna questi segni lapidei, sia quelli storici che quelli preistorici (anche molti menhir
restano ancora in coincidenza con dei nodi stradali), si trovano
anche lungo molte stradine di campagna ignorate dal grande traffico. Qui, spesso coperti dai rovi, hanno maggiore speranza di
conservarsi più a lungo.
Su tali stradine è più facile ritrovare anche quegli
164 Sul significato antropologico dell’importanza attribuita agli incroci e alle biforcazioni “sia di sentieri che di corsi d’acqua” si è lungamente soffermato F. Remotti in Concetti
spaziali nande; un tentativo di analisi semantica, in «La ricerca folclorica», n. 11 – 1985,
dedicato all’antropologia dello spazio.
129
“slarghi con pozzi e tabernacoli, che rappresentano punti di
incontro tradizionali e punti di incontro e di mercato che sono,
per questo, risultati conservativi”
indicati ancora dall’Uggeri come segni rivelatori di una fervida
attività umana passata.
Guardando bene, nei pressi di queste primitive “stazioni di servizio”, sulla roccia calcarea si possono trovare anche, accanto ai
profondi solchi tracciati dal passaggio dei carri (le cazzature),
anche le fosse di deposito, le cisterne, le vaschette e gli abbeveratoi indispensabili a chi transitava e alle bestie. Nei tratti in cui
l’andamento del suolo lo rendeva necessario, possono esserci
anche i fossi di scolo laterali, che impedivano all’acqua piovana
di stagnare sul fondo viario.
Oltre a questi elementi dal carattere esplicitamente sacro il corredo
viario ne comprendeva anche altri che avevano, a loro volta, una funzione esplicitamente logistica. Chi viaggiava aveva bisogno, per esempio, di dissetarsi con una certa frequenza per cui spesso si ritrovano, ai
bordi delle strade, pozzi e vasche di diversa entità, edificati a volte
anche con i criteri della monumentalità e dedicati espressamente (con
l’apposizione di iscrizioni) ad agevolare il viandante e il pellegrino.
Questi poteva essere sorpreso anche dalle intemperie per cui, con la
funzione di ricovero più o meno protetto, si ritrovano lungo i percorsi
anche alcune costruzioni sfinestrate ma guarnite di numerose sedute in
pietra su cui era possibile sdraiarsi. Allo stesso scopo potevano fungere anche, eccezionalmente, i frantoi ipogei ubicati lungo i sentieri di
pellegrinaggio, specialmente durante i periodi in cui non si lavorava alla
molitura delle olive.
L’itinerario del Marciano
Il Marciano, fin dall’inizio del suo viaggio, per percorrere la tappa
che congiunge Salice a Martano, non segue la via principale che risulta
segnata sulla carta del Rizzi Zannoni e che passa per la città di Lecce.
Così facendo, infatti, avrebbe allungato, benché solo di pochi chilometri, il suo cammino. Quando il percorso viene coperto a piedi, o a dorso
130
di una bestia, però, anche un solo chilometro in più rappresenta un inutile dispendio di tempo e di energie.
Egli dice di essere passato prima da Carmiano e poi da San Pietro in
Lama e di aver poi proseguito nella direzione di San Donato. La carta
ottocentesca non indica nessun collegamento diretto fra questi paesi e,
ancora oggi, essi risultano normalmente raccordati da strade che passano anche per altri paesi non nominati nel testo come Novoli, Arnesano,
Monteroni, Lequile e San Cesario.
Tuttavia c’era, e c’è ancora, il modo di raggiungere San Donato da
Salice passando solo per le località indicate nel testo, ed è quello di
seguire una viabilità secondaria, costituita da strade di larghezza contenuta, alcune di esse usate ancora oggi per il traffico rurale. La loro esistenza, peraltro, risale sicuramente a prima del Seicento. Vi si trovano
infatti icone, frantoi ipogei, pozzi e cappelle e su alcuni frontini in pietra risultano chiaramente scolpite le date di edificazione o di restauro
che ne attestano l’antichità.
131
Le due località di San Pietro in Lama e di San Donato, per esempio,
sono congiunte da una di queste piccole strade che tocca tangenzialmente le periferie di Lequile e di San Cesario. Viene attraversata anche,
in verità, la piccola frazione di Dragoni che, sebbene esistesse già, nel
testo non viene nominata. Questa trascuratezza è dovuta, molto probabilmente, al fatto che l’autore la considera solo una possibile stazione
di sosta, da lui non presa in considerazione perché posta ad appena un
chilometro dal ristoro consumato a S. Pietro in Lama.
A partire da Dragoni, subito dopo la lama (fossa) di S. Pietro,165 la
comitiva si inerpica dolcemente su uno dei sistemi di serre che percorrono longitudinalmente il territorio salentino. Sulla sommità di questa
cresta, come su tutte le altre, corre un sentiero che, a nostro parere, era
un percorso principale di pellegrinaggio. Vedremo le ragioni di questa
nostra supposizione nel corso di questo paragrafo ma, intanto, continuiamo a seguire le orme del Marciano.
Appena dopo Dragoni, frazione costituita tuttora da poche case
disposte accanto ad un grande frantoio ipogeo e ad una notevole chiesa dedicata a san Basilio, si incontra subito, ad un quadrivio, una cappella intitolata alla Madonna del Solano. Il frontino inciso sulla sua facciata riporta la data di edificazione (o più probabilmente di restauro) del
1639. Da questa cappella, costeggiando la modestissima altura che qui
inizia a prendere corpo, si prosegue per una stretta via che fa da confine ai giardini delle pozzelle. È così detta una zona pianeggiante tuttora coltivata ad ortaggi, disposta fra i territori comunali di Lequile e di
San Cesario, così denominata perché la falda freatica si trova a soli due
metri dal livello del terreno per cui è costellata di una miriade di pozzi.
Quelli che si affacciano ancora sulla stradina non dovevano negare un
sorso d’acqua ai viandanti.
Seguendo questa stradina, a meno di trecento metri dalla cappella
del Solano, si trovavano due altri grandi frantoi ipogei oggi scomparsi
(si ricordano nella toponomastica col nome di trappitu spunnatu, ma se
ne identifica l’esatta ubicazione dall’esistenza di un consistente allarga-
165
La località di San Pietro in Lama è nota per le sue cave di argilla, depositi alluvionali ubicati, appunto, in grandi fosse o lame.
132
mento della strada che serviva per la manovra e per lo stazionamento
dei carri carichi di olive.
Questo tratto del percorso si chiama ancora col nome di via cona
(via icona) e prende il nome da un’icona oggi rimossa (ma presente
ancora nella memoria dei più anziani) che era situata in corrispondenza di un altro nodo viario che si incontra poco dopo. Qualche centinaio di metri appresso, quando già si è in vista dell’altura più accentuata
di San Donato, sorge ancora, in uno stato di conservazione più pietoso
che pio, la cappella della Madonna de lu laccu, che dà il nome moderno di via Madonna del Lago alla contrada. Il “lago”, un centinaio di
metri dopo, consiste in un piccolo appezzamento di terreno leggermente sottoposto rispetto al livello circostante, al cui centro sono tuttora visibili tre ridotti pantani (del raggio, ciascuno, di una diecina di metri)
coperti di piante acquatiche (canne e tife) che ne ostacolano l’utilizzazione agricola. Da questo punto la strada sale leggermente sulla serra
su cui sorge San Donato e continua oltre verso la sua frazione, ancora
più elevata, di Galugnano.
Anche questa piccola località, trovandosi sul percorso del Viaggio, fu
probabilmente toccata dal Marciano anche se egli non ne fa menzione. Si
possono notare ancora, poco distanti dal piccolo centro abitato, alcuni
tronconi viari totalmente dismessi, dalle caratteristiche, per noi, molto interessanti. Si tratta di segmenti stradali che non si trovano, come quelli finora presi in considerazione, inglobati nel sistema viario attuale ma ricadono ormai, frammentati, all’interno di proprietà private che qui sono prevalentemente coltivate ad oliveto. Questi tronconi hanno la larghezza di un
paio di metri e sono delimitati, su entrambi i lati, da vecchi muri a secco.
Nel dialetto salentino queste strade, per la loro dimensione, vengono dette ‘ncinabili, cioè adatte al transito di un asino provvisto del suo
basto e delle sue ‘ncine (gli uncini che servivano a facilitare il carico di
fascine o di sacchi).
L’area in questione è abbastanza sopraelevata: da quel punto si possono vedere nettamente, guardando verso est, i monti dell’Albania, oltre
il mare Adriatico, e verso ovest, nei giorni di buona visibilità, perfino le
alture della Sila Calabrese, al di là del mare Ionio.
Facciamo qui una breve digressione su questi tronconi di
mulattiere attualmente dismesse avanzando l’ipotesi tanto suggestiva quanto poco verificabile che esse rappresentino ciò che resta
133
di un sistema viario tracciato dai primissimi abitatori del Salento e
riutilizzato nel corso del Medioevo come direttiva principale dei
pellegrinaggi verso il santuario di Finisterrae.
Supponiamo che esse raggiungessero Leuca mantenendosi
sempre sulle creste delle serre salentine, i corrugamenti disposti
con andamento NO-SE. La natura particolarmente “ossuta” di queste modeste alture (la più alta, quella di s. Eleuterio, nei pressi di
Parabita, tocca appena i duecento metri) non impedisce, su questi percorsi, il transito di una bestia da sella o da basto né, tantomeno, di viaggiatori appiedati. È sempre possibile, fra le rocce
che affiorano, seguire, pur tortuosamente, un sentiero di larghezza contenuta.
Ma perché costruire e continuare ad usare per lungo tempo
dei percorsi che corrono sulle alture (li chiameremo subserranei)
e non farli, come oggi si preferisce, sul fondo delle vallate? In
primo luogo per poter avere, dall’alto, un maggior controllo del
territorio e difendersi così dalle imboscate dei predoni. In secondo luogo per il fatto che in tal modo si potevano evitare quei pantani che potevano formarsi durante le stagioni piovose nelle aree
più “a valle”, rendendole meno praticabili. Viceversa, d’estate, la
ventilazione maggiore presente sulle alture rendeva certo più sopportabile la fatica del cammino.
Per far sì che il loro percorso fosse ancora più sicuro, l’andamento di queste mulattiere subserranee si alternava rispetto alla
cresta delle serre, permettendo al viandante di dare un colpo
d’occhio ora a est di essa, ora ad ovest. Così, nel tratto stradale
che va da San Donato a Galugnano, disposto a est della cresta, lo
sguardo abbraccia tutta la piana di Lecce, dalle alture di Trepuzzi
fino all’altro sistema di serre denominate di Martignano, in direzione dei Laghi Alimini. Continuando verso sud, nella direzione di
Sternatia, invece, questi tronconi viari li troviamo disposti sul versante occidentale della cresta. In tale direzione lo sguardo corre
per un’area ancora più vasta che va dalle alture di Avetrana, in
provincia di Taranto, fino alle serre di Parabita.
Oltre al controllo del territorio, quest’andamento a zigzag consentiva anche di riposare parzialmente la vista quando ci si trovava a viaggiare contro sole. I lenti mezzi di locomozione e la natu-
166
G. Palumbo, Salento megalitico, in «Studi Salentini», II, Lecce, 1956.
134
ra aspra del fondo stradale costringevano a tempi di percorrenza
molto lunghi e il sole, a queste latitudini, è considerato un nemico da evitare in tutti i modi. Lo si evince chiaramente da molti
passaggi del Viaggio,
Il percorso subserraneo, inoltre, all’altezza di Galugnano cambia versante proprio in corrispondenza di un grande nodo stradale che, oggi quasi abbandonato, per lungo tempo deve aver avuto
un’enorme importanza e una larga frequentazione. Vi sorge, nei
pressi, una speciale “stazione di sosta” segnata, oltre che da
numerosi menhir (due sono sopravvissuti e di un terzo si ha notizia dallo studioso locale G. Palumbo)166, da una chiesetta (intitolata alla Madonna della Neve) riccamente affrescata e munita di
confortevoli arredi lapidei: un largo piazzale al suo ingresso, una
serie di sedili in pietra, un tavolo sempre in pietra, un pozzo e un
ombroso giardino di pertinenza. Vi confluiscono quattro stradine
orientate nelle quattro direzioni cardinali che portano in direzione di Martignano (est), di Soleto (ovest), di Sternatia (sud) e di
Lecce (nord). La comitiva di Salice, come diremo fra poco, prenderà da qui la direzione di Martignano.
La nostra supposizione di una rete organica di sentieri subserranei di questo tipo si basa sull’esistenza di analoghi tronconi viari
anche in corrispondenza delle altre alture e, soprattutto, nei pressi di Parabita, Supersano, Presicce e Castrignano del Capo.
Spesso l’andamento preciso del percorso di cui questi tronconi facevano parte risulta oggi incerto perché in molti tratti essi
sono stati integrati e confusi nella viabilità moderna. A volte, però,
anche in tal caso, si può risalire alla loro origine per la persistenza di uno dei due muri a secco (quello rimasto intatto dopo l’allargamento della sede stradale operato abbattendo l’altro) di fattura evidentemente diversa e più antica rispetto all’altro. Tale fattura è analoga a quella che presentano i tronconi integri, abbandonati forse per la natura particolarmente ostile del loro tracciato
(l’altitudine o la particolare asperità del suolo).
Il carattere pubblico, ricoperto una volta da questi tronconi
oggi quasi tutti privatizzati, è stato notato per la prima volta in un
breve saggio167 che, come noi facciamo, li ipotizza tutti collegati.
167
Carmelo Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel basso Salento, Paiano , Galatina 1957.
135
Lì, però, si ritengono espressamente realizzati in funzione dei pellegrinaggi medievali verso il santuario di Leuca. Sulla base di considerazioni non sufficientemente chiarite, l’autore pensa che questa “via di pellegrinaggio” sia stata attiva fino al sedicesimo secolo per poi essere abbandonata. A quel tipo di andamento subserraneo egli attribuiva lo scopo di evitare le vie che attraversavano
i feudi costieri, spesso oggetto delle scorrerie dei corsari.
La nostra ipotesi che si tratti invece dei resti di mulattiere protostoriche e messapiche trova conforto in alcuni passaggi delle
Ricerche sul popolamento antico del Salento di Domenico
Novembre.
«un’adeguata ricostruzione delle vie di comunicazione (messapiche) può essere tentata attraverso le relazioni tra viabilità romana e viabilità preromana (e, secondo i casi, pregreca) configurabile come messapica e ricostruita sulla base della distribuzione e
densità dei centri messapici accertati, nonché delle aree commerciali definibili e dei lineamenti fisici. Seguendo tali criteri si delinea un tracciato (per alcuni tratti forse ricalcato su vie di comunicazione protostoriche)… penetrante all’interno della subregione
del Capo».
Poi si aggiunge, ed è questo che avvalora la nostra tesi,
“Le vie di comunicazione messapiche dovevano consistere specialmente in mulattiere”.
A questo punto, in una lunga nota, si attesta inconfutabilmente la
presenza, in periodo messapico, di numerose altre mulattiere.
«L’esistenza di mulattiere è già ricordata da Strabone e confermata da recenti osservazioni. Il reticolo di mulattiere messapiche
(che rimane sostanzialmente quasi identico, nel suo sviluppo e
nelle direttrici, in epoca romana) delinea interessanti relazioni
con vie preistoriche e protostoriche essenzialmente legate a vie
commerciali.
…
Il reticolo di mulattiere si integrava anche con vie istmiche, in
epoca tarda e in dipendenza della penetrazione culturale o economica da parte di Taranto. …
136
La fittezza relativa di centri con emporio nel versante ionico
autorizzerebbe ad individuare maggior traffico proprio nelle vie
che gravitavano su questa parte del litorale salentino».
L’origine di queste mulattiere va collegata quindi, più che ad
un’esigenza legata alla viabilità moderna (e qui, con questo aggettivo, si intende anche romana), ad un uso perfettamente congruo
ad epoche remote come quelle prese in considerazione dal
Novembre.
Rifacendoci poi a quel passaggio già riportato dall’Uggeri
«il perdurare di alcune costanti legate alle condizioni ambientali e ai modo di vita ha determinato un complesso di condizioni
frenanti per innovazioni radicali e favorevoli per la conservazione di quei segni di umanizzazione»
non ci sembra un’eresia pensare ad una “conservazione” di
questi tratti viari che abbia retto ai millenni e che sia giunta, se
pure in uno stato frammentario e poco leggibile, fino a noi.
C’è, inoltre, un altro fatto che potrebbe avallare l’ipotesi dell’estrema antichità di questi tratturi. Essi collegano, infatti, una
serie di grandi grotte che, proprio a ridosso della cresta rocciosa,
ricamano le fiancate delle serre. Attualmente esse sono note per
la loro ultima utilizzazione, a scopo di culto, da parte dei monaci
basiliani che, attorno all’anno mille, le hanno decorate e arredate
secondo lo stile architettonico e le esigenze di culto a loro consoni. Ma, naturalmente, prima di essere utilizzate come casa di Dio
e luogo di preghiera, esse sono state ricoveri di uomini che le
hanno trovate già parzialmente scavate dal lungo e paziente lavorio delle acque carsiche.
Proprio adiacente ad uno di questi tratturi serranei si trova, per
esempio, l’articolato complesso ipogeo della Madonna di
Coelimanna, nel territorio di Supersano, rilevante per i ricchi affreschi con cui sono decorate le sue pareti.
L’importanza abitativa e cultuale di molte grotte salentine, attestata fin dalla preistoria,168 continua fino a tutto l’arco del
168
A. Broglio, Introduzione al paleolitico, Laterza 1998.
137
Medioevo, come si desume anche dallo studio del Fonseca169 in
cui si legge:
«Sulla dorsale delle Murge Salentine vanno segnalate le testimonianze rupestri di Nardò, Galatina, Sternatia, Parabita, Matino,
Casarano, Supersano, Ruffano Presicce, Tricase e Lucugnano
(tutte località notevolmente elevate sul livello circostante) mentre,
sul versante occidentale rivela consistenti presenze criptologiche il
territorio tra Ugento e il Capo di Santa Maria di Leuca».
Interessato espressamente alle vicende storiche relative al
periodo medievale, questo studio si limita a circostanziare l’utilizzazione delle grotte a partire dalla decadenza dell’Impero
Romano; tuttavia presuppone esplicitamente un loro uso continuativo anche in epoche precedenti:
«Dopo il lungo arco cronologico dell’età preclassica (Le sottolineature, nelle citazioni, sono nostre e intendono evidenziarne la
coincidenza con le nostre supposizioni) è in questa fase di transizione tra tardo antico e alto Medioevo che il fenomeno della vita
in grotte riprende con particolare vigore e caratterizza la facies
dell’insediamento umano in larga parte delle aree meridionali
italiane».
In seguito, citando a sua volta lo stesso Uggeri, specifica che
«Gli abitati romani erano scesi dalle acropoli munite per
distendersi tranquilli nella pianura resa rigogliosa dalle bonifiche
centuriali; gli insediamenti alto medievali non osano nemmeno
arroccarsi sulle alture troppo visibili da lontano e scendono nelle
forre nascoste della boscaglia ove solo il piede dell’indigeno sa
penetrare. La strada è un concetto estraneo a questo ambiente o
quanto meno associato all’idea di pericolo. Scalette, stretti sentieri
ricavati nel sasso… sono tutto quello che serve in un villaggio
rupestre agli uomini e alle bestie da soma».
E. Ingravallo (a cura di), La passione dell’origine. G. Cremonesi e la ricerca preistorica
nel Salento, Conte, Lecce 1997.
169 C. D. Fonseca, La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente - La civiltà rupestre in Puglia, in
A.A.V.V., Civiltà e cultura in Puglia, Milano 1980.
138
I tronconi di mulattiere ancora riscontrabili sono più numerosi proprio in corrispondenza della serra sud-centrale del Salento,
nel tratto che va da Supersano a Leuca passando per la serra del
Cianci e tocca tangenzialmente gli attuali centri di Ruffano,
Alessano, Montesardo e Castrignano del Capo.
Questo, più avanti, ci farà supporre che l’itinerario del ritorno,
indicato dal Marciano per recarsi da Leuca a Cutrofiano, possa
aver seguito il corso di queste mulattiere che, dice ancora il
Novembre,
«forse solo in pochi tratti erano transitabili da carri».
La comitiva salicese non utilizza carri, si muove a piedi e a
cavallo e, quindi, può agevolmente abbreviare il suo percorso
rispetto alle direttrici viarie carreggiabili (quelle riportate nella cartografia di inizio Ottocento). Queste, per evitare le asperità delle
serre, collegano i vari paesi mantenendosi nei “fondovalle”.
L’itinerario del Viaggio, dopo il tratto di San Donato-Galugnano, piega
verso sud-est nella direzione di Otranto ed effettua una breve tappa notturna nei pressi di un borgo diroccato, collocato fra Zollino e Martano.
Dopo la tappa di colazione in una chiesa di Martano, il percorso del
Viaggio seguirà grosso modo, fino a Leuca, l’andamento di quell’appendice della Via Appia romana detta Via Traiana. Si tratta (sempre sulla
base del citato studio di Giovanni Uggeri) di quella direttiva subcostiera che, dipartendosi dai nodi di Taranto e di Brindisi, collegava i grandi centri prima messapici e poi romani del Salento.
Il Viaggio continua, infatti, descrivendo il costeggiamento di
Carpignano, il transito per i Laghi Alimini e l’arrivo ad Otranto. Il tratto
della Via traiana che va da Otranto a Leuca è relativamente alto sul
livello del mare, ma è sostanzialmente piano, adatto anche al traffico
delle merci e al dislocamento degli eserciti. Collegava infatti i due
importanti porti toccando anche l’altro notevole centro di Castrum
Minervae, l’odierna Castro. Da Leuca questa via romana, che da qui
prendeva il nome di Via Sallentina, tornava verso nord passando per
Ugento e per Gallipoli.
Procedendo per tale percorso che costeggia il litorale ionico i nostri
viaggiatori sarebbero andati leggermente “fuori rotta”. Per fare ritorno a
139
Salice, che rimane nella zona centrale della penisola, essi, decidono
opportunamente di puntare per Cutrofiano-Galatina percorrendo probabilmente la via subserranea, più breve, più ombreggiata e più ventilata.
In corrispondenza di questa direttiva si trovava infatti (lo riporta
anche la citata carta di inizio Ottocento) il più grande bosco del Salento,
il Bosco di Belvedere (la denominazione appare quasi come un invito
alla frequentazione), che si estendeva, con andamento nord-sud, e quindi parallelo a quello delle serre, per circa quindici chilometri di lunghezza. L’altro bosco del Basso Salento, riportato nella stessa carta, è quello
di Calimera, che però risulta essere molto più modesto, estendendosi
solo per la quinta parte di quello del Belvedere oggi scomparso.
Da Cutrofiano in poi, terminate le alture, il viaggio prosegue su strade larghe e comode che uniscono storicamente i grandi centri di San
Pietro di Galatina (grande nodo viario nel centro del Salento), Nardò
(importante agglomerato fin dai tempi dei Messapi) e Copertino (al
tempo del Marciano grosso nodo strategico e militare).
140
Un riscontro oggi
Fin qui abbiamo ricostruito il percorso del Viaggio seguendo esclusivamente le indicazioni che si ricavano dal testo stesso. In questo paragrafo vogliamo aggiungere alcune precisazioni desunte da una verifica
da noi compiuta alla ricerca di ulteriori particolari e di altre suggestioni. Da quest’esperienza è derivata anche la comprensione di alcuni luoghi oscuri del testo letterario.
Da pedanti quali noi siamo, abbiamo viaggiato spesso a piedi, come
hanno fatto i due peduni della comitiva; altre volte ci siamo serviti di
una vespa o di una mountain bike. Come ognuno potrebbe appurare
ripercorrendo anche parzialmente il cammino da noi compiuto, tutto il
percorso è scandito da quelle costruzioni sacre sulle quali ci siamo soffermati sopra e, quando avevamo dubbi sulla direzione effettivamente
presa dai viaggiatori del Seicento, abbiamo optato per quei sentieri particolarmente ricchi di icone, cappelle e chiesette.
Partendo da Salice, abbiamo ripercorso il tratto già sufficientemente
descritto che portò la comitiva fino a San Donato-Galugnano.
Da qui, nei pressi della cappella della Madonna della Neve, abbiamo
abbandonato il sentiero subserraneo (che continua in direzione di
Sternatia) e abbiamo piegato verso est, in direzione dell’altra serra detta
“di Martignano”, località che si trova proprio fra Galugnano e Martano,
prossima tappa della comitiva. Nei pressi di Martignano, data la sua
prossimità con Calimera, supponiamo l’incontro con il furfante che sa
rispondere a tono alla richiesta beffarda di Vanni De quai a Calimberda
quantu nc’isse? – quanto ci potrebbe essere da qui a Calimberda?
Continuando, abbiamo superato anche noi il centro di Carpignano e,
presa la direzione della chiesa rurale di S. Marina di Stigliano, abbiamo
costeggiato i Laghi Alimini, passando per le strade sabbiose (le renuse
vei) che si trovano sul loro versante occidentale. Da lì dovettero passare i salicesi dal momento che l’attuale via litoranea, che li costeggia dalla
parte orientale, è stata realizzata solo negli anni Cinquanta del
Novecento, in seguito alle operazioni di bonifica delle ampie zone paludose che si estendevano da Casalabate fino ad Otranto.
È proprio entrando a Otranto da queste renuse vei che si incontrano i
resti del villaggio rupestre di San Giovanni (e de quai e de dai rutte sgar-
141
rate – e di qua e di là grotte crollate) residuo sventrato di un grande complesso abitativo e cultuale abbondantemente indagato dagli studiosi.
Le ossa dei Santi Martiri, visitate con compassione dai nostri, stanno
ancora lì ncatastati a due stepuni – accatastate in due alti stipi – nella
cattedrale annessa alla sede vescovile, con le loro mani e piedi e càpure tagliate – mani e piedi e teste tagliate.
Pretendiamo, come abbiamo detto altrove, di aver individuato anche
il sito dell’agrumeto dove la compagnia fu ospite del reverendo Chinu
Pelusu: con ogni probabilità si fermarono nel tratto finale della Valle
delle Memorie, a qualche centinaio di metri dall’area portuale, fra la
cappella dedicata alla Madonna del Passo e la base del colle della
Minerva.
Uscendo da Otranto e passando davanti all’ingresso della crollata
abbazia di Casole (nota per essere stata nel Medioevo un importantissimo centro di produzione e di copiatura di materiale librario) per una
sconnessa strada rurale che raggiunge i ruderi dal loro lato ovest, abbiamo seguito i sentieri subcostieri che attraversano la vallata di Porto
Badisco e proseguono oltre, in direzione di Castro.
Per tentare di ricostruire fedelmente questo tratto del percorso che
non coincide certo con quello della moderna via litoranea, dato che il
Marciano non indugia in nessuna indicazione specifica, ci siamo affidati alla presenza su di esso dei soliti edifici sacri e di altri segnacoli lapidei che, come abbiamo detto, nel Seicento rappresentavano dei veri e
propri indicatori viari. Subito dopo il monastero di Casole, seguendo
una stradina interpoderale contrassegnata dalle profonde scanalature
dovute al passaggio dei carri, si incontra, isolata nella grande piana di
Badisco, la chiesetta che fa parte della masseria fortificata di Cippano.
Superando dal lato sud, senza entrarvi, l’abitato di Uggiano La Chiesa,
nei pressi del monastero dei S.S. Medici, si trova, ai bordi della stradina
che si dirige verso Cerfignano, un grande menhir. Seguendo il percorso
rurale, oggi quasi cancellato e in qualche punto poco praticabile per lo
stagnamento di pozzanghere, qualche centinaio di metri dopo, ci si
imbatte nella cappella isolata della Madonna della Serra, abbandonata e
sventrata dal vandalismo.
Qualche centinaio di metri dopo, il percorso, oggi in aperta campagna, si allarga considerevolmente nei pressi della diruta masseria
Consalvo e offre un ampio spiazzo a fondo roccioso e piano, segnato
142
da numerose cazzature di carri, che testimoniano una grande frequentazione del luogo (grandi feste, fiere?).
Sebbene quasi interamente crollata nella sua parte più antica, abbiamo individuato, nei pressi di Vignacastrisi, la masseria dove la comitiva
salicese fu ospite di Orazio, che è detto massaru e soprintendente a
Capriglia. Alle spalle dell’attuale centro termale di Santa Cesarea ci sono
i ruderi di due masserie che, sulle cartografie particolareggiate sono
indicate coi nomi di “Capriglia di sopra” e “Capriglia di sotto”. Per individuarne l’ubicazione abbiamo penato non poco perché, probabilmente, sono state abbandonate più di un secolo fa per cui il loro nome si è
cancellato anche dalla memoria dei contadini della zona. I due ruderi
distano fra loro meno di un chilometro e attualmente risultano adiacenti a due cave da cui si estrae pietrisco e materiale inerte. Propendiamo
a identificare il sito nominato nel Viaggio con la masseria Capriglia di
sotto, che conserva ancora oggi le tracce di una struttura ricca e articolata, con i suoi alti muri a secco (che ne costituivano li curti destinati
allo stazionamento delle bestie) e con i resti di alcuni vezzi architettonici (cornicioni e finestroni decorati) che rimandano a modalità costruttive in uso nel Seicento. Nel Settecento e nell’Ottocento, nell’edilizia
rurale questi ornamenti sono stati, infatti, semplificati o, più spesso, del
tutto omessi a favore di un’architettura più sobria e all’insegna della
mera funzionalità.
Da Capriglia ad Alessano le indicazioni fornite dal testo sono più
precise (Passammu pe Dupressa e pe Tutinu, e lassammu Tricasi a
manca manu – Passammo per Depressa e per Tutino e ci lasciammo
Tricase a mano manca) ma a causa dell’intensa urbanizzazione dell’area,
gli antichi sentieri sono stati spesso trasformati in moderne vie larghe e
asfaltate e restano così confusi nello snodarsi della viabilità moderna.
Nel corso di questa riorganizzazione urbana e viaria il tracciato antico è
comunque ricostruibile seguendo, sempre, i numerosi segni lapidei che
sono stati risparmiati a causa del loro carattere sacro.
Da Alessano abbiamo preso anche noi per Lu sierru de Montesardu
– La serra di Montesardo –, seguendo non già la moderna statale 275,
ma il percorso antico che passa per il cimitero del paese e dal villaggio
rupestre di Macurano, segnato dalla cappella dedicata a s. Stefano.170
170
Questa cappella, come la minuscola abbazia di s. Barbara che nomineremo tra poco,
143
Poi ci siamo inerpicati, per il percorso subserraneo, fino al sacro monte
di Leuca. Anche questo tratto è contrassegnato da icone, grotte, cappelle e chiesette. Una piccola abbazia, nella campagna appena fuori
Montesardo, è dedicata a s. Barbara. È affrescata e corredata di una piccola canonica. Poco distante si trova anche un enorme frantoio ipogeo
che, lo ricordiamo, poteva anche fungere da ricovero per i viandanti.
Altri indicatori dell’esistenza di un transito sacro su questo percorso
sono la chiesa di s. Dana, che dà il nome alla località omonima, e il
luogo di culto in grotta intitolato a santa Apollonia, oggi oggetto di lavori di consolidamento.
Il percorso del ritorno, da Leuca fino a Collepasso, lo abbiamo supposto per la via centrale che segue l’andamento della dorsale detta “del
Cianci”. Qui, in mancanza di un percorso continuo che segue la cresta
della serra, ci siamo inerpicati alla ricerca di quei tronconi della viabilità arcaica di cui abbiamo già parlato, ricostruibili, ancora una volta, sulla
base della disposizione delle numerosissime icone, cappelle e chiesette
(fra le principali nominiamo la Madonna del Riposo sulla serra di
Alessano, la Madonna della Serra sulle alture di Ruffano e la Madonna
di Coelimanna che domina Supersano).
Il tratto Galatina – Nardò – Salice, come abbiamo già detto, è collegato da strade larghe e asfaltate (tuttavia sempre corredate di monasteri, di cappelle e di icone, qui particolarmente numerose e ben tenute)
che ricalcano percorsi che erano già importanti in epoca messapica.
A Nardò la festa dell’Incoronata è celebrata ancora oggi e si caratterizza per la sfilata dei cavalieri che colpì tanto il Marciano. Oggi non
sono più i preti impellicciati a montare i cavalli, ma gli stessi proprietari delle bestie che le curano e le addobbano riccamente per l’occasione. La data attuale della festività risulta spostata al mese di settembre ma
la memoria degli anziani ricorda che la data tradizionale era quella
riportata dal Viaggio, il primo sabato di agosto. In quell’occasione, ci è
nonché la stessa chiesa di S. M. di Leuca, risultano censite, nel 1628, dalla visita apostolica della diocesi di Alessano da parte del vescovo di Venosa Andrea Perbenedetti, incaricato di questa “verifica” dal Papa Urbano VIII. (Archivio Segreto Vaticano).
144
stato riferito, scadevano peraltro anche i contratti di locazione delle
terre e dei fabbricati. Con la data, oggi è cambiato anche lo spazio in
cui si tengono i festeggiamenti, che sono stati spostati nel centro dell’abitato. La chiesa dell’Annunziata, però, esiste ancora, sorge nella periferia occidentale del paese ed è adiacente al grande convento dei frati
Agostiniani. Tutto il complesso ha i caratteri dell’architettura seicentesca
ed è oggi in corso di ristrutturazione.
Dopo aver descritto la sosta a Nardò, le trascrizioni del testo riportano una frase che dice Sciamu a stari addò aìmu lu Lissi e lu Fachechi
– passiamo a riposarci presso i nostri amici Ulisse e Fachechi. Ma nel
nostro ripercorrere l’itinerario del Viaggio, giunti a Nardò, abbiamo
saputo dell’esistenza di una masseria, che si trova proprio nella direzione di Salice, denominata, in coincidenza col testo, Li Fachechi. Tale
toponimo, elencato fra le masserie, compare anche negli Appunti di
toponomastica rurale del Salento curati da Pietro Salamac (Eumenica
Editrice, Bari 1984), nonchè nelle carte dell’I.G.M. Siamo andati a visitare il fabbricato, ne abbiamo constatato l’esistenza e l’antichità e, in
ultima analisi, ci siamo spinti ad una proposta di correzione del testo.
Con la sola interpretazione diversa di due vocali si ottiene, infatti,
Sciamu a stari addò aìmu lu Lissi a li Fachechi – passiamo a trovare il
nostro amico Ulisse, a Li Fachechi, espressione che ricalca quella analoga del testo quando dice ca avìa jeu dae lu Raziu, ommu galanti,
capu massaru e soprastanti a Capriglia – perché io conoscevo lì Orazio,
capo massaro e sovrintendente a Capriglia.
Anche la masseria Li Fachechi, sebbene attualmente in corso di
ristrutturazione, mostra gli stessi segni lapidei della masseria Capriglia
(muri a secco alti e di fattura datata; le sporgenze in pietra che servono
a proteggere la sommità delle finestre, modellate e scanalate secondo
quella tipologia seicentesca che si riscontra largamente, per esempio,
nell’architettura del centro storico di Gallipoli, dove vengono chiamate
cappelletti; i piccoli vani aggettanti realizzati nel corpo del fabbricato del
piano superiore, spesso destinati per ricavarne una latrina).
La stessa presenza di un piano superiore trova riscontro nel testo
quando l’autore dice Poe (Lu Lisse) supra me purtau manuzzeccatu,…ma prima e sagliu jeu le fici pattu cu nu bisciu tal ommu com’è
fattu – poi mi prese per mano e mi portò di sopra, ma prima di salire
mi feci promettere di non dover incontrare più quel bestione.
145
Fra questa masseria e Salice si stende un territorio totalmente pianeggiante, percorso da numerose vie rurali di cui il Marciano si è potuto
servire per raggiungere la sua casa. Niente toglie, però, che egli abbia
percorso la via principale, coincidente con la sua rotta ottimale, che
tocca le due località di Leverano e di Veglie che, comunque, egli non
nomina.
Forse era ancora agitato per il fastidioso scontro avuto col munacone, oppure era talmente stanco e ansioso di stendersi sul suo letto, da
percorrere distrattamente quegli ultimi quindici chilometri di viaggio
senza annotare particolari di rilievo.
Oppure era stanca la sua musa, che non vedeva l’ora di appendere
il calascione alla trabacca.
146
Parte Seconda
Il Salento ieri e oggi: da luogo antropologico
a nonluogo della surmodernità
L’ossessione odierna di recuperare i segni della storia presenti
nei paesaggi (il restauro e la “valorizzazione” dei monumenti) è in una fase di estetizzazione, di desocializzazione e di
artificializzazione.
M. Augé
Le trasformazioni in luogo turistico e gli effetti dirompenti che
ne conseguono sono in grado di innescare il processo di transizione dal luogo al nonluogo, inteso sia come modalità dello
spazio, sia come negazione e assenza dei valori del luogo…
Il passaggio dallo “spazio visitato” allo “spazio organizzato”
allo “spazio consumato” è obbligatorio e spesso molto rapido.
Maura Cetti Serbelloni
147
Differenze e analogie
L’aspetto che aveva il paesaggio salentino all’epoca del Marciano era
evidentemente molto diverso da quello attuale, come diverso era pure
il modo di guardare al territorio e di relazionarsi con esso. Tuttavia se
si guardano alcune immagini documentaristiche girate qui solo mezzo
secolo fa171 si ha modo di vedere un Salento che è probabilmente molto
simile a quello descritto dal Marciano sul finire del XVII secolo. Strade
polverose e semideserte, infinite teorie e diramazioni di muretti a secco
dalla geometria che si direbbe “organica”, un’edilizia urbana che appare come congelata in una dimensione estremamente conservativa del
territorio e dei manufatti umani su di esso. In questi ultimi cinquant’anni si è avuto dapprima un notevolissimo incremento edilizio realizzato
soprattutto con le rimesse degli emigranti (queste aggiunte nel paesaggio si avvertono anche per il loro stile costruttivo, che risente delle suggestioni acquisite in Svizzera, in Germania o nel nord Italia) e poi una
rapida e sostanziale trasformazione generale dovuta a un cambiamento
di destinazione dell’intera area. Nel corso degli ultimi tre decenni la
penisola salentina, da area tradizionalmente (e plurisecolarmente) agricola, si è votata esclusivamente al turismo e da allora si è sforzata di
orientare sempre più in tal senso l’assetto del suo territorio.
Le dinamiche che si verificano in questo tipo di trasformazione sono
oggetto di studio della geografia turistica che, in analisi di portata planetaria, è concorde nel mettere in guardia dagli inevitabili rischi che si corrono. Maura Cetti Serbelloni nel volume Il luogo (Pensa, Lecce 2003)
passa in rassegna gran parte di questa letteratura scientifica e indica puntualmente la natura di queste insidie che comportano quasi sempre l’annientamento delle specificità locali in una parabola obbligata di “disneyzzazione”, di “museificazione” e di generale inquinamento culturale.
171 Per esempio quelle riprese dal regista Corrado Sofia per il documentario Puglia
Magica, 1962, Teche RAI, oppure da Gianfranco Mingozzi per La Taranta, girato al
seguito dell’equipe di Ernesto de Martino nel 1959.
148
Nel Salento gli interventi di adeguamento turistico, “modernizzando”
l’aspetto del paesaggio e adeguandolo gradualmente agli standard, stanno conseguendo paradossalmente un risultato opposto alle intenzioni
originarie che intendevano proporre qui un turismo “ruspante”, in una
terra ricca di memoria e di tradizioni, sbandierando una specificità data
da un paesaggio arcaico, fatto di grandi estensioni di uliveto e ricamato da una ragnatela di muretti a secco. Di fatto, di giorno in giorno, questo paesaggio viene sempre più aggredito e cancellato dallo stesso turismo, che esige infrastrutture tanto funzionali al suo sviluppo quanto
anonime e astratte dal contesto in cui vengono poste.
Abbiamo iniziato a riflettere sulla natura di questi processi in occasione di una serie di incontri con gli studenti di Antropologia Culturale
dell’Ateneo leccese, nel corso di un laboratorio da noi tenuto sul tema
“Mutamenti nella coscienza territoriale in seguito al processo di modernizzazione”. Ci era stato affidato dalla prof. Anna Merendino, responsabile dell’Insegnamento e particolarmente sensibile all’approfondimento di questi temi. Già in quell’occasione abbiamo avvertito e rimarcato
la necessità di un’organica antropologia dello spazio riferita al territorio
salentino, particolarmente utile di questi tempi per la corretta gestione
dei grandi mutamenti territoriali, e conseguentemente culturali, in atto.
Il lancio del Salento sul mercato turistico nazionale si basa, oltre che
sulle predette caratteristiche territoriali, anche su altri elementi della cultura tradizionale e segnatamente sul dialetto e sulla musica, specialmente quella utilizzata un tempo per guarire dal tarantismo, la cosiddetta
pizzica pizzica. I risultati raggiunti da quest’operazione di marketing in
termini di visibilità nel panorama nazionale e internazionale sono innegabili e hanno portato al fatto che quest’area, prima quasi del tutto sconosciuta al resto d’Italia, è ora sulla bocca di tutti. Ha i suoi personaggi
che la rappresentano sul palcoscenico mediatico (attori, cantanti e comici che utilizzano spesso, per le loro performances, anche il dialetto) e
rimbalza sempre più di frequente nella cronaca nazionale. Prima che
avesse inizio questa fortunata operazione di mercato, per esempio, le
previsioni del tempo proposte dalle emittenti televisive nazionali ignoravano del tutto questa subregione che compariva a stento, quasi fuori
dello schermo e, comunque, non era mai nominata se non, genericamente, come “Puglia”. Ora, invece, anche il Salento si è conquistata la
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sua nuvoletta personale e gli altri simboli meteorologici, e tutti gli speakers sembrano compiacersi di pronunciare familiarmente la parola
“Salento”, lasciando intendere con soddisfazione di esserci stati di persona. In conseguenza di questa visibilità acquisita, se prima le manifestazioni culturali e la valorizzazione del territorio erano affidate a sparute ed estemporanee associazioni Pro Loco, costituite da volontari
occasionali, ora di tali attività si occupano in maniera organica le diverse Istituzioni Pubbliche, attraverso l’iniziativa e l’impegno di appositi
assessori al Marketing Territoriale, al Tempo Libero, alla Cultura o allo
Spettacolo.
Il successo di questa operazione di marketing turistico spinge anche
ad una sostanziale e frettolosa trasformazione del territorio che trascura
il peso che questi cambiamenti hanno nella coscienza degli abitanti.
Questa operazione di restyling del paesaggio compare spesso nella cartellonistica dei lavori stradali o edili come “riqualificazione del territorio” e con ciò si attribuisce da sé un’indiscutibile valenza positiva che
lascia pensare ad un miglioramento dell’aspetto e della funzionalità
degli spazi. Purtroppo, invece, generalmente questo non corrisponde
alla realtà perché, di fatto, tali operazioni comportano anche l’insorgere, negli abitanti, di un senso di frustrazione dovuto all’espropriazione
di spazi che tradizionalmente erano sentiti come comunitari e al senso
di spaesamento che ne deriva. Una diversa percezione del territorio è
da considerarsi un cambiamento culturale di grande rilievo, che non
può permettersi sterzate brusche perchè ha bisogno di essere adeguatamente metabolizzato dagli utenti.
Il turismo, con la sua esigenza di adeguamento del paesaggio alle
sue aspettative, non è, naturalmente, l’unico elemento responsabile di
questo spaesamento. Un’altra causa di grandi trasformazioni, per esempio, è ravvisabile nella nascita, ai bordi delle grandi arterie di comunicazione, di un continuo susseguirsi di aree industriali e artigianali che
esigono anch’esse modalità costruttive assolutamente incoerenti rispetto a quelle tradizionali. Anche qui c’è da notare il paradosso per cui un
territorio a vocazione dichiaratamente turistica appresta una vetrina di
se stesso e costruisce una grande muraglia di capannoni industriali certamente poco accattivante e capace di oscurare ogni traccia del paesaggio “arcaico” e tradizionale promesso nei dépliants. La Facoltà di
Scienze sociali, Politiche e del Territorio dell’Università del Salento ha
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per esempio, in un suo studio, preso in esame l’aspetto assunto dalla
lunga arteria centrale che collega il capoluogo salentino con Leuca,
facendo rilevare che le ragioni economiche e commerciali che hanno
orientato isolatamente ogni singolo Comune, prive del necessario coordinamento pianificatorio, hanno finito col dare i discutibili risultati a cui
accennavamo.
La conoscenza complessiva dei dati che riguardano il rapporto storico esistente fra il territorio e i suoi abitanti rappresenterebbe indubbiamente un utile strumento di riflessione e di approfondimento, tanto per
colui che si propone di gestire le trasformazioni del paesaggio, quanto
per colui che ne fruisce e/o si trova a subirne gli effetti. Il presente lavoro, in questa sua seconda parte, avverte l’urgenza di queste riflessioni e
si prova a contribuire ad esse avviando un’analisi della percezione tradizionale dello spazio limitata a quello abitativo, cioè la casa.
Successivamente, pensando ai grandi cambiamenti che sono intervenuti nella coscienza spaziale nel corso degli ultimi quarant’anni, si metteranno in luce alcuni comportamenti odierni relativi alla capacità di
orientarsi e di sentirsi appaesato, considerando queste attitudini strettamente correlate ad alcune diffuse e lamentate disfunzioni sociali.
Collocheremo infine questi anomali comportamenti “moderni” nello
scenario apocalittico disegnato da E. de Martino nei suoi appunti per La
fine del mondo, partecipando al suo grido di allarme e sperando, con
lui, di contribuire all’identificazione di alcuni limiti epistemologici che
caratterizzano la nostra società e il nostro tempo.
La percezione tradizionale dello spazio
Tutti gli spazi vengono culturalizzati,172 cioè percepiti in un determinato modo dalla società che li vive; dai luoghi che ci circondano quotidianamente come la casa, il vicinato, il quartiere, il villaggio, il luogo
172 Remotti-Scarduelli-Fabietti, Centri, Ritualità, Poteri; significati antropologici dello
spazio, il Mulino, Bologna 1989.
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di lavoro, a quelli più lontani, più o meno noti o anche sconosciuti.
Tutti i luoghi, anche appunto quelli sconosciuti e perfino quelli immaginari, assumono un particolare significato a seconda dell’elaborazione
a cui sono soggetti in un dato contesto culturale. La culturalizzazione
dello spazio avviene con l’imposizione su di esso di alcune categorie
come quelle di “pubblico”, “comune”, “privato”, “sacro”, “profano”, “di
lavoro”, “di svago”, “indicato” o “interdetto” e questa categorizzazione
tiene conto del sesso, dell’età o del censo dei fruitori di un dato spazio.
La particolare valenza assunta dai vari luoghi nei diversi ambiti culturali deriva dalla complessa imposizione di queste categorie che, combinandosi variamente, ne determinano lo specifico senso culturale.
Come premesso, alle considerazioni su questo argomento che si
evincono dalla lettura del Viaggio, qui aggiungiamo la descrizione dell’atteggiamento tradizionale nei riguardi dello spazio abitativo (la casa),
ponendo particolare attenzione nei riguardi delle categorie di
“Pubblico” e di “Privato” che si impongono sui vari luoghi. Ne consegue uno specifico comportamento culturale nei riguardi del concetto di
proprietà e, quindi, del motivo antropologico della “difesa dei confini”
e della “pertinenza territoriale”.
Un esempio: la casa a corte
La casa (casa)
Con tale termine si intende, naturalmente, una grande varietà di unità
spaziali abitative, dal piccolo monolocale sprovvisto perfino dei servizi
basilari alla grande costruzione composta da numerose stanze, disposte
magari su più piani; dall’abitazione urbana alla masseria, alla casupola
di campagna. Le osservazioni che stiamo per fare si riferiscono ad uno
solo di questi modelli abitativi, la casa urbana “a corte”, domicilio del
contadino o dell’artigiano.
Corte, abitazione, orto e terrazza
La corte (curte) è un ambiente introduttivo, in massima parte scoperto, comune a più abitazioni, a cui si accede, a volte, attraverso due colonne, un arco o altro segno lapideo che lo distingue dal resto dell’ambito
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viario pubblico. Nella corte trovano posto alcuni servizi comuni alle abitazioni che ad essa fanno riferimento come il pozzo (puzzu, cisterna), il
lavatoio (pila) e il pozzo nero per lo scolo della fogna (scettalòra).
Le varie abitazioni che si affacciano sulla corte sono costituite da un
esiguo numero di stanze (cammere), da una sola a 4-5, solitamente
disposte lungo una linea che si irradia dal centro della corte e che conduce ad un orto posteriore di dimensioni variabili ma sempre contenute. Pertinenza della casa è anche, naturalmente, la terrazza (loggia), che
può essere parzialmente o totalmente praticabile a seconda del tipo di
copertura delle varie stanze, a tegole (ìmbreci) o a solaio (làmia, stella).
Ognuno di questi quattro ambienti di cui è composta l’abitazione è
soggetto a diverse leggi che ne regolano la condizione di pubblico/privato. Si tratta, in realtà, di convenzioni non scritte in atti legali ma da
tutti riconosciute e condivise. Le esamineremo in modo specifico per
ciascuno degli ambienti.
La corte (curte)
Spazio collettivo di pertinenza delle case che si affacciano su di essa.
Il suo accesso dalla strada non è, di solito, chiuso da alcun portone o
cancello. La comproprietà della corte comporta una vigilanza collettiva
perchè venga rispettata questa ambigua condizione fra pubblico e privato. Solo di recente, comunque successivamente alla modernizzazione
della nostra cultura, i diversi proprietari si accordano, a volte, per munire questa sorta di spazio condominiale di un cancello. Non si nomina
formalmente nessun capo condomino della curte ma, in caso di diverbi fra i suoi abitanti, ci si rivolge ad un anziano ritenuto saggio e imparziale (il Marciano lo direbbe nuratu – onorato).
Tutti gli abitanti della corte sono pienamente fruttuari dei servizi comuni, il pozzo-cisterna (puzzu, ùstia, cisterna, vòjuru, lavòra), il lavatoio
(pila) e il tombino (scettalòra), e dispongono con una certa prelazione
dello spazio antistante alla loro abitazione. In realtà possono anche usare
gli altri angoli dell’ambiente condominiale se vi è una evidente ragione per
farlo (per esempio per sedersi all’ombra piuttosto che al sole o perchè una
certa attività lavorativa necessita di uno spazio più ampio o più alto).
La corte è spazio privato di proprietà dei condòmini, ma non è escluso l’ingresso in essa di estranei che vengono trattati in maniera differente a seconda dei casi.
153
Ogni abitante del paese vi ha libero accesso, purché dichiari la sua
presenza con un saluto al primo abitante che incontra e risponda alla
domanda che gli viene posta circa la persona di cui è in cerca. Con la
risposta al saluto avrà anche indicazioni circa la presenza (o meno) in
casa della persona richiesta e gli verrà detto anche, magari, che cosa sta
facendo; oppure, se è uscita, dove si è recata: in piazza, dal barbiere,
in campagna, fuori paese, ecc.
Allo stesso trattamento sono soggetti anche i funzionari pubblici
come le forze dell’ordine, il postino, gli esattori, ecc.
I mercanti, i venditori ambulanti, eventuali artisti viaggianti, invece,
devono essere espressamente invitati a entrare almeno da uno degli abitanti, specialmente quando sono “facce sconosciute”, cioè estranei alla
comunità del paese.
Nessun forestiero, o comunque sconosciuto, può infatti aggirarsi
nella corte se non con estrema discrezione.
L’abitazione (casa)
Entrando nell’abitazione si incontra una prima stanza (cammera,
stanzia) che di solito è una cucina-living. La porta d’ingresso non è
generalmente chiusa a chiave fino a che in casa c’è qualcuno ed è quasi
sempre agevolmente apribile dall’esterno. Se si ha libera circolazione
nella corte si può anche liberamente accedere in questa parte dell’abitazione. Basta far sentire ad alta voce la propria presenza, magari chiamando un membro della famiglia. Questa stanza non ha segreti; se uno
vi entra vi si può muovere senza disagio, guardando e toccando con
relativa libertà gli oggetti che vi si trovano. Un membro del “vicinato”(li
ecìni, le ecìne, cumpàri e cummàri), specialmente se è di sesso femminile, potrà entrare o uscire da quest’ambiente anche senza una particolare ragione, sentendola, in qualche modo, come un’estensione della
propria stessa abitazione o, meglio, della corte. Vi si potrà recare per
offrire un servizio o per richiederlo (per es. per intrattenere temporaneamente un bambino o per affidarne uno suo a un membro della casa;
per separare i legumi dalle impurità, per mondare la verdura, per lavorare a maglia, per filare la lana, ecc.), ma anche solamente per riposarsi o per scambiare qualche parola con le comari (spetteculisciàre).
Questo ambiente semicondominiale, ad uso della cerchia del vicinato, cessa di essere tale, naturalmente, durante le ore notturne e durante la consumazione dei pasti. In quest’ultimo caso si entra solo se si ha
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una buona ragione, dopo aver bussato con molta discrezione e dopo le
sincere insistenze da parte dei padroni di casa. Il semplice invito formale “ci restàti mangiàti cu nui” presuppone, infatti, la risposta “buon
appetito” e il rapido abbandono dell’abitazione.
L’altra o le altre stanze sono, di solito, stanze da letto e queste, specie quella occupata dal talamo, sono off-limits per chiunque; tranne che
qualcuno non venga espressamente invitato ad appartarsi lì con uno dei
coniugi. Neanche i figli (piccoli o grandi) possono invitare gli amici
nelle stanze da letto, ed essi stessi non vi si attardano se non per dormire o in caso di degenza.
La stanza da letto, specie quella coniugale, è infatti anche il posto in cui
si conserva tutto ciò che non deve stare sotto gli occhi di tutti: gli ori di
famiglia, i soldi, la biancheria, gli atti di proprietà o altri documenti (le
carte). Il comò, la cassa della biancheria, il tolettone e l’armadio sono l’arredamento di queste stanze e il loro contenuto deve essere tenuto d’occhio
per paura dei furti, dei giudizi negativi altrui o della temuta invidia.
L’orto (uèrtu, ortale)
Per giungere in questa parte della casa occorre attraversare le stanze
da letto; dunque anche quest’ambiente è di una particolare privatezza,
accentuata dal fatto che spesso è lì che è collocata anche la latrina.
Il carattere privato dell’orto è esteso anche alle eventuali colture ivi
insediate: qualche alberello di agrumi o di altra frutta e qualche pianta
di verdura per il consumo domestico (non commerciale).
Nell’orto può trovare posto anche una tettoia (suppinna) per il ricovero di eventuali bestie (mulo, cavallo, asino, gallina, ecc.), della legna
da ardere o di qualche attrezzo da lavoro.
La terrazza (loggia)
Anche questo spazio è considerato proprietà strettamente privata.
Non è conveniente neanche per i confinanti scavalcare i bassi muretti
che separano le proprie terrazze da quelle altrui. Sulla terrazza si compiono infatti diversi lavori come sventolare i legumi per separarli dalle
impurità (come si farebbe su di un’aia), mettere a seccare i fichi o la
conserva di pomodoro, stendere la biancheria, ecc.
La frequentazione di questo luogo è oculata e limitata, sia per il
rischio di cadere giù che per la delicatezza dell’impiantito (làmia) che
non deve essere mai maltrattato.
155
Il campo (fore)
Mentre l’artigiano utilizza per lavorare gli stessi ambienti in cui abita
e dispone anche con una maggiore libertà della corte e degli slarghi stradali, il contadino deve recarsi a lavorare quotidianamente in campagna,
un appezzamento di terreno che di solito è situato nell’immediata periferia del villaggio, così da poter essere agevolmente raggiunto (a piedi,
con la bicicletta o con un animale) in un tempo relativamente breve. Qui
se ne prende in considerazione il tipo di fruizione perché, per certi
aspetti, anche il campo è assimilabile a un’estensione della casa.
Su questo appezzamento di terreno può anche insistere un piccolo
ricovero realizzato generalmente con pietre a secco (pagghiàra, furnièddru, casèddra), il cui ingresso può essere protetto da una porta
sprovvista di serratura. La sua chiusura è realizzata con mezzi di fortuna (cordicelle, fili di ferro, paletti, ecc.) e ha la funzione di impedirne
l’ingresso agli animali liberi (uccelli o cani). La violazione discreta di
questo uscio in caso di necessità (pioggia o ricovero notturno) non rappresenta un vero e proprio reato anche perché al suo interno il proprietario custodisce solo beni di valore trascurabile (fascine di legna o piccoli attrezzi da lavoro).
A seconda della sua grandezza e del tipo di coltura che vi viene praticata, il campo assume diverse denominazioni: funnu, uertu, sciardìnu, fièu, mascìsa, fattizza, chiusùra, stozza.
Già colpisce (e sarebbe anche da approfondire dal nostro punto di
vista del diverso tipo di percezione che se ne ha) la grande quantità di
termini di cui il dialetto dispone per indicare un appezzamento di terreno a seconda, appunto, della sua dimensione, del suo uso, della sua
destinazione, della sua conformazione, del suo stato corrente, del titolo
di possesso (affitto, enfiteusi, proprietà). Ma quello che ci interessa in
questa sede è sottolineare la relativa libertà con cui, se ce n’è il bisogno, si possono scavalcare i bassi muretti a secco ed entrare nelle proprietà private per attraversarle o per esercitarvi le frequenti attività di
raccolta della verdura o della fauna spontanee. Per accedere nei campi
valgono, più o meno, le stesse regole che abbiamo esposto per la corte:
occorre salutare ad alta voce chi vi sta lavorando per dichiarare le proprie intenzioni oneste e, nel caso non sia presente nessuno, mantenersi sulle carràre, ai bordi dei muretti e, comunque, non arrecare danno
alle eventuali colture.
156
La percezione dello spazio in seguito al processo
di modernizzazione
Il mondo della surmodernità, con i suoi eccessi di tempo,
di spazio e di percezione individuale, non corrisponde esattamente a quello in cui crediamo di vivere. Viviamo infatti un
mondo che deve essere osservato in maniera diversa e nuova.
Abbiamo bisogno di reimparare a pensare lo spazio.
M. Augé
Fin da queste osservazioni si ricava l’esistenza nella tradizione di un
concetto di proprietà che risulta molto più elastico di quello moderno,
che comporta una maggiore condivisione degli spazi e una certa tolleranza nella valicabilità dei confini agrari. I numerosi muretti a secco che
particellizzano le grandi estensioni di terreno avevano più il senso di
evitare la dispersione delle greggi e degli armenti (oltre a quello di ripulire la terra dalle tante pietre che ne ostacolerebbero lo sfruttamento)
che non quello dell’invalicabilità. Il Salento è quella terra dove fino a
poco tempo addietro era possibile vagare per giornate intere alla ricerca dei tanti esemplari della flora e della fauna spontanee (cicorie selvatiche, asparagi, erba di mare, origano, papaverine, bulbi commestibili,
funghi, lumache, ricci di terra...) che compaiono nelle diverse stagioni.
I proprietari dei fondi o i loro amministratori non si sognavano neppure lontanamente di mandare via le famiglie che discretamente si procuravano così un piatto di minestra o di companatico. Tanto era diffusa
questa tolleranza che a noi piace pensare che risalga addirittura alle
tribù di cacciatori e di raccoglitori del neolitico e che da allora abbia trovato fino ai giorni nostri una progressiva legittimazione nella coscienza
collettiva.
A conferma dell’esistenza di questo tacito consenso dei proprietari
terrieri nei riguardi dei raccoglitori occasionali ci sono molti proverbi e
modi di dire:
Robba ca ha fatta Diu mangia tu ca mangiu iu – Roba fatta da Dio
mangi tu e mangio io;
La robba te campagna ete te Diu e de ci se la magna – La roba di
campagna è di Dio e di chi se la mangia;
157
Robba te lu cuvernu ci nu rubba va allu ‘nfiernu – Roba del governo (di tutti) chi non la prende va all’inferno;
La robba te lu munnu ha bastare pe’ tutti – La roba del mondo deve
essere condivisa;
Na beùta t’acqua nu se neca a nisciunu - Una bevuta d’acqua non
si nega a nessuno;
Ci rrubba cu la panza nu bè latru – Chi ruba con la pancia non è ladro.
La grande esplosione del turismo che si è avuta in questi ultimi
decenni sta determinando invece grandi restrizioni in questo senso.
Specialmente in prossimità della costa molti dei poco dissuasivi muretti a secco, che fanno parte integrante del paesaggio tradizionale, vengono quotidianamente sostituiti da recinzioni più consistenti che hanno lo
scopo di delimitare e di controllare la frequentazione di aree destinate
al parcheggio, al camping, ai villaggi di vacanze, ai B&B, o ad altre
infrastrutture turistiche. Questa tendenza alla privatizzazione, anzi, si sta
diffondendo sempre di più e si sta estendendo anche agli spazi non
necessariamente destinati all’uso turistico. La cultura della disponibilità,
della tolleranza e della condivisione cede il passo a un diverso senso
della proprietà orientato in senso restrittivo dalla paura dell’altro, dall’individualismo e dal disinteresse per le necessità altrui. Alla presa di
possesso di un appezzamento di terreno in campagna, per esempio,
segue immediatamente l’opera di recinzione con modalità costruttive
(tipologia dei materiali, livellamento preventivo del terreno, spietramento e altri interventi che mutano l’aspetto idrogeologico) e con un dimensionamento che appaiono quantomeno anomali nel discreto aspetto del
paesaggio tradizionale.
Orientamento e pertinenza individuale dello spazio
Parallelamente e, in qualche misura, in conseguenza di questo diverso approccio nei riguardi del territorio e del senso di proprietà si può
registrare anche una progressiva perdita del senso di orientamento e
della pertinenza individuale dello spazio.
Il primo significato del termine “disorientamento” a cui danno peso
i rilievi sociologici è quello metaforico, cioè la difficoltà avvertita soprat-
158
tutto dalle nuove generazioni di relazionarsi a ciò che le circonda. Ma
la parola, prima di essere una metafora e significare generalmente “confusione”, ha un suo significato letterale che riporta alla perdita
dell’Oriente e degli altri punti cardinali, cioè alla cognizione della propria posizione nello spazio fisico e geografico. Quella bussola che sembrava alloggiare naturalmente nella testa del Marciano e che lo faceva
procedere senza esitazioni in un territorio sconosciuto, sembra mancare oggi fra le facoltà di cui disponiamo forse in modo naturale da sempre, come ne dispongono molte altre specie animali che la usano ai fini
della sopravvivenza.
Se si esegue un test per verificare quanti oggi sono in grado di stabilire senza difficoltà la direzione in cui si trova un altro punto del centro abitato oppure il mare o un’altra città vicina, ci si renderà conto di
quanto sia diffusa questa carenza. Per muoversi a piedi nella città ci si
comporta come se si fosse affetti da una sorta di miopia: si fa affidamento alla conoscenza di tanti micropercorsi messi in relazione dalla
dislocazione degli edifici, dei negozi o dei monumenti, ignorandone
però la disposizione nella pianta generale della città e nell’area geografica in cui il tutto è collocato. In automobile, poi, guidando nelle strade
extraurbane, procediamo per lo più seguendo in modo passivo le indicazioni della segnaletica stradale o di determinati strumenti tecnologici
di ricognizione territoriale, come i navigatori satellitari o le mappe informatiche. Nelle grandi città l’uso dei mezzi pubblici, come i taxi, le
metropolitane o gli autobus, contribuisce a questa progressiva atrofizzazione o perdita del senso naturale dell’orientamento.
Si può dire che da qualche decennio stiamo demolendo quella nostra
facoltà acquisita in lunghi millenni trascorsi nella condizione di nomadismo e che presupponeva un intimo rapporto con l’orientamento non
solo terrestre ma anche, addirittura, cosmico.
Anche la pertinenza individuale dello spazio, cioè la coscienza della
sua quantità a disposizione di ciascun individuo (e, di conseguenza,
quella a disposizione degli altri), va progressivamente perdendosi e in
tal modo si perde anche la coscienza, un tempo avvertita come un dato
di fatto, dei diritti e dei doveri che si possono legittimamente esercitare
sullo spazio stesso. Oggi ci si aspetta che anche questi diritti vengano
regolamentati da norme imposte e fatte rispettare dai tutori della legge.
159
Si sorvola così con troppa leggerezza sulle leggi della prossemica173
che regolano e culturalizzano le distanze fisiche fra gli individui in funzione dei loro reciproci rapporti ed evitano l’insorgere di equivoci o di
contese. È l’inosservanza di queste “leggi della distanza” che può provocare, per esempio, il disagio e le assurde contese che insorgono spesso durante l’ammassamento forzato dovuto alle code nei pressi degli
sportelli pubblici, durante i grandi eventi sportivi o spettacolari, all’interno dei mezzi pubblici di trasporto, sulle spiagge in piena estate, eccetera. Tutti, qualche volta, abbiamo assistito alle rimostranze di qualcuno
in seguito alla violazione dei propri confini spaziali. La ragione di questi atteggiamenti la si attribuisce di volta in volta alla maleducazione, ad
“antipatie personali”, a “razzismo” o ad altre intolleranze di varia natura. Molto più banalmente, spesso si tratta invece della scarsa considerazione di queste “leggi di distanza” che, per l’ancestralità della loro origine e per il valore che esse assumono anche presso altre specie animali, possiamo considerare “naturali”.
La confusione a questo proposito viene ulteriormente aggravata
quando l’aspetto del territorio che ci circonda cambia bruscamente e
impone una rapida ridefinizione di diritti e di doveri saldamente radicati nella tradizione. Facciamo ancora riferimento a quei tanti spazi, tradizionalmente comuni e pubblici, che vengono di colpo interdetti oppure il cui uso passa ad essere subordinato al pagamento di una tariffa. È
ovvio che in queste circostanze si avverte un senso di frustrazione, di
espropriazione e, in ultima analisi, di disorientamento. È ciò che succede quando non si può più parcheggiare dove si era sempre parcheggiato liberamente, fare il bagno con la famiglia in un tratto di costa che “da
sempre” era stato considerato “proprio”, passeggiare in compagnia su
un tratturo o in un campo che sappiamo in questo momento essere
pieno di asparagi o di funghi.
173
E. Hall, Il linguaggio silenzioso, Garzanti, Milano 1972.
160
Viaggiare
Al viaggiatore viene richiesta una particolare attenzione riguardo
all’orientamento e al rispetto della pertinenza territoriale. Almeno nel
corso di un viaggio tradizionalmente inteso perché, con la modernizzazione, anche il senso di quest’attività risulta completamente cambiato.
Il viaggio è, per i dizionari, un giro più o meno lungo, attraverso luoghi o paesi diversi dal proprio, con soste e permanenze di varia durata,
per vedere, conoscere, imparare e divertirsi. Ma questa definizione corrisponde più al viaggio antropologico che al viaggio-turismo odierno.
Questo è oggi è associato più direttamente a concetti molto diversi come
quelli di mercato e di consumo, originariamente estranei al viaggiare. È
a questi concetti che fanno riferimento espressioni correnti del tipo: «Per
il ponte del primo maggio sto cercando di acquistare un viaggio low cost;
mi hanno offerto un pacchetto molto conveniente, sette giorni e cinque
notti in vip class, inclusa la visita ai musei, l’ingresso in discoteca e l’accompagnamento di una guida locale». Poco importa, poi, se la destinazione di questo viaggio sarà la Valle dei Templi o se, all’ultimo momento, il viaggiatore sarà dirottato in una qualche isola dell’Oceania o dei
Caraibi. Un viaggio oggi, in periodo postmoderno, risulta interscambiabile con un altro, purché abbia lo stesso valore di mercato.
Il viaggio turismo si è configurato in tal modo al sopravvenire di quel
processo ultimo di modernizzazione per il quale Marc Augé174 ha coniato il termine di “surmodernità”. Tale processo, che investe in realtà tutti
gli aspetti del sociale, si caratterizza (ed è ciò che qui ci interessa) per
la sua imprescindibile esigenza di trasformare i territori che investe
ignorando le conseguenze che queste trasformazioni ingenerano nell’assetto e culturale. Per definire questi cambiamenti l’antropologo francese ha coniato, parallelamente, anche il concetto di nonluogo a cui qui
faremo riferimento nel tentativo di definire quanto sta succedendo nel
Salento a tal proposito.
174
M. Augé, Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità, 1993;
Disneyland e altri non luoghi, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
161
Preliminarmente riteniamo utile riassumere alcuni degli elementi che,
per Augé, caratterizzano il nonluogo ma, naturalmente, rimandiamo ai
suoi scritti per una conoscenza esaustiva dell’argomento.
Un luogo antropologico viene trasformato in non-luogo
quando si cancellano da esso o, comunque, si offuscano
snaturandoli, i segni della memoria che lo caratterizzano e
che ne costituiscono la storia e, per così dire, la personalità. La memoria di un territorio è rappresentata da almeno
due tipi di segni: quelli che rimandano alla sua natura fisica, e quelli conseguenti alla presenza dell’uomo su di esso,
che è stata, fino all’inizio del processo di modernizzazione,
discreta e rispettosa nei riguardi della natura fisica dello
spazio.
Il primo tipo di segni esprime la contestualità di un territorio con il resto del paesaggio, come l’andamento del
suolo, il tipo di vegetazione conseguente al clima e alla stagione, la presenza o l’assenza di acqua, la varietà della flora
e della fauna.
Il secondo tipo di segni esprime la storia del luogo e
quella dei suoi abitanti e si ravvisa nella scelta dei materiali utilizzati per la costruzione degli edifici, nel modo di marcare i confini, nell’andamento delle strade, nella tutela degli
elementi monumentali...
I non-luoghi sono destinati, per lo più, ad un uso pubblico, con la finalità del commercio e, quindi, del profitto da
parte di qualcuno, che raramente è un nativo del posto. Il
più delle volte, anzi, per fruire degli spazi, i nativi sono
costretti a mettere da parte la loro identità e assoggettarsi
alle regole (e alle tariffe) modulate sulla disponibilità dei
frequentatori esterni.
Sono spazi per il cui arredo vengono impiegati materiali
immediatamente riconoscibili come moderni e omologati,
spesso di provenienza industriale e, comunque, non tradizionali del posto.
Tendono alla realizzazione di un clima e di un ambiente
(intesi sia come temperatura e umidità dell’aria, sia come
162
comportamento sociale) neutro, medio, artificiale, totalmente controllato e privo di reali rapporti con i luoghi esterni e
contigui.
I comportamenti umani nei non-luoghi sono altrettanto
controllati quanto il clima e i gestori si servono, per regolarli, di voci preregistrate, di telecamere di controllo, di cartelli opportunamente disposti e, quando tutto questo non
basta, di un personale di sorveglianza. C’è una sorta di contratto che l’utente del non-luogo sottoscrive tacitamente al
momento del suo ingresso, con cui ammette di poter
disporre di quello spazio a patto di farsi riconoscere come
un potenziale acquirente che sa attendere il proprio turno e
attenersi alle istruzioni.
Il Salento dei nonluoghi
Sono queste, in sintesi, le caratteristiche dei grandi e piccoli supermercati, degli aeroporti e, in generale, dei grandi luoghi di frequentazione pubblica che caratterizzano il mondo occidentale come anche,
cosa che riguarda particolarmente il territorio salentino, dei villaggi di
vacanza, dei campeggi, delle spiagge, dei centri sportivi e di ricreazione, diurna e notturna. Con tali caratteristiche li vuole l’industria del turismo e con questo aspetto si diffondono, come una pervasiva macchia
d’olio, anche in questa subregione d’Italia.
Gli abitanti, da parte loro, non sono chiamati a decidere su nulla e
sono costretti ad accogliere con rassegnazione la trasformazione del
loro tessuto territoriale in un nonluogo. Le agenzie territoriali, quelle
pubbliche e quelle private, sono obbligate ad adeguarsi agli standard
richiesti dal turismo e promuovono il territorio a gran voce, applicando
ad esso le etichette che si mostrano, di volta in volta, più efficaci per
l’espansione o il mantenimento del mercato. È così che, a dispetto della
sua storica specificità, il Salento diventa con disinvoltura:
la “Giamaica a portata di mano”, in riferimento al successo nazionale ottenuto da alcuni gruppi musicali locali nel panorama della musica
raggamuffin con, in testa, i Sud Sound System.
I “Caraibi dietro l’angolo”, per i suoi 270 chilometri di litorale bagnabile.
163
Le “vicine Hawaii”, Per le condizioni di mare e di vento del Canale
d’Otranto, particolarmente adatte alla pratica del windsurf e del kitesurf.
Il “Museo en plein air”, per l’abbondanza dei suoi siti archeologici, di
chiese e di monumenti.
Il “paradiso dell’apprendista etnologo”, per essere la culla del tarantismo
e, soprattutto, della musica legata a questo specifico istituto culturale.
Il viaggio-turismo non ha più come obiettivo la scoperta e l’osservazione discreta di un territorio con le sue storiche caratteristiche fisiche
e antropiche, ma esige il riscontro delle sue aspettative standardizzate e
la corrispondenza del prodotto con il prezzo pagato all’atto della prenotazione della vacanza. Il turista-viaggiatore-consumatore, per il fatto di
essere pagante, pretende di trovare nella sua destinazione gli standard
a cui è abituato e a cui non è disposto a rinunciare.
L’opposto del nonluogo è il luogo antropologico, caratterizzato dall’essere identitario, relazionale e storico. Il territorio salentino, che inizialmente intendeva imporsi sulla scena turistica proprio perchè possedeva, più di altri, queste specifiche caratteristiche, di fatto ha finito con
l’accettare, più o meno consciamente, le regole di un percorso obbligato che mercifica e sminuisce gradualmente la sua identità, la sua capacità di relazionare le persone e la sua storia.
In tutto questo non c’è necessariamente una cattiva fede né nel viaggiatore-turista né nelle agenzie territoriali perchè entrambi sono impotenti nei riguardi di mode e di regole economiche che hanno ragioni
lontane e che non permettono nessun controllo all’utente terminale.
Questo, tuttavia, non ci esime dal considerare gli effetti della trasformazione dei luoghi antropologici in nonluoghi e, in rapporto di causa e di
effetto, del viaggiatore in non-viaggiatore.
Il viaggiatore antropologico e il non-viaggiatore
Servendoci di un calco linguistico operato sui termini dell’opposizione luogo antropologico / nonluogo, possiamo definire il viaggiatore tradizionale un “viaggiatore antropologico” e il viaggiatore-turista della
surmodernità un non-viaggiatore.
Il viaggiatore antropologico, abbiamo detto, si caratterizza per una
164
sua disposizione discreta e attenta nei riguardi del territorio, della sua
storia e della sua memoria. Gli piace esercitare determinate sue attitudini che coltiva e alle quali dà molto peso come l’orientamento, la capacità di stimare le distanze, l’altimetria e il tempo necessario alla percorrenza e partecipare personalmente al superamento delle difficoltà. Per
lui è indispensabile soddisfare la sua curiosità nei riguardi degli altri e
coltiva la possibilità di migliorarsi nel confronto con essi. Così ci appare il Marciano, viaggiatore premoderno, e nella stessa maniera si comportano tutti i protagonisti della cosiddetta letteratura di viaggio.175
Il non-viaggiatore, invece, tende a recarsi in un nonluogo ignorandone le caratteristiche geografiche, storiche e culturali e sta attento,
soprattutto, a verificare la corrispondenza di ciò che incontra con quello che preventivamente già sa. Una volta acquistato il biglietto d’aereo
(o del treno, o dell’autobus, o del traghetto), sale sul mezzo di trasporto e si proietta già, mentalmente, nel nonluogo sua meta. Se può, pre-
175 I racconti di viaggio rappresentano un genere letterario antichissimo. Il viaggio per
mare di Ulisse, con la descrizione delle relative peripezie fatta dal protagonista alla corte
di Alcinoo, che costituisce il nucleo dell’Odissea, si inserisce anch’esso in un genere letterario che gli preesisteva e di cui abbiamo il primo esempio nel Racconto del naufrago della letteratura dell’antico Egitto (la datazione del testo risale, circa, al 2000 a.C.).
Altre avventure vissute in viaggio sono narrate nel Rapporto di Unamon composto,
sempre in Egitto, tra il 945 e il 715 a.C.
Un interesse antropologico vero e proprio anima poi le Storie di Erodoto che, nel V sec.
a.C., descrive le vicende dal punto di vista di uno che viaggia per l’Egeo e per l’Asia
Minore del suo tempo.
Trasvolando nei secoli e citando solo le opere più rappresentative di questo genere letterario incontriamo, nel Medioevo, il Milione del mercante veneziano Marco Polo che
venne stampato, due secoli e mezzo dopo la sua composizione, nella raccolta di opere
di viaggiatori Delle navigationi et viaggi, a cura dell’editore Giovanni Battista Ramusio.
Numerosi sono poi (e arrivano fino alle soglie del Novecento) i racconti delle peripezie vissute da persone catturate e ridotte in schiavitù dai corsari come le Avventure di
uno schiavo dei turchi di Andres Laguna o il Ragguaglio compendioso di un dilettante
antiquario sorpreso dai corsari e condotto in Barberia e rimpatriato di Felice Caronni,
che è del 1805. Un intero capitolo delle Memorie di G. Garibaldi si intitola Viaggio in
Italia, e letteratura di viaggio in senso lato si possono considerare anche tutte le relazioni amministrative, militari e diplomatiche, così come i Diari di bordo dei comandanti delle navi.
165
ferisce dormire durante il tragitto, oppure leggere, vedere un film o fare,
comunque, qualsiasi cosa che, per quel tempo e in quello spazio, lo
distragga. Si disinteressa così completamente di tutti gli aspetti del territorio che percorre nel recarsi verso la sua destinazione. Non avverte
(e non può avere) alcuna responsabilità nella scelta del percorso, non
può e non deve prendere parte alle difficoltà da superare per compierlo a buon fine.
Conserva questo atteggiamento di totale “deresponsabilizzazione”
anche nel caso in cui egli, per viaggiare, utilizza l’automobile e persino,
paradossalmente, quando è lui stesso a guidare. Il viaggiatore-guidatore, in questo caso, non deve far altro che assecondare le scelte che altri
gli propongono e delle quali si deve fidare ciecamente. Altri hanno
disposto sulle strade la segnaletica variamente colorata che, fin dal suo
punto di partenza, gli indica in maniera ridondante il percorso da seguire. Altri si sono preoccupati di segnalare a quale velocità gli conviene
viaggiare. I punti di ristoro, di rifornimento e di pernottamento sono
tutti bene in evidenza e disposti sui bordi delle strade. Non c’è più bisogno di attraversare i centri abitati, di affrontare l’incontro con altri esseri umani per chiedere indicazioni o conferme sulla direzione da prendere, di capire la lingua o il dialetto che si parla nell’area in cui ci si
trova. Si raggiunge il massimo di questa forma di autosufficienza (ma,
insieme, di isolamento antropologico) se si dispone di un navigatore
satellitare o di altro strumento che si preoccupa di scandire continuamente la direzione e di suggerire anche le diverse opzioni.
Questo modo di viaggiare, sicuramente moderno e contestuale a una
serie di altre occorrenze, non rappresenta comunque un buon esercizio
per lo sviluppo del senso di “orientamento” e di quello della “responsabilità” e corrisponde perfettamente al disorientamento, allo spaesamento e all’irresponsabilità sociali spesso denunciati come gravi motivi
di allarme.
166
Orientamento e appaesamento in Ernesto de Martino
L’idea di progresso che implicava che il dopo potesse spiegarsi
in funzione del prima si è in qualche modo arenata sugli scogli del XX secolo con la scomparsa delle speranze o delle illusioni che avevano accompagnato la grande traversata del XIX
secolo.
Le atrocità delle guerre, dei totalitarismi e delle politiche di
genocidio non testimoniano certo un progresso morale dell’umanità.
M. Augé
In contrasto con le prospettive escatologiche (che hanno sempre accompagnato i momenti di crisi delle società), l’attuale
congiuntura culturale dell’Occidente affronta il tema della
fine del mondo al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di
salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del
domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una
catastrofe che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, lo
spaesarsi dell’appaesato, il perdere di senso del significante,
l’inoperabilità dell’operabile.
Senza dubbio l’attuale congiuntura culturale dell’Occidente…
Reagisce variamente al suo mortale richiamo: tuttavia il
momento dell’abbandonarsi senza compenso… Costituisce
innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca,
del che possono testimoniare molteplici documenti tratti dal
costume, dalla letteratura, dalle arti figurative, dalla musica,
infine dalla stessa filosofia.
E. de Martino
Con queste premesse non si fa affatto fatica a mettere in relazione la
perdita della capacità di orientarsi con la “caduta dell’orizzonte etico” di
cui parla Enesto de Martino nei suoi appunti per La fine del mondo.176
L’orientamento spaziale è alla base di quello generalmente culturale che
176
E. de Martino, L’apocalisse dell’Occidente, in: La fine del mondo, Einaudi, Torino 2002.
167
egli definisce meglio col termine di “appaesamento” e che contrappone
apocalitticamente alla patologica confusione totale e alla “perdita di presenza” individuale e sociale. La carenza di questo senso di appartenenza reciproco fra l’uomo e lo spazio, egli dice, affiora costantemente
ogniqualvolta una società si trova ad attraversare un periodo critico.
Dovrebbe almeno sorgerci il dubbio che quello che stiamo attraversando sia realmente un periodo di crisi, durante il quale fare particolarmente
attenzione a tutto ciò che può indurci allo spaesamento e alla schizofrenia.
Il disorientamento territoriale, quello a corto raggio, che interessa lo
spazio che ci circonda più immediatamente si inserisce, inoltre, in un
disorientamento più ampio che ci fa sentire estranei al nostro stesso pianeta e ci porta a disinteressarci del suo stato di salute. Procedendo
ancora oltre si può parlare anche di un disorientamento nei riguardi
dello spazio cosmico che impedisce di approfondire la propria relazione con le coordinate celesti e con l’assoluto. Perdendo la nostra capacità di relazionarci con gli spazi più profondi, stiamo bruciando quei
ponti ancestrali faticosamente edificati fra noi e il Divino, e ci stiamo
condannando alla totale ignoranza delle costruzioni mitologiche e religiose su cui abbiamo fondato l’ethos.
Partiamo, per sottolineare l’importanza che merita un problema di
questo genere, dagli assunti dello stesso E. de Martino laddove egli
mette in stretta relazione la condizione psicopatologica dell’individuo
(come la schizofrenia o le varie forme di delirio) con lo stato di “malattia” in cui viene a trovarsi una società durante i suoi ricorrenti periodi
di crisi e, in particolare, la società euro-occidentale in seguito alla sua
modernizzazione. Se è vero che le “crisi di presenza” (quelle che subisce l’individuo e, parallelamente, quelle che accusa il corpo sociale) si
manifestano col venir meno dell’élan vitale, è ancor più vero che le
cause scatenanti di tali crisi risiedono fondamentalmente nella mancanza di un’altra spinta, l’élan morale, nei soggetti ammalati. La stabilità
sociale del genere umano è in funzione della sua spinta a ricercare quei
fondamenti morali capaci di orientare positivamente le sue attività. Lo
slancio vitale, invece, è un istinto comune anche agli altri animali.
La sirena d’allarme di E. de Martino sul crollo di questo slancio morale porta la data dei suoi ultimi anni di vita, cioè della prima metà degli
anni Sessanta. Lo storico delle religioni non è vissuto abbastanza da
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poter verificare quanto fossero giustificate le sue preoccupazioni e come
il passare del tempo gli stia dando ragione fin nelle sue peggiori aspettative. La società occidentale, che egli vedeva allora già proiettata verso
la schizofrenia e il delirio, ha fatto passi da gigante in questa direzione,
arrivando ad eleggere proterviamente a norme sociali molti di quei comportamenti che, per la loro incongruenza, al suo tempo egli considerava
potenzialmente patologici e deliranti. De Martino si sbagliava quando
pensava che il crollo verticale dello slancio morale avrebbe portato in
breve il genere umano ad autodistruggersi per mezzo della sua stessa
tecnologia e, in particolare, per mezzo della bomba atomica. Oggi possiamo correggere questa sua ipotesi nel senso che il cammino che conduce verso la “fine del mondo” ha preso, in realtà altre direzioni: quelle
del trionfo del paradosso nel campo della logica e della liceità incondizionata in quello della morale. Resta valida la sua previsione sulla condizione gravemente patologica della società occidentale che non risparmia quotidianamente manifestazioni di schizofrenia e di delirio.
Non avendo trovato spazio la sua proposta di una seria diagnosi da
condurre con strumenti interdisciplinari (né tantomeno, quindi, una
qualche conseguente terapia riparatoria), la società “ammalata” di tali
disordini comportamentali è destinata ad un inevitabile aggravamento
del suo stato.
Condividiamo il disagio espresso dallo stesso de Martino nel pronunciare tali previsioni allarmistiche ma, con lui, siamo convinti che non sia
molto più produttivo far finta che la malattia non esista e recitare collettivamente un falso ottimismo privo di fondamenti.
169
Appendice
Tradizione, teatro e viaggio, miti (racconti)
degli anni Settanta
La Storia accelera e ci insegue come la nostra ombra. Oggi gli
anni recenti, gli anni Sessanta, i Settanta, gli Ottanta, raggiungono la Storia con la stessa velocità con cui erano sopraggiunti.
M. Augé
In questa appendice riporto, in forma di racconto, alcune mie
esperienze di viaggio che hanno avuto luogo nel corso degli anni
Settanta.
Allora avevo circa vent’anni e per me, come per tutti i miei
coetanei, il viaggio (il mitico trip) riempiva completamente i territori dell’immaginario. Viaggiare voleva dire esercitare il diritto di
ampliare i propri orizzonti, di imparare altre lingue, di confrontarsi con gli altri. Un diritto che prima di allora era stato riservato alla
sola borghesia e che in quegli anni veniva rivendicato come
un’esigenza di tutti. Per chi era nato in provincia, poi, viaggiare
voleva dire anche interrrompere quella condizione di immobilismo culturale che aveva caratterizzato le vite dei padri e che era
durato fin troppo a lungo. Ascoltando in chiesa la lettura dei passi
del Vangelo, io non dovevo fare alcuno sforzo ad immaginare
Cristo seduto sull’orlo del pozzo che avevo sotto gli occhi, oppure passare dietro quel muretto a secco che portava alla masseria.
Mi sembrava di trovarmi nello stesso mondo polveroso, percorso
a piedi scalzi, di ascoltare lo stesso ronzio di mosche che animava l’aria silenziosa. Basta! Era ora di interrompere questa separazione fra il mondo veloce dei cinegiornali e della televisione e la
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tua terra che restava ferma in una situazione biblica. Era ora di
alzarsi dalle poltroncine del cinema e di entrare a mischiarsi con
quello che veniva proiettato sullo schermo!
Le tradizioni da cui ci si staccava nella pratica, però, non dovevano andare perdute. Il dialetto e i diversi aspetti della Cultura
Popolare dovevano diventare anch’essi uno strumento di questo
avanzamento che era anche riscatto sociale ed economico.
Il Teatro, poi, visse allora una stagione felicissima, diventando
lo strumento espressivo più in uso da parte delle varie aggregazioni giovanili. Fare teatro e partecipare a manifestazioni teatrali
fece parte per un decennio della liturgia del “Movimento” protagonista di ogni cambiamento.
Quelle che qui racconto sono indubbiamente vicende personali, ma trovano la loro giustificazione in questa sede perchè sono
avvenute in un momento particolare della storia di questo territorio. Proprio in quegli anni (con un certo ritardo rispetto
all’Occidente più avanzato o ad altre regioni d’Italia) il Salento
attraversava quella fase di passaggio che portava alla modernità.
Il racconto delle mie esperienze fornisce un’istantanea di quel
rapido momento in cui il paesaggio, la viabilità e i comportamenti umani smettevano di essere quelli di sempre, nei quali avevano
avuto luogo sia i viaggi degli apostoli che quello del Marciano.
C’è chi mostra fin da piccolo la passione per i trenini, per il pallone,
per i fucili, per le bambole o la propensione per un certo sport. Io invece, fin da quando avevo due anni, mi raccontano e mi ricordo vagamente, ho giocato soprattutto con la lingua (allora conoscevo solo il dialetto) e, in particolare, con le parole. Ne ripetevo il suono ad alta voce
(per la gioia dei miei familiari!) e le elencavo distinguendo quelle dure
da quelle morbide, quelle magre da quelle grosse, quelle maschili da
quelle femminili. Non mi spiegavo, fra l’altro, come mai certe cose,
quando diventano grosse, cambiano di genere. La mela, per esempio,
era chiaramente femmina, ma il melone, invece, era indubbiamente
maschio; ugualmente succedeva per la petra-pietra che era femmina
ma, quando diventava cute-grossa pietra, si cambiava in maschio.
Dovevo essere un tormento! Chiedevo poi insistentemente la ragione di alcuni miei dubbi: perché la nuvola è femmina nonostante che
171
molte volte ha la forma mascolina di una grande faccia con la barba, o
quella di un albero o di un cavallo? Forse se, invece di implorarmi di
stare zitto per un po’, mi avessero incoraggiato in quelle mie riflessioni, avrei finito per riscoprire il genere neutro dei nomi oppure il numero duale. Chissà…
Mi ricordo che, verso i quattro anni, pretendevo che mia sorella, nata
da pochi mesi, arrotasse bene la lettera erre, perchè non poteva dire
luota o calta se voleva dire ruota o carta.
In quinta elementare il maestro Scardino (un maestro socialista, raro
per quei tempi, che orientava la sua didattica coltivando argomenti della
cultura locale e popolare) ci fece fare una ricerca su un poeta dialettale nato a Cavallino, ad un paio di chilometri da San Cesario, dove io
vivevo: si trattava di Giuseppe De Dominicis, meglio conosciuto con lo
pseudonimo di Capitano Black. Andammo anche nella piazzetta del suo
paese per vedere il busto di pietra che stava su una colonna. Conservo
ancora la vecchia edizione del 1954 delle sue Poesie e me la ritrovo tutta
sottolineata e spaginata perché chiedevo continuamente conto di ogni
termine che non capivo ai miei genitori o agli altri grandi.
Questa mia curiosità per il dialetto, chissà perché, si estese presto, in
tempi assolutamente non sospetti, anche agli altri aspetti della cultura
popolare che, proprio in quegli anni (per sapere a quali mi riferisco si
tenga conto che sono nato nel 1950), veniva invece bruscamente messa
a tacere dalla cultura moderna, promossa dalla scolarizzazione di massa
e dalla televisione.
Infatti, appena in età di scuola media, registrai su un “Geloso” dai
grandi tasti colorati, la mia prima bobinetta di canti popolari da inviare
a Susa, in Piemonte, per far sentire la voce dei suoi familiari ad un vicino di casa che era carabiniere e abitava lì.
Intorno ai vent’anni, ormai all’università, cosciente del valore culturale e politico che aveva quel mio interesse, lo sviluppai prendendo
parte attiva ad una campagna più o meno sistematica di raccolta della
tradizione musicale e canora del Salento. Contribuii anche a diffondere
i risultati di questo lavoro di ricerca suonando e cantando i brani popolari in una formazione musicale, il Gruppo Folk Salentino, che divenne
poi Nuovo Canzoniere del Salento. Unendo il repertorio popolare agli
172
inni di lotta ci esibimmo per alcuni anni sui palchi sconnessi di tutte le
feste dell’Unità del Salento.
Subito dopo, quando da folksinger decisi di diventare un teatrante di
strada, ripresi in mano il libro delle Poesie di De Dominicis. Dai Canti de
l’autra vita, una sorta di Divina Commedia in dialetto Leccese, trassi uno
spettacolo dal titolo I Dannati che, nel contesto della lotta di classe che
urgeva in quel momento, portammo in giro per la Puglia nei circuiti del
Movimento (scuole e fabbriche occupate, e sedi di collettivi).
In breve divenni un punto di riferimento per l’ala creativa del
Movimento leccese e una figura di responsabilità per la nascita del
Teatro di Gruppo e del Teatro di Figura nel mio territorio: diedi vita al
Teatro Infantile di Lecce – Burattini, Pantomime e Jazz.
Allora le cose si facevano sul serio! Noi, come tanti altri gruppi teatrali in Europa e nel mondo, ci mettemmo seriamente alla ricerca dell’ambito di lavoro più adatto alle nostre intenzioni. Lo individuammo
consensualmente nei temi delle fiabe tradizionali, da mettere in scena
con le tecniche del Teatro Popolare. Ne nacque quel Nuovo Teatro
Popolare che, dagli Stati Uniti alla Spagna, dalla Polonia alla Finlandia,
dall’India al Giappone, fece rinascere burattini e marionette, mangiafuoco e clowneries, musica di strada e illusionismo.
Alcune fortunate coincidenze ci hanno portato a conoscere molti di
questi gruppi e a condividere anche con essi il palcoscenico. Faccio i
nomi solo di quelli più importanti che, nonostante la loro conclamata
grandezza, non hanno esitato a mescolare le loro esperienze con le realtà teatrali più periferiche come la nostra: l’Odin Teatret, il Living
Theatre, il Bread and Puppets e Els Comedians.
Una parentesi: le forme teatrali prese in considerazione dal
nostro movimento erano proprio le stesse a cui poteva aver fatto
riferimento anche il Marciano. Decidemmo di approfondire, infatti, proprio quelle tecniche che, nate e sviluppatesi in occasione
dei momenti di svago dei contadini e degli artigiani a partire già
dal Medioevo per opera dei menestrelli, si diffusero poi, particolarmente in Italia, ma anche in tutta Europa, proprio fra il
Cinquecento e il Settecento ed erano, quindi, al massimo della
loro vitalità ai tempi del Viaggio. Le fiere a cui allora si poteva
assistere comportavano in ogni angolo la presenza di cantori,
173
ammaestratori di animali, buffoni, ciarlatani, pagliacci, comici, virtuosi spadaccini, prestigiatori, giocolieri, saltimbanchi, strumentisti, funamboli, acrobati, cavadenti e affini. Tutte figure teatrali di
cui, negli anni Settanta, abbiamo tentato la rivitalizzazione.
La rivisitazione della tradizione teatrale popolare estese ben
presto il suo campo di interesse anche oltre i confini della cultura europea e occidentale e rivolse la sua attenzione verso le culture altre, segnatamente verso quelle orientali. Questo viaggio
nella geografia, accanto a quello percorso nella storia, fornì i
caratteri ad un nuovo linguaggio teatrale, destinato a quella classe che, negli stessi anni, faceva rumorosamente sentire la sua voce
nel panorama storico e sociale.
Eugenio Barba, maestro di noi teatranti in ciò, ha contribuito
a definire i contorni di questo Nuovo Teatro dandogli il nome di
Teatro Antropologico. Ne ha teorizzato la fisionomia attraverso i
suoi numerosi saggi177 e ne ha esteso la metodica e l’efficacia con
la fondazione dell’I.S.T.A., Scuola Internazionale di Teatro
Antropologico, e attraverso svariate sue sessioni itineranti nel
mondo.
Ancora una volta sono stato fortunato per essere stato chiamato (con il mio gruppo teatrale) dallo stesso Barba a contribuire alla
gestazione di questa sua importantissima istituzione e per averne
potuto seguire l’evoluzione prendendo parte ad alcune sessioni
della suddetta scuola.
Gli attori a cui si ispirava il nostro movimento erano soprattutto girovaghi, e questo fatto ci affascinava in modo particolare perché veniva a
coincidere con quello che era il mito per eccellenza della mia generazione, il trip e la voglia incontenibile di viaggiare e di incontrare gli altri.
Per quanto mi riguarda, forse ho deciso di dedicarmi al teatro proprio per questo: perché così avrei potuto continuare a dare sfogo alla
177
E. Barba, Al di là delle isole galleggianti, Ubulibri, 1985; La canoa di carta, trattato
di antropologia teatrale, Il Mulino, 1993; L’arte segreta dell’attore, un dizionario di
antropologia teatrale, Argo, Lecce 1997.
174
mia patologica voglia di fare i bagagli e di sentirmi utopisticamente
nella dimensione del girovago e del nomade.
È vero che la mia generazione è cresciuta nutrendosi di ideologie e
di filosofie che alimentavano ed esaltavano la necessità del viaggio.
Durante la mia adolescenza Bob Dylan cantava il mito degli hobos, i
vagabondi americani che saltavano sui treni in corsa e viaggiavano
senza meta da una sponda all’altra del continente. Più grande ho subito, come tutti i miei coetanei, il fascino di On the road, il romanzo di
Jack Kerouac, “vangelo della beat generation”. Nel corso degli anni
Ottanta venivano pubblicati in Italia i saggi e i romanzi con cui Bruce
Chatwin affermava l’imprescindibile necessità del nomadismo, da lui
ritenuto un “vizio ancestrale”, impossibile da abbandonare repentinamente senza risentirne in termini di stress e di frustrazioni. Ma è pur
vero che io, da piccolo, ignoravo le idee di questi signori e tuttavia, già
da allora, sognavo di allontanarmi da casa per sperimentare personalmente come era fatto il mondo. Inoltre, ne ero certo, anche il mondo
era ansioso di conoscere me.
Fino all’età di sedici anni mi sono dovuto accontentare di esplorare
la campagna attorno al mio paese facendo lunghe camminate a piedi o
in bicicletta durante i pomeriggi estivi, quando tutti tentavano di sopravvivere al caldo torrido stendendosi su un letto nella stanza più fresca
della casa. Io invece, con un branco di miei coetanei refrattari al sonno,
mi cuocevo al sole, e andavo in esplorazione nelle campagne della periferia, alla scoperta di frantoi semicrollati (i trappìti spunnati), di cave
dismesse piene di vegetazione intricata e di animali veri e immaginari
(l’inferno verde), al buio dei canaloni sotterranei per lo scolo delle
acque piovane, superando coraggiosamente ostacoli insidiosi come
ragnatele, nuvole di moscerini e grovigli di rami secchi.
La bicicletta, come mezzo per fare un vero viaggio (perché quando
si viaggia veramente bisogna dormire fuori di casa), l’ho ripresa da grande, intorno ai trent’anni. L’ho attrezzata di due portapacchi e l’ho imbarcata con me sulla nave per Egoumenitza, in Grecia. Lì ho scoperto a mie
spese perché le biciclette sono diffuse soprattutto nei paesi bassi e pianeggianti (come l’Olanda e il Salento): nessuno utilizza il podylato per
175
andare da Egoumenitza a Preveza o per spostarsi sull’isola di Itaca. Per
superare i valichi di quelle montagne a strapiombo sul mare devi sudare per ore e, durante la discesa, che dura un attimo, i sudori ti si congelano addosso.
Quando compii sedici anni presi il patentino e potei utilizzare, anche
fuori paese, il guzzino di mio fratello maggiore. D’estate, con altri motorini di amici, andavamo quasi quotidianamente al mare: a Torre
dell’Orso o alla grotta della Poesia di Roca. Con quel mezzo, con cui mi
sentivo di poter andare anche in Cina, feci prima le prove generali e poi
anche il primo vero viaggio (dormendo fuori di casa). Il Cardellino
aveva solo un motore di 73 c.c. ed era stato concepito dai suoi costruttori in sostituzione del mulo, per fare piccoli spostamenti dalla casa alla
campagna. Ma io, forse per la smodata fiducia nel progresso e nella tecnica che negli anni Sessanta mi infondevano a scuola, lo pensavo capace di camminare all’infinito.
Un giorno di settembre, infatti, arrivai a Torre dell’Orso, ma non mi
dovevo fermare lì a fare il bagno, e nemmeno alla vicina grotta della
Poesia. Avevo deciso che avrei continuato: volevo andare a trovare due
mie amiche che facevano la quindicina a Santa Cesarea Terme. Avevo
guardato la carta geografica e sapevo che, costeggiando il mare, avrei
trovato prima Otranto e poi Santa Cesarea. Perché no? Trovavo tutto
bello e diverso, e prendevo appunti su un blocco notes tascabile che
poi portai con me in molti altri viaggi. Ce l’ho ancora e da quello ho
ripescato i particolari di queste note. Annotai la campagna, con le casette isolate tutte identiche, coperte a tegole francesi (seppi poi che quelle abitazioni erano state costruite ed assegnate dall’Ente Riforma dopo
la bonifica delle zone paludose). I Laghi Alimini, con la fontana sulla
strada che buttava sempre, e che serviva ad abbeverare i cavalli e come
punto di ritrovo per le Belvedere dei cacciatori. Otranto, con il ristorante Miramare che aveva i tavolini proprio sul mare, come in certe scene
di film. Poi Porto Badisco, sulla cui insegna arrugginita dalla salsedine
c’era scritto, fra parentesi, “Approdo di Enea”. Che fascino per uno che
fa il ginnasio e ritrova sotto i suoi occhi la conferma del fatto che la
Magna Grecia di cui parlavano le versioni di greco era proprio quella
terra che stava calpestando! E poi Santa Cesarea, rinomato luogo di villeggiatura (infatti c’erano molte ville, anche in stile esotico e moresco).
176
Arrivai a pomeriggio, con la testa intronata dal vento e dalla marmitta
del motorino, e chiesi dove andava la gente a fare il bagno.
Santa Cesarea è alta sugli scogli e non c’è la spiaggia come a Torre
dell’Orso o a Porto Cesareo. La gente stava tutta giù, alle Fontanelle, che
è una specie di cava e, scendendo da una scala cavata nella roccia, si
va al mare.
Ci trovammo, con l’Anna, la Maria Rosaria e con la famiglia. Loro mi
trattarono da eroe perchè avevo percorso tutta quella strada da solo ed
ero riuscito anche a trovarle su quelle rocce piene di asciugamani. Io
feci qualche tuffo dallo scoglio più alto, perché ero abituato a buttarmi
anche dalla parte alta della Poesia, a Roca, che è ancora più alto, e mi
dimenticai di tornare a casa prima del buio.
Quando arrivai era sera tardi, perché a settembre le giornate sono già
più corte. Che casino! Mia madre, confortata da un cerchio di vicine,
stava piegata in due su una sedia e piangeva tirando forte un fazzoletto stretto fra i denti; mio fratello era andato ai carabinieri; mio padre
non ne sapeva ancora niente.
Capii che, prima di ogni viaggio, è bene mettere l’anima in pace di
quelli che si possono preoccupare.
Infatti per il viaggio successivo (questo fu il primo vero viaggio, perché dormii fuori di casa), meno di un anno dopo, alla fine delle scuole, mi inventai una scusa che funzionò: chiesi, come premio per la promozione, di poter andare a Bari, a trovare un cugino della mamma, che
era carabiniere e abitava lì. L’obiettivo mio e di Salvatore, invece, era
di arrivare fino a Napoli, dove non dovevamo fare niente di particolare, ma ci sembrava abbastanza lontano per poter dire a noi stessi che
avevamo fatto un vero viaggio, dormendo fuori di casa.
Io partii a bordo del mio guzzino, a cui avevo modificato il manubrio facendolo di tubo di mezzo pollice, alto e a corna di bisonte come
quello di Easy Ryder. Salvatore con un vecchio Aermacchi 125 di suo
cugino, che eravamo riusciti a far partire dopo anni che era stato fermo
in un sottoscala.
Presi una riga e tracciai, sulla carta geografica, una linea retta che congiungeva il punto di partenza (Lecce, perché San Cesario non c’era sulla
carta d’Italia della Shell) con Napoli. La linea passava prima per Taranto
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e poi, attraverso la Basilicata, toccava Salerno, poi Pompei e poi Napoli.
Dopo anni scoprimmo che nessuno faceva quella strada per andare a
Napoli, che era meglio andare prima a Bari e poi attraversare il valico
appenninico di Ariano Irpino; ma noi vivevamo in pianura e non potevamo
sapere che le strade, nei paesi di montagna, non sono tutte dritte e piane.
Ce ne accorgemmo subito dopo aver lasciato Taranto, dove mangiammo una frisa all’ombra dei grandi serbatoi di ferro vicino alle torri
fumanti dell’Italsider. Il padre di Salvatore aveva un distributore della
Shell, e noi stavamo proprio lì, dove c’era tutta la benzina e tutto il
petrolio del Sud, e forse d’Italia. Le immagini di quel mondo industriale le avevamo viste solo fotografate sull’atlante geografico e appartenevano a quella modernità che, senza conoscere, avevamo descritto ed
esaltato retoricamente a scuola quando, per il concorso, si faceva il
tema sul progresso.
Ce ne accorgemmo, che le strade non sono tutte dritte e piane, quando abbandonammo la jonica a Ginosa Marina per seguire la nostra rotta
che portava a Montescaglioso. Il nome della località avrebbe dovuto
dirci qualcosa ma, nel Salento, per andare a Monteroni, a Montesardo o
a Montesano, le strade erano come tutte le altre: dritte e piane. Invece,
dopo qualche ora di tornanti, il guzzino si fermò perché si era abbrustolita la presa di corrente, un pezzo di bachelite fissato sul volano da
cui usciva il filo della candela.
Ma ormai era buio e la salita non permetteva neanche di andare fino
al prossimo centro abitato a piedi, col motorino a lato. Lì vicino c’era
una capanna, una specie di deposito di attrezzi agricoli, e la porta era
mantenuta chiusa da un filo di ferro. Dormimmo dentro, a terra, avvolti nel plaid scozzese omaggio della Shell. Non sentimmo freddo, ma
dormimmo ugualmente pochissimo a causa dei topi che facevano rumore fra le fascine di legna dietro la testa. Un paio di volte uscii là fuori
per non perdermi niente di quell’esperienza nuova e sospirata (la prima
notte, solo, fuori di casa) e per annotare qualcosa di notevole sul blocco notes. Scrissi pochi versi sulla luna che si specchiava nel pilaccio
accanto alla casa: faceva tanto letteratura, e magari un giorno sarei
diventato poeta e li avrei pubblicati.
Prima dell’alba ero già riuscito a bloccare in qualche modo il filo
della candela così da farle fare la scintilla. Quella riparazione di fortuna
resse per tutto il viaggio fino a Napoli e ritorno.
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Sulla strada per Grassano vedemmo diversi contadini a dorso di
mulo che, seguiti dalla moglie e da una capra (entrambe a piedi), andavano a lavorare nei campi ripidi. Da noi c’erano ancora molti traìni tirati da bestie, ma nessuno si spostava più in sella.
A Tricarico le donne lavavano tutte insieme le lenzuola in una fiumara in piazza, sotto un tegolato basso; sembrava una scena del neorealismo, ma era a colori.
La sera arrivammo a Salerno; per sentirci moderni mangiammo una
pizza e andammo al cinema. Poi alla stazione, per dormire in un vagone tutto spento, lontano dal rumore dei primi binari. Pensavamo di stare
al sicuro su un binario morto e invece, a un certo punto, ci dovemmo
buttare dal vagone in movimento raccattando velocemente, al buio
intermittente dei finestrini, i nostri plaids della Shell e le altre cose.
Stavamo facendo proprio il gesto chiave della liturgia dei vagabondi
americani! Ma io e Salvatore non lo sapevamo ancora; dovevamo solo
recuperare i motorini.
Andammo a Napoli, ci comprammo la lingua di vacca lessa e la limonata da un carretto che te la spremeva davanti a te con una pressa di
alluminio e ci versava l’acqua da un bidoncino di latta. Ci facemmo una
fotografia coi motorini, ai piedi del classico pino a ombrello e con il
Vesuvio in lontananza, e prendemmo la via del ritorno. Avevamo visto
Napoli; ora potevamo anche morire!
La sera dormimmo negli scavi di Paestum, sui gradoni del tempio di
Poseidone. La rete di recinzione era rotta. Quello stava sia sul libro di storia, quando parlava della Magna Grecia, sia su quello di storia dell’arte.
Il ritorno lo facemmo per un’altra strada: attraversammo la Basilicata
prendendo la statale sinnica. Prima di arrivare a Metaponto, vedemmo,
nei pressi di Senise, il cantiere di una grandissima diga in costruzione
(ci dissero che sarebbe stata la più grande d’Europa). Da un giardino ai
bordi della strada attualmente sommersa dal lago artificiale di Cotugno
raccogliemmo alcuni peperoni e li arrostimmo nel carter di alluminio
del guzzino che, anche se era senza manico, era proprio come una
padella per friggere. Sul fondo, a sbalzo, c’era l’aquila, lo stemma della
casa. Poi prendemmo per Taranto e tornammo a casa.
Una volta rotto il ghiaccio ho utilizzato più volte motorini e scooter
per andare, negli anni successivi, a Firenze, ad Atene, a Istambul, ad
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Algeri e in tanti altri posti. Il viaggio più lungo è stato, a bordo di una
Lambretta 125: un giro di oltre settemila chilometri lungo le coste del
Mediterraneo.
I miei viaggi in macchina non meritano particolare attenzione perché
così tutti sono bravi a viaggiare. Ma bisogna fare attenzione perché, con
questo mezzo, si possono percorrere anche decine di migliaia di chilometri senza spostarsi mai da casa, parlando sempre la propria lingua,
ascoltando la propria musica e vedendo il mondo dal parabrezza, senza
neanche sentirne l’odore.
È il caso, invece, di dire qualcosa delle mie esperienze in autostop.
Attraverso di esse io potevo diventare, ai miei stessi occhi, leggendario
come i protagonisti di On the road, I vagabondi del Dharma, Le vie dei
canti o Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Mi risulta
difficile riferire oggi la sensazione che provavo quando stavo ai bordi
della strada con il pollice alzato. In questi decenni sono successe troppe cose che rendono quasi incomprensibile quella sensazione. Sono
nate tante paure, che prima erano sconosciute! Ci siamo tanto abituati
alla violenza, al furto, ai comportamenti irrazionali che nessuno si fiderebbe più a far salire uno sconosciuto sulla propria macchina o sul proprio camion. E nessuno, di fatto, si arrischia più a chiedere un passaggio ai bordi della strada.
Sugli ingressi autostradali allora c’erano lunghe file di autostoppisti,
di tutte le nazionalità, carichi come muli, che viaggiavano anche insieme, a gruppi di due o di tre. Alla fine qualcuno saliva anche loro! I più
fiduciosi, all’uscita di Roma sud, erano capaci di scrivere sul loro cartello anche “Athins” oppure “Sofia”. Poi magari qualcuno li portava fino a
Caianello, perché c’era una festa grande che non si potevano perdere,
e li invitava anche a pranzo.
Da parte mia, appena diciottenne, mi sono messo in coda e ho continuato a fare autostop per circa cinque anni. Il clima di quel momento
storico affidava a noi giovani, benché capelloni e accuratamente trasandati, le speranze di uno svecchiamento del mondo che tutti ritenevano
necessario. Oggi, ripeto, sembra certo strano, ma giuro che, sebbene
vestito in una maniera impossibile, cappellaccio di cuoio, casacca di
garza a motivi indiani, jeans sfilacciati e chitarra appresso, nessuno
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mostrava diffidenza nei miei riguardi, mi salivano! Anzi, c’era sempre,
negli automobilisti, l’ansia di un dialogo chiarificatore con noi protagonisti di quei grandi mutamenti che oggi, con un’unica parola, chiamiamo “il Sessantotto”.
Sempre attingendo dal mio blocco notes tascabile, riporto una pagina in cui ho appuntato uno di questi dialoghi intergenerazionali che,
tuttavia, non ha molto di chiarificante.
Mi sale uno con una 124 avana che va a Reggio Emilia, che
lui ha compassione di chi chiede un passaggio e lo fa salire perchè pensa a quando lui era contadino ed era costretto a muoversi a piedi. Ora invece ha “un capitale con centcinquanta million,
per aver rischiato dieci million con du’ million”. Pensa e parla
come un un arrivé ma, poverin, non è manco partì. Parla con me
perchè “ti che studi le capiss cert cos”. Io gli do ragione e mi
distraggo a guardare i campi piatti. “Dio can, no se po’ tor via
all’uomo l’inissiativa. Io come arìa potù a rischiar 10 million co’
du million si ero in Russia?
L’ero a Parma, l’odar sera co’ un mio amico professor chi l’ha
fatt il commerciante e adess ha 15 million. S’era a cena in un
posto do’, a l’una, cinque ragasse nude ti fanno un numero, dio
can… (mi da una gomitata). Se balla un po’, se beve e si va via.
Il mio amì, il professor, cerca d’andare a letto co’ una fia che lo
fa bere, bere, e una bottiglia di whisky l’eran ventmil franc; e a
letto no ci va mica, sai. Beh, lui l’ha spes centcinquanta mil franc
e io cinquemil. E come si può dire che tutti dovemo essere uguali?”
Io dico di si, però gli chiedo di fermare subito perché sono
arrivato. Ora sto in mezzo a un enorme campo arato, interrotto
solo da qualche albero che non fa ombra. Ma almeno non devo
fare da confessionale alle fantasie di Alberto Sordi.
In quegli anni si scopriva la possibilità di muoversi con una certa
facilità. Non si era più rassegnati a rimanere tutta la vita nel paese in cui
si era nati. Molti di mia conoscenza, per esempio, lasciavano il paese
con tutta la famiglia, e andavano a lavorare in Germania o in Svizzera
e poi tornavano per le feste con le stecche di sigarette e con la cioccolata, tirandole fuori dal cofano di una Ford Taunus dal colore abbagliante e dai sedili foderati di pelliccia sintetica.
181
Prima no, prima di allora uno si spostava dal suo paese solo per
andare a fare il servizio militare e quella sarebbe stata, per lui, la sola
occasione per sentir parlare dal vivo un altro dialetto o per vedere un
altro paesaggio.
In età di scuola media, quando mi limitavo a sognarlo il viaggio, non
sapevo ancora dell’esistenza di una filosofia e, quasi, di una vera e propria religione che si praticava alzando il pollice ai bordi di una strada.
Ma, appena grande, sentii la necessità di guadagnarmi il titolo di “giovane”. Volevo appartenere con diritto a quell’etnia a cui le riviste trovate sul tavolino del barbiere, come Famiglia Cristiana, La Domenica del
Corriere o Panorama, dedicavano lunghi articoli e servizi speciali.
Ormai avevo diciotto anni e sapevo già di Kerouac e del suo romanzo Sulla strada. Decisi, un po’ letterariamente (a quell’età la “posa” ti
uccide, ti atteggi pure di fronte a te stesso), che il miglior modo di leggerlo sarebbe stato proprio sulla strada. Per questo lo comprai, lo misi
insieme al plaid della Shell e a poche altre cose in un pesante zaino dell’aeronautica preso al mercatino dei polacchi, e decisi di fare autostop.
In quegli anni non si faceva autostop per raggiungere un posto in
cui avevi qualcosa da fare. L’autostop era una sorta di pratica liturgica,
un necessario rito di transizione, di purificazione e di appartenenza che
consisteva semplicemente nel mettersi in viaggio senza mezzo proprio
con uno zaino sulle spalle. Eri già arrivato a destinazione fin dal
momento in cui abbandonavi il tuo paese e percorrevi, con il pollice
alzato, le banchine sporche di una strada nazionale. Pacchetti di sigarette, bottiglie di birra, centinaia di metri di nastro magnetico, stracci
unti di grasso, fogli accartocciati e affini, sparsi e aggrovigliati agli steli
di erba secca, costituivano l’oggetto delle mistiche meditazioni durante
quei chilometri di nomadismo fra uno svincolo stradale e l’altro.
Questo mi era sembrato di capire fin dalle prime righe dell’introduzione di Fernanda Pivano al libro di Kerouac, e ora si trattava solo di
mettersi in gioco e di imparare quello che c’era da imparare. Si doveva
solo andare il più possibile lontano da casa decidendo il proprio itinerario sulla base di quello dell’automobilista che ti faceva salire.
Se un obiettivo c’era, caso mai, era quello di far durare il più a lungo
possibile l’esperienza del viaggio.
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In una delle tappe di questo mio primo viaggio in autostop, a
Bologna, trovai da dormire a casa di Roberto, uno del mio paese che
studiava lì e che era di Lotta Continua. A casa sua c’erano cataste di libri
della Feltrinelli e di fogli scritti a mano: sul tavolo, sui letti, per terra e
sul frigorifero.
C’era già stato il maggio francese ma io, sinceramente, suonavo in un
complesso e, quando si scioperava, ne approfittavo per fare le prove
musicali con gli altri del gruppo. Condividevo con i compagni militanti, naturalmente, il sentimento di ribellione nei riguardi di ogni forma di
autorità e di conservatorismo, ma la mia partecipazione attiva al movimento si sarebbe maturata solo un paio d’anni più tardi.
Roberto passava continuamente da una riunione a un’assemblea: a
casa sua, nelle università o anche nelle sedi di Lotta Continua di altre
città del nord Italia. Io lo seguii per qualche giorno in questi spostamenti dentro Bologna, ma c’era troppo fumo di sigarette in quelle stanze
affollate, e a me bruciavano gli occhi. Una mattina, senza che nessuno
notasse la mia partenza (d’altronde nessuno aveva notato il mio arrivo),
mi alzai, presi lo zaino e andai a Milano.
Anche a Milano andai a trovare degli amici del mio paese che si
erano trasferiti lì con tutta la famiglia. Dormii a casa di Walter, alla ringhiera, e l’indomani lo accompagnai sul cantiere edile dove lavorava
per chiedere al titolare di prendermi per qualche giorno come aiutante.
Non se ne fece niente, perché c’era bisogno del libretto di lavoro, ma
la cosa non mi dispiacque molto: quell’ingaggio non mi serviva per dare
una svolta economica alla mia esistenza, ma solo per poter avere qualche soldo in più e restare più a lungo in viaggio.
Autostop, per la prima volta in autostrada, da Milano a Torino e poi,
attraverso il Moncenisio, in Francia, sulle Alte Alpi, a Briançon, a
Grenoble.
Per parlare, pensavo che mi sarebbero state utili le frasi e le coniugazioni che avevo studiato a scuola; e invece quelli parlavano troppo in
fretta e univano tutte le parole. Solo dopo qualche giorno capii che non
era necessario dire Allez vous au prochain village? e che si poteva
anche dire vous allez. Ma allora perché i miei insegnanti si erano impegnati tanto a spiegarmi questa regola della posposizione? Forse lì, sulle
Alte Alpi, non parlavano bene il francese.
Da lì in poi, frequentando molte volte la Francia in autostop, impa-
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rai altre cose della lingua: a distinguere la pronuncia del nord da quella del sud; a capire dal numero di targa che uno era diretto a Nizza, a
Lione o a Parigi; che a Parigi si parla anche l’argot e le patois, e che i
giovani hanno uno slang che tronca le parole. Imparai anche che bisogna intonare ogni frase con la cantilena giusta altrimenti i francesi fanno
finta di non capire.
Insomma imparai tante cose, non solo della lingua, ma anche del
modo di viaggiare corretto di un globe trotter, parola inglese che i francesi, naturalmente accentavano sull’ultima sillaba. Un globetrottér deve
avere uno zaino più leggero di quello mio che, già vuoto ma guarnito
di grosse fibbie metalliche, pesava esageratamente. Deve avere un
Opinel n. 7 e non un temperino qualsiasi; un sacco a pelo leggero e non
un plaid scozzese omaggio della Shell (e neanche un sacco a mummia
che, da solo, entra a stenti nel bagagliaio di una due cavalli); un paio
di scarpe comode e un paio di jeans rigorosamente Levi Strauss, a tubo
e a vita alta. Tutte queste cose me le insegnavano direttamente i ragazzi e le ragazze miei coetanei che trovavo negli incroci o all’uscita delle
grandi città e con i quali condividevo qualche centinaio di chilometri e
la scoperta di cose nuove.
Lo stile usato per annotare le cose sul blocco notes si fece meno
ampolloso e più asciutto. Finii col segnare solamente tanti indirizzi di
luoghi in cui si tentava di cambiare il mondo a partire dal modo di stare
insieme. A volte l’indirizzo ti portava in una fattoria della Provenza dove
si provava ad allargare la propria coscienza allevando conigli e vivendo
tutti insieme i ritmi della campagna. Ci si esercitava per ore ad ascoltare le buone vibrazioni della terra. Altre volte, in piena città, trovavi enormi case dove non si aggirava nessun adulto. Spesso erano piene di tappeti e di cuscini, con i muri decorati da enormi Shiva danzanti o da
Budda dallo sguardo compassionevole. In Sicilia, in Grecia e da qualche altra parte c’erano delle vere e proprie Comuni, volute, si diceva,
da personaggi del mondo della musica o del cinema che, la settimana
prima erano stati lì a scambiarsi massaggi shiatsu con uno di noi.
In realtà avere un posto dove andare non era mai un problema:
dovunque ti trovavi, finivi per trovare la piazzetta, il parco, il monumento o l’aiuola dove brucavano l’erba i tuoi simili e, quando si faceva tardi,
andavi sempre a dormire da qualcuno. Così passavi gran parte della
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notte a rovistare fra i dischi, le foto, i libri e le riviste di questo qualcuno che magari in quel momento non c’era, perchè si trovava in viaggio
a fare le stesse cose nella casa di qualcun altro. Quando ti svegliavi,
vedevi in giro facce nuove, che la sera prima non c’erano nella piazzetta o sotto il monumento, e che non si stupivano della tua presenza.
Qualcuno, facendo colazione, pensava che fossi tu il padrone di casa e
ti raccontava la sua storia. Tu gli raccontavi la tua, e poi si vedeva.
In alcuni di questi indirizzi si stavano buttando le basi per la nascita
di quello che, nella seconda metà degli anni Settanta, sarebbe diventato il Teatro di Gruppo. Si imparava a jonglare con le palline e con le
clave, si provavano numeri di acrobatica e di clownerie, si facevano lunghe tirate musicali collettive, mettendo insieme i tabla, il sitar o l’armonium della tradizione indiana con i bongos marocchini o cubani, l’organetto dei saltarelli con l’oboe arabo, la chitarra con le launeddas.
Ma andiamo oltre l’autostop ed esauriamo la panoramica dei mezzi
di locomozione che io ho trasformato in mezzi per viaggiare.
Fra questi c’è stato anche un mezzo improprio, che non è mai servito a nessuno per questo scopo: il windsurf.
Agli inizi degli anni Ottanta questo sport è diventato molto popolare anche sulle coste salentine e, inevitabilmente, io ne sono rimasto
affascinato. Dopo la prima estate trascorsa fra cadute acrobatiche e continui recuperi della vela che si ostinava a buttarmi in acqua, ho passato
l’inverno a progettare con altri amici, per la verità increduli perché da
parte loro erano soddisfatti di fare la cerniera fra la spiaggia e il largo,
una sorta di rimorchio ad aliscafo che permettesse il trasporto di una
tenda e degli effetti necessari ad un viaggio. Ho desistito dal costruire
questo trabiccolo improbabile e mi sono limitato a portare a termine
solo un’impresa sportiva: il primo giro del Salento in windsurf, da
Gallipoli, sullo Ionio, fino al lido adriatico di San Cataldo.
Non si trattò di un vero e proprio viaggio perché la sera, terminata
ciascuna delle cinque tappe, tornavo a dormire a casa.
Il viaggio vero per mare (dormendo la notte fuori di casa) venne di
conseguenza perché un mio amico, che aveva comprato d’occasione
una piccola barca a vela a Nizza, in Francia, ammirato per i miei risultati surfistici, mi nominò skipper e decise che, con me a bordo, si pote-
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va trasferire il mezzo, lungo appena sette metri, dalla Costa Azzurra fino
a Porto Cesareo, sullo Ionio. Ma il racconto di quest’odissea, portata
comunque a termine, non aggiungerebbe molto in questa sede.
Il teatro e il viaggio poi, come ho anticipato, si sono sommati, ed è
così che il mio viaggiare in autostop è sfociato, in maniera naturale, nel
teatro quando, in qualcuna delle Comuni raggiunte, si prediligevano le
attività circensi o le tecniche del teatro fisico come il mimo o l’acrobatica. A queste mie esperienze, inizialmente casuali, sono seguiti numerosi viaggi fatti intenzionalmente per inseguire occasioni di formazione
teatrale come stages, laboratori e incontri con maestri e con altri artisti
del teatro di strada.
La seconda metà degli anni Settanta, invece, è stata occupata interamente da continue tournées (soprattutto durante il periodo estivo) che
portavano in giro gli spettacoli del Teatro Infantile di Lecce di cui facevo parte. Il clima culturale di quegli anni e le nostre direttrici in esso
sono riassunte in un intervento con il quale le comunicavo al convegno
su I sud e le loro arti, tenutosi ad Arnesano di Lecce nel settembre 2001
e pubblicato, insieme con gli altri atti, in un volume dallo stesso titolo,
edito a cura dell’Amministrazione Comunale. Ne riporto alcuni stralci
per l’importanza che assumono in esso le metafore spaziali e territoriali di cui faccio continuamente uso. I miei riferimenti alla strada, allo spazio e al diverso modo di muoversi in esso mi sono stati suggeriti, probabilmente, dalla lunga dimestichezza avuta con il territorio lucano e
dal mio percorrere avidamente, con lo spettacolo, quella realtà paesaggistica e umana che, qualche decennio prima, era stata messa in evidenza da Carlo Levi, da Rocco Scotellaro e da Ernesto de Martino.
Verso la metà degli anni Settanta io e Stefania abbiamo fatto
un nodo alle nostre esistenze inventando percorsi artistici e di vita
che sfidavano le mode e le avversità che avrebbero voluto ostacolare ogni sodalizio che non fosse inerte e convenzionale. […] È
così che in quel periodo abbiamo dato vita ad una sorta di famiglia fatta di “fratelli di teatro” che, pur provenendo da diverse
parti del mondo, hanno finito per costituire un vero e proprio network. Questa catena umana, pur numericamente limitata ed economicamente insignificante, resta tuttora di grande conforto per
ognuno dei suoi anelli, per la certezza di una tacita solidarietà
186
quando si sperimentano nuove strade artistiche ed esistenziali.
[…]
Questi “fratelli di teatro” con cui continuiamo a ricongiungerci saltuariamente per periodi più o meno lunghi, provengono
raramente dall’area dei teatranti di professione. Quasi sempre
vengono dal “movimento”, quel gregge di umani che ama incontrarsi fuori dagli spazi che il Sistema preconfeziona e propone, e
lì barcolla e tentenna prima di cadere definitivamente fuori o dentro il Sistema stesso. […]
La via del teatro che noi pratichiamo e che lasciamo aperta al
“movimento” resta quindi definita implicitamente come un territorio intermedio fra il dentro e il fuori, una terza via, alternativa
tanto alla comoda accettazione del Sistema, tanto all’impari lotta
con il mostro. Può sembrare una scelta di comodo, una strada
facile da percorrere, e invece non lo è. Non ci sono, in essa, stazioni in cui riposarsi. Camminare per questo sentiero, stretto e
labile, vuol dire stare sempre attenti a non cadere né da una parte
né dall’altra. Tuttavia offre grandi soddisfazioni: è una strada che
tu stesso contribuisci a tracciare e che alla fine risulterà utile sia a
coloro che stanno dentro al Sistema che a coloro che ne stanno
fuori. Assomiglia un po’ a quei percorsi dei contrabbandieri che,
muovendosi sui sentieri di confine, consentono gli scambi fra due
regioni. Assomiglia a quei tracciati dei pionieri che, segnati con il
rischio di pochi coraggiosi, saranno poi utilizzati da tutti per lo
scambio e per i commerci. Assomiglia ed è un territorio franco,
dove si incontrano profughi che provengono da entrambe le zone
di cui è frontiera e che prendono, di volta in volta, il ruolo di attori, di consiglieri, di maestranze o di critici. […]
A sud soprattutto, la linea di confine fra il dentro e il fuori deve
essere mantenuta, fortificata, allargata; deve poter ospitare tutti i malcontenti della condizione meridiana e, per quanto può, migliorarla.
Nel lungo lasso di tempo della nostra attività, l’obiettivo è
rimasto immutato: tenere salda la bandiera in questo territorio
franco, fare sempre la sentinella per osservare, da lì, come cambia la fisionomia e l’entità del “movimento”, sforzarsi per distinguere le sue frange vere da quelle false, inerti, per offrire sempre
una possibilità, per vedere transitare nel teatro tutte le scontentezze e le risorse dei diversi sud. […]
Tanti sono stati, in questi decenni, gli arruolati di questa legione straniera: musicisti, grafici, fotografi, scultori di carta, pittori,
danzatori, costumisti, cuochi… di lingua e di nazionalità diverse:
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italiana, francese, tedesca, spagnola, inglese, svedese… Tutti ci
hanno dato la loro energia, accettando di fare tournées improbabili per le strade dei sud, stipati assieme alle scenografie in furgoni rumorosi e bollenti, spingendo automobili strappate dalle mani
degli sfasciacarrozze e costrette a fare un ultimo giro, con l’anima
tra i denti, lungo strade inesistenti, tracciate dalla comune speranza. Questi mezzi di trasporto non se la sentono di percorrere le
autostrade che conducono al nord. Si trovano più a loro agio
arrancando sui sentieri della Basilicata, fianco a fianco con gli ultimi muli della storia, carichi di una coppia di anziani e di una fascina ingombrante e con al seguito, spesso, una capra, parente di
Dioniso e del teatro. Mezzi piccoli, che accettano volentieri di
arrampicarsi sui cocuzzoli fino ai sagrati delle chiese, che si infilano con disinvoltura nei sentieri sterrati della campagna, che sopportano bene i graffi dei rovi o i contraccolpi delle radici negli uliveti. […]
La Basilicata l’avevo scoperta a sedici anni, quando avevo messo per
la prima volta il naso fuori dalla mia regione, nel corso del mio primo
vero viaggio dormendo fuori di casa, quello con il guzzino. L’occasione
di ritornarci si presentò quando, nel 1976, Luigi Za, docente di sociologia dell’Università di Lecce, decise di organizzare lì un convegno sulle
“Prospettive di sviluppo culturale nella Comunità Montana del Medio
Sinni – Pollino – Raparo”, e decise altresì di avvalersi, per le sue proposte, del supporto dimostrativo di un gruppo di teatro di strada: il Teatro
Infantile di Lecce.
Per una settimana dormimmo tutti e otto accampati nella scuola elementare di Fardella, un comune minuscolo, e da lì, ogni pomeriggio, ci
spostavamo per raggiungere i cocuzzoli delle montagne vicine e montare il nostro spettacolo di “pantomime, burattini e jazz”: Chiaromonte,
Castronuovo S. Andrea, Senise, Francavilla sul Sinni, Viggianello.
Il terremoto dell’Ottanta che colpì duramente questa regione, doveva ancora venire, ma la condizione delle strade, e spesso anche delle
case, era segnata comunque da smottamenti, crolli e voragini. La natura del terreno argilloso, quello dei calanchi, consente una stabilità molto
relativa ai sottili strati di asfalto e alle fondamenta delle costruzioni che
sorgono sulle fiancate delle valli. L’unico zoccolo di roccia si trova,
appunto sui cocuzzoli, ed è lì che bisognava arrivare per raggiungere i
centri abitati: poche case, una chiesa e un bar-emporio collegati da sca188
linate. Il teatro-festa che noi proponevamo a supporto del convegno si
avvaleva anche di una parata musicale, con tanto di sassofoni, tromba,
grancassa e mangiafuoco, che si infilava lungo queste scalinate consumate. Ci guidava uno del posto, che insisteva per portarci tutti a casa
sua, a bere un bicchiere di aglianico prodotto da lui stesso. A volte
l’operazione era lunga perché il vino stava al fresco in una grotta della
rabatana, l’insediamento saraceno ai confini del paese.
Nonostante la sua colonna sonora dal vivo, ispirata al moderno jazz
mediterraneo, e nonostante le frequenti sortite “free” dei nostri sassofoni, lo spettacolo soddisfaceva pienamente le aspettative di tutti, anche
delle anziane signore che, coperte interamente da uno scialle nero,
venivano da casa con la loro seggiola e applaudivano compostamente.
A questa prima tournée ne seguirono molte altre. Rocco Laborragine,
un organizzatore culturale dell’ARCI di Potenza, ci proponeva dei tours
di dieci, o di quindici giorni, tutti nella stessa area della regione lucana;
sicché a più riprese, e in diversi anni, il nostro carro di Tespi (un furgone Volkswagen e una Ford Anglia Quattrostagioni simile a quella di
Harry Potter) ha finito col percorrere tutti gli angoli della Lucania, da
quelli boscosi del centro a quelli vulcanici del nord intorno a Melfi, dai
fondovalle afosi al paesaggio lunare dei calanchi.
La Basilicata da noi percorsa non offriva, se non raramente, strutture ordinarie di ricezione come alberghi, residence o agriturismo. Noi,
comunque non ne abbiamo mai fatto uso: il budget a nostra disposizione era limitatissimo e non ci permetteva un lusso simile. Arrivando nella
località assegnataci, ci appuntavamo mentalmente l’ubicazione dei luoghi in cui avremmo passato la notte dopo lo spettacolo: i pochi alberi
nei pressi degli abbeveratoi (i pilacci), qualche stazione abbandonata
delle ferrovie calabro-lucane, i bordi di un laghetto o (era l’ideale) un
bosco di cerri. Lì avremmo montato le nostre tende e provato qualche
numero per il giorno successivo. Qualche volta la locale sezione del
Partito Comunista era abbastanza grande da ospitarci, ma le condizioni
del bagno e la puzza stagnante del fumo di sigaretta di chi giocava a
carte ci facevano preferire il campeggio libero e l’acqua di una fontana.
Nei paesini dove rappresentavamo non c’erano nemmeno punti di
ristoro e comunque, alla fine dello spettacolo, era tutto chiuso, per cui
uno del gruppo si preoccupava, per tempo, di comprare, dall’emporio-
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salumeria-tabacchino, il necessario per uno spuntino. Ci saremmo rifatti l’indomani a mezzogiorno raggiungendo, su indicazione di qualche
compagno informato, una trattoria adatta alle nostre esigenze. Dopo
qualche tempo i gestori oramai ci conoscevano e, per il servizio familiare che ci offrivano, noi li avevamo eletti nostri zii putativi: zi’ Mingo,
zio Leonardo, zi’ Peppe… Sapevano che ci accontentavamo dei loro
strascinati al sugo, delle loro sausizze e suppressate, delle mozzarelline
fresche e di una grande insalata.
Così abbiamo preso dimestichezza con la Basilicata; con le sue strade, i suoi alberi, i suoi sassi, le sue acque e la sua gente.
Carichi di queste esperienze andavamo poi, di tanto in tanto, a rappresentarne lo spirito anche altrove, al Festival Internazionale del Teatro
in piazza di Sant’Arcangelo di Romagna o nei festival nazionali
dell’Unità a Roma, Bologna, Modena o a Bergamo. Lì misuravamo le
nostre affinità e le nostre differenze con i colleghi del Piccolo Teatro di
Pontedera, del Teatro Tascabile di Bergamo, col Centro Teatrale di Santa
Marta di Milano, o anche con maestri molto noti del calibro di Dario Fo
o Leo Bassi.
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