C`era una volta - Comune di Locate di Triulzi

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C`era una volta - Comune di Locate di Triulzi
COMUNE DI LOCATE DI TRIULZI
Città Metropolitana di Milano
“C’era una volta…”
“C’era una volta”. Cominciano sempre così le favole più belle che raccontano di boschi fatati e deliziose
principesse, di cavalli bianchi e principi azzurri, di sorprendenti magie e dolcissimi incantesimi.
Quando ero bambina, anch’io credevo di vivere in una fiaba. Il mio papà diceva sempre che ero la sua
“principessa” e certe volte capitavano anche le magie, come una mattina, quando mi risvegliai e
stropicciandomi gli occhi scoprii sul fondo del letto un micetto. Identico, spiccicato a quello che desideravo
io!!!
Ne sono passati di anni… Eppure ancora oggi il mio papà continua a chiamarmi “principessa”. Per lui sono
sempre bellissima, nonostante sul mio volto vi siano segni che un tempo non avrei potuto prevedere e che
ogni giorno, guardandomi allo specchio, fatico ad accettare come parte di me.
Il guaio è cominciato alla pagina sedici dei miei anni, precisamente nel capitolo intitolato: Il principe
azzurro.
Il mio si chiamava Franco. Ed era biondo, con gli occhi celesti, solo che non aveva un cavallo, ma la sua
macchina era lo stesso bianca scintillante. Eravamo davvero innamorati e stavamo sempre insieme. Veniva a
casa e facevamo scorpacciate di film sgranocchiando pannocchie tra un bacio rubato e una carezza cercata.
A volte lui si vedeva con i suoi amici e così le mie compagne mi proponevano di uscire con loro, ma a
Franco questa cosa non faceva tanto piacere. Perciò per non farlo rimanere male, alle amiche inventavo ogni
volta una scusa, finché smisero di importunarmi.
Gli abbracci del mio fidanzato erano per me così pieni che non avevo desiderio d’altro. Piano piano Franco
divenne il mio unico e irrinunciabile mondo.
A vent’anni ci sposammo. Fu una festa da sogno. Il mio sposo arrivò davanti alla chiesa su un cavallo bianco
e mi portò via al galoppo con il velo candido che volteggiava nel cielo, verso la nostra nuova vita!!!
Io studiavo in Università. Mi ero iscritta alla Facoltà di Lettere. Lui, che era più grande di me di cinque anni,
lavorava e mi ricopriva di regali.
Proprio nel giorno della mia laurea scoprii di essere incinta. Ero felice come una Pasqua. Peccato per il
lavoro. Avrei avuto subito pronta un’occasione di impiego presso un conoscente di mamma. Ma pazienza,
avrei iniziato più avanti.
Nacque Filippo. Al suo sesto compleanno io stavo ancora a casa!!!
Mio marito era convinto che fosse quello il mio posto. Il bambino aveva bisogno di me e lui aveva bisogno
di una camicia stirata al giorno, di un pranzo e di una cena come si conviene, di una moglie, insomma, che si
prendesse cura della sua famiglia.
I miei genitori mi ripetevano di continuo che, trovando io un lavoro che mi desse soddisfazioni e
indipendenza, non avrei certo tradito la mia famiglia, anzi saremmo stati molto meglio e Franco avrebbe
potuto darmi una mano in tutte quelle questioni che fino allora avevo preso in carico da sola. Ma non c’è
stato verso.
Tutte le volte in cui provavo ad accennargli questa ipotesi, diventava rosso come un pomodoro e sbatteva i
pugni sul tavolo della cucina. Filippo si spaventava e iniziava a piangere, allora io dopo un po’ ho smesso di
insistere.
Solo che Franco non era più contento. Gli cucinavo i suoi piatti preferiti e c’era sempre qualcosa che
sbagliavo. Troppo sale, insapore… caspita se si arrabbiava! Una sera, non so se apposta o per errore, è finito
un piatto di pasta a due centimetri dalla mia spalla.
“Ma che ti succede, Franco? Ho fatto qualcosa che ti ha offeso? Dimmelo, per favore!”.
Niente. Si chiudeva in se stesso per ore e poi con un tono lagnoso e provocatorio mi faceva sentire in colpa,
accusandomi di essere cambiata, di non volergli più bene, di essere sciatta e poco attenta. Allora era
diventata per me una specie di impresa per dimostrargli il contrario. Peccato che a un certo punto la fantasia
mi era scappata e le buone intenzioni a nulla erano servite.
Quel pomeriggio al supermercato fu tremendo. In fila alla cassa incontrai un compagno di Facoltà. Per me,
abituata a uscire di casa solo per le incombenze domestiche e gli impegni di Filippo, ritrovare un vecchio
amico, era stata una sorpresa.
Si vede che nell’entusiasmo mi dimenticai di mio marito, a fianco, due passi indietro.
Quando rientrammo, chiusa la porta, poggiò a terra le borse e mi sfilò uno schiaffo dritto in faccia. Io sentii
molto male. Un male bruciante che dalle guance passò subito allo stomaco. Un male che avrei voluto
scomparire e urlare. Invece rimasi e stetti in silenzio.
Riposi la spesa nei ripiani della credenza, nel frigo e nel freezer. Mi tolsi il cappotto e indugiai, come
imbambolata, in mezzo alla stanza, non so per quanto.
Lui accese la televisione. Filippo era dai nonni, per fortuna.
Durante la cena spaccò il silenzio e si abbandonò a un pianto incontrollabile. Mi chiese perdono, mi disse
che non riusciva a spiegarsi cosa gli fosse balenato in testa, che per un istante ebbe il terrore di perdermi, che
era follemente geloso perché mi amava troppo.
Franco mi amava troppo! Per questo era geloso! Per questo a mia volta gli domandai scusa. Per questo
ridussi al minimo qualsiasi occasione che potesse procurare in lui quel sentimento di amore geloso.
“Marta! Ma che ti sei fatta? Cosa è questo livido sul braccio?” Mia mamma si preoccupava e cominciava a
crearmi disturbo e nervosismo.
“Marta, ma possibile che tu non metta più il naso fuori dal guscio? Facciamoci una passeggiata. Andiamo a
mangiarci un gelato da Clelia, la tua amica dell’asilo, sai?”
“Piantala, mamma di starmi addosso!”
“Marta perché non rispondi al telefono? Ti ho chiamato per due ore. Dove sei stata? Con chi?”
“Non l’ho sentito, scusami, scusami, scusami! Ero in balcone, te lo giuro Franco!”
Una sberla, un’altra ancora, all’infinito ogni giorno, in qualsiasi momento, sempre lì, al riparo dagli sguardi,
in quello che fu il nostro nido di promesse, mutato in una cella gelida dalla quale mi era impossibile la fuga.
Non importava cosa facessi o non facessi dicessi o non dicessi addirittura pensassi o non pensassi. La
violenza di Franco era cieca, ma fiutava con esattezza millimetrica, me, la sua preda.
Fino all’ultima volta, Dio mio. Quando mi si spaccò il cuore.
Fu questa la frattura che avvertii quell’ultima, miracolosa, illuminante volta, in cui caddi a terra e non ebbi la
forza di rialzarmi.
Quell’ultima volta in cui Franco mi picchiò e mi chiese ancora perdono, giustificandosi di essere assediato
dalla gelosia, dai problemi sul lavoro, dal timore che io non lo amassi più.
Quell’ultima volta in cui tra di noi c’era anche Filippo, che a otto anni vide ciascuno di quei gesti,
accompagnati da parole strillate, crudeli e incomprensibili e disperato si precipitò in fondo all’angolo del
corridoio, dritto, invisibile, tremando di paura, fissando me, stesa sul pavimento, incapace di incontrare i suoi
occhi, con la mano protesa a lui e i singhiozzi che mi impedivano di calmarlo.
Quella fu l’ultima volta.
L’incantesimo è terminato. È terminato l’incantesimo malvagio!
Non sono più sola. Ho ritrovato le mie amiche. La gioia di stare con i miei genitori. Il piacere di uscire senza
vergogna con antichi compagni di corso. Il sorriso di mio figlio, al quale ogni sera, anche se ora è cresciuto,
racconto una fiaba che comincia così: “C’era una volta… una principessa e un principe che si amavano tanto
perché si rispettavano e si ascoltavano a vicenda, si offrivano reciproco sostegno in ogni situazione e si
fidavano l’uno dell’altra. Per questo vissero per sempre felici e contenti!”
Lucia Ravera
25 novembre 2016
Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne:
un racconto per la Scuola Secondaria di primo grado.
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