Alessandro Zattarin - Amici della Musica PADOVA

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Alessandro Zattarin - Amici della Musica PADOVA
ALESSANDRO ZATTARIN
Piccolo requiem per la Grande Guerra
17 novembre 2015
Padova, Auditorium Pollini
La Grande Guerra: compositori-organisti in Europa
ADRIANO FALCIONI
organo
ALESSANDRO ZATTARIN
drammaturgia e testi
Max Reger
da Sette Pezzi op. 145:
Trauerode “Ai morti della guerra 1914-1915”
Siegesfeier “Celebrazione della vittoria”
Herbert Howells
Rapsodia n. 3
Joseph Jongen
Sonata eroica op. 94
Secondo concerto del ciclo La Musica e la Prima Guerra Mondiale realizzato nell’ambito delle
manifestazioni promosse dalla Regione del Veneto per il centenario della Grande Guerra. Tre
compositori di tre diverse nazionalità: il tedesco Max Reger, l’inglese Herbert Howells e il belga
Joseph Jongen. La Sonata eroica è del 1930 ed è quindi successiva agli anni della guerra che
Jongen visse a Londra dopo aver lasciato con la famiglia il Belgio nel 1914. Nei brani di Reger
(compositore di cui nel 2016 si celebra il centenario della morte) la guerra è invece un’esperienza
diretta: Trauerode è un’ode funebre per i morti della guerra 1914-1915 e Siegesfeier una
celebrazione (prematura) della vittoria. Herbert Howells a sua volta compose la terza Rapsodia in
una notte insonne per i raid aerei dello Zeppelin nel marzo del 1918 a York.
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Piccolo requiem per la Grande Guerra
1. Germania (and Friends)
Gentile Signora, consentite la nostra più sincera partecipazione all’eroica morte di Vostro fratello.
Credetemi: per me è davvero un tormento andare in giro da civile e non poter fare nulla in questa
vergognosa guerra – vergognosa, s’intende, per il nostro nemico, la cui viltà e falsità nell’anno
1914 non dovrebbero più ritenersi concepibili! Vostro fratello ci ha difeso con la sua vita […]! Egli
ha dato inoltre un contributo affinché il popolo tedesco di Bach, Goethe, Beethoven non fosse
distrutto da asiatiche canaglie russe, da quei grossi palloni gonfiati […] dei Belgi e dei Francesi, dai
meschini e miserabili Inglesi.
Max Reger, lettera di condoglianze, 12 ottobre 1914
Nel 1914 l’Europa era sull’orlo del socialismo, ma anche della guerra. È una famosa frase di
Fernand Braudel, uno dei grandi storici del Novecento. La si può capire meglio completandola
così: Nel 1914 l’Europa era sull’orlo del socialismo, ma anche della guerra – e nessuno se ne
accorse. Neanche Lenin, che giusto l’anno prima scriveva: Una guerra tra Austria e Russia
sarebbe di grande aiuto alla rivoluzione in Europa; solo è difficile immaginare che Francesco
Giuseppe e lo zar Nicola vogliano farci questo favore.
Dunque l’Europa era sull’orlo della guerra, ma anche della rivoluzione. Scelse la guerra, e si ritrovò
la rivoluzione – d’ottobre. Raccontata così, la Prima Guerra Mondiale sembra la parafrasi della
celebre profezia di Churchill sulla Seconda, dopo che i diplomatici europei se n’erano tornati felici e
pacifici dalla conferenza di Monaco del 1938: Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno
scelto il disonore, e avranno la guerra. Il richiamo alla Seconda Guerra Mondiale calza per la
Prima come un guanto rovesciato: gli uomini del 1914 scelsero la guerra per un punto d’onore; e
questo guanto di sfida spiega perché la Grande Guerra sia finita davvero non nel 1918, ma nel
1945.
Nel 1914 nessun Paese europeo voleva la guerra, ma ogni Paese pensava che la volessero gli
altri. Per quasi un secolo, e soprattutto negli anni tra le due guerre, la Prima Guerra Mondiale è
stata letta come un giallo di Agatha Christie: con l’unico intento, cioè, di trovare il colpevole. La
Pace di Versailles non fu un disonore in quanto pace, ma in quanto commise l’errore – fatale,
perché pose le premesse della guerra successiva – di disonorare gli sconfitti, attribuendo loro in
tutto e per tutto, all’articolo 231 del trattato, la colpa della guerra. L’armistizio tra Italia e Austria,
per citare un esempio che ci riguarda e che tutti conosciamo, fu firmato in una villa priva di fasto,
Villa Giusti, scelta proprio per umiliare gli Austriaci, che per giunta furono fatti entrare dalla porta di
servizio. Del resto, era un mondo manicheo in cui le intenzioni aggressive erano sempre
addebitate all’avversario. Ma le cose sono poi così cambiate? Non ultimo paradosso della Prima
Guerra Mondiale è quello di sembrare lontanissima agli occhi addormentati dei più, mentre i
sonnambuli che un secolo fa si gettarono nel conflitto appaiono, oggi più che mai, nostri
contemporanei: se non altro perché il giallo della Grande Guerra è oggi più leggibile per noi di
quanto non lo fosse, per esempio, negli anni Ottanta del Novecento. Dopo la fine della guerra
fredda, il sistema mondiale con due superpotenze impegnate a evitare il conflitto maggiore con
una serie di conflitti minori, non meno sanguinosi e protratti nel tempo (il Vietnam, l’Afghanistan),
ha lasciato il posto a una complessa e imprevedibile varietà di forze, che comprende imperi in
declino e potenze in ascesa: una situazione che invita al confronto tra l’epoca attuale e quella di
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cento anni fa. L’attentato alle Torri Gemelle ha dimostrato ancora una volta come un unico evento
simbolico possa modificare d’un tratto le vecchie opzioni, conferendo alle nuove un’incontrollabile
urgenza. Cento anni fa era la guerra giusta; nel nostro terzo millennio, dopo la tremenda
accelerazione del secolo breve, l’urgenza è tale da poter essere giustificata come guerra
preventiva.
La composizione della guerra 1914-1918 non era la composizione delle guerre precedenti. Questa
composizione non era una composizione in cui c’era un uomo nel centro, circondato da una massa
di altri uomini, era una composizione senza capo né coda, una composizione in cui un angolo
contava quanto un altro angolo: la composizione del cubismo, insomma.
Gertrude Stein, Picasso, piccolo grande libro del 1938: l’anno della conferenza di Monaco. Il
cubismo di Picasso come premonizione della Prima Guerra, la conferenza di pace come preludio
della Seconda. Come diceva Nietzsche: Abbiamo l’arte perché non perisca in noi la verità.
Se la guerra mi ha ancor più decisamente convinto della necessità della guerra, la condotta dei
soldati d’Italia mi ha radicato nell’animo la convinzione non meno profonda della nostra vittoria. Io
pubblico il mio diario perché questa convinzione diventi una specie di vangelo collettivo degli
italiani […].
Parafrasando La coscienza di Zeno: la vittoria, come la malattia, è una convinzione, e Mussolini
era nato con quella convinzione. Fa un certo effetto leggere, col senno del poi, cioè della Seconda
Guerra Mondiale, la dedica che Mussolini annota nel suo diario della Prima:
«A Benito Mussolini, che intese la voce delle fumanti rovine del Belgio martire e della Francia
invasa e fu assertore fecondo dei diritti della civiltà contro la forza bruta, con ammirazione di
italiani, con affetto di commilitoni».
È un documento che conserverò fra i più cari ricordi della mia vita.
Benito Mussolini, Il mio diario di guerra (1915-1917)
Mussolini paladino della «civiltà» contro «la forza bruta» austro-tedesca. E poi «vittoria», la parola
indicibile: la «Vittoria di Samotracia» del Manifesto futurista di Marinetti è una statua mutilata come
la nostra Vittoria nella Prima Guerra Mondiale, che non è affatto diventata il «vangelo collettivo
degli italiani». Eppure, quella Grande Guerra l’Italia l’ha vinta. Alla faccia di un’altra profezia,
tedesca e non inglese stavolta, di quel Bismarck che aveva detto: Non so chi vincerà la prossima
guerra, ma so che la perderà chi avrà come alleato l’Italia. È pur vero che la Grande Guerra, tra il
1914 e il 1915, cioè nel periodo di cui Max Reger celebra i morti e la vittoria, ci ha visti prima alleati
degli Imperi Centrali, poi neutrali, infine alleati dell’Intesa, in un balletto non proprio edificante che
si è ripetuto, per più nobili ragioni, con la Seconda Guerra Mondiale: cominciare la guerra da una
parte e finirla dall’altra non è un talento che uno come Bismarck potesse apprezzare.
Va’ dove ti porta la vittoria, anzi la lingua: se Mussolini avesse saputo l’inglese anziché il tedesco,
Albione sarebbe stata così perfida ai suoi occhi (e ai suoi orecchi)? Che fine avrebbe fatto l’asse
Roma-Berlino? Anzi, avrebbe mai avuto inizio? Fantapolitica, certo. La Storia ci dice però che il 26
aprile 1915 il Patto di Londra per l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa lo firma il nostro
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ministro più inglese a partire dal nome, Sidney Sonnino, ebreo di madre gallese, con quella doppia
acrobazia di non far sapere del Patto al suo stesso governo e meno che mai al Parlamento
(«Trattandosi di un atto formale di tanta importanza si deve o no sentire il Consiglio dei ministri?»,
gli chiede Salandra: il primo ministro!) e di sganciarsi dalla Triplice Alleanza dichiarando guerra
solo all’Austria, non alla Germania, per rifarsi del Risorgimento incompiuto. Filogermanico in
superficie, filoinglese nel profondo: dalle colonne del «Corriere della Sera» Sonnino si era già
speso a sostegno alla guerra di Libia, che in fin dei conti fu un favore dell’Italia all’Inghilterra (dopo
i tanti favori dell’Inghilterra all’Italia durante il Risorgimento) per dare fastidio alla politica coloniale
della Francia, sgonfiandone la grandeur. Cento anni esatti dopo quella guerra di Libia, nel 2011, è
stata proprio la Francia a inaugurare l’attacco aereo contro Gheddafi.
Corsi e ricorsi storici. Somiglianze e coincidenze che vanno prese con le pinze, ma che un certo
disagio, se non un brivido di terrore, in ogni caso lo danno. Vorrei poter ricordare qui stasera,
senza che i miei interventi suonino interventisti, che da vocabolario il primo significato di pace è
‘condizione di un popolo che non sia in guerra con altri popoli e non abbia situazioni di lotta armata
al suo interno’. La pace si definisce in primo luogo come ‘assenza di guerra’, mentre la guerra non
si definisce come assenza di pace, perché è un concetto che basta a se stesso. Se la pace è
‘assenza-di’, allora bisogna riconoscere che la guerra – purtroppo – interviene a colmare un vuoto.
Ho una gran paura che non si trovino Bibbie in Francia; ti manderò fra qualche giorno il Libro dei
Salmi perché tu possa leggervi la profezia contro i Francesi. Te la ripeto: «La gente senza Dio
dev’essere annientata». Così scriveva la signora Bismarck, preoccupata per il marito che si
trovava a Versailles. A distanza di 44 anni dalla battaglia di Sedan, dopo quasi mezzo di secolo di
pace, la Belle Epoque scopre che le manca la guerra: un vuoto di potere, il collasso dell’Impero
Ottomano, e dunque la scintilla che parte dai Balcani, da un colpo di pistola sparato a Sarajevo;
ma anche, si vorrebbe dire, il vuoto della pace.
A quell’epoca l’Europa dormiva beata come un ipocrita animale da preda, e l’umanità pensava
cose scriteriate, con il tacito consenso dell’animale addormentato.
Pierre Mac Orlan, Il porto delle nebbie, romanzo francese del 1927. Un’Europa di lupi travestiti
da agnelli. Va a finire che della Belle Epoque non si contano le brutture. Nella bellezza della Belle
Epoque, come in ogni vera bellezza, c’era il terrore – e il terrore è sempre sotto la superficie: il
terrore fende la superficie della bellezza come la pinna di uno squalo.
Possediamo tutti, nel fondo oscuro del nostro pensiero, un mattatoio maleodorante. […] Qualche
volta, ma raramente, il mattatoio ha un buon odore, perché tutti possediamo […] un angolino in cui
conservare ciò che resta in noi di un po’ pulito...
Questa di Mac Orlan potrà sembrare una posizione estrema. Eppure: che cosa furono le trincee,
se non mattatoi maleodoranti? L’espressione francese envoyer des troupes à l’abattoir (passata
anche in italiano: mandare i soldati al macello) viene da quel bagno di sangue che si riverbera su
tutto il XX secolo. Nel 1927 le nazioni europee si stavano ancora leccando le terribili ferite della
Grande Guerra, e Il porto delle nebbie – un romanzo il cui protagonista è un macellaio con l’hobby
dell’omicidio – arrivava al momento giusto per denunciare il vuoto che rimpiazza ogni guerra.
Abbiamo l’arte perché non perisca in noi la verità.
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2. Inghilterra (e Alpini)
La domanda sorge spontanea: che cosa sapevano della guerra i sonnambuli del 1914, a 44 anni
dalla guerra francoprussiana, dopo quasi mezzo secolo di pace?
Non la conoscevano, non ci avevano quasi mai pensato. Apparteneva alla leggenda e la
lontananza l’aveva resa eroica e romantica. La vedevano pur sempre dalla prospettiva delle
antologie scolastiche e dei quadri nelle gallerie: attacchi a cavallo con uniformi scintillanti, la palla
mortale che attraversa sempre generosamente il cuore, tutta l’impresa ridotta a una marcia
sonante di vittorie… […] Chi nelle città e nei villaggi si ricordava ancora della vera guerra? Tutt’al
più pochi vecchi che nel 1866 avevano combattuto contro la Prussia, l’odierna alleata, ed era stata
una guerra rapida, lontana, […] una campagna finita in tre settimane […]. Una rapida corsa nel
romanticismo, un’avventura impetuosa e virile, ecco come si presentava la guerra nel 1914
all’immaginazione dell’uomo semplice, tanto che i giovani nutrivano sincero timore di rimanere
esclusi da quell’esperienza meravigliosa ed eccitante e per questo accorrevano impazienti sotto le
bandiere […].
Stephen Zweig, Il mondo di ieri. Pacifista convinto e impegnato, lo scrittore austriaco Stephen
Zweig fu inviato speciale dal fronte galiziano e perciò fece esperienza diretta della Grande Guerra.
Nel 1940 diventò cittadino inglese.
E le cose non cambiano con la Seconda Guerra Mondiale.
Qui c’era in gioco un fattore romantico. Ciò che ci avevano insegnato al corso, come tattiche, era
roba da prima guerra mondiale. Ora lì sull’Altipiano c’erano letteralmente le trincee della prima
guerra mondiale, coi loro camminamenti e tutto; e la tentazione romantica di rifare le tattiche come
al corso […] era forte. […] il caposquadra si alza in piedi, gli altri lo imitano, e tutti si slanciano sulla
trincea finta gridando Savoia! […] bisogna dire che questo grido era fonicamente perfetto; a me
non mancava mai di procurare una certa ebbrezza, tanto è vero che sognando di ripristinare
queste tattiche sull’Altipiano, sentivo che ci sarebbe voluto un grido analogo, forse La troia! che
rendeva l’idea.
Luigi Meneghello, I piccoli maestri. Dopo la guerra, svanito il sogno del Partito d’azione («Non ci
hanno votato neanche le nostre fidanzate»), Meneghello vince un concorso per insegnare in una
università inglese: un incarico che segnerà il destino della sua vita.
Avanti Savoia. C’è un eroismo tragicomico che viene dal basso, anzi dalla suola: la suola delle
scarpe. Lasciarci le scarpe è un modo di dire che viene dalla Grande Guerra. Uno dei libri più
fortunati è quello di Paolo Monelli, Le scarpe al sole (1921), titolo spiegato fin dalla prima pagina
(«Nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole significa morire in combattimento») e sottotitolo
che dice molto di quel pittoresco sottogenere della letteratura della Grande Guerra che fu la
letteratura alpina, col suo registro tragicomico e farsesco che da Monelli arriva fino a Monicelli (i
cognomi si rincorrono): Le scarpe al sole. Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli
e di vino. La Grande Guerra come poema eroicomico, il cui protagonista è un particolare tipo
umano, l’alpino, rappresentato come un soldato diverso da tutti gli altri e consapevole di questa
diversità: un misto di bonomia e di forza fisica, brontolone ma ubbidiente, un po’ Maciste e un po’
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Sior Todero, incline al bere ma pronto, sempre, a un disperato eroismo, capace di resistere alle
intemperie e perfettamente integrato con l’ambiente montano che è il teatro delle sue gesta e
soprattutto della sua fenomenale resistenza alla fatica («gioia fisica, issare pezzi così pesanti […]
che nemmeno i muli ce la fanno», si legge nel libro di Monelli). Una specie di epica depotenziata,
quasi una parodia, a metà tra l’Iliade e Le mille e una notte:
…e c’è lontano, lontano di qui, in un bel castello ovattato di tappeti e di arazzi, un ufficiale che
scrive, un dattilografo che copia, un piantone che esce, un colonnello che sacramenta: la nostra
mitologia, gli dèi misteriosi che tirano i fili del nostro destino.
…e c’è lontano, lontano di qui. Così lontano, così vicino, se è vero quel che dice Karl Kraus, altro
grande scrittore austriaco che dell’Austria fu la coscienza morale in tempo di guerra: C’è chi ha
passato la vita a indagare i misteri dell’essere, senza ricavarne abbastanza da scaldarcisi i piedi; e
chi invece, risuolando le scarpe, è arrivato molto vicino ai misteri dell’essere.
Per una curiosa coincidenza, l’italiano mettiti nei miei panni in inglese diventa mettiti nelle mie
scarpe. Che possono essere anche le «scarpe di cielo» di Ardengo Soffici e del suo Aeroplano,
poesia che esalta quelli che il generale Cadorna liquidava come «giocattoli» (del resto, quando
scoppia la Grande Guerra è passata solo una decina d’anni dal primo storico volo dei fratelli
Wright): Oggi si vola / C’è un’allegria più forte del vino […] / è il ricordo del nostro indirizzo scritto
sul tappeto del mondo / […] Stringo il volante con mano d’aria / Premo la valvola con la scarpa di
cielo / […] / Mangio triangoli di turchino di mammola / Fette d’azzurro / […] / L’infinito ha un
profumo di frutta matura / di benzina / di cosce di poppe di capelli pettinati sotto la doccia / delle
mie ascelle che adoro / […] / Basta non vomitare – che suona come una parodia involontaria, con
l’eroe dell’aria che diventa comico proprio nel momento in cui si sottrae al mattatoio maleodorante,
dall’alto della sua «trincea d’oltremare», come la chiama Soffici. E invece la cavalleria decade, e il
giocattolo dell’aviazione prende quota, aureolandosi di fascino e prestigio. La passione per il volo
non è un’esagerazione poetica: i rari ristoranti aperti a Parigi durante la guerra avevano uscite
secondarie per gli aviatori, per proteggerli dall’entusiasmo delle folle. Aviatori come Francesco
Baracca, o come Roland Garros, il Baracca dei francesi.
Ne ho incontrato, in guerra, degli uomini celebri! Ma nessuno è in fanteria: D’Annunzio vola; Ugo
Ojetti… non vola ma si lascia promuovere per merito di guerra, in quel di Udine; l’onorevole
Federzoni è bombardiere; Sem Benelli anche, come ricorda chi gli ha intitolato una via. Dei
giornalisti Arnaldo Fraccaroli… naviga! Naturalmente il fante fa il resto…
È uno dei passi più famosi del famoso Diario di un imboscato di Attilio Frescura. Non c’è niente
da fare: i poeti, i letterati e gli intellettuali sono sempre più bravi a battere il tamburo della
propaganda che a inastare la baionetta. Una nota che non sfigurerebbe nel film di Monicelli.
Sostituendo un lavoro preciso a un eventuale capolavoro, l’arte militare sacrifica deliberatamente
la potenzialità del singolo per ridurre gli elementi incerti […] nell’umanità arruolata. […] Una guerra
di forze irregolari si prospetta assai più intellettuale di una carica alla baionetta, molto più faticosa
del servizio nell’obbedienza comoda e imitativa di un esercito regolare. […] Nella guerriglia, di due
uomini impiegati per una stessa missione, almeno uno è di troppo.
Il più leggendario eroe inglese della Prima Guerra Mondiale, immortalato da uno dei più famosi
kolossal del cinema, è Lawrence d’Arabia – che era una spia. La guerra isolata di Lawrence è
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molto più rapsodica della guerra di trincea: è una guerra itinerante, imprevedibile, individuale. Di
due uomini impiegati per la stessa missione, almeno uno è di troppo. Lawrence come Churchill, la
guerriglia come la democrazia: funziona quando si è in due, e l’altro è ammalato. I sette pilastri
della saggezza sono il diario di guerra di un ufficiale che è anche un magnifico scrittore d’azione,
proprio perché non cerca la letteratura.
Avevo avuto una sola ambizione nella vita, esprimermi in qualche forma artistica, ma ero stato
troppo dispersivo per poter mai acquisire una tecnica. Infine il caso, con uno spirito perverso,
mettendomi nei panni [= nelle scarpe!] di uomo d’azione, mi aveva dato un posto nella Rivolta
araba, un tema pronto ed epico per un occhio e una mano fermi, offrendomi così uno sfogo nel
campo della letteratura, l’arte meno tecnica. Solo che mi eccitavo quasi esclusivamente per
l’aspetto meccanico. Il lato epico mi era estraneo, come per tutta la mia generazione.
Eccoli qui, i «meschini e miserabili Inglesi» detestati da Max Reger. Lawrence lavorava 18 ore al
giorno, e per curare l’igiene del mondo trascurava la propria, al punto da essere definito «l’ufficiale
più sporco di stanza in Egitto». La guerra levantina è una guerra irregolare e mobilissima, fatta da
agenti segreti che carpiscono la fiducia di un popolo proverbialmente infido, ed è quindi una guerra
di infidi e di infedeli: come ha osservato Italo Calvino, leggendo le cose arabe di Lawrence (che
sono poi cose turche) sembra di leggere l’Anabasi di Senofonte, dove diecimila mercenari greci si
devono aprire la via del ritorno tra popolazioni nemiche dopo una spedizione fallimentare in Asia
Minore voluta da un principe persiano per spodestare il fratello. Un intrigo da servizi segreti, per
l’appunto. Un’operazione di intelligence che – guarda caso – si rivela molto meno chirurgica del
previsto.
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3. Belgio (e così sia)
Che m’importa se il Belgio
è diventato il cimitero delle nazioni?
[…]
Oh una Lovanio tutti i giorni
per frutta delle mie colazioni!
Ma non amate le rovine e i ruderi
più delle belle cose intatte?
Pompei e Roma?
Oh quanto, poi, avrete da commuovervi!
Corrado Govoni, Guerra!
Scorrendo le Memorie del tempo presente di Riccardo Bacchelli, si scopre che «il Carso fu fatto
da Dio coi sassi avanzati dalla fabbrica del mondo». Il pensiero corre a una leggenda afghana
secondo cui Allah, quando finì di creare il mondo, coi pezzi avanzati fece l’Afghanistan: è questo il
tratto comune – il minimo comune denominatore – di ogni teatro di guerra. Ma anche la Prussia,
cioè lo Stato militare per eccellenza (un regno inventato, abolito per decreto dalle potenze vincitrici
della Seconda Guerra Mondiale: una specie di mostro giuridico e geografico, fatto di pezzi
disparati che in origine non avevano alcuna identità comune) – anche la Prussia aveva una terra
proverbialmente arida, sabbiosa. I viaggiatori la paragonavano addirittura ai deserti d’Arabia; lo
stesso Federico il Grande, il sovrano assoluto che nel Settecento fece grande la Prussia puntando
sull’unica cosa che la Prussia avesse, cioè la forza militare, scrisse a Voltaire che, quanto a
sabbia, l’unico Paese che ne aveva di più era la Libia. Un viaggiatore straniero scrive in una lettera
da Berlino: «Qui non c’è niente di interessante. L’unica cosa magnifica sono i soldati».
Limitandoci al puro dominio della forza bruta, la memoria umana non ricorda una manifestazione
comparabile all’eruzione del vulcano tedesco. Per quattro anni la Germania combatté, sfidando i
cinque continenti del mondo, per terra, per mare e nell’aria. Gli eserciti tedeschi sostennero i loro
vacillanti alleati, intervennero con successo in ogni teatro di guerra, […] e ai nemici inflissero
perdite […] doppie di quelle […] subite. Per spezzare la loro resistenza e la loro scienza, per
piegare la loro furia, fu necessario coalizzare contro di loro tutte le grandi nazioni dell’umanità.
Superiorità numerica, risorse illimitate, sacrifici incommensurabili, il blocco navale, non riuscirono a
prevalere per 50 mesi. […] e […] 20 milioni di uomini perirono o versarono il loro sangue prima che
la spada fosse strappata da quelle mani. Oh Germania! Per la Storia è abbastanza.
Così scriveva Winston Churchill nel 1927: lo stesso anno del Porto delle nebbie di Mac Orlan.
Per la Storia non fu abbastanza, come sappiamo: una seconda eruzione del vulcano tedesco – un
secondo mattatoio – avrebbe insanguinato il Novecento. Churchill, la Cassandra che nel 1938
profetizza la guerra in tempo di pace, non azzecca la profezia quando sogna la pace finita la
guerra. Si direbbe che interpretare il passato sia più difficile che prevedere il futuro. Forse perché
la Storia è tutto, tranne che maestra di vita.
Anche la guerra è un vuoto. Anzi, un difetto: non tanto, o non solo, un difetto di umanità, quanto un
difetto di immaginazione. Lenin che scrive: […] è difficile immaginare che Francesco Giuseppe e lo
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zar Nicola vogliano fare un favore alla rivoluzione scatenando una guerra. O il primo ministro
inglese che alla fine di luglio del 1914, nei giorni della dichiarazione di guerra dell’Austria alla
Serbia, annota nel suo diario: Fortunatamente non c’è ragione per cui dovremmo essere qualcosa
di più che spettatori. Lloyd George, che a differenza del suo primo ministro era un interventista
convinto e che durante il conflitto fu ministro delle Munizioni e ministro della Guerra, a guerra finita
scrisse che i capi politici europei erano tutti uomini «esperti, coscienziosi e rispettabili, ma privi
d’immaginazione»: «tutti abili marinai col mare calmo, ma impotenti di fronte a un tifone». È difficile
immaginare una guerra così disumana tra nazioni così civili: una guerra decisa da persone
educate, qualificate, oggi qualcuno le chiamerebbe addirittura moderate; diciamo pure: persone
perbene, non pazzi sanguinari (a parte gli intellettuali, s’intende: a sentire il futurista Govoni che si
augura un’invasione del Belgio tutti i giorni a colazione, la guerra dimostrerebbe che «il vero Dio è
l’uomo quando vuole»). È difficile immaginare che una sola battaglia possa fare più di un milione di
morti, come la battaglia della Somme nel 1916. È difficile immaginarlo perché la guerra – ogni
guerra – è il ritorno del rimosso. Possediamo tutti, nel fondo oscuro del nostro pensiero, un
mattatoio maleodorante. Il nostro terrore della guerra è la nostra incapacità di prevederla, di
includerla nel nostro orizzonte: l’incapacità di sostenere quello sguardo, quell’odore. Il monito più
tremendo viene dall’immaginazione di Albert Einstein: Non so chi vincerà la Terza Guerra
Mondiale, ma so che la Quarta si combatterà con le clave.
Fin dai primi giorni che si parlava delle probabilità della guerra, mi s’era cominciato a far nella testa
un po’ di confusione; la quale crebbe poi a mano a mano che la probabilità si venne mutando in
certezza. Confusione, dico, e non saprei dir altro: […] ondate di sangue infuocato alla testa, gran
prurito di menar le mani, grande smania di moto, d’aria, di luce, di musica e di versi, e assoluta
impossibilità di fissare la mente in un qualunque pensiero. Neanche nel pensiero della guerra,
perché il rappresentarmene coll’immaginazione gli avvenimenti, per quanto meravigliosi e terribili,
era pure un togliere qualcosa a quell’idea d’un avvenire indeterminato e avventuroso, che
m’infondeva tanta allegrezza e tanta pienezza di vita.
Edmondo De Amicis, La vita militare: libro di racconti che è una specie di versione adulta del
libro Cuore. Qui la guerra non è solo un difetto di immaginazione, ma un’immaginazione
volutamente difettosa per meglio assaporare l’ignoto: «smania di moto, d’aria, di luce, di musica e
di versi». E infatti:
Entrato io in casa, non c’era più quiete. Tiravo giù dallo scaffale una dozzina di libri, ne scorrevo
una pagina per ciascuno, […] e poi li buttavo tutti all’aria ad un tratto. – Non bastano!, gridavo; non
bastano i libri! I libri non dicono quel che mi bolle dentro! […] Ma di’ tu, mamma, in nome del cielo,
ma che in tutta la letteratura italiana non ci siano dei versi che mi esprimano questa febbre che mi
divora? – Berchet! – essa mi suggeriva timidamente. – No, no, Berchet – io le rispondevo […] –
Berchet è irato, Berchet odia, Berchet maledice, ed io amo in questi momenti, amo
immensamente, amo tutti, mi sento fratello di tutti, getterei le braccia al collo a tutti quelli che
incontro per la strada. Amo anche gli Austriaci, cara madre! Tirerò a freddarne molti; ma li amo,
perché gli è grazie a loro che l’Italia si riscuote così, e solleva la testa, e si rivela così potente e
bella e cara […]. Morte agli Austriaci, ma viva anche loro! Non mi son mai sentito tanto cristiano!
Confusione, dico, e non saprei dir altro. Certo: «confusione» è il minimo che si possa dire,
leggendo queste righe. La guerra come primavera di un popolo, esplosione di gioia, invito alla
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fratellanza. Il conflitto col nemico esterno come risoluzione dei conflitti interni: Quanto eravamo tutti
migliori in quei giorni! […] Che giovialità! Che affettuosa armonia tra gli amici! La guerra che
migliora le persone e fa bene ai rapporti umani: aberrazione del comandamento evangelico
Amatevi gli uni gli altri, perché il nemico lo si uccide per amore, per ringraziarlo di questa iniezione
di vitalità. Non mi son mai sentito tanto cristiano! Solo De Amicis poteva arrivare a tanto. L’altro
motivo di sorpresa è che De Amicis li intitola Ricordi del 1866: sembra una descrizione del 1914,
o del 1915, del nostro maggio radioso, della nostra Prima Guerra mondiale – e invece è la terza
guerra d’indipendenza del nostro Risorgimento. Il mondo di ieri: non quello di oggi. Un’illusione
prospettica che tuttavia esemplifica la peculiarità dell’euforia italiana nel contesto dell’euforia
europea così ben descritta da Zweig: l’idea della Prima Guerra Mondiale come quarta guerra
d’indipendenza, coronamento del Risorgimento incompiuto.
Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita
ma io è per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
[…]
Altri morirà per le medaglie e per le ovazioni
ma io per questo popolo illetterato
che non prepara guerra perché di miseria ha campato
la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni
Piero Jahier, Dichiarazione: anno 1916. Dichiarazione di pace, più che di guerra, e insieme
presagio della rivoluzione – d’ottobre. Ma più bella ancora è la dichiarazione in prosa di
Quarant’anni dopo, quando Jahier, ricordando una conversazione con Paul Claudel, poeta
francese cattolico, fieramente e monoteisticamente convinto della necessità superiore della
Grande Guerra, risponde:
[…] no, non voglio essere un «eletto»; non voglio farmi assolvere da un Dio fatto a mia immagine e
somiglianza, sia pure col meglio di me stesso […]. Più che mai, oggi voglio essere un misero
uomo, con tutte le miserie dei miseri uomini del mio misero cuore. E se mi immergerò volontario
negli orrori di questa guerra, non sarà per quella che mi pare ironia blasfema: che la guerra possa
«rendre plus court le chemin vers Dieu», ma per la timida speranza che la resistenza
all’aggressione possa abbreviare il cammino dell’uomo verso l’uomo.
La voce più limpida è forse questa voce laica che si dissocia dalle certezze della fede.
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ALESSANDRO ZATTARIN
Piccolo requiem per la Grande Guerra
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