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www.ildirittoamministrativo.it OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI DIRITTO DELLA NAVIGAZIONE AGGIORNATO AL 31 LUGLIO/AGOSTO 2011* A cura di Luca SALAMONE (www.lucasalamone.it) (*) Si comunica ai gentili lettori che nel mese di agosto 2011 l’osservatorio sul diritto della navigazione osserverà un periodo di sospensione feriale, pertanto, nell’augurare una serena prosecuzione della stagione estiva, si comunica che il successivo appuntamento con il prossimo numero del presente osservatorio è previsto per il di settembre 2011. Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 18 aprile 2011 n. 2375 (In tema di riparto di giurisdizione tra G.O. e G.A. in materia di concessioni di beni del demanio marittimo pubblici, con particolare riguardo alle controversie “concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi…” di cui al pregresso art. 5 legge TAR, oggi sostituito dall’art. 133, comma 1, lett. b), del nuovo Codice del processo amministrativo). Con la sentenza in rassegna – la quale si colloca in un filone giurisprudenziale già consolidatosi sotto la vigenza dell’(oramai superato) art. 5 della legge TAR (cfr. Cass., Sez. Unite, ord. 17 giugno 2010 n. 14614) – il supremo consesso amministrativo ha ribadito che la previsione secondo la quale la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di concessione di beni pubblici (nella fattispecie beni appartenenti al demanio marittimo) non si estende alle controversie “concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi ...” (ex art. 133, comma 1, lett. b), c.p.a., ma, in precedenza, v. art. 5 legge TAR), va interpretata nel senso che la giurisdizione del giudice ordinario può avere ad oggetto le controversie di contenuto meramente patrimoniale, ovvero inerenti quantificazione e pagamento dei corrispettivi in questione, rimanendo pertanto esclusa all’oggetto del giudizio la qualificazione del rapporto concessorio con esercizio di poteri discrezionali da parte dell’Amministrazione competente, sia essa quella portuale, marittima, ovvero regionale o comunale (in base al riparto di competenza in materia di gestione dei beni demaniali, sul quale si rinvia a L. SALAMONE, “Concessioni demaniali e Titolo V della Costituzione: la Corte Costituzionale demolisce il D.P.C.M. 21 dicembre 1995. Il nuovo vademecum delle funzioni amministrative”, in Il Diritto Marittimo, III, 2008), dovendosi riconoscere in tale ultimo caso la cognizione del giudice amministrativo, in presenza sia di situazioni giuridiche soggettive che ineriscono ad interessi legittimi ed a diritti soggettivi. Da ciò consegue che, ad avviso del giudice amministrativo di appello esula dalla giurisdizione amministrativa, rientrando in quella del giudice ordinario, la controversia avente contenuto, sic et simpliciter, meramente patrimoniale, in quanto riguardante un provvedimento che ha rideterminato il canone demaniale marittimo in applicazione dell’art. 1 della l. 27 dicembre 2006, n. 296. Secondo il supremo consesso amministrativo, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo per il contenzioso relativo ai provvedimenti di rideterminazione del canone per le concessioni di beni del demanio marittimo, si (ri)espande solo qualora, in applicazione dell’art. 1, comma 251, l. 27 dicembre 2006, n. 296 (ritenuto costituzionalmente legittimo da Corte Cost. 22 ottobre 2010, n. 302), l’operazione effettuata dall’amministrazione competente non consista in una mera quantificazione del canone, ma si spinga verso l’integrale revisione dello stesso previa ricognizione tecnicodiscrezionale del carattere di pertinenze demaniali marittime delle opere (al tal fine, nella motivazione della sentenza in rassegna il giudice amministrativo di appello richiama anche l’ordinanza delle Corte di Cassazione SS.UU., 1 luglio 2010, n. 15644, secondo cui la rideterminazione del canone di occupazione di beni del demanio marittimo da parte dell’Autorità portuale, a seguito di una differente interpretazione e di una mutata classificazione della tipologia di occupazione in esito una rinnovata valutazione tecnicodiscrezionale, spetta alla giurisdizione amministrativa, presupponendo un provvedimento amministrativo con cui l’Autorità portuale incide sull’economia dell’intero rapporto concessorio, attraverso l’esercizio di poteri autoritativi), in precedenza realizzate dal concessionario, nonché in considerazione dell’inamovibilità, o meno, delle stesse (in tal senso, si era già espresso il Cons. Stato, sez. VI, 3 febbraio 2011, n. 787 e Cons. Stato, Sez. VI, 26 maggio 2010, n. 3348). Nel caso della sentenza in rassegna, la controversia riguardava solo la misura dell’importo canone di concessione demaniale, in relazione ai presupposti fattuali economico-aziendali e ai criteri di determinazione configurati dalla nuova normativa, senza che i relativi motivi coinvolgessero la verifica dell’azione autoritativa dell’Amministrazione sul rapporto concessorio sottostante o dell’esercizio di poteri tecnico-discrezionali. Ne è conseguito, alla luce di quanto sopra evidenziato, che la controversia è stata ritenuta, dal giudice amministrativo di appello, di natura meramente patrimoniale e, pertanto, da ricondurre, inevitabilmente, nell’alveo della giurisdizione del giudice ordinario. T.A.R. Liguria 21 aprile 2011, n. 660 (In tema di bando di gara per l’affidamento della concessione di aree e banchine demaniali, nonché di immediata impugnabilità dell’aggiudicazione provvisoria e dell’ordine di trattazione dei ricorsi principale e incidentale). La pronuncia in rassegna ha ad oggetto l’impugnativa degli atti di gara, concernenti l’affidamento in concessione del compendio marittimo nell’ambito portuale di Genova. In particolare, la gara in contestazione concerne la procedura concorsuale di un’area del porto ligure, già oggetto di complesse vicende giudiziarie, in ordine alla quale l’Autorità portuale si è determinata a procedere ex novo ad un confronto concorrenziale nei termini imposti dai principi comunitari, oramai consolidati, in tema di affidamento di concessioni. L’amministrazione portuale ha quindi proceduto alla pubblicazione del bando, impugnato anch’esso congiuntamente all’ammissione in gara di un concorrente e all’aggiudicazione provvisoria, con cui è stata indetta la selezione per l’assegnazione delle suddette aree demaniali. In via preliminare, il giudice amministrativo evidenzia l’inammissibilità per difetto di interesse concreto ed attuale di atti quali l’ammissione in gara di un concorrente e l’aggiudicazione provvisoria. Ad avviso del Collegio, in ordine alla prima (l’ammissione in gara) le eventuali contestazioni, laddove non deducibili unicamente avverso il bando, non possono che riverberarsi nei confronti dell’unico atto concretamente lesivo della procedura, l’aggiudicazione definitiva; in ordine alla seconda (l’aggiudicazione provvisoria), ad avviso del giudice amministrativo essa “assume natura di atto endoprocedimentale, ad effetti ancora instabili ed interinali, sicché è inidoneo a produrre la definitiva lesione dell’impresa non risultata aggiudicataria che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva, la quale non costituisce atto meramente confermativo della prima (cfr. ad es. Consiglio Stato , sez. III, 11 marzo 2011 , n. 1581) e rispetto al quale solo si concentrano sia gli effetti lesivi che le contestazioni dedotte”. Incidentalmente, a quest’ultimo riguardo, lo stesso Collegio rileva come la stessa disciplina processuale in tema di appalti pubblici – seppur non direttamente applicabile alla fattispecie in esame – evidenzia in termini di principio con riferimento all’impugnativa di procedure di gara, quale quella in esame, come “i bandi, ove immediatamente lesivi, e le esclusioni sono impugnati autonomamente e non possono essere contestati con l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, mentre tutti gli altri atti delle procedure di affidamento sono impugnati con l’aggiudicazione definitiva, fatta comunque salva l'eventuale riunione dei procedimenti” (in tal senso cfr. art. 44 comma 3 lett. f) legga n. 88/2009, recante delega per l’attuazione della “nuova direttiva ricorsi”). Sempre in via preliminare, altro aspetto di rilievo esaminato nella sentenza in rassegna attiene la questione concernente l’ordine di trattazione dei motivi dedotti in sede di ricorso incidentale rispetto a quelli del ricorso principale, in specie a fronte della natura di gara con due soli concorrenti. In proposito, il Collegio sostiene la tesi avallata nella recente giurisprudenza prevalente, recentemente riassunta nella decisione resa dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 4/2011, a tenore della quale “il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara, deve essere sempre esaminato prioritariamente, anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l’interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura. Detta priorità logica sussiste indipendentemente dal numero dei partecipanti alla procedura selettiva, dal tipo di censura prospettata dal ricorrente incidentale e dalle richieste formulate dall’amministrazione resistente”. Sul punto aggiunge il Collegio che “in generale, la stessa giurisprudenza prevalente ritiene che l’esame prioritario del ricorso principale sia ammesso, per ragioni di economia processuale, qualora sia evidente la sua infondatezza, inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità; questa facoltà non può essere negata, a priori, sempre che il suo esercizio non incida sul diritto di difesa del controinteressato e consenta un’effettiva accelerazione della definizione della controversia”, ma che tuttavia nella fattispecie in esame “i motivi di ricorso principale avverso l’aggiudicazione non paiono assumere i connotati della assoluta evidenza presupponendo il relativo rigetto un esame approfondito ed analitico, cosicché occorre dare preminenza alla regola generale e prendere le mosse, nell’esaminare l’impugnativa dell’aggiudicazione, dai motivi di ricorso incidentale”. Altro aspetto di particolare interesse esaminato dal giudice amministrativo ligure attiene all’esame della presenza di uno dei c.d. presupposti processuali (o condizioni dell’azione), ossia la legittimazione ad agire; sul punto osserva il Collegio, in linea con la prevalente giurisprudenza, fatta propria dalla recente decisione della Plenaria già richiamata, che “la legittimazione al ricorso, nel caso di ricorsi in materia di procedure di gara (analogicamente applicabile alla gara in questione), deve essere correlata ad una situazione differenziata, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione. Tale regola, ormai consolidata, subisce alcune deroghe, concernenti, rispettivamente: a) la legittimazione del soggetto che contrasta, in radice, la scelta della stazione appaltante di indire la procedura; b) la legittimazione dell’operatore economico di settore, che intende contestare un affidamento diretto o senza gara; c) la legittimazione dell’operatore che manifesta l’intenzione di impugnare una clausola del bando escludente, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione. Tali deroghe, che si connettono ad esigenze e a ragioni peculiari, sono tuttavia inidonee a determinare l’affermazione di una nuova regola generale di indifferenziata titolarità della legittimazione al ricorso, basata sulla mera qualificazione soggettiva di imprenditore potenzialmente aspirante all’indizione di una nuova gara.” Ad avviso del Collegio, in tale ottica, “la legittimazione del soggetto che impugna la decisione di indire una gara è ammessa nei soli casi in cui questi dimostri una adeguata posizione differenziata, costituita, per esempio, dalla titolarità di un rapporto incompatibile con il nuovo affidamento contestato”. Per quanto concerne il merito, la sentenza in rassegna si segnala, in primo luogo, per avere affrontato la questione concernente la relazione tra il presunto affidamento ingenerato dall’amministrazione in rapporto all’art. 38 cod. nav., all’uopo il Collegio “ammette che possa farsi luogo ad assegnazioni temporanee di beni demaniali, le quali pero, proprio perché intrinsecamente transitorie, non solo non sono capaci di radicare affidamenti meritevoli di protezione in capo ai titolari, ma preludono necessariamente all'avvio di procedure comparative in vista dell'assegnazione definitiva (cfr. ad es. Consiglio Stato , sez. VI, 29 dicembre 2010 , n. 9574)”. Inoltre, il Collegio mette in luce come, nell’adottare procedure di evidenza pubblica finalizzate alla concessione di determinati beni demaniali, l’amministrazione procedente gode di ampia discrezionalità circa l’entità dei beni da mettere a gara, ciò in quanto “se per un verso la normativa vigente non pone alcuna limitazione nella individuazione delle aree da mettere a gara, per un altro verso non possono che valere gli ordinari principi tesi a regolare l’esercizio della discrezionalità amministrativa. Nel caso in esame, a fronte della rilevanza del porto di Genova nonché della consistenza, collocazione e conformazione del compendio interessato, la determinazione contestata non pare né basata su di un travisamento dei dati di fatto né su elementi o considerazioni viziati di manifesta irragionevolezza”. Da ciò consegue, ad avviso del giudice amministrativo, che “la messa a gara di un compendio esteso ma ragionevolmente modulato rispetto alla rilevanza del porto ed alla sua conformazione, appare pienamente rispettoso dei principi richiamati. Tutti gli operatori portuali autorizzati, eventualmente raggruppati, hanno la possibilità quantomeno teorica di partecipare alla gara; inoltre, l’Autorità portuale deve svolgere le proprie considerazioni in ordine alla individuazione e delimitazione delle aree nel primario interesse non tanto delle imprese quanto del miglior funzionamento e resa, sia economica che sociale a fronte della pluralità di interessi pubblici coinvolti, del porto e delle relative attività. Né appare viziata la prevista possibilità di affidare aree in estensione ad altra concessionaria limitrofa, secondo una facoltà consentita nella misura in cui non si deroghi, come non si deroga nella specie, alla regola del confronto concorrenziale ed alla necessità di possesso dei necessari requisiti”. Infine, merita un particolare richiamo anche l’analisi, operata dal Collegio, circa il rapporto tra la procedura in esame, inerente beni demaniali appartenenti al demanio marittimo, e le procedure disciplinante dal codice dei contratti pubblichi che, invece, come è noto, tali beni non contemplano. Sullo specifico rapporto, il Collegio rileva che “pur se la gara in esame, avente ad oggetto l’affidamento di una concessione demaniale marittima e non un contratto di appalto, non era formalmente soggetta ad ogni puntuale regola dettata dal codice dei contratti pubblici, il bando ha perseguito la strada dell’espresso richiamo alla norma in questione nei termini seguenti…”. Il Collegio sul punto rileva come, tale espresso inquadramento dell’oggetto di gara e della formulazione del richiamo alla norma invocata, “impone un’applicazione conforme alla ratio della normativa”. In concreto, da tale assimilazione, ed in tale ottica, il giudice amministrativo nella sentenza in rassegna ribadisce che, specie in casi come quello in esame, “la ratio della normativa di cui all’art. 38 risiede nella esigenza di verificare la affidabilità complessivamente considerata dell'operatore economico che andrà a contrattare con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell'azione amministrativa, che quest'ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale (cfr. ad es. Tar Liguria 962 e 9201\2010). Le singole lex specialis dettano regole di specificazione di tale onere che, se da un lato assumono il valore di vincolo per la stessa stazione appaltante e per gli aspiranti partecipanti, dall’altro devono sottostare agli ordinari criteri della chiarezza di redazione e della ragionevolezza di applicazione”. Corte di Cassazione, sez. III, sentenza 3 maggio 2011 n. 9683 (In tema di responsabilità, o meno, nel caso di investimento del pedone che non rispetta il rosso). Il caso esaminato dalla pronuncia in rassegna riguarda un pedone che mentre stava per concludere l’attraversamento di un incrocio regolato da semaforo, scattata la luce semaforica rossa per i pedoni e quindi verde per gli automobilisti, veniva travolta dal conducente di un’auto, il quale veniva successivamente convenuto in giudizio, unitamente alla compagnia assicurativa, al fine di sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti. Ad avviso della suprema Corte di Cassazione, la responsabilità del conducente prevista dall’art. 2054 c.c. può essere esclusa solo quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento, situazione, questa, ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile e anormale, a causa della quale l’automobilista si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di avvistarlo in tempo utile ad impedire l’evento e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti. Ne consegue che, ad avviso dei giudici di legittimità, permane la responsabilità dell’automobilista che impegni un incrocio regolato da semaforo nel caso in cui, scattata la luce rossa per i pedoni, egli non abbia evitato il verificarsi del sinistro stradale ai danni del passante che stava concludendo l’attraversamento pedonale sull’apposito passaggio. Nei precedenti gradi di giudizio era stata esclusa la responsabilità dell’automobilista, in quanto quest’ultimo, ad avviso dei giudicanti, non sarebbe stato tenuto “ad accordare la precedenza” poiché il pedone, al momento dell’investimento, stava attraversando l’incrocio con la luce semaforica rossa per i pedoni e la luce verde per i veicoli. Il suddetto, severo, orientamento non è stato condiviso dai giudici della Suprema Corte, avendo questi ultimi rilevato che nei precedenti gradi di giudizio non era stato effettivamente verificato se il pedone avesse tenuto o meno un comportamento anomalo, oppure se, d’altra parte, l’automobilista si fosse trovato in una situazione tale da non poter prevenire l’evento; inoltre, ad avviso della suprema Corte, il giudice d’appello non aveva accertato se l’attraversamento pedonale fosse iniziato quando la luce semaforica era già rossa, o se, invece, all’inizio il semaforo fosse stato verde ed il rosso fosse scattato durante la fase finale dell’attraversamento, come è sembrato evincersi dall’escussione di un testimone. A tal riguardo, una precedente giurisprudenza della Corte di Cassazione si era già espressa disponendo che “in caso di investimento di pedone, la responsabilità del conducente prevista dall’art. 2054 c.c. è esclusa quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento, situazione, questa, ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile e anormale, sicché l’automobilista si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti” (cfr. Cass., n. 21249/2006). Inoltre, precisa la suprema Corte, nel caso in cui un automobilista occupi un incrocio regolato da semaforo verde in suo favore, “permane a suo carico un obbligo di diligenza nella condotta di guida che deve tradursi nella necessaria cautela richiesta dalla comune prudenza e dalle concrete condizioni esistenti all’incrocio” (cfr. Cass., n. 8744/2000). In conclusione, sulla scorta delle summenzionate pronunce, il giudice di legittimità ha ritenuto responsabile l’automobilista dell’investimento del pedone ricorrente, del quale pertanto veniva accolto il ricorso con successiva cassazione della sentenza impugnata. T.A.R. Puglia (Lecce), sez. I, sentenza 12 maggio 2011, n. 833 (In tema di beni appartenenti al demanio marittimo e di differenza tra concessione provvisoria e anticipata occupazione ex art. 10 reg. nav. mar. e art. 38 cod. nav. nonché in tema di irrilevanza della natura pubblica o privata del concessionario ai fini dell’applicazione dell’art. 39 cod. nav.). Nella sentenza in rassegna, il giudice amministrativo pugliese mette in rilevo che l’art. 10 reg. nav. mar., nel definire la concessione provvisoria, prevede che questa venga rilasciata “per il periodo intercorrente fra la scadenza del relativo atto e la sua rinnovazione” e quindi prende in considerazione solo ipotesi in cui già sussiste una precedente concessione, che sia scaduta, e non ipotesi nelle quali la concessione ancora non sia stata rilasciata. Ad avviso del giudice amministrativo la suddetta ipotesi è diversa da quella dell’anticipata occupazione, prevista dall’art. 38 cod. nav., per il quale l’autorità marittima – ma analogo discorso può farsi nel caso in cui l’autorità sia quella portuale ovvero regionale o comunale (ciò in base al riparto di competenza in materia di gestione dei beni demaniali, sul quale si rinvia a L. SALAMONE, “Concessioni demaniali e Titolo V della Costituzione: la Corte Costituzionale demolisce il D.P.C.M. 21 dicembre 1995. Il nuovo vademecum delle funzioni amministrative”, in Il Diritto Marittimo, III, 2008) – ha il potere di autorizzare, in pendenza della definizione del procedimento di concessione, l’anticipata occupazione dell’area demaniale portuale a favore del richiedente la concessione, nonché l’uso di beni portuali e l’esecuzione di opere all’uopo necessarie, alle condizioni che saranno stabilite nel definitivo atto di concessione. L’altro aspetto d’interesse analizzato nella pronuncia in rassegna attiene all’analisi della ratio dell’art. 39 cod. nav., norma, quest’ultima, che, ad avviso del giudice amministrativo, prevede il “canone ricognitorio” avendo riguardo al fine in concreto perseguito con il bene pubblico dato in concessione. Ed invero, a condivisibile avviso del giudice di prime cure, quel che rileva affinché possa farsi applicazione del canone ridotto di cui all’art. 39 cod. nav. non è la natura pubblica o privata dell’ente concessionario, ma il fine che questi si propone attraverso la concessione, fine che deve essere di beneficenza o, comunque, di pubblico interesse. Sicché la riscossione, da parte dell’ente concessionario, di entrate non occasionali, ma direttamente e stabilmente collegate all’uso del bene demaniale, e dunque tali da essere comprese nella nozione di “provento”, è ostativa all’applicazione del canone ricognitorio. Corte di Giustizia UE 12 maggio 2011, n. 176 (In tema di validità della direttiva sui diritti aeroportuali). La sentenza in rassegna scaturisce da un ricorso di annullamento1 proposto dal Lussemburgo dinanzi alla Corte di giustizia, al fine di ottenente l’annullamento parziale 1 Il ricorso di annullamento mira a far annullare atti delle istituzioni dell’Unione contrari al diritto dell’Unione. A determinate condizioni, gli Stati membri, le istituzioni europee e i privati possono investire la Corte di giustizia o il Tribunale di un ricorso di annullamento. Se il ricorso è fondato, l’atto della direttiva 2009/12/CE2, che stabilisce principi comuni per la riscossione dei diritti aeroportuali versati dalle compagnie aeree agli aeroporti dell'Unione europea 3. La direttiva oggetto del contendere si applica agli aeroporti, aperti al traffico commerciale, il cui volume di traffico annuale supera la soglia di 5 milioni di movimenti passeggeri o, nel caso in cui nessun aeroporto raggiunga tale soglia minima in uno Stato membro, all’aeroporto avente il maggior traffico passeggeri annuale, che gode di una posizione privilegiata in quanto punto di entrata in tale Stato. In forza di detta direttiva, gli Stati membri devono provvedere affinché i diritti aeroportuali non creino discriminazioni tra gli utenti dell’aeroporto (le compagnie aeree). All’uopo deve essere istituita una procedura obbligatoria di consultazione (almeno una volta all’anno) tra il gestore dell’aeroporto interessato e gli utenti di quest’ultimo o i rappresentanti o le associazioni degli utenti dell’aeroporto in relazione all’applicazione del sistema, all’ammontare dei diritti aeroportuali e, se del caso, alla qualità del servizio. Nel ricorso proposto, il Lussemburgo ha contestato il fatto che l’aeroporto di Lussemburgo-Findel, unico aeroporto dello Stato, sia soggetto agli obblighi amministrativi e finanziari della direttiva, in quanto il traffico annuale è di 1,7 milioni di passeggeri all’anno, contrariamente ad altri aeroporti regionali limitrofi, che non sono inclusi nell’ambito di applicazione della direttiva sebbene abbiano un traffico maggiore4. Secondo il Lussemburgo, è vero che la direttiva è volta ad evitare qualunque rischio di abuso di posizione dominante degli aeroporti rientranti nel suo ambito di applicazione, ma un rischio siffatto è inesistente per quanto riguarda l’aeroporto di Findel, il quale, invece, si trova in una situazione concorrenziale rispetto agli aeroporti limitrofi che viene annullato. L’istituzione interessata deve rimediare all’eventuale lacuna giuridica creata dall’annullamento dell’atto. 2 La Direttiva 2009/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2009, concernente i diritti aeroportuali (GU L 70, p. 11). I diritti aeroportuali sono “prelievi riscossi a favore del gestore aeroportuale e pagati dagli utenti dell’aeroporto per l’utilizzo delle infrastrutture e dei servizi che sono forniti esclusivamente dal gestore aeroportuale e che sono connessi all’atterraggio, al decollo, all’illuminazione e al parcheggio degli aeromobili e alle operazioni relative ai passeggeri e alle merci”. 3 La direttiva doveva essere trasposta dagli Stati membri entro e non oltre il 15 marzo 2011. 4 Il Lussemburgo ha menzionato, per esempio, gli aeroporti di Charleroi (Belgio) e di Hahn (Germania) – il cui traffico annuale ammonta, rispettivamente, a 2,9 milioni e a 4 milioni di passeggeri – e quelli di Bordeaux (Francia) e di Torino (Italia), situati in prossimità di un centro urbano di una certa grandezza o caratterizzati da un certo livello di attività economica – con un movimento annuale, rispettivo, di 3,4 e 3,5 milioni di passeggeri. accolgono compagnie “a basso prezzo”, situati a Hahn (Germania) o a Charleroi (Belgio) e agli aeroporti che costituiscono centri aeroportuali («hub») come Francoforte (Germania) o Bruxelles (Belgio). Oltre ad una violazione del principio di parità di trattamento a motivo di un trattamento differenziato di situazioni analoghe – dato che l’aeroporto di Findel è incluso nella direttiva, mentre aeroporti regionali delle stesse dimensioni non lo sono – il Lussemburgo fa valere, peraltro, una violazione del principio di parità di trattamento in quanto l’aeroporto di Lussemburgo-Findel sarebbe trattato in modo identico agli aeroporti che accolgono oltre cinque milioni di passeggeri all’anno, sebbene non abbia né la medesima posizione di forza rispetto alle compagnie aeree né lo stesso potere economico di tali aeroporti. Nella sentenza in rassegna, la Corte di giustizia si è pronunciata statuendo che “l’aeroporto di Lussemburgo-Findel gode di una posizione privilegiata in quanto punto di entrata in tale Stato membro, ai sensi della direttiva. Di conseguenza, il fatto che esso sia incluso nell'ambito di applicazione della stessa non è contrario al principio di parità di trattamento”. La Corte constata che il legislatore dell’Unione, nell’adottare la direttiva de qua, ha ritenuto che non fosse necessario includere nell’ambito di applicazione della medesima l’insieme degli aeroporti dell’Unione, ma solo due categorie di aeroporti, quelli che superano la soglia minima di cinque milioni di passeggeri all’anno e quelli che, al pari dell’aeroporto di Lussemburgo-Findel, hanno il maggior traffico passeggeri annuale in uno Stato membro in cui nessun aeroporto raggiunge questa soglia minima. Adottando tale quadro comune, il legislatore dell’Unione ha inteso imporre il rispetto di taluni requisiti quali la trasparenza dei diritti aeroportuali, la consultazione delle compagnie aeree e la loro non discriminazione. Inoltre, nella pronuncia in rassegna la Corte, dopo aver esaminato la situazione degli aeroporti principali sotto il profilo della loro posizione rispetto alle compagnie aeree, ha affermato – con un’interpretazione teleologica o finalistica – che, negli Stati membri ove nessun aeroporto raggiunge la soglia minima prevista dalla direttiva, “l’aeroporto con il maggior traffico passeggeri annuale deve essere considerato il punto di entrata nello Stato membro di cui trattasi, il che gli conferisce una posizione privilegiata nei confronti delle compagnie aeree”. Infatti, tali aeroporti principali sono situati, in genere, in prossimità di un grande centro politico e/od economico in grado di attirare in gran parte una clientela d’affari per la quale il prezzo dei biglietti è solamente uno dei criteri tra gli altri e che può essere particolarmente sensibile all’ubicazione dell’aeroporto, alle possibilità di connessione con altri mezzi di trasporto, nonché alla qualità dei servizi forniti. Per questo segmento di mercato di media o alta gamma, le compagnie aeree hanno quindi un interesse strategico maggiore a proporre voli da e per un aeroporto principale come quello di LussemburgoFindel – piuttosto che voli da e per un aeroporto secondario come quello di Hahn – senza che l’importo dei diritti aeroportuali o il volume concreto di traffico passeggeri annuale possano essere considerati criteri decisivi per tali compagnie. Alla luce di quanto sopra, la Corte ha ritenuto che “pertanto, l’aeroporto di LussemburgoFindel, in quanto aeroporto principale, deve essere soggetto agli obblighi della direttiva, in considerazione del rischio di abuso di posizione privilegiata di tale aeroporto in merito alla fissazione dei diritti aeroportuali”. Per contro, gli aeroporti secondari – non soggetti agli obblighi della direttiva – non possono, per principio, essere considerati come il “punto di entrata” ai sensi della direttiva, indipendentemente dal numero annuale di passeggeri, quand’anche taluni di essi siano situati in prossimità di un centro urbano, come gli aeroporti di Bordeaux e di Torino. Inoltre, questi aeroporti secondari, segnatamente quelli che non si trovano in prossimità di un grande centro urbano, possono risultare più attraenti per le compagnie cosiddette “low cost”. Infatti, tali compagnie, guidate in via di principio da una strategia diversa, si rivolgono ad una clientela che, contrariamente alla clientela d'affari, è più sensibile ai prezzi dei biglietti e maggiormente disposta ad effettuare tragitti più lunghi tra la città di destinazione e l’aeroporto. Ciò considerato, ad avviso della Corte di giustizia il legislatore non ha commesso alcun errore manifesto e non ha superato i limiti del suo potere, ritenendo che gli aeroporti secondari non si trovino nella stessa situazione degli aeroporti principali. Inoltre, il fatto che la situazione di un aeroporto come quello di Findel non sia identica a quella degli aeroporti aventi un traffico passeggeri annuale superiore ai cinque milioni non significa che sia contrario al principio di parità di trattamento sottoporre queste due categorie di aeroporti agli stessi obblighi di trasparenza tariffaria previsti dalla direttiva. Infatti, la circostanza che detti aeroporti godano di una posizione privilegiata rispetto alle compagnie aeree giustifica l’applicazione della direttiva. La Corte di giustizia afferma, infine, che per le suesposte considerazioni il quadro dei principi comuni stabilito dalla direttiva è idoneo e necessario a realizzare l’obiettivo della stessa. Quanto alla proporzionalità, gli oneri risultanti dal regime introdotto dalla direttiva non appaiono manifestamente sproporzionati rispetto ai vantaggi che ne derivano. In particolare, ad avviso del giudice comunitario “non risulta che i costi lamentati dal Lussemburgo, connessi alla procedura di consultazione istituita dalla direttiva e obbligatoria per il Findel, possano comportare l’abbandono di tale aeroporto da parte delle compagnie aeree”. Infine, riguardo al principio di sussidiarietà, legittimamente il legislatore dell'Unione ha ritenuto che non fosse necessario includere nell’ambito di applicazione della direttiva gli aeroporti aventi un traffico passeggeri annuale inferiore ai 5 milioni, quando essi non costituiscono l’aeroporto principale del loro Stato membro. Corte di Cassazione, sez. I, sentenza 20 maggio 2011 n. 11185 (In tema di multe, notifica oltre il termine e conseguente obbligo di comunicare i dati del conducente). Nella sentenza in rassegna il giudice di legittimità, intervenendo su un tema alquanto dibattuto, rileva che in relazione alla contestazione della violazione di omessa comunicazione dei dati del conducente di un veicolo di cui all’art. 126 bis del Codice della Strada, ove la contestazione della violazione principale sia avvenuta tardivamente (per superamento del termine di cui all’art. 201 comma 1 Codice della Strada), va esclusa la sussistenza dell’obbligo, per il proprietario del veicolo, di comunicare gli estremi del conducente del veicolo al momento del rilevamento dell’infrazione. In particolare, ad avviso della Cassazione, in merito alla contestazione relativa alla mancata comunicazione dei dati del conducente di un veicolo, regolata dall’art. 126 bis del Codice della Strada, qualora la contestazione dell’infrazione principale sia avvenuta in ritardo, per superamento del termine di 150 gg. (in seguito alla riforma abbreviato a 90 gg.) di cui all’art. 201, del Codice della Strada, non c’è obbligo per il proprietario del veicolo di comunicare i dati del conducente. Ne consegue che, se la prima multa viene notificata oltre il termine previsto dalla legge, il proprietario del veicolo mediante il quale è stata commessa l’infrazione non è tenuto a comunicare i dati dell’autore e neppure è tenuto a corrispondere la sanzione per l’omessa comunicazione, sul presupposto che il secondo verbale è interdipendente dal verbale dove si contesta la violazione principale. Non si può infatti pretendere che il proprietario tenga a mente l’utilizzatore effettivo del mezzo di trasporto per un tempo illimitato, indipendentemente dal fatto che la sanzione relativa al primo verbale, anche se notificato tardivamente, sia stata pagata. Ad avviso della Suprema Corte la suddetta considerazione comporta che risulta illegittima la pretesa sanzionatoria connessa alla violazione per omessa comunicazione, contestata, successivamente alla prima, con apposito verbale di accertamento. Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 22 maggio 2011 n. C-249/10 (In tema di cancellazione del volo per circostanze eccezionali ed insussistenza dell’obbligo di compensazione). La questione sottoposta all’attenzione della Corte concerne il caso di una compagnia aerea costretta a cancellare un volo in seguito alla chiusura dello spazio aereo per black out (fuori uso dei radar dei centri di controllo e sistemi di navigazione). Nel caso in esame, il vettore aveva sostenuto la propria non imputabilità (per l’evento eccezionale) e, quindi, riteneva di non essere tenuto al pagamento di alcun rimborso. Nella sentenza in rassegna – in cui è stato richiamato il Regolamento CE del Parlamento europeo e del Consiglio n. 261/2004, concernente istituzione di regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato – i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno precisato che, ai sensi dell’art. 5, “il vettore aereo operativo non è tenuto a pagare una compensazione pecuniaria …, se può dimostrare che la cancellazione del volo è dovuta a circostanze eccezionali che non si sarebbero comunque potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso”. I giudici della Corte hanno tuttavia precisato che “atteso che non tutte le circostanze eccezionali determinano un esonero del rimborso del biglietto” l’onere della prova è a carico di colui che vuole avvalersene, ossia dovrà dimostrare che tali circostanze non si sarebbero potute evitare con misure idonee alla situazione. Inoltre, precisa la Corte europea, la valutazione della capacità del vettore aereo al fine della garanzia dell’intero volo (previsto alle nuove condizioni risultanti dal verificarsi di circostanze eccezionali) deve essere effettuata tenendo in debita considerazione il fatto che l’ampiezza del margine di tempo richiesto non comporti che il vettore possa essere indotto ad acconsentire a sacrifici insopportabili per le capacità della sua impresa nel momento preso in considerazione. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 23 maggio 2011 n. 3073 (In tema di circolazione stradale nei centri abitati e provvedimenti istitutivi di zone a traffico limitato – Z.T.L.). Nella sentenza in rassegna il supremo consesso amministrativo, esamina l’annosa questione relativa ai provvedimenti istitutivi di zone a traffico limitato, con particolare riferimento al città (metropolitana) di Roma, ponendo in rilievo come i provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono espressione di “scelte latamente discrezionali”, che coprono un arco molto esteso di soluzioni possibili, incidenti su valori costituzionali spesso contrapposti, i quali devono essere contemperati secondo “criteri di ragionevolezza”. Dalla suddetta considerazione, ad avviso del giudice amministrativo di appello consegue che avverso i provvedimenti istitutivi di zone a traffico limitato nei centri storici dei Comuni, non sono proponibili doglianze con cui si lamenta la violazione degli artt. 16 e 41 Cost. quando non sia vietato tout court l’accesso e la circolazione all’intero territorio, ma, come nel caso in esame, solo a delimitate, seppur vaste, zone dell’abitato urbano particolarmente esposte alle conseguenze dannose del traffico; inoltre, il giudice amministrativo rileva come deve ritenersi che la parziale limitazione della libertà di locomozione e di iniziativa economica sia sempre giustificata quando derivi dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali ed ambientali di assoluto rilievo mondiale o nazionale. La gravosità delle limitazioni si giustifica anche alla luce del valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione all’ambiente, al paesaggio, alla salute. Alla luce delle suesposte considerazioni, il supremo consesso amministrativo ha ritenuto legittima la deliberazione 29 luglio 2006, n. 410, con la quale il Comune di Roma, all’esito di una accurata istruttoria, e nel quadro di una più ampia manovra volta a ridurre gli effetti nocivi del traffico veicolare all’interno del centro storico, ha rimodulato il sistema tariffario relativo al rilascio dei permessi di accesso alle zone a traffico limitato individuate nel centro abitato, prevedendo in particolare: 1) che ad ogni permesso di accesso, di qualsivoglia categoria, venga abbinata una sola targa; 2) il divieto di rilascio di permessi di accesso senza targa; 3) il rilascio di non più di tre permessi di accesso, con tariffe e durata variamente modulate per ogni nucleo familiare residente nel centro; 4) il rilascio, in favore dei residenti, di un apposito permesso di solo transito di durata annuale e ad un costo prestabilito di duecento euro. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3498 del 8 giugno 2011 (In tema di fascia di rispetto stradale). Nella pronuncia in rassegna il giudice amministrativo di appello esamina il divieto di costruire a una certa distanza, imposto dall’art. 9 l. n. 729/1961 e dal d.m. Lavori Pubblici del 1 aprile 1968, relativamente ai c.d. vincoli stradali. Il Collegio, in primo luogo evidenzia, quanto alla natura dei vincoli stradali (ed, in particolare, autostradali), come “la giurisprudenza, con interpretazione che si condivide, ha già avuto modo di affermare che si tratta di vincoli di inedificabilità assoluta (Cass. civ., sez. II, 3 novembre 2010 n. 22422 e 10 gennaio 2007 n. 229; Cons. Stato, Ad. Plen. 16 novembre 2005 n. 9; Cons. St., sez. IV, 18 ottobre 2002 n. 5716 e, con specifico riferimento alle autostrade, sez. IV, 25 settembre 2002 n. 4927)”. In secondo luogo, nella sentenza in rassegna, il giudice amministrativo d’appello ha individuato alcuni aspetti che caratterizzano i predetti vincoli, evidenziando che: a) i vincoli di rispetto del nastro autostradale sono vincoli inderogabili; b) il vincolo di inedificabilità a 25 m. dal nastro autostradale, di cui all’art. 9 l. n. 729/1961, si applica alle autostrade la cui costruzione è avvenuta dopo l’entrata in vigore della legge medesima, ovvero alle autostrade la cui costruzione è stata già concessa a tale data; c) il vincolo autostradale, stante la sua natura e gli interessi pubblici per la cui tutela esso è previsto, opera indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale; d) che, con riferimento alla l. n. 47/1985 (cd. condono edilizio) per le opere abusivamente realizzate dopo l’imposizione del vincolo a tutela del nastro autostradale trova conseguentemente applicazione l’art. 33, comma 1, lett. d), l. n. 47/1985, che sancisce la insanabilità dell’opera realizzata. Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 14 giugno 2011, n. 3554 (In tema di modifica legislativa dei termini di durata delle concessioni demaniali marittime e sua applicazione anche ai rapporti concessori già in corso). Con la sentenza in rassegna il giudice amministrativo di appello ha affermato che, essendo pacifico che il legislatore possa incidere sui rapporti concessori in corso, modificandone “de futuro” i contenuti, in considerazione degli interessi pubblici che sottraggono determinati settori di attività alla libera autodeterminazione dei privati, va riconosciuto che la disposizione – dettata in via generale dall’art. 10 L. n. 88/2001 – di più lunghi termini di durata delle concessioni di beni demaniali marittimi debba applicarsi anche ai rapporti in corso, purché ancora efficaci, in assenza di esplicite limitazioni al riguardo ed in corrispondenza all’interesse pubblico perseguito, di agevolazione degli investimenti e di migliore gestione dei beni demaniali, in funzione del prolungato utilizzo dei medesimi. Corte di Cassazione, sez. III, decisione 21 giugno 2011, n. 14099 (In tema di sorpasso sulla destra e insussistenza del diritto al risarcimento danni). Nella sentenza in rassegna il giudice di legittimità è chiamato ad esaminare la sussistenza, o meno, dell’obbligo di risarcire i danni da sinistro stradale nel caso in cui gli stessi siano procurati da un soggetto che, col proprio mezzo di trasporto, superando sul lato destro – e quindi contravvenendo alle norme del Codice della Strada in tema di circolazione – abbia prodotto dei danni ad altro mezzo. In particolare, ad avviso del ricorrente – che denuncia la violazione dell’art. 157, co. 7, Codice della Strada – chiunque apra la portiera di un veicolo ha l’obbligo di assicurarsi preventivamente di poter compiere liberamente tale manovra, in modo tale che dalla stessa non possa derivare un pericolo per gli altri utenti della strada. Nella sentenza in rassegna la suprema Corte di Cassazione, invece, smentendo la tesi del ricorrente, ha statuito che il ricorrente è, nella fattispecie, responsabile in quanto “ha posto in essere un vero e proprio sorpasso (n.d.r. sorpasso sulla destra) tenendo un comportamento colpevole mentre nessun rimprovero può essere rivolto alla passeggera del camper per aver aperto lo sportello nella convinzione che nessun veicolo potesse provenire da destra … non potendo configurarsi in capo a quest’ultimo un dovere di tener conto dell’altrui comportamento in violazione di norme di legge”.