Caritas in Veritate
Transcript
Caritas in Veritate
La Parola del Papa Benedetto XVI Caritas in Veritate Cari fratelli e sorelle! La mia nuova Enciclica Caritas in veritate che ieri (7 luglio) è stata ufficialmente presentata, si ispira per la sua visione fondamentale ad un passo della lettera di san Paolo agli Efesini, dove l’Apostolo Benedetto XVI firma la nuova enciclica Caritas in Veritate. parla dell’agire secondo verità nella carità: «Agendo – lo abbiamo sentito ora – secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo, Cristo» (4,15). La carità nella verità è quindi la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. Per questo, attorno al principio «caritas in veritate», ruota l’intera dottrina sociale della Chiesa. Solo con la carità, illuminata dalla ragione e dalla fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di valenza umana e umanizzante. La carità nella verità «è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi» (n. 6). L’Enciclica richiama subito nell’introduzione due criteri fondamentali: la giustizia e il bene comune. La giustizia è parte integrante di quell’amore «coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,18), a cui esorta l’apostolo Giovanni (cfr n. 6). E «amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone… Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera» per il bene comune. Due sono quindi i criteri operativi, la giustizia e il bene comune; grazie a quest’ultimo, la carità acquista una dimensione sociale. Ogni cristiano – dice l’Enciclica – è chiamato a questa carità, ed aggiunge: «é questa la via istituzionale … della carità» (cfr n. 7). Come altri documenti del Magistero, anche questa Enciclica riprende, continua ed approfondisce l’analisi e la riflessione della Chiesa su tematiche sociali di vitale interesse per l’umanità del nostro secolo. In modo speciale, si riallaccia a quanto scrisse Paolo VI, oltre 40 anni or sono, nella Populorum progressio, pietra miliare dell’insegnamento sociale della Chiesa, nella qua- 1 le il grande Pontefice traccia alcune linee decisive, e sempre attuali, per lo sviluppo integrale dell’uomo e del mondo moderno. La situazione mondiale, come ampiamente dimostra la cronaca degli ultimi mesi, continua a presentare non piccoli problemi e lo «scandalo» di disuguaglianze clamorose, che permangono nonostante gli impegni presi nel passato. Da una parte, si registrano segni di gravi squilibri sociali ed economici; dall’altra, si invocano da più parti riforme non più procrastinabili per colmare il divario nello sviluppo dei popoli. Il fenomeno della globalizzazione può, a tal fine, costituire una reale opportunità, ma per questo è importante che si ponga mano ad un profondo rinnovamento morale e culturale e ad un responsabile discernimento circa le scelte da compiere per il bene comune. Un futuro migliore per tutti è possibile, se lo si fonderà sulla riscoperta dei fondamentali valori etici. Occorre cioè una nuova progettualità economica che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento etico della responsabilità davanti a Dio e all’essere umano come creatura di Dio. L’Enciclica certo non mira ad offrire soluzioni tecniche alle vaste problematiche sociali del mondo odierno – non è questa la competenza del Magistero della Chiesa (cfr n. 9). Essa ricorda però i grandi principi che si rivelano indispensabili per costruire lo sviluppo umano dei prossimi anni. Tra questi, in primo luogo, l’attenzione alla vita dell’uomo, considerata come centro di ogni vero progresso; il rispetto del diritto alla libertà religiosa, sempre collegato strettamente con lo sviluppo dell’uomo; il rigetto di una visione prometeica dell’essere umano, che lo ritenga assoluto artefice del proprio 2 destino. Un’illimitata fiducia nelle potenzialità della tecnologia si rivelerebbe alla fine illusoria. Occorrono uomini retti tanto nella politica quanto nell’economia, che siano sinceramente attenti al bene comune. In particolare, guardando alle emergenze mondiali, è urgente richiamare l’attenzione della pubblica opinione sul dramma della fame e della sicurezza alimentare, che investe una parte considerevole dell’umanità. Un dramma di tali dimensioni interpella la nostra coscienza: è necessario affrontarlo con decisione, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri. Sono certo che questa via solidaristica allo sviluppo dei Paesi più poveri aiuterà certamente ad elaborare un progetto di soluzione della crisi globale in atto. Indubbiamente va attentamente rivalutato il ruolo e il potere politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni alla loro sovranità a causa del nuovo contesto economicocommerciale e finanziario internazionale. E d’altro canto, non deve mancare la responsabile partecipazione dei cittadini alla politica nazionale e internazionale, grazie pure a un rinnovato impegno delle associazioni dei lavoratori chiamati a instaurare nuove sinergie a livello locale e internazionale. Un ruolo di primo piano giocano, anche in questo campo, i mezzi di comunicazione sociale per il potenziamento del dialogo tra culture e tradizioni diverse. Volendo dunque programmare uno sviluppo non viziato dalle disfunzioni e distorsioni oggi ampiamente presenti, si impone da parte di tutti una seria riflessione sul senso stesso dell’economia e sulle sue finalità. Lo esige lo stato di salute ecologica del pia- neta; lo domanda la crisi culturale e morale dell’uomo che emerge con evidenza in ogni parte del globo. L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; ha bisogno di recuperare l’importante contributo del principio di gratuità e della «logica del dono» nell’economia di mercato, dove la regola non può essere il solo profitto. Ma questo è possibile unicamente grazie all’impegno di tutti, economisti e politici, produttori e consumatori e presuppone una formazione delle coscienze che dia forza ai criteri morali nell’elaborazione dei progetti politici ed economici. Giustamente, da più parti si fa appello al fatto che i diritti presuppongono corrispondenti doveri, senza i quali i diritti rischiano di trasformarsi in arbitrio. nel rispetto delle grandi tradizioni morali e religiose dell’umanità. Occorre, si va sempre più ripetendo, un diverso stile di vita da parte dell’umanità intera, in cui i doveri di ciascuno verso l’ambiente si colleghino a quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. L’umanità è una sola famiglia e il dialogo fecondo tra fede e ragione non può che arricchirla, rendendo più efficace l’opera della carità nel sociale, e costituendo la cornice appropriata per incentivare la collaborazione tra credenti e non credenti, nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace nel mondo. Come criteri-guida per questa fraterna interazione, nell’Enciclica indico i principi di sussidiarietà e di solidarietà, in stretta connessione tra loro. Ho infine segnalato, dinanzi alle problematiche tanto vaste e profonde del mondo di oggi, la necessità di un’Autorità politica mondiale regolata dal diritto, che si attenga ai menzionati principi di sussidiarietà e solidarietà e sia fermamente orientata alla realizzazione del bene comune, Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché anche questa Enciclica possa aiutare l’umanità a sentirsi un’unica famiglia impegnata nel realizzare un mondo di giustizia e di pace. Preghiamo perché i credenti, che operano nei settori dell’economia e della politica, avvertano quanto sia importante la loro coerente testimonianza evangelica nel servizio che rendono alla società. In particolare, vi invito a pregare per i Capi di Stato e di Governo del G8 che si incontrano in questi giorni a L’Aquila. Da questo importante summit mondiale possano scaturire decisioni ed orientamenti utili al vero progresso di tutti i Popoli, specialmente di quelli più poveri. Affidiamo queste intenzioni alla materna intercessione di Maria, Madre della Chiesa e dell’umanità. Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive l’uomo: non con beni materiali soltanto si può soddisfare la sete profonda del suo cuore. L’orizzonte dell’uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni programma di sviluppo deve tener presente, accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata appunto di anima e di corpo. È questo lo sviluppo integrale, a cui costantemente la dottrina sociale della Chiesa fa riferimento, sviluppo che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della «carità nella verità». Udienza generale. Aula Paolo VI, mercoledì, 8 luglio 2009. 3 Padri Cistercensi Educare nell’amore, una pedagogia viva nel «De diligendo Deo» di San Bernardo di Chiaravalle Leandro Posadas Carrero* osb. «O amor sanctus et castus! O dulcis et suavis affectio! O pura et defaecata intentio voluntatis, eo certe defaecatior et purior, quo in ea de proprio nil iam admixtum reliquitur, eo suavior et dulcior, quo totum divinum est quod sentitur! Sic affici, deificari est» (Dil, X, 28) San Bernardo di Chiaravalle, uomo nella scuola dell’amore N el XXXI canto del Paradiso, Dante è improvvisamente abbandonato da Beatrice, che manda da lui «un sene vestito con le genti gloriose», i cui occhi e le cui guance risplendono di gioia benevola. Il vecchio è Bernardo di Chiaravalle, che sarà la guida suprema del poeta – quella che lo condurrà a Maria, la Madre di Dio la più grande delle creature, e da ultimo, all’indescrivibile visione della Trinità, «l’amor che muove il sole e le altre stelle». Bernardo è lo specchio umano in cui Dante può iniziare a vedere Dio stesso, come alcuni pellegrini fissano lo sguardo sulla reliquia della Veronica, l’immagine sacra di Cristo: «Tal era io mirando la vivace carità di colui, che in questo mondo, contemplando, gustò di quella pace» (Paradiso XXXI, 109-111)1. Dante non era l’unico degli scrittori medioevali a considerare Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), la somma guida alle vette della contemplazione celeste. Questo mistico del XII secolo, uomo dai molteplici talenti, come si può immaginare dalle sue vicende di crociato, poeta di corte, politico, costituisce una figura così grande da far risultare quasi insufficiente qualsiasi sintesi biografica. * Monaco benedettino dell’Abbazia di Guigue, Venezuela, studente di Filosofia al Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo di Roma. 1) McGinn, B., Storia della Mistica Cristiana in Occidente. Lo Sviluppo (VI-XII secolo), Marietti, Genova - Milano 2003, 241. 4 La sapienza della Mistica Cistercense prosegue educando l’uomo moderno nella ricerca di Dio. San Bernardo, discepolo ed amante della tradizione dei Padri, ci parla per mezzo di uno dei suoi trattati, De diligendo Deo (Dil), del processo per il quale l’uomo, nella sua grandezza d’immagine e somiglianza di Dio, può farsi ciò per cui è stato chiamato ed è stato creato. Il dottore mellifluo ha sviluppato una concezione dell’amore come possibilità di raggiungere il vero bene dell’uomo, cioè l’amore di Dio; quell’amore che è al di là di ogni desiderio e di ogni ambizione umana; l’amore attraverso il quale si ritrova riconosciuto come amato e amante. Ma questo processo ha bisogno di stadi, di momenti, a questi momenti non successivi li possiamo chiamare doni di Dio, giacché in ogni grado è Dio che spinge lo uomo a «contemplarsi» come la Sua immagine e somiglianza. San Bernardo dirà nel suo trattato: Magna res amor, sed sunt in eo gradus: grande cosa è l’amore; ma in esso vi sono dei gradi. San Bernardo propone una dottrina del progresso nell’amore di Dio attraverso di una gradualità. Questi gradi non debbono essere pensati come tappe successive, ma come l’insieme di una espansione del cuore umano che impara per mezzo dell’ordinamento degli affetti e dei suoi desideri ad amare Dio senza misura. Immagine e somiglianza: grandezza e miseria dello Spirito Umano, antropologia teologica di Bernardo Tema fondamentale dell’antropologia e della cosmologia cristiana antica è quello dell’uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio; lo ritroviamo in Ireneo, Clemente, Origene, Atanasio, Gregorio Nisseno, Agostino e in Bernardo. Quando due esseri si amano e si cercano reciprocamente, prendono spontaneamente coscienza della situazione dell’uno in rapporto all’altro. Per san Bernardo l’amore di Dio verso la sua creatura spirituale è innanzitutto immenso e gratuito. «In ogni coscienza umana esiste un senso di giustizia innata che le grida il suo dovere di amare, con tutto il cuore, colui cui essa deve tutto»2. La possibilità 2) Dumont, Ch., Sulla via della Pace. La sapienza cisterciense secondo San Bernardo, Jaca Book, Milano 2000, 19. . di un incontro fra questi due amori è fondata essenzialmente sul fatto della somiglianza tra il Creatore e la sua creatura. È pressoché incalcolabile l’importanza della «dottrina dell’immagine» nell’insegnamento monastico di san Bernardo. La creazione dell’uomo ad immagine di Dio, come narrata nel primo capitolo del libro della Genesi, è per lui rivelatrice; e non è esagerato dire che tutta la sua ascesi e la sua mistica, in lui i due elementi rappresentano una sola cosa, sono fondate sul modo attraverso cui egli sviluppa un’antropologia totalmente dipendente da questa verità prima. Possiamo riassumere la sua antropologia teologica così: creato ad immagine e somiglianza dell’Essere divino, l’essere umano ha in parte perso la sua vera natura, cioè il fatto di essere immagine di Dio. Ha conservato, tut- 5 tavia, questa capacità radicale, inestinguibile, di essere «come Dio», ma, questa volta, nella sua dipendenza. Capace di Dio (Capax Dei), perché sua immagine, l’anima mediante l’amore può ritrovare la sua «capacità» originale di Dio, che è Amore. La metafora dell’immagine, per gli antichi, era tra le più eloquenti, ma per noi lo è meno. Nell’epoca patristica e anche nel Medioevo, l’immagine suppone una relazione dinamica e viva di causalità, non solo esemplare, ma anche efficiente e formale. Scostarsi dal prototipo equivale a perdersi nella regione della dissomiglianza. Il potere spirituale di somigliare, di essere conforme (in san Bernardo tale parola assumerà una grande importanza) sta, dunque, nell’impronta originaria ed inalienabile dell’essere divino dell’anima umana. La somiglianza (similitudo) di Dio è stata perduta a causa del peccato. «A motivo del peccato originale, la capacità di Adamo di non peccare si è trasformata nella nostra incapacità di non peccare, o libertà di peccare»3. Questa libertà di peccare, che è il risultato della deformazione dell’immagine divina in noi, cerca di darsi il nome di libertà, in quanto rappresenta ciò che il soggetto vuole fare: conformare il mondo alla sua propria deformazione, piuttosto che alla rettitudine della volontà divina. Il peccato originale, come lo definisce H. U. Von Balthasar; è l’incapacità di tutti a perseguire efficacemente il proprio scopo finale in Dio, con le forze che ancora gli rimangono. Peccare (in opposizione all’agire nella grazia dell’amore) isola l’uomo, sminuisce o distrugge il suo rapporto comunitario4. Insieme con san Bernardo, P. Schoonenberg descrive il peccato originale come la libertà del singolo «situata», per principio, prima di qualsiasi decisione propria, la quale resta sì libera, ma manca dello spazio e della comunità verso i quali il singolo può praticare l’atto dell’amore; fisicamente egli è libero, ma moralmente incapace di sviluppare la sua libertà5. 3 Balthasar , H.U. von, L’azione. TeoDrammatica, vol. 4, Jaca Book, Milano 1986, 169. somiglianza: Ritorno alla l’autoconoscenza 4) Ibid. Bernardo ci parla, anche, di una restaurazione, cioè la possibilità di una progressiva restituzione alla somiglianza originaria, grazie al legame dell’anima con la manifestazione umana del verbo in Cristo Gesù. Dunque, il soggetto della somiglianza divina è esclusivamente l’anima, specialmente nella sua capacità di conoscere Dio e possederlo nell’amore, eo quod est capax 3) McGinn, B., Storia della Mistica, 250. 6 5) AA.VV. Mysterium Salutis. Manual de teologia como Historia de la Salvación, vol. II, Cristiandad, Madrid 1970,dirà 909.san Bonaventura6. Per l’abaDei, come te di Chiaravalle, la nostra esperienza testimonia la tensione insopportabile tra quello per cui saremmo stati pensati e quello che siamo; tra la grandezza e la miseria della condizione umana. 4) Balthasar, H.U. von, L’azione. TeoDrammatica, vol. 4, Jaca Book, Milano 1986, 169. 5) Ibid. 6) AA.VV. Mysterium Salutis. Manual de teologia como Historia de la Salvación, vol. II, Cristiandad, Madrid 1970, 909. Il punto di partenza esistenziale dell’antropologia di Bernardo, l’adattamento cristiano della massima delfica «conosci te stesso» (scito teipsum), consisteva nel riconoscimento della nostra combinazione di miseria e di maestà. Come tutti i monaci medievali, e da buon seguace di Agostino, Bernardo aveva un profondo senso della nostra esperienza quotidiana. La conoscenza di sé, dunque, è conoscenza della nostra condizione di peccatori e del predominio, nelle nostre vite, della «carnalità», in senso negativo. Per Bernardo, alunno della Scrittura, dei Salmi, di san Paolo, non è tanto la «carne» il luogo della miseria, quanto il «cuore» in senso biblico: centro intimo, dove s’incontrano e scontrano tutte le tendenze e le aspirazioni dell’animo; quelle che elevano e quelle che opprimono7. L’esito dell’onesto riconoscimento della nostra difficile situazione è la necessità dell’umiltà, punto di partenza essenziale della vita spirituale. Ma a dispetto della nostra deplorevole condizione, noi sappiamo che Dio ha creato le nostre menti perché partecipassero in Lui, e perciò, la conoscenza di noi stessi porta con sé la speranza nel cambiamento della nostra condizione. Si tratta del primo passo nel processo di conversione (conversio), lungo quanto la nostra vita, che Bernardo concepisce in modo assai vicino a quello di Agostino nelle confessioni8. Per il dottore mellifluo, la vera scienza consiste nel riconoscere che la nostra digni- tà di esseri liberi è un dono del Creatore. L’ignoranza della dipendenza che, per un essere creato, ne deriva, ci ha fatto dimenticare Dio, ed è stata la nostra rovina. «Sarà ancora attraverso la scienza che noi ritorneremo a Lui, perché attraverso una lucida conoscenza del nostro essere vero ricorreremo ad un Salvatore. Sarà la conversione»9. Pertanto, dobbiamo anzitutto conoscere noi stessi. Questa conoscenza realistica di ciò che siamo conduce all’umiltà, che è il fondamento di ogni conversione spirituale. Per san Bernardo, l’umiltà non è l’umiliazione dell’uomo, ma la presa di coscienza di quello che siamo davanti a Dio10. Quando la coscienza si pone con lealtà di fronte a se stessa, non può non riconoscere di essere nella «regione della dissomiglianza», ben lungi dalla perfezione della sua causa esemplare, infelice. «La coscienza è oppressa dalla distanza che constata tra ciò che sa di poter essere e ciò che è di fatto, ma, anziché restare con gli occhi fissi sulla propria miseria, si affida alla preghiera, e san Bernardo ripete che essa si rivolge (convertetur) verso il Signore e Gli grida: “Guarisci la mia anima, perché ho peccato contro di te” (Sal 40,5), e rivoltasi (conversa) in tal modo verso il Signore, essa sarà liberata, consolata, salvata»11. 9) Dumont, ch., Sulla Via della Pace, 31. 10) Cf. Gastaldelli, F., Studi su San Bernardo e 7) Cf. Biffi, I., Tutta la Dolcezza della Terra. Cristo e i Monaci Medievali, Jaca Book, Milano 2004, 49. Goffredo di Auxerre, Sismel, Firenze 2001, 322. 8) Cf. McGinn, B., Storia della Mistica, 257. 11) Dumont, ch., Sulla Via della Pace, 32. 7 Educare all’amore: una pedagogia viva nel «De diligendo Deo» San Bernardo fa una descrizione fenomenologica della situazione della coscienza davanti a Dio nel campo dell’amore. Si tratta, per lui, di un movimento dello spirito che ritrova il suo orientamento verso Dio, a partire dall’esperienza concreta della sua miseria; un’esperienza, come abbiamo visto, che fa nascere, nell’uomo, l’invocazione ad un Salvatore12. «Questo cammino di conversione nell’abate di Chiaravalle, che comincia con l’invocazione del Signore, supera, in certo modo, qualsiasi psicoanalisi moderna, appunto perché non parte mai dalla sola verifica analitica dei conflitti della persona – anche se tale analisi non è mai assente dalla sua dinamica introspettiva – ma, superando la pura analisi, si fonda essenzialmente sul confronto dell’uomo di fronte a se stesso. L’uomo non si confronta unicamente con la sua interiore conflittualità, ma si misura su una risposta che deve dare alla vita e all’autore della vita»13. Sappiamo adesso che, in Bernardo, il primo passo nel cammino di conversione è attraverso la conoscenza di sé, riconoscere con saggezza la nostra dignità, cioè, che siamo immagine e somiglianza di Dio; ma anche la nostra indigenza: riconoscere che siamo nella regione della dissomiglianza, che cerchiamo l’Amore nei posti sbagliati. «Infatti è così: L’uomo è stato creato come la creatura più degna, ma quando non riconosce la sua propria dignità si somiglia agli animali e si degrada fino ad essere con loro partecipe della corruzione e della mortalità. Colui che non vive come nobile creatura, 12) Ibid., 34. 13) Piccardo, C., Pedagogia Viva. Cîteaux novecento anni dopo, Jaca Book, Milano 1999, 105. 8 dotata d’intelligenza, si identifica con gli animali irrazionali e ignara della sua gloria che le viene dall’interno, è trascinata dalla sua stessa curiosità a conformarsi esteriormente alle cose che cadono sotto i sensi finendo per diventare una di loro perche non capisce d’aver ricevuto qualcosa più di tutte le altre»14. Nei nostri tempi, la parola «amore» ha perso il suo profondo significato, perciò dobbiamo intendere cosa voglia dire amore nella dottrina spirituale del Chiaravallese. Per Jean Leclercq, il punto di partenza di tutto il pensiero di Bernardo su Dio è l’amore, così com’è stato definito nel Vangelo di Giovanni: «Deus caritas est». «Nessuno comunque pensi che io consideri qui la carità come una qualità o come qualche accidente, altrimenti direi – Dio non voglia! – che in Dio c’è qualcosa che non è Dio. Invece affermo che la carità è la sostanza stessa di Dio, e dico così una cosa che non è né nuova né insolita, poiché lo stesso Giovanni dice: “Dio è carità”. Si dice dunque giustamente che la carità è Dio, e che è anche un dono di Dio. La Carità dà la carità, la Carità sostanziale dona quella accidentale»15. Questa caritas circonda i nostri rapporti con Dio e i Suoi rapporti con tutti noi. Da Lui a noi, da noi a Lui, e tra noi vi sono rapporti d’amore, di carità e di dilezione. Tra i termini in uso nel linguaggio precristiano, per quanto in esso fosse abbastanza raro, uno ritorna molto spesso nella Bibbia e nella tradizione 14) De diligendo Deo (Dil.) II, 4, Opere di San Bernardo, I, ed. F. Gastaldelli, p. 276. Citeremo l’originale latino di F. Gastaldelli, ma con la traduzione italiana di Bernardo di Chiaravalle, I Gradi dell’umiltà. L’amore di Dio, ed. G. Mura, Città Nuova, Roma 1996, 144. 15) Ed. G. Mura, p. 183. Dil., XII, 35, p. 322. della Chiesa, cioè «misericordia». Esso traduce, a sua volta, parecchie parole ebraiche che hanno significati affini. Più spesso, include una sfumatura di compassione e perfino, di tenerezza. André Chouraqui ha deciso di renderlo sempre con un termine che non esiste nei dizionari, ma che fa emergere l’intensità del suo contenuto: lo «Chérissement» di Dio. Il neologismo ci ricorda che il termine carità, al quale forse siamo troppo abituati, significa, prima di tutto, che qualcuno ci è caro e che noi gli siamo cari. Per san Bernardo, tutti i termini che designano l’amore sottintendono il fatto che siamo attaccati a qualcuno, colpiti, presi, afferrati (affici). «Questo affectus è più forte di un sentimento affettuoso. Non è nemmeno un concetto: è un’esperienza, una realtà che si sperimenta: quella di Dio che si dona a noi, perché noi ci doniamo a Lui e a tutti»16. Seguendo la tradizione, san Bernardo considera che non ci può essere carità, se non per la partecipazione della carità sostanziale che è Dio, come abbiamo citato sopra: Dio solo può donarla: Caritas dat caritatem (Dil. 35). Essa è il vincolo della sua unità nella Trinità delle Persone e, in questo senso, essa è la sua vita: Ipse ex ea vivit (Dil. 35). Essa è la fonte del suo amore («chérissement») per l’uomo. Creandolo a sua immagine, essa pone in lui, non solo una capacità, ma un bisogno di ricambiare l’amore, e di farlo liberamente. Creato dall’amore, non può esistere che per l’amore17. Per descrivere questo processo d’espansione della carità, che va da Dio a Dio, passando attraverso noi, Bernardo distingue in essa quelli che egli chiama nella sua opera De diligendo Deo i quattro gradi dell’amore. Egli li concepisce, non come momenti successivi, di cui, l’uno sostituirebbe l’altro, ma come le componenti simultanee, le dimensioni di una realtà, che, venuta da Dio in noi, non cessa, a partire da noi stessi, di estendersi, di dilatarsi come in cerchi concentrici, il più ampio dei quali raggiunge Dio stesso. Questa dilatazione o espansione dell’amore, è realizzata dalla grazia, altro nome della carità, cioè dell’azione amorosa di Dio in noi18. Questo piccolo trattato è stato scritto, probabilmente, tra il 1126 e il 1141. L’opera è indirizzata ad Aimerico, cardinale diacono e cancelliere della Chiesa romana, che aveva posto a Bernardo, come lui originario della Borgogna, alcune questioni. Tra queste, Bernardo ne sceglie una, «quella che ritiene possa essere gustata con maggiore dolcezza, trattata con maggiore sicurezza, ascoltata con maggiore utilità: l’amore di Dio» (cfr. Dil, prologo). La tesi fondamentale del trattato è sintetizzata nelle prime righe, con una formula simile a quella usata da Severo, vescovo di Milevi, in una lettera ad Agostino d’Ippona: «Volete dunque sapere da me quale ragione e in qual modo dobbiamo amare Dio. Ecco, vi rispondo: la ragione che ci spinge ad amare Dio, è Dio stesso, è il modo di amarlo senza misura»19. L’elemento per noi più significativo, che costituisce anche la parte più famosa del trattato, è la teoria dei quattro gradi dell’amore. «L’intenzione di Bernardo è di aiutare a comprendere come chiunque, partendo dalla propria situazione, possa giungere, senza soluzione di continuità, al vertice dell’esperienza cristiana: la comunione di amore personale e totale con Dio»20. 16) Leclercq, J., Amore e conoscenza secondo san Bernardo di Chiaravalle, in «La Scuola Cattolica» 120 (1992) 7. 18) Cf. Ibid. 17) Cf. Ibid., 8. 19) Ed. G. Mura, p. 140. Dil., I, 1, p. 270. 20) Stercal, C., Bernardo di Chiaravalle. Intelligenza e amore, Jaca Book, Milano 1997, 27. 9 I quattro gradi dell’amore nel «De diligendo Deo» Come abbiamo osservato, per il nostro cisterciense, nessun altro testo in tutta la Bibbia è altrettanto importante come 1 Gv 4,8: «Deus caritas est». Bernardo ritiene che esso contenga tutto ciò che noi possiamo effettivamente conoscere di Dio, e che abbiamo veramente bisogno di sapere. A differenza degli scolastici contemporanei, Bernardo non perde molto tempo nella speculazione sulla natura divina e su i suoi attributi ma, in un passo del trattato De consideratione, analizza le quattro caratteristiche fondamentali di Dio sulla base di Efesini 3,18: «Siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità». La durata di Dio è la sua eternità; il suo respiro l’amore che «supera non solo ogni affezione, ma anche ogni conoscenza»21. «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1 Gv 4,10). Un altro passo dalla lettera di Giovanni che l’abate non si stanca mai di citare è l’assoluta priorità dell’amore divino su quello umano, tema naturalmente comune a tutti gli scrittori cristiani; ma pochi se ne sono serviti come Bernardo. Quando la Sposa (l’anima) giunge a comprendere di essere sempre anticipata e superata nell’amore, è costretta a cercare di crescere ancor più nell’amore per corrispondere alla generosità del suo divino Amante. La risposta dell’anima al dono dell’amore, da parte dell’amante divino, rappresenta la concretezza e la gradazione dell’amore con cui ascendiamo a Dio. Bernardo mostra scarso interesse per la costruzione di una psicologia dettagliata; intende piuttosto comprendere le dinamiche con cui l’amore, quello che è stato impiantato in noi e persino quello che si è ripiegato su se stesso nella «cupiditas», – cioè nell’egoismo – dell’umanità decaduta, invoca il suo Creatore e ci sospinge sul cammino verso la gioia e l’amore celeste, che costituiscono il nostro vero fine22. Sviluppando le celebri osservazioni di Agostino sull’incapacità del cuore umano di essere pienamente soddisfatto di tutto ciò che non è Dio, Bernardo afferma nel De diligendo Deo: «Infatti, per quella stessa legge della cupidigia per la quale, in tutte le cose, l’uomo è solito desiderare ardentemente quelle che non possiede rispetto a quelle che ha, e che gli fa provare fastidio di quelle ottenute per quelle non ancora conseguite, se egli riuscisse ad ottenere in una sola volta tutte le cose che sono in cielo e sulla terra, e naturalmente se ne disgustasse, correrebbe finalmente, senza alcun dubbio, lontano da esse, da colui che solo le mancherebbe, il Dio di tutte le cose»23. Il medesimo trattato ci offre la più nota mappa dei gradi dell’amore, i quattro stadi che Bernardo aveva tratteggiato, per la prima volta, in una lettera spedita alla comunità certosina di Mont-Dieu e, successivamente, ampliati nel libro dedicato al cardinale Aimerico24. 22) Cf. McGinn, B., Storia della Mistica, 289. 23) Ed. G. Mura, p. 162. Dil., VII, 19, p. 298. 21) McGinn, B., Storia della Mistica, 287. 10 24) Cf. McGinn, B., Storia della Mistica, 289-290. Il primo grado dell’amore è quando l’uomo si ama per se stesso La prima esperienza, quella centrale e la più immediata, è l’amore dell’uomo per se stesso. Bernardo lo qualifica come amore «carnale», non nel senso corrente di corporeo, ma nel senso paolino di conforme alla nostra condizione umana, abbandonata a se stessa: «È l’amore carnale, col quale l’uomo, prima di tutte le cose, ama sé per se stesso. Non gusta ancora altro che se stesso, come sta scritto: Prima ciò che è animale, poi ciò che è spirituale. Questo amore non viene prescritto da alcun comandamento; ma è insito nella stessa natura. Chi ha mai avuto in odio la sua carne?»25 Secondo questo linguaggio biblico-bernardino, per Jean Leclercq, «vivere secondo la carne» è vivere in modo puramente umano, ma è in essa – la nostra condizione umana, dotata di un corpo – che Dio immette una possibilità, un desiderio, addirittura un’esigenza di vivere «secondo lo Spirito», ossia in maniera conforme all’immagine del suo stesso amore, secondo la quale ci ha creati e che ha restaurato o ri-creato dalla sovrabbondanza dell’amore di Cristo. «Noi spontaneamente amiamo noi stessi – e questo è bene – ma se ci amiamo soltanto “per noi stessi”, senza ritorno verso Colui che non cessa di amarci, ci rinchiudiamo in noi stessi: ecco l’egoismo. Se ci sforziamo di liberarcene, usciamo dalla nostra finitezza: il legittimo amore per noi stessi non è soppresso, ma ri-orientato ed esteso a nuove dimensioni»26. 25) Ed. G. Mura, p. 166-167. Dil., VIII, 23, 304. 26) Leclercq, J., Amore e conoscenza secondo san Bernardo di Chiaravalle, in «La Scuola Cattolica» 120 (1992) 8. San Bernardo si pone, con sant’Agostino, su un piano esistenziale. Egli considera lo stato dell’uomo di fatto, il quale, anche per potersi dare agli esercizi spirituali, ha bisogno di soddisfare le necessità del corpo. Il primo grado dell’amore è perciò, amore di sé, a cui per di più, si unisce lo stato di natura decaduta dell’uomo, che genera cupidigia o bramosia. Ma questo stesso amore, se ordinato rettamente, e se contenuto nell’alveo della necessità, può divenire amore di Dio. «In questo caso, esso deve spogliarsi gradatamente di quanto ha di egoistico, e questo avviene, soprattutto, mediante l’amore sociale o del prossimo»27. «Tuttavia, se questo amore, come di solito accade, comincia a diventare troppo sregolato e condiscendente, e in nessun modo contento nell’alveo della necessità fa mostra di occupare, straripando più ampiamente, anche i campi del piacere, ecco che si presenta subito un comandamento per arrestare questo straripamento, che dice: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In verità è giustissimo che chi è partecipe della natura non venga escluso dai beni della natura, e soprattutto da quei beni che sono insiti nella natura28. Bernardo presenta quest’amore «sociale»29 perfino come «un atto di giustizia» («hoc iustitiae est»); cioè, condividere con tutti gli altri la medesima natura, donata da Dio. 27) Introduzione, Bernardo di Chiaravalle, I Gradi dell’umiltà, 44. 28) Ed. G. Mura, p. 167. Dil., VIII, 23, 304. 29) Nel vocabolario di Bernardo la parola «sociale» (socialis), significa vita di scambi, nella quale ciascuno dà e riceve: ciascuno di noi è strumento di grazia per gli altri e anzitutto per quelli associato ai quali vive, cf. Leclercq, J., Amore e conoscenza secondo san Bernardo di Chiaravalle, in «La Scuola Cattolica» 120 (1992) 9. 11 Deve anche – e questo dipende, ad un tempo, dalla grazia e dall’ascesi – condividere, con tutti gli altri, i doni ricevuti. Ecco l’intero processo che fa passare «in linea diretta», (recto tramite), dall’amore carnale all’amore sociale. Lo stesso amore si prolunga e si estende alla comunità. Così, la comunità di natura fonda attraverso questo riconoscimento dell’altro come il suo somigliante, una comunità di vita. In questo modo, l’amore di sé e l’amore sociale sono messi a servizio dell’amore per Dio. Un aspetto notevole, in questo primus gradus amoris, è la rilevanza che Bernardo dà allo stesso affetto dell’uomo per se stesso, che ricordiamo è in un primo momento egoistico. Possiamo parlare di una certa tenerezza innata nell’uomo verso se stesso, la quale, ben ordinata, cioè orientata al di fuori dell’uomo verso il prossimo e con l’aiuto della grazia, può produrre il frutto della carità. Possiamo notare come, nella spiritualità di Bernardo, nulla si perde, tutto viene trasformato e ri-orientato verso il vero fine, cioè verso l’amore di Dio. Un altro aspetto che scaturisce da questo primo grado e che non possiamo trascurare è il valore che Bernardo dà al corpo, in questo cammino verso l’amore di Dio. Per il nostro cistercense, il progresso nell’amore comincia, come abbiamo visto, con la soddisfazione dei desideri del corpo, cioè con l’amore carnale. In questi desideri carnali, è iscritto, secondo Bernardo, per volontà di Dio, il desiderio più profondo dell’uomo, vale a dire, essere uno con Dio; nell’unione di amore fra l’uomo e Dio, che si raggiunge quando la volontà dell’uomo si fa una con quella di Dio, come vedremo nel quarto 12 grado dell’amore, in cui il corpo ha la sua funzione e il suo contributo. In questo senso l’abate di Chiaravalle dirà: «La carne è una compagna buona e fedele per uno spirito buono in se stesso» (Dil XI, 31). Per Bernardo, l’insieme umano, corpo e anima, è destinato alla beatitudine. Egli ha segnato tre tappe nella cooperazione della carne alla vita dell’anima: «Se è sentita come un peso, esso è anche un aiuto. Poi cessa di aiutarla, ma non gli è più gravoso. Infine l’aiuta moltissimo e non le è minimamente gravosa. Il primo stato è faticoso ma fruttuoso; il secondo è riposante ma non tedioso; il terzo è glorioso. Ascolta nella Cantica lo sposo che invita a questo triplice progresso: Mangiate, dice, o amici, e bevete, e inebriatevi, carissimi. Invita a rifocillarsi col cibo quelli che lavorano nel corpo; invita a bere quelli che riposano dopo aver deposto il peso del corpo; costringe ad inebriarsi quelli che riprendono le proprie membra, e chiama questi ultimi carissimi, cioè ripieni di carità30. Deduciamo da questa bella immagine che, per Bernardo, l’esperienza sensoriale deve essere esistita perché sia possibile la beatitudine finale; perciò, viene spesso affermata da Bernardo l’importanza del corpo e dei sensi per la vita spirituale. «E, se san Bernardo insiste tanto sulla partecipazione del corpo alla beatitudine celeste, è ancora per la sua profonda convinzione sull’unità dell’essere umano, specialmente nella sua affettività, il centro, per lui, della personalità, nella quale il corpo ha la sua parte»31. Il secondo grado dell’amore, quando l’uomo ama Dio per sé Per il passaggio al secondo grado, è Dio stesso, secondo Bernardo, che, nella Sua sapienza creatrice, ha disposto le cose in modo che nell’uomo nasca l’amore per Lui. «E allora Dio, che fa tutti gli altri beni, fa anche in modo di essere amato. E fa in questo modo: lui che ha creato la natura, lui stesso la sostiene. L’ha infatti creata in modo tale che essa abbia bisogno, come reggitore, di quello stesso che è stato il suo creatore. Come essa non fu capace di esistere senza di lui, non è neppure in grado, senza di lui di sussistere. Dio ha fatto in modo che la natura avesse sempre bisogno della sua protezione, così accade che, sperimentando l’aiuto di Dio nelle tribolazione, l’uomo animale e carnale, che non sapeva amare nessuno all’infuori di se stesso, cominci ad amare anche Dio, sia pure in considerazione di sé (propter se), perché s’accorge che in lui, come spesso gli ha mostrato l’esperienza, può tutto ciò che gli è utile potere e senza di lui non può nulla»32. San Bernardo, in questo passaggio dal primo al secondo grado dell’amore, considera la possibilità di bene che c’è anche nella stessa tribolazione o situazione di crisi, nella quale l’uomo, in molte occasioni della sua vita, si ritrova. Possiamo dire che nessuno si conosce da sé, se non è messo alla prova, cioè, conoscere attraverso la tribolazione e con l’aiuto della grazia la propria dignità d’immagine e somiglianza di Dio e il suo vero fine: l’amore di Dio; diventare amore nell’Amore. 30) Ed. G. Mura, p. 168-169. Dil., VIII, 25, p. 306.. 31) Dumont, ch., Sulla Via della Pace, 137. «La vita come prova», intesa da Gabriel Marcel, è concepita proprio nello stesso senso da san Bernardo, nel passaggio dal primo al secondo grado dell’amore. Se dinanzi a qualcuno che soffre, sarebbe imprudente giustificare la sofferenza, tuttavia, questo punto di vista è valido, non come spiegazione, perché non ne esiste alcuna, ma come riflessione che ne faciliti l’umile e salutare accettazione. «Misteriosamente, Dio conosce meglio di me stesso ciò che, in definitiva, mi renderà felice. Quando Dio ama, altro non vuole se non essere amato, anzi non ama se non per essere riamato, sapendo che, per questo stesso amore, egli renderà beati coloro che lo avranno amato. L’esperienza, spesso ripetuta, di ricorrere a Dio fa crescere il nostro amore»33. In questo secondo grado, l’uomo, dunque, ama ormai Dio per sé, ma non ancora per lui. «Questo modo di amare è segno di una certa prudenza nel sapere distinguere quello che puoi fare da te stesso, da quello che puoi fare solo con l’aiuto di Dio»34. Il terzo grado dell’amore, quando l’uomo ama Dio per Lui Il terzo grado viene ad essere una conseguenza (necesse est) logica del grado precedente. «A causa delle sue molte necessità è perciò inevitabile che l’uomo ricorra a Dio con frequenti invocazioni e che, rivolgendosi a lui frequentemente, impari a gustarlo, e gustandolo, a provare quanto è soave il Signore. Ne consegue così che, ad amare Dio di amore puro, più che costringersi la 33) Dumont, Ch., Sulla via della Pace, 35. 32) Ed. G. Mura, p. 168-169. Dil., VIII, 25, p. 306. 34) Stercal, C., Benardo di Clairvaux, 80. 13 nostra necessità, ci attiri la soavità di lui che abbiamo ormai gustata»35. Bernardo, utilizzando saggiamente i salmi, descrive l’esperienza dell’uomo che ha cominciato a gustare la soavità del Signore ed inizia ad amare Dio per Dio. Tuttavia, prima di fare quest’esperienza, l’uomo si trova nel tempo della necessità, in altre parole, dell’insoddisfazione umana. Ciò nonostante, questo tempo dei desideri incessanti contiene, implicitamente, il desiderio di Dio; nel senso che, a partire dall’esperienza dell’insoddisfazione del desiderio e del rilancio continuo che essa implica, l’uomo è condotto ad aprirsi al Bene supremo. Ed è in quest’apertura verso Dio che l’uomo comincia a gustare la bontà del Signore e ad amarlo per se stesso, senza interessi egoistici e comincia a conoscere Dio come Padre. Nella lettera ai Certosini, incorporata alla fine del De diligendo Deo, Bernardo, in modo più breve, definisce il tertius gradus amoris come l’amore filiale, con cui Dio viene amato per se stesso. «È un amore puro, perché ama con opere e in verità; giusto, perché capisce il debito di amore che ha verso Dio. Esso è spontaneo, e la sua legge è quella dei figli di Dio, che non priva dei pesi del dovere, ma li rende leggeri. Non annulla il timore, ma è un timore casto, perché misto alla devozione. È un amore ordinato, che fa amare il corpo per l’anima, l’anima per Dio e Dio per se stesso»36. In questo grado d’amore, è ancora più facile amare il prossimo, poiché l’uomo ama autenticamente Dio e, di conseguenza, tutto ciò che è di Dio. Il quarto grado d’amore, quando l’uomo ama sé per Dio Sarà per noi una gioia, non il fatto che venga appagata la nostra necessità e neppure che conseguiamo la nostra felicità, ma il vedere compiuta la volontà di Dio in noi e su di noi, come supplichiamo nella nostra preghiera quotidiana, allorché diciamo: Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra37. Vediamo, qui, il vertice dell’esperienza cristiana, individuato da Bernardo in questo quarto grado, nel quale l’uomo non ama più se stesso (seipsum), se non per Dio (nisi propter Deum). «È un amore difficile da raggiungere; è il vero amore mistico, con il quale l’anima è assorta totalmente in Dio. È come un vivere nell’aldilà, vuoti di sé e pieni di Dio, in un sentimento di totale armonia con Lui»38. Ha quindi, le caratteristiche di un’esperienza mistica, nella quale l’uomo ha la sensazione di perdersi, ma, in realtà, ritrova più profondamente se stesso39. In principio, abbiamo trattato dell’uomo come immagine e somiglianza di Dio, aspetto col quale comincia la dottrina spirituale di Bernardo. Possiamo dire, non senza temerarietà, che, in questo grado, l’uomo fa l’esperienza che anticipa e introduce il compimento della creazione. È la condivisione della volontà di Dio che ci consente di entrare nel suo affectus e di prepararci alla conformazione a Lui. Vivere questa esperienza è essere deificati (sic affici deificari est)40, sintetizza 37) Ed. G. Mura, p. 172-173. Dil., X, 28, p. 312. 38) Gastaldelli, F., Studi su San Bernardo e Goffredo di Auxerre, 330. 39) Cf. Stercal, C., Bernardo di Clairvaux, 82. 35) Ed. G. Mura, p. 169-170. Dil., IX, 26, p. 308. 36) Cf. Introduzione, Bernardo di Chiaravalle, I Gradi dell’umiltà, L’amore di Dio, ed. G. Mura, 44. 14 40) «Sic affici, deificare est»: il termine deificazione, raramente impiegato da san Bernardo, significa, come per Guglielmo di S. Thierry, l’unione perfet- Bernardo ed esprime così, il senso di questo quarto grado che porta a compimento l’itinerario di tutta la vita cristiana. Per sottolineare l’unione profonda tra Dio e l’uomo che esso realizza, un’unione che trasforma l’uomo senza annullarlo, Bernardo propone una triplice metafora, già nota nella letteratura patristica e medievale: «Come una piccola goccia d’acqua, mescolata a molto vino, sembra scomparire del tutto, perché assume il sapore e il colore del vino, e come un ferro rovente e incandescente diviene molto simile al fuoco e perde il suo aspetto originario, e come l’aria inondata della luce, a tal punto che non sembra più illuminata ma appare essa stessa luce, così è necessario che nei santi ogni affezioni umana si liquefaccia, in qualche ineffabile modo, in se stessa e che si trasformi totalmente nella volontà di Dio»41. «L’uomo, allora, non si annulla, ma entra in una nuova condizione e in una nuova forma che gli consentono di realizzare una comunione totale e personale con Dio. Si tratta della humana affectio che si dissolve e trapassa nella volontà di Dio; coincidenza della volontà dell’uomo con quella di ta dell’anima con Dio, nella volontà e nell’amore: «unus cum Deus esse spiritus» (1 Cor 6,17). Il concetto della deificazione dell’uomo in Cristo, nell’amore, e frequente nella tradizione della teologia origeniana, e troverà ampi sviluppi nella teologia mistica occidentale, che intenderà per «deificazione» lo stato mistico di unione trasformante dell’anima nell’amore puro di Dio. per quanto riguarda il contesto teologico bernardino, valgono le osservazione di È. Gilson: «La deificazione… non è niente di meno, ma niente di più, che l’accordo perfetto tra la volontà della sostanza umana e quella della sostanza divina, in una distinzione rigorosa delle sostanze e delle volontà», cf. Introduzione, Bernardo di Chiaravalle, I Gradi dell’umiltà, L’amore di Dio, ed. G. Mura, 173. 41) Ed. G. Mura, p. 173. Dil., X, 28, p. 312. Dio»42. San Bernardo per chiudere l’ultimo grado dell’amore della sua opera, rivolgendosi al Signore domanda: «Chi potrà vedere la sostanza dell’uomo nella forma di gioia e potenza nella quale Dio sarà tutto in tutto? Quando accadrà? Chi potrà conseguirlo? «Quando potrò venire e apparire al cospetto del Signore?» O Signore mio Dio, «il mio cuore ti ha parlato, il mio volto ti ha cercato; cercherò, Signore, il tuo volto». Credi che potrò vedere il tuo tempio santo?»43. Per dare risposta con autorevolezza a queste basilari domande, Bernardo, allo stesso modo che ha chiesto attraverso la citazione della Sacra Scrittura sul come, sul chi e sul quando sarà questa gioia per l’uomo, risponde dicendo: «Credo che il comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue capacità” non potrà essere completamente adempiuto finché il cuore non cesserà d’esser costretto a pensare al corpo, e l’anima non cesserà d’infondere in esso vita e sensibilità per conservarlo nel suo stato, e la sua virtù, sollevata dai fastidi carnali, potrà irrobustirsi profondamente nella potenza de Dio»44. E nella lettera ai Certosini, Bernardo dichiara la sua incertezza sulla possibilità dell’uomo di poter raggiungere perfettamente questo quarto grado dell’amore in questa vita e, citando il Vangelo di Matteo, conclude affermando che questo grado si produrrà certamente «quando il servo buono e fedele verrà introdotto nel gaudio del suo Signore, e si sarà inebriato dell’abbondanza della casa di Dio. 42) Gastaldelli, F., Studi su San Bernardo e Goffredo di Auxerre, 331. 43) Ed. G. Mura, p. 173-174. Dil., X, 28, p. 312. 44) Ed. G. Mura, p. 174. Dil., X, 29, p. 312. 15 Formazione Allora quasi dimentico di sé in modo mirabile, e quassi staccandosi totalmente da se stesso, si volgerà tutto a Dio e aderendo totalmente a Lui, diverrà con Lui un solo spirito. Credo che il profeta pensasse proprio a questo, quando diceva: Entrerò nelle potenze del Signore; Signore, mi ricorderò solo della tua giustizia»45. Lectio divina quotidiana Conclusione 45) Ed. G. Mura, p. 188-189. Dil., XV, 39, p. 328. La citazione dal Paradiso di Dante con cui abbiamo aperto questo tentativo di ricerca, indica chiaramente come il cristianesimo latino ritenesse Bernardo come una delle guide alla gioia della contemplazione mistica. «Quel sene che contemplando gustò di quella pace», ci ha fatto ricordare attraverso il suo trattato De diligendo Deo che l’uomo è capace di Dio (capax Dei) che l’unione all’amore divino è una possibilità aperta all’uomo grazie al «chérissement» di Dio per noi. Quest’esperienza non è stata data soltanto all’uomo del XII secolo, pieno dei grandi maestri «mistici», ma, anche all’uomo moderno è stata data questa possibilità di raggiungere il suo vero fine. Questa possibilità ha bisogno prima di tutto della libertà dell’uomo, della sua risolutezza e prontezza per iniziare questo cammino di trasformazione. Abbiamo visto implicitamente nel De diligendo Deo come Bernardo attraverso il suo plastico linguaggio adopera la ragione e gli affetti per descrivere quell’esperienza che può «pregustare» l’uomo dell’amore divino. Questa descrizione è anche un invito per 16 noi, uomini di oggi, a cercare con serietà e impegno non più fuori di noi, ma nel nostro cuore, dove si trovano le radici dei nostri desideri. San Bernardo vuole che le persone abbiano un’esperienza di «unione» con Dio. Questa esperienza mistica dell’«unione» potrebbe sembrare strana, giacché lo stesso sostantivo «mistico» ha perso tutto il suo significato, rimanendo come parola che descrive qualcosa che non m’incombe, che è al di là della mia vita e delle mie faccende. In mezzo alla continua proiezione che l’uomo fa nel tempo, qualche volta opprimente e ambivalente, ormai soltanto una vera esperienza di ricerca di Dio può farci vedere che quasi nulla di quello che desideriamo o cerchiamo può riempire il nostro abisso, ed è in grado di soddisfare i nostri desideri più intimi, forse impossibili di soddisfare sotto questo cielo o sopra questa terra. I grandi profeti di tutti i tempi, come Bernardo nel XII secolo, ci hanno fatto, ci fanno e ci faranno l’invito, rimane in noi trovare il modo e il coraggio. 45) Ed. G. Mura, p. 188-189. Dil., XV, 39, p. 328. di P. Amedeo Cencini* fdcc O ggi si parla molto di lectio divina, forse ancor più di quanto la si pratichi realmente e quotidianamente. Vogliamo offrire con queste pagine qualche semplice suggestione sulla natura, ovvero sul concetto e sulla metodologia, di questa preghiera che apre ogni giorno la nostra vita di apostoli e consacrati, preghiera che la tradizione ci consegna e che la spiritualità moderna non fa che raccomandare ad ogni credente. Quanto più a un consacrato! La vedremo alla luce di quattro caratteristiche: «lectio matutina», divina, continua, vespertina (o «nocturna»). 1. «Lectio matutina» La maturità spirituale o la sintonia con i desideri di Dio nasce e cresce ogni giorno esattamente attraverso la lettura per eccellenza della vita del credente, quella delle Scritture sante e più in particolare tramite la lettura della Parola-del-giorno. Non potrebbe avere altra fonte, altra scuola, altro contenuto, altro maestro, altro ritmo quotidiano e mattutino. * Docente dell’Università Pontificia Salesiana. Articolo preso in sostanza dalla pubblicazione: A. Cencini, La vita al ritmo della Parola. Come lasciarsi plasmare dalla Scrittura, San Paolo, Cinisello B. 2008. Lectio straordinaria? Forse non è particolarmente originale dire questo, la lectio è entrata ormai nella cultura del credente, all’interno di quel movimento di ritorno alla centralità della Parola innescato dal Concilio, e che senz’altro è stato uno dei suoi frutti più belli. Eppure si ha l’impressione che si stenti ancora a comprenderne la natura profonda, ben oltre il fatto d’esser una pratica di pietà, più o meno facoltativa. La meditazione della Parola è ciò che normalmente apre la giornata del credente e del discepolo, il quale è tale proprio perché crede nella Parola, si nutre d’essa, e 17 solo d’essa, secondo il menù preparato dal Padre ogni giorno, e dunque della Paroladel-giorno, quella di cui tutti i credenti in tutta la Chiesa sono invitati a nutrirsi. Natura e funzione della Parola-delgiorno è quella di aprire e accompagnare la giornata, come costituisse il respiro segreto e cadenzato, il punto di riferimento d’ogni giorno della vita, senz’alcuna eccezione, e senza pure esser essenzialmente in funzione del proprio ministero, della catechesi o della predicazione o dello studio personale, quasi usandola in modo interessato. Ogni giorno, ogni mattino Per questo motivo non può esser solo qualcosa di speciale, da fare una volta alla settimana, perché costituisce invece ciò che dà il ritmo a ogni giorno, quasi la sua unità di misura, ciò che la raccoglie attorno a un centro che le affida un compito, qualcosa che non può mancare per nessun motivo e che va collocato ragionevolmente all’inizio della giornata. Ogni vocazione, infatti, è mattutina1, prima ancora che io mi svegli e dia il via alle corse quotidiane; essa è già all’opera, già pensata e pronunciata dall’Eterno, alta e luminosa come il sole che sorge sul giorno che sta per cominciare. E così la Parola-del-giorno: è mattutina per natura sua, perché contiene e svela la vocazione di colui che la legge, perché non solo la Parola-del-giorno apre la giornata, perché ha la precedenza su tutto il resto, sulla mia agenda, su quella fila di pensieri che affollano la mia mente non appena mi sveglio, 1) Nuove vocazioni per una nuova Europa, Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, Roma, 5-10 maggio 1997, 26 a. 18 pretendendo ognuno la precedenza, e che spesso hanno il potere di diventare subito pre-occupazioni e, al tempo stesso la Parola di oggi è ciò che dà senso e ordine a quel che farò durante il giorno, che dà intelligenza al mio essere e rende attento il mio agire. Il buongiorno di Dio La Parola-del-giorno è il buongiorno di Dio al mio risveglio, come un messaggio puntuale e sempre nuovo, che non cessa di trasmettermi giorno per giorno il suo piano amoroso; per questo non può che essere una lectio amorosa. Per questo, soprattutto, senza la lectio del mattino io perdo la chiave di lettura della mia persona, come fossi privo d’intelligenza e ignorante. Il giorno si preannuncia vuoto e insensato, gli impegni diventano dispersivi, i rapporti umani superficiali o ambigui, gli imprevisti una rottura che viene a spezzare il ritmo che io pretendo d’aver impresso al mio tempo, mentre l’agitazione nervosa di fronte alle tante cose da fare prende il sopravvento e sottrae la gioia pacata (come in Marta); e poi siccome sono tante, davvero tante, devo correre e non posso stare a fare meditazione o dedicarle troppo tempo... Mica sono un novizio, poi! Che tristezza quando la meditazione diventa semplice pratica di pietà od obbligo disciplinare, e non è cercata come dono, come dono di Dio che m’illumina, come ordo o regola di vita che dà ordine alla mia giornata, come parola autorevole che mi assegna un compito da attuare durante il giorno, come gesto affettuoso di chi si prende cura di me, come amore preveniente che ha la precedenza su tutti i miei appuntamenti, oasi che calma la mia fretta e sgonfia le mie ansietà. 2. Lectio divina La lectio si chiama divina proprio perché è Dio l’autore di quella parola, è Dio che mi parla attraverso essa, è l’Eterno che l’ha ispirata, e non un Dio lontano nel tempo, ma quello che oggi mi rivolge quella parola, e «se lo Spirito ha ispirato Isaia, quello stesso Spirito ha scelto anche questo momento e questo versetto, sul quale io mi soffermo…, per darmi un aiuto e quasi una seconda ispirazione»2; e se Dio ne è il soggetto, ne è anche l’oggetto, è Dio che mi parla di sé, che mi svela il mistero, e sempre secondo la sua sapiente pedagogia che tiene conto delle mie limitate capacità, cioè ogni giorno svelandomene un aspetto nuovo, inedito, che risponde alle mie reali necessità del momento, che lui conosce molto meglio di me, «per la razione d’un giorno» (Es 16,4), come la manna un tempo, e risponde pure alle reali domande del cuore in questo preciso oggi della mia esistenza, quelle che Dio stesso ha posto in me e che lui solo conosce. Teofania e antropofania E non solo Dio mi parla di sé, ma anche di me; non è solo una teofania che apre la mia giornata di credente e discepolo della Parola, ma un’antropofania attraverso la quale il Padre e Creatore mi svela progressivamente anche la mia personale identità, la mia vocazione, come abbiamo accennato prima, quello che sono chiamato a essere per divenire conforme al Figlio suo e avere i suoi sentimenti. E anche questa rivelazione 2) J. Guitton, Il lavoro intellettuale. Consigli a coloro che studiano e lavorano, Cinisello Balsamo 1996, 89. è situata nell’oggi, ovvero mi dice quel che oggi il Signore mi dona e pure mi chiede. Quasi potremmo dire che mi consegna il compito per questa giornata che va a cominciare, e che io potrò accogliere e portare a termine solo se lo accetto dalle sue mani, dentro un dialogo d’amore, come è e dev’esser la meditazione del mattino. E la cosa singolare e misteriosa è, che le due rivelazioni in qualche modo coincidono, poiché la mia identità è dentro quella di Dio, per così dire, perché in quella stessa Parola che parla di Dio sono invitato a cogliere anche la mia vocazione, il mio modo di rassomigliargli, il mio progetto esistenziale, il mio nome nascosto nel suo. Proprio perché viene da Dio e parla del Dio eterno e immutabile, la Parola-del-giorno parla anche di me nell’oggi della mia vita. E allora va accolta nel silenzio delle parole umane, nel raccoglimento interiore con cui ci s’avvicina al mistero, nell’attesa di chi si prepara a ricevere un tesoro che gli verrà messo tra le mani, con la meraviglia di chi conosce l’agire di Dio ed è abituato alle sue sorprese cui non ci si abitua mai. In una parola va accolta con atteggiamento tipicamente mariano. Come Maria Perché la Parola-del-giorno mi viene incontro, in realtà, come l’angelo che apparve a Maria il giorno dell’Annunciazione, e Maria è l’immagine dell’autentico credente che l’accoglie davvero da discepolo della Parola, con tutto il suo carico di mistero, con il timore e tremore di chi sa di trovarsi dinanzi a Dio, dinanzi a una Parola che è dolce nella bocca, ma amara nelle viscere (cf Ap 10,9), 19 ma pur sempre dinanzi a un progetto che ha Dio per autore, e che dunque sarà Dio a portare a termine. Nel mosaico di padre Rupnik nella cappella della «Casa incontri cristiani» dei padri Dehoniani a Capiago, la scena dell’Annunciazione è resa in modo da sottolineare proprio questo turbamento umano che poi s’apre alla fiducia, perché illuminato dalla certezza che si tratta d’una iniziativa divina. Maria infatti, nel mosaico volge stranamente le spalle all’angelo che le parla e guarda pensosa addirittura dall’altra parte. L’angelo allora, ne rimane così intenerito che, per proteggerla, allunga la sua ala, quasi avvolgendola, ma insieme scosta l’ala stessa, per non fare rumore e incutere spavento, sconcertando ulteriormente Maria. Gesto d’infinita dolcezza! Maria, a questo punto, lascia cadere la mano, ma al tempo stesso la apre. È ancora il suo turbamento, ma è anche gesto di disponibilità. Non capisce – come potrebbe? –, ma ha compreso che è il Signore e questo le basta: «Sono la tua serva, fa di me quello che a te piace». È l’Ecce ancilla, che incontra l’Ecce venio di Gesù (cf Eb 10,9), il Verbo che bussa alla sua porta3. Parola-del-giorno e «giorno fatto dal Signore» Come può una giornata diventare «giorno fatto dal Signore» (Sal 118,24, come canta la liturgia del giorno di pasqua), messo in atto da lui per compiere la salvezza attraverso una creatura chiamata e plasmata per questo, se non partendo dalla Parola, accolta con atteggiamento tipicamente mariano? Solo allora quella giornata qualsiasi, feriale e ordinaria, è riscattata dalla possibile bana3) Cf L. Guccini, Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto, Capiago 2006, pp.13-14. 20 lità dei giorni che scorrono rotolando uno sull’altro senza lasciar traccia alcuna sul vivente, e si preannuncia come giorno di formazione permanente. Grazie all’atteggiamento di colui che accoglie e legge la Parola come lectio divina, non umana, con tutto ciò che questo significa e implica in pratica per la coscienza del credente. è Dio che mi dà l’appuntamento, non io che assolvo a un obbligo o che scelgo di fare una cosa bella, ma tutto sommato facoltativa, che posso permettermi di fare quando mi sento di farla, quando c’è un testo che mi piace o andando a scegliermelo (o aprendo, peggio ancora, la Bibbia a caso), o quando e finché sono nella formazione iniziale e se l’orario lo prevede, quando ne ho il tempo e magari comprimendola nel ritaglio di tempo che le posso «concedere» (bontà mia! con tutto quel che ho da fare…). Non si tratta d’esser moralisti (non è questo, in genere, il problema oggi), ma di capire, ancora, che siamo di fronte a un dono che anticipa l’agire umano, che l’iniziativa è di Dio, il Padre-maestro della mia formazione permanente, che gode di stare con me, che ogni giorno pone mano al suo progetto e mi chiama e mi propone un passo avanti, una nuova meta, definita da lui e dalla sua Parola, proprio perché la mia formazione abbia un preciso punto di riferimento, ogni giorno, e non giri a vuoto. E io non corra il rischio di divenire uno splendido ignorante (quanto analfabetismo biblicoteologico di ritorno in tanti consacrati!)4… 4) Al IV convegno della chiesa italiana, celebrato a Verona, il monaco Mosconi ha provocato soprattutto sacerdoti e consacrati a chiedersi, a 40’anni dal Concilio: «Questo tempo – che per la Bibbia è il segno d’una intera generazione –quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola? cosa ne abbiamo fatto della Parola?». (F. Mosconi, Meditazione, in «Avvenire», 18.X.2006, p.10). Come potrei non tener conto di questo invito, sottovalutarlo e trattarlo con sufficienza, o ritenere che il mio cammino di crescita possa avere altri punti di riferimento al di fuori della sua Parola, nella quale anch’io, come tutte le cose, sono stato creato, pensato, amato? 3. Lectio continua Con le prime due sottolineature abbiamo indicato soprattutto il contenuto della nostra conoscenza (e formazione) quotidiana, con le prossime due indichiamo in particolare il metodo che ci porta allo stesso obiettivo conoscitivo e formativo. La lectio nella giornata La lectio è continua quando segue in modo regolare il medesimo libro della Scrittura, senza interruzioni o salti di sorta. Ma non è questo il senso che noi attribuiamo ora all’espressione: la lectio è continua quando l’approccio meditativo mattutino alla Parola-del-giorno continua lungo la giornata. Ovvero, quando la Parola che ha aperto la giornata la accompagna nel suo svolgersi, d’istante in istante, fino a sera, in qualche modo compiendosi in essa. È per questo, in fondo, che la Parola è stata detta da Dio, non per una semplice consolazione spirituale del pio lettore, ma per incarnarsi nella storia, nella piccola storia di ciascuno di noi, e realizzare salvezza. Altrimenti siamo simili a quel terreno pietroso di cui dice Gesù, che ha accolto all’inizio con entusiasmo la Parola e fatto germogliare i semi, lasciandoli poi inaridire (cf Lc 8,6.13). Non basta la prima adesione mattutina. La Parola fecondata dagli eventi Quella Parola, allora, come dice il profeta (Is 55,10-11), non tornerà al Padre così come è uscita dalla sua bocca, bensì ricca di ciò che ha operato nel cuore del credente, ma ciò avverrà solo se la giornata del credente, e dunque la sua vita, la sua persona, i suoi affetti, le sue relazioni, persino i suoi fallimenti e delusioni, tutto, insomma, diventa come un grembo, come il grembo di Maria, ancora, che ogni giorno partorisce una parola sempre nuova di Dio. È lo schema rigorosamente biblico della Parola fecondata dagli eventi. La Paroladel-giorno è seme divino, da Dio seminato nel terreno della nostra giornata: sarà solo l’incontro tra i due elementi che consentirà alla Parola di svelarsi pienamente, d’esser compresa in tutta la sua ricchezza, di compiersi in maniera sempre nuova e inedita per la salvezza. Quel compimento, o tutte quelle fasi che portano a esso, è la nostra formazione permanente ordinaria. A che serve, infatti, una meditazione accurata e condotta secondo le moderne e classiche regole della lectio, se resta confinata in uno spazio rigoroso? A che pro meditare, passando ordinatamente e con certo sussiego attraverso lectio, meditatio, oratio, contemplatio, discretio, se questo non continua poi lungo il giorno? Come si può parlare di unità di vita attorno alla Parola se il credente non trova il modo di proseguire durante le attività quotidiane il suo rapporto con quella Parola specifica? Sarebbe come uno che si nutre anche 21 abbondantemente (della Parola), ma poi non fa movimento (= non fa circolare la Parola lungo la giornata). Ovvero c’è in noi una certa abbondanza di conoscenza della Scrittura, ma con scarso risvolto e coinvolgimento esistenziale; e la Parola rimane sterile in un discepolo sterile, che magari non ricorderà nemmeno durante il giorno quale Parola ha dato l’avvio al giorno. Credo che sia uno dei limiti dell’interpretazione odierna della lectio, che finisce per relegare l’incontro con la Parola a un momento della giornata, per quanto dignitosamente gestito. È, tutto sommato, un’interpretazione riduttiva e debole, che fa della lectio una pratica di pietà qualsiasi e non rispetta la centralità assoluta della Parola nella vita del discepolo, non solo in teoria o nella sua testa di studioso (quando va bene). In particolare nella vita così dinamica e complessa dell’apostolo oggi è fondamentale chiarire questo punto, nel quale consiste buona parte di quella che chiamiamo formazione permanente ordinaria, quotidiana. Sarà certo indispensabile l’approccio mattutino con la Parola-del-giorno, ma senza pretendere d’esaurire in quel momento il rapporto con la Parola stessa. Quello è solo il primo approccio, destinato a segnare la giornata e continuare in maniera sempre più intensa e articolata nella giornata stessa. In che modo? Con alcune attenzioni metodologiche riguardanti sia il momento specifico della meditazione che il séguito poi della giornata. Custodire la Parola Anzitutto, in concreto, dalla meditazione del mattino è importante che il lettore ne venga via con una Parola, un versetto, una scena o immagine precisa, qualcosa in cui sente concentrarsi il dono e l’appello 22 del Signore per quella giornata. Dice infatti Bossuet che, quando si medita e si coglie una verità rilevante per la propria persona è importante fermarsi, e non passare da un pensiero all’altro, da una verità all’altra: «Tenetene una, stringetela finché penetri in voi; legate a essa il vostro cuore, estraetene, per così dire, tutto il succo a forza di strizzarla con la vostra attenzione»5. La meditazione mattutina è più il momento dell’accoglienza che non quello della comprensione, momento nel quale si lascia che la Parola o una parte d’essa entri nel proprio cuore, per esservi custodita e conservata lungo la giornata come un tesoro, anche se non è stata «capita» in tutto il suo senso (è l’ascolto verginale, di chi, come Maria, non fa alcuna violenza alla Parola, neppure per capirla o per capirla subito, cf Lc 2,19.51). Quella Parola così custodita assumerà sempre più un ruolo attivo nella vita del credente, diventerà suo custode: «Se conserverai e custodirai la Parola… in modo che scenda nel profondo della tua anima e si trasfonda nei tuoi affetti e nei tuoi costumi…, non c’è dubbio che tu pure sarai conservato da essa», dice infatti san Bernardo. E qui inizia la lectio nella giornata, o durante la giornata. credente desse in ogni circostanza la parola a Gesù, fidandosi del vangelo e andando ben oltre il buon senso umano o le proprie esclusive congetture. Così nasce di fatto la familiarità profonda e appassionata con la Scrittura, mentre la Parola «rimane» nel cuore e nella mente, è proprio questo rapporto costante e vitale tra la Parola-del-giorno e il credente che dà luogo lentamente a quel processo d’incarnazione della Parola stessa nella vita del discepolo, che ne renderà sempre più comprensibile il mistero. La formazione permanente è parte e frutto di questo processo, ed è già in atto a questo punto, rinnovando la mente e mantenendola giovane e creativa. Come ben dice Origene: «La nostra mente si rinnova, esercitandosi nella sapienza, con la meditazione della Parola di Dio e l’intelligenza spirituale della sua Legge, e quanto più trae profitto quotidianamente dalla Scrittura e penetra in essa, tanto più si rinnova. Non so come possa rinnovarsi invece una mente pigra nel leggere la Sacra Scrittura e nell’esercizio della meditazione, la quale ci permette non solo di capire ciò che abbiamo letto, ma anche di chiarirlo ulteriormente e comunicarlo agli altri»6 Scommettere sulla Parola Rimanere nella Parola Quella stessa Parola conservata-custodita dovrà concretamente durante il giorno diventare la radice d’ogni gesto e pensiero, affetto e desiderio, in modo che tutto nell’essere e nell’agire della persona trovi in essa la propria sorgente e forza, come fosse piantato in essa, esattamente come il tralcio che è unito alla vite (cf Gv 15), o come se il Il passo successivo in tale cammino è il riferimento esplicito alla Parola-del-giorno quando c’è da prendere qualche decisione lungo la giornata. Ovvero si tratta di render la Parola che Dio ha in qualche modo consegnato al credente criterio di discernimento in generale e punto di riferimento specifico delle proprie scelte, piccole o grandi che siano; e noi sappiamo quante 5) J. Bossuet, Méditations sur l’Evangile, cit. da G. Ravasi, Meditare e masticare, in «Avvenire», 17/V/1997, 1. 6) Origene, Commento alla Lettera ai Romani, a cura di F. Cocchini, vol II, Genova 1986, 95 (In epistola ad Romanos IX, 1 commento a Rm 12,1-2. siano o quante potrebbero essere le scelte che riempiono un giorno. La Parola-delgiorno è compresa solo se e quando ogni progetto passa attraverso essa, ne è filtrato e purificato nelle sue componenti impure, e solo quando quella stessa Parola diventa l’unico motivo, l’unico fondamento, l’unica spiegazione della decisione. Anzi, lì nasce il credente, quando uno può dire, come Pietro quella volta sul lago: «Signore, questa scelta la faccio solo poggiandomi sulla tua Parola, non perché una certa logica umana vorrebbe portarmi in questa direzione, ma perché mi pare che tu mi chieda questo attraverso quella Parola che ha aperto oggi la mia giornata; anzi, un certo criterio umano mi condurrebbe altrove, ma io voglio scommettere su quella Parola che m’hai donato, e proprio perché me l’hai donata oggi so che essa ha qualcosa da dire a questa mia giornata e può dar senso e vigore alle mie scelte, voglio credere che essa è vera e non inganna, voglio provare cosa diventa la mia vita costruita solo in verbo tuo…». Rigorosamente parlando, chi non ha mai fatto questo tipo di scommessa tratta la Parola come un libro interessante, che magari parla di Marte e dell’ipotesi di vita su quel pianeta. Ovvero, chi non ha mai scommesso sulla Parola non è credente, tutt’al più è un’ipotesi di credente. Compiere la Parola Quando invece c’è il coraggio di scommettere sulla Parola allora la Parola si compie e anche la nostra formazione si compie, ovvero diventa permanente nel giorno qualsiasi. Si compie la Parola per la sua forza intrinseca, come disse quella volta Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf Lc 4,21); ma anche perché di fatto il credente la compie, 23 le dà vita e sembianze umane, le dà visibilità e calore nella sua persona, le dà originalità e novità nell’imprevedibilità del proprio vivere quotidiano. Anzi, «uno diventa la Parola che ascolta (...). La assimila come latte»7. La compie come in Maria si compirono i giorni del parto e diede alla luce Gesù. Torniamo ancora per un attimo al mosaico dell’Annunciazione di padre Rupnik: Maria vi è rappresentata con in mano un gomitolo di lana rossa appoggiato discretamente sul suo grembo, mentre il filo già in parte srotolato dal gomitolo giunge all’altra mano, la sinistra, tenuta aperta a significare l’assenso della Vergine. Il filo rosso che dal grembo di Maria va fino alla mano girando attorno alle dita indica che la decisione contenuta nel suo «sì» è già un tessere la carne del Verbo. È il mistero dell’Incarnazione: mistero grande che può essere racchiuso nella misura piccola e limitata di ogni nostra giornata, di ogni nostra scelta! La Parola-del-giorno è come il filo rosso che lega tra loro tutti gli istanti della giornata, li connette tra loro dando unità alla vita e alla personalità del credente, ma è anche il filo rosso con cui ognuno di noi tesse la carne al Verbo nel grembo verginale della sua giornata, d’ogni sua giornata. Con gelosa vigilanza e pazienza testarda, con senso di responsabilità e cuore pensante senza pretendere che ogni giorno venga fuori chissà quale ricamo, ovvero che ogni giorno vi sia chissà quale rivelazione e scoperta, ma semplicemente «accontentandosi» di realizzare la propria vita in coerenza con quella Parola, o di compiere quella Parola nel tessuto della vita. Detto in altre parole: la formazione diventa davvero permanente, o diciamo pure «si compie» nell’ordinarietà della vita, grazie al dono quotidiano e sempre nuovo della Parola, che trova terreno accogliente nel discepolo della Parola, nel suo impegno fattivo, nella serietà con cui accoglie la Parola ogni giorno. La conserva, la custodisce in sé come un tesoro, rimane in essa facendone la radice d’ogni espressione vitale, e il punto di riferimento d’ogni sua scelta. È come un tessere e ritessere il tessuto della vocazione con il filo della Parola. Così quella Parola si compie nella sua vita. Formazione permanente nella dimensione ordinaria vuol dire in fondo passare dalla concezione antica della meditazione come preghiera del mattino, a questa logica della Parola-del-giorno che abbraccia tutta la giornata. O, altrimenti detto, la formazione iniziale sta alla formazione permanente così come la lectio matutina sta alla lectio continua. 7) Mosconi, Meditazione, 10. 4. Lectio vespertina (o nocturna) E siamo alla fine della giornata. L’appuntamento con quella Parola che ha aperto la giornata e che è proseguito lungo la giornata stessa, non cessa ma continua ancora. Anzi, è sempre quella stessa Parola, 7) Mosconi, Meditazione, 10. 24 che ha aperto la giornata, che ora la chiude. Logico che sia così, in teoria. Contemplazione grata In altre parole, la lectio prosegue, prosegue con quella preghiera della sera che è posta al termine del giorno del discepolo. Potremmo addirittura dire che è più lectio quella della sera, che non quella del mattino. Perché? Perché al termine della giornata il credente ha di fronte a sé non solo la Parola, ma la Parola più gli eventi del giorno nei quali la Parola stessa s’è compiuta, come prima abbiamo visto, dunque una Parola più chiara e comprensibile, più evidente nel suo significato, più bella da contemplare, più viva e vivente. È, in effetti, il momento della contemplazione. Di quella cognitio vespertina o visione nuova, serale, forse notturna, comunque conclusiva della giornata, in cui la luce s’oscura, il sole scompare, le voci tacciono, certe tensioni s’allentano, ed è un’altra la luce quieta che illumina gli occhi e rende mente e cuore capaci di intus-legere. è la tipica contemplazione dell’apostolo, contemplazione piena di gratitudine per quanto il Signore ha rivelato di sé, ma anche contemplazione ruspante, terra terra, intrisa di storia, di vicende umane, di domande magari rimaste inevase, di ansie che si sono riversate nel cuore dell’apostolo, ma tutto questo è ora lasciato aperto alla potenza della Parola e della Parola-del-giorno, è luogo misterioso di grazia, per una rivelazione ancora non del tutto chiara, per certi versi opaca, ma quanto basta perché l’apostolo vi scorga il seme del Regno che sta per venire, i germi di quella salvezza che si sta per compiere. «Buonanotte, mio Dio» E allora può pregare con Simeone: «Ora lascia, Signore che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza… » (Lc 2,29-30). Simeone pregò così al termine della sua lunga vita, dopo aver finalmente «visto» la salvezza; il discepolo della Parola prega così al termine della sua giornata, di ogni giornata, perché ogni giorno vissuto alla luce della Parola è per lui giorno in cui si compie la salvezza. È la maturazione e maturità della fede, favorita dall’intelligenza delle Scritture: gli occhi e tutti i sensi si sono resi attenti, cuore e mente son sempre più intelligenti, capaci di «leggere dentro» il mistero, la persona intera sempre più docibilis per lasciarsi formare ogni giorno dalla Parola-del-giorno. E così il cantico del vecchio credente che saluta la vita diventa simile alla buonanotte che il credente di oggi rivolge a Dio con cuore grato; come la lectio matutina è il buongiorno di Dio, così la lectio vespertina o nocturna è la buonanotte del discepolo. La giornata è proprio finita, attraversata dalla Parola che s’è compiuta in essa. E l’animo è pieno di gioia, quella gioia serena e distesa che concilia il sonno e prepara una nuova giornata, in cui un’altra Parola si compirà. Pace e distensione L’apostolo che ha faticato tutta la giornata non potrebbe concludere diversamente la sua giornata, non potrebbe trovare altra distensione al di fuori di quella che gli è offerta dal ritorno a quella Parola che ha aperto la giornata e che ora vede come dispiegarsi lungo la giornata medesima, raccogliendola e dandole un cuore e quasi illuminarsi così d’una luce nuova. Questo, ripeto, è distensivo, oltreché intrinsecamente formativo, perché profondamente rappacificante, armonico, divino e umano, lineare e coerente (e nulla è distensivo come la coerenza). L’apostolo che ha annunciato l’evangelo ai piccoli e agli umili ha bisogno di distensione, di distensione 25 Monastica vera, del corpo e della mente, al termine della fatica quotidiana, ne ha diritto. Nessuno dica, allora, che non fa la preghiera della sera perché è stanco, perché vorrebbe dire che non ha capito nulla della natura della stessa preghiera della sera, e perché sarebbe contraddittorio: proprio perché è stanco ha bisogno dell’orazione della lectio vespertina e di quella pace profonda e rilassante che solo dalla Parola può venire. E stia attento, semmai, a non cercare forme strane e improprie di distensione a fine-giornata (dando una sorta di libera uscita, più o meno trasgressiva, a certi impulsi e istinti, in modi irriflessi, o semplicemente cliccando e navigando), forme distensive strane e improprie nel senso che, al di là dell’esser moralmente rilevanti, non sarebbero in linea con la sua identità e verità, e dunque sarebbero anche incapaci di dargli quel che lui cerca e che esse sembrano promettergli, non potrebbero mai assicurargli la vera distensione della mente e del cuore, ma tutt’al più solo qualche briciola di gratificazione dei sensi, subito bruciata da un retrogusto doloroso, ma pronta poi a ripresentarsi sempre più esigente e prepotente, fino a renderlo dipendente. Altro che distensione, qui nascono piano piano nuove schiavitù! Ancora una volta, al di là della virtù o della fedeltà in senso morale, c’è poca intelligenza e molta stoltezza nella facilità e leggerezza con cui molti non s’accorgono di questi tranelli finendo per svendere dignità e libertà personale e per smarrire la pace interiore. Verifica di fronte alla Parola Al tempo stesso la Parola dinanzi alla quale si conclude la giornata diventa anche 26 verifica molto realistica, punto di riferimento per un esame di coscienza puntuale. Ed è del tutto logico e coerente con quanto abbiamo detto: la contemplazione della Parola che s’è compiuta negli eventi del giorno, renderà inevitabilmente più chiari ed evidenti quei momenti della giornata o quegli atteggiamenti del discepolo che non hanno consentito alla Parola, per quanto dipende dall’uomo, di compiersi e operare salvezza. D’altronde è nella natura della Parola: non sei tu che la leggi e contempli, ma è essa che ti guarda, ti fissa, ti rivolge uno sguardo tenero e pure severo, ti accusa, ti ferisce, ti risana, ti salva, ti chiama, ti accarezza, ti trafigge il cuore. Per questo la Bibbia appartiene a chi la legge, perché ogni lettore sa che in un rotolo del libro c’è qualcosa scritto su di lui e per lui (cf Sal 40,8). E proprio questo, forse, si sente e scopre ancor più nella preghiera della sera. E così l’esame di coscienza assume importanza a partire anch’esso dalla Parola-del-giorno, perché può esser fatto solo dinanzi a essa, per cui non sarà mai ripetitivo e scontato (per poi finire per esser abbandonato come cosa non così importante), ma mi darà di conoscere sempre aspetti nuovi della mia povertà e debolezza. E così la conoscenza di me, del mio mondo interiore, cresce assieme alla conoscenza di Dio, della sua Parola, della sua salvezza. E si realizza così uno dei primi obiettivi della formazione permanente: la capacità di lettura della vita alla luce dell’intelligenza delle Scritture. Perché la vita sia «vera». Carisma cistercense di M. Hildegard Brem* o.cist. I nvitata a presentare il carisma cistercense come lo viviamo attualmente nell’Ordine di Cîteaux nei paesi germanofoni, comincio con uno sguardo sulle congregazioni germanofone e sui monasteri che ne sono membri. Il mondo cistercense germanofono di oggi è il risultato di una lunga storia che ha conosciuto molti avvenimenti dolorosi; in un mondo che cambia esso pure persiste a condurre la vita cistercense. Il nostro Ordine è suddiviso in congregazioni. Nei paesi germanofoni ci sono tre che costituiscono il legame tra i monasteri, quelle di Mehrerau, d’Austria e del Purissimi Cordis (Boemia e Germania dell’Est). I monasteri di Seligenthal, Marienkron e Helfta non appartengono a nessuna congregazione: sono sotto la giurisdizione dell’Abate generale. Il ritmo di vita varia molto tra le diverse congregazioni e tra i monasteri. Tutti i monasteri della congregazione d’Austria hanno dei licei e un gran numero di monaci sono impegnati nelle parrocchie: era il solo mezzo di sfuggire alla soppressione programmata da Giuseppe II nel XVII secolo. Non si può * Abadessa dell’Abbazia cistercense MariasternGwiggen, Hohenweiler, (Vorarlberg) Austria. immaginare in quali condizioni questi monasteri, all’inizio del XIX secolo, hanno perseverato, bloccati come erano da leggi civili rigide e dal controllo di uno stato ostile alla vita monastica considerata inutile. I suddetti monasteri sono quasi gli unici che esistevano senza interruzione dal XII secolo e costituiscono così il legame tra l’antico Ordine di Cîteaux e il periodo contemporaneo. Nel nostro tempo, mentre molti preti secolari soffrono di solitudine e di sovraccarico di lavoro, questo genere di vita può attirare delle vocazioni come succede a Heiligenkreuz nella foresta viennese, ma esso pone anche dei gravi interrogativi ai monasteri il cui reclutamento è di lieve entità, ed è il caso più frequente. Come si può vivere una vita monastica autentica se, praticamente, non vivono in comunità che i membri più giovani o i più anziani. Anche se i mezzi di trasporti moderni come la macchina permette di occuparsi delle parrocchie vicine pur vivendo in monastero… Gli altri monasteri germanofoni – maschili e femminili – hanno subito anch’essi una storia piena di sfide: soppressione o pericolo di soppressione durante la secolarizza- 27 zione decretata da Giuseppe II e i decenni susseguenti, restrizioni o soppressione al tempo del nazional-socialismo, restrizioni o soppressione al tempo del comunismo. Nessun monastero si è arreso. Speriamo che la crisi attuale delle vocazioni non riesca ad estinguere questi monasteri che hanno sopravvissuto a tutti i terrori della storia! Monastero di Mariastern-Gwiggen Il nostro monastero di MariasternGwiggen ha le sue origini nel cantone svizzero di Thurgovie. I tre monasteri di monache cistercensi – Kalchrain, Feldbach e Taenikon – che vi esistevano, datavano dal XIII secolo. Dopo secoli di prosperità seguiti da un tempo di prove durante la Riforma, questi monasteri sono stati brutalmente soppressi nel 1848. Il Gran Consiglio di Thurgovie concesse una pensione a ciascuna monaca affinché essa potesse ritirarsi nella sua famiglia o presso amici. Lungi dal consentire alla loro sorte, la maggior parte di esse si lanciò in una vera odissea per trovare, finalmente nel 1856, una nuova casa nel piccolo castello di Gwiggen che datava dal XVII secolo, allora molto malandato. Dodici sorelle di Kalchrain e Feldbach, alle quali si unirono un po’ più tardi le monache di Taenikon, vissero là un periodo molto duro, ma fecondo. 28 È così che il nuovo monastero di Mariastern – che si chiama fino ad ora “le abbazie unite di Kalchrain, Feldbach e Taenikon a Mariastern” – poté ottenere nel 1861 la sua approvazione ecclesiastica. Ne seguì un tempo di prosperità malgrado una grande povertà materiale e penosi anni durante la prima e la seconda guerra mondiale. Malgrado questa lunga storia, la nostra comunità oggi è giovane. Negli ultimi trent’anni sono entrate più di trenta giovani. Così è stato possibile fare una fondazione nella Bassa-Austria (nord dell’Austria) (19821991). Questo monastero, Marienfeld, a 50 km a nord di Vienna è, dal 2001, un’abbazia indipendente. Attualmente siamo 25 monache, di cui quattro in formazione. Come viviamo il carisma cistercense? Ho posto questa domanda alle mie consorelle, ed ecco alcune risposte: «Dopo 26 anni di vita monastica sono profondamente commossa per questo Dio che è felice in sé e che si è annientato nel suo Figlio per invitare gli uomini a partecipare alla sua vita e al suo amore. “Dio è prodigo di se stesso nel suo amore per l’uomo” (Guerrico d’Igny). Il desiderio di Dio è di donarsi a noi. Per questo Egli ci guarda con un volto umano, ci abbraccia e ci attira al suo cuore umano che è, allo stesso tempo, il cuore di Dio. Tutta la mia vita è una risposta a questo amore!» (Sr. Colomba). «Io gioisco di poter attingere l’amore, soprattutto nella celebrazione della nostra bella liturgia che posso prolungare nel silenzio della nostra vita – come lo dice san Bernardo nel commento del Cantico dei Cantici –, essere la fidanzata che cerca e trova il suo benamato, e che può rallegrarsi delle visite del Verbo. Perché è vero: “Colui che si unisce al Signore non è che un solo spirito con Lui” (1 Cor 6,17)» (M. Agnese). «“I cistercensi non cercano tanto Dio, essi si dedicano a Lui”. Affascinata da questa frase letta in un libro, ho potuto fare l’esperienza che Dio mi ha trovata e condotta in questo luogo, un giardino chiuso (hortus conclusus) dove io posso dedicarmi a Lui in una vita semplice e nascosta – non tanto in un luogo sperduto che nel deserto del mio proprio cuore. Così desidero arrivare a questo: cuore a cuore con Gesù, a questa unione intima con il fidanzato benamato di cui testimoniano i santi e le sante del nostro Ordine» (Sr. Anastasia, novizia). Per il momento la foresteria, che può ospitare da 15 a 25 persone, il laboratorio liturgico e la decorazione delle candele sono il nostro mezzo principale di sostentamento. Il negozio del monastero è in pieno sviluppo e ci dà la possibilità di vendere i prodotti del giardino biologico e del nostro artigianato monastico così come i prodotti di altri monasteri. Le nostre sorelle (la cui età media è tra i 40 e i 50 anni) sono molto dinamiche. Questi ultimi anni, alcune di loro hanno chiesto, dopo una decina di anni di vita nel monastero, di poter seguire una piccola formazione teologica e pratica per essere capaci di trasmettere i frutti della nostra vita contemplativa alle persone che cercano un nutrimento spirituale. In questo modo, è stato possibile arricchire il nostro programma della foresteria offrendo diverse attività: gruppi di bambini, di giovani, scambi di giovani mamme, gruppi di preghiera e di meditazione biblica, accompagnamento spirituale, ritiri, danza religiosa, guarigione interiore. Da più di quarant’anni, il 13 di ogni mese, un gruppo di 200 o 300 fedeli si riunisce con la comunità per pregare e celebrare l’Eucaristia per le grandi intenzioni della Chiesa: il rinnovamento della fede, le famiglie cristiane, le vocazioni religiose, la pace nel mondo. Tutte queste riunioni sono molto apprezzate dai fedeli della zona e la nostra abbazia è diventata un vero centro di spiritualità. Inoltre io stessa, da due anni, animo una settimana di spiritualità cistercense, che riunisce monaci/monache cistercensi e laici per studiare e meditare insieme i testi cistercensi. Pensiamo che questi raduni siano una forma attuale di vivere un’accoglienza monastica nello spirito di san Benedetto. Tutte queste attività sono un mezzo per condividere il nostro carisma cistercense con quelli che cercano Dio, ma siamo anche molto vigili affinché la vita monastica resti il centro della nostra vita; perciò ogni sorella non ha che alcune ore di attività pastorali al mese. In questi ultimi anni, abbiamo anche scoperto che un numero sempre crescente di persone si sentiva attirata dalla vita cistercense e desiderava partecipare non soltanto alla ricchezza della nostra liturgia e agli incontri di preghiera, ma anche al nostro lavoro. Per queste persone è stato redatto un piccolo regolamento come struttura per accogliere questi aiuti da svolgere nel giardino, nel negozio e nella foresteria e per proteggere, allo stesso tempo, la clausura monastica e la zona di silenzio nel monastero. Siamo tanto riconoscenti a questi ausiliari regolari che diventano sempre più degli amici, e che sono essi stessi riconoscenti per i suggerimenti spirituali, la preghiera, la comunione con le sorelle e per la ricca spiritualità cistercense. Alcuni di essi sono già diventati oblati cistercensi, altri sono interessati e altre persone cercano un legame spirituale con il monastero. 29 Figure cistercensi Dovuto a questo interessamento abbiamo fatto un piccolo regolamento per precisare le condizioni di questa oblazione: 1) la persona deve essere legata al monastero e alle sorelle; 2) vivere nello spirito della Regola di san Benedetto e dei Padri cistercensi e ricercare l’accompagnamento delle sorelle in questa via; 3) aiutare il monastero secondo le proprie possibilità. Io penso che la nostra spiritualità cistercense è allo stesso tempo interiore e aperta. È allo stesso tempo frutto e sorgente di una vita cistercense equilibrata. Mentre, negli anni 50, il lavoro agricolo era preponderante e pesava sulle spalle delle sorelle, la generazione attuale è meno resistente fisicamente e psichicamente. Dopo il concilio Vaticano II, c’è stato un nuovo interesse per la nostra ricca spiritualità, interesse di cui uno dei primi frutti è stata la riorganizzazione della nostra vita in favore della lectio divina e della preghiera silenziosa. Quali sono le sfide e le difficoltà da superare? Viviamo in un paradiso di armonia e di pace? Sì e no. Sì, perché le sorelle, in generale, fanno l’esperienza che il ritmo della vita monastica, la comunione con Dio e con le sorelle le trasformano sempre di più e le aiutano a vivere meglio la loro risposta a Dio. No, perché anche il nostro difficile tempo ha lasciato le sue tracce nel cuore delle sorelle. Più che una volta, esse hanno bisogno di accompagnamento, di dialogo e di guarigione interiore. In tutta la misura del possibile, io do loro la possibilità per tutto ciò. La nostra spiritualità cistercense è molto ricca, ma ho l’impressione che ci manchi spesso l’esperienza pratica per applicare la fede nella vita concreta. Per far fronte a questa situazione siamo state aiutate parecchie 30 volte da esperti nello stesso tempo spirituali e psicologi. Un altro punto diventa per noi sempre più importante: stiamo cercando delle nuove forme di obbedienza monastica, dialogando sulle questioni che vengono poste e che riguardano tutte le sorelle. E abbiamo fatto l’esperienza che è molto più facile obbedire a un superiore che ci dice la volontà di Dio che cercare insieme questa volontà. Questo porta frutti solo se impariamo ad ascoltarci le une le altre e se siamo pronte a riscoprire la mutua obbedienza, cioè se il nostro cuore diventi abbastanza aperto per lasciare entrare anche le altre con le loro opinioni e le loro esperienze. Siamo ancora delle principianti in questa via. Questo ascolto non si impara in un solo giorno. Anche qui siamo riconoscenti per la mediazione degli esperti che ci insegnano e ci aiutano quando ci sono delle questioni delicate da trattare. Io stessa sto seguendo un corso pratico che mette insieme la spiritualità e la dinamica di gruppo per poter meglio guidare la comunità. Penso che questi sforzi fanno anche parte della spiritualità cistercense. La vita fraterna di cui i nostri Padri cistercensi, soprattutto Baldovino di Ford, sono i maestri e i testimoni, è nello stesso tempo un dovere e un dono che richiede cure tutti i giorni… Sì, il nostro monastero è una scuola, una scuola del servizio al Signore come dice san Benedetto, una scuola dell’amore come dice san Bernardo. Desidero che attraverso questa scuola, Cristo ci conduca tutti insieme alla vita eterna! Da Collectanea Cisterciensia, tomo 70-2008-4, con la dovuta autorizzazione. Traduzione dal francese di Sr. Anna Grazia Loredan Un giovane Santo per i giovani Rafael Arnáiz Barón di Sr. Patrizia Girolami* o.c.s.o. «Solo hay una cosa: Dios» S e i Santi sono gli amici degli uomini, presto avremo un nuovo amico. Soprattutto i giovani lo avranno. Un amico in cielo e sulla terra. Uno che ci capisce, che sa indicarci la via. Un compagno di strada che conosce la meta e il cammino, a cui ci si può rivolgere certi che non ci negherà l’aiuto, perché questo fanno i veri amici, i Santi. Un giovane amico, un amico dei giovani, con cui i giovani non potranno che far subito amicizia. Un giovane dalla tempra forte, anche se dalla salute debole, un giovane che certamente avrebbe fatto amicizia con una altro nostro giovane santo: il Beato Pier Giorgio Frassati. Come lui brillante, amante della vita, dello sport, della bellezza, come lui conquistato dal volto bello di Cristo, come lui stroncato, in giovane età, da una grave malattia: l’uno * Monaca del Monastero Trappista N. S. di San Giuseppe, Vitorchiano (VT). nel servizio della carità e nell’associazionismo cattolico nella Torino dei primi decenni del secolo scorso, l’altro nel servizio divino della lode e nell’offerta totale di sé nella Trappa di S. Isidro de las Dueñas, a Siviglia. Stiamo parlando del Beato Rafael Arnáiz 31 Barón, che il prossimo 11 ottobre Benedetto XVI eleverà alla dignità degli altari. Il giovane santo, il nuovo amico è lui. Chi è, dunque, Rafael Arnáiz Barón e perché dovrebbe diventare amico dei giovani? Molto è già stato detto di lui, soprattutto in lingua spagnola. Perciò ci limitiamo soltanto a richiamare, qui, tre tratti della sua figura che lo rendano familiare, amico, anche a nuovi amici italiani. Prima di tutto Rafael Arnáiz Barón è un giovane, che, come è stato scritto, «fu e non poté essere nient’altro che giovane», «giovane per sempre», dal momento che la sua vita si consumò nell’arco di soli 27 anni. Un giovane la cui giovinezza, nel fiorire dei suoi anni, è potentemente segnata dall’incontro con Cristo. difficile e piena di spine; non m’importa se tu chiedi che io muoia con Te sulla Croce… Vengo, Signore, perché sei tu che mi guidi, sei tu che mi prometti una ricompensa eterna, sei tu che perdoni e che salvi… sei tu l’Unico che ricolma l’anima mia. Allontanatevi preoccupazioni di quello che mi potrà capitare nel futuro; allontanatevi paure umane, perché – dato che è Gesù di Nazareth colui che guida – che cosa c’è da temere? Non ti pare, fratello, che lo avresti seguito e che non ti sarebbe importato di nessuna cosa al mondo e neppure di te stesso”? Ebbene è proprio questo che capita a me: sento ben dentro all’anima questo sguardo di Gesù…, sento che niente al modo mi colma, che… soltanto Dio, soltanto Dio, soltanto Dio!». «Se tu vedessi che Gesù ti chiama e ti dà un posto nel suo seguito, e se lui ti guardasse con quei suoi occhi divini che irradiano amore, tenerezza e perdono, e ti dicesse: Perché non mi segui? Tu che faresti? Forse gli risponderesti: “Signore, ti seguirei […] se fossi sano e forte per bastare a me stesso…” No. Certo se tu avessi visto la dolcezza degli occhi di Gesù, non gli avresti detto niente di tutto questo, non avresti fatto altro che alzarti dal tuo letto senza pensare alle tue cure né a te stesso. Ti saresti unito – pur essendo l’ultimo, nota bene: l’ultimo! – alla comitiva di Gesù, e gli avresti detto: “Vengo, Signore, non m’importano le mie sofferenze, né la morte, né il mangiare, né il dormire: se tu mi accetti, vengo. Se tu vuoi, puoi guarirmi… Non m’importa se la strada per cui mi porti è scoscesa, Quando scriveva queste parole, Rafael era ormai colpito dalla malattia, ma ciò che rinnovava era il sì alla sequela di Cristo che già aveva detto, quando per la prima volta gli aveva rivolto l’invito a seguirlo. Studente di architettura, intelligente, affabile, aperto, socievole, brillante in compagnia, amante della vita, era allora, intorno ai vent’anni, che nel segreto del cuore doveva aver avvertito il fascino irresistibile di quell’incontro. Allora, quando, fra gli impegni dello studio, delle lezioni, delle relazioni che scandivano la sua vita di giovane a Madrid, trovava modo e tempo di iniziare la sua giornata con la Messa e di concluderla davanti al Santissimo, quale «Socio Attivo della Adorazione Notturna» di Oviedo. Allora certamente il Signore si era affacciato nella sua vita, o forse vi era prepotentemente entrato, allora aveva incontrato il 32 suo sguardo, e allora la sua vita si era allargata e dischiusa a quell’orizzonte di amore e di pienezza che soltanto Dio poteva dare. Solo Lui e nient’altro. Solo Lui e nessun altro. Solo Dios, come avrebbe amato ripetere con un ritornello che scandisce tutta la sua esistenza. Ricordando i motivi che lo avevano spinto a dire quel «vengo» al Signore, e poi a seguirlo nella vita monastica, egli dirà, infatti: «Non fuggii il mondo […] perché fossi rattristato nel costatare che esso non mi dava che menzogna e inganni […]. Il mondo non mi ha ingannato nemmeno una volta […]. Ero appena all’inizio della vita, poiché 21 anni non credo che comportino un’esperienza tale da consentirmi di dire enfaticamente e con voce sonora: Me ne vado in un chiostro perché sono disingannato dalla vita e con aria compunta mi ritiro nella solitudine monastica a piangere sui miei peccati. Nulla di tutto questo. La vita mi fioriva, mi accarezzava, e Dio mi lusingava […]. Ho un carattere allegro, godevo della musica e della natura; non ho avuto difficoltà a conoscere il mondo: l’ho visto da vicino». «E allora perché me ne andai alla Trappa?» – continuava. «Non appena mi avvidi che il piacere del corpo e tutte le sue cure, altro non erano che un po’ di fango, concentrai la mia attenzione sull’anima che è immortale […]. I desideri e l’impegno per divenire, un giorno, un buon architetto li ho mutati con il desiderio di assicurarmi un posto in cielo, amando Dio». Un guadagno, dunque, e non una perdita, quello che porta Rafael al monastero. Il guadagno più alto, l’investimento di sé, di tutte le risorse della sua umanità e della sua giovinezza sul tesoro prezioso e inestimabile, vero centro della vita: l’amore di Dio che non delude. Perché Rafael Arnáiz Barón, ed è il secondo tratto della sua persona che richiamiamo, non è solo un giovane, è anche un giovane monaco. O almeno avrebbe voluto esserlo, se la malattia non glielo avesse impedito, consentendogli di abbracciare la vita monastica soltanto come semplice oblato, anche se con frutti di santità. È un giovane che nella vita monastica intravede la possibilità di un’esperienza radicale d’incontro con Dio che non uccide e non mortifica la giovinezza, al contrario la esalta e la fa fiorire, perché la afferra al cuore e ne dischiude tutte le sue infinite potenzialità. Per questo, lasciati gli studi di architettura, all’età di 23 anni, entra nel monastero trappista di San Isidro de las Dueñas, dove quel «profitto» intravisto, o piuttosto la perla preziosa, è subito confermato: «Neppure un milione di mondi carichi di ricchezza valgono quanto l’atto di amore del più umile oblato trappista. Il mondo dice al monaco: Sei pazzo, abbandoni tutto e ti trovi contento del nulla. Risponde il monaco: Lascio tutto ciò che è nulla per possedere tutto: in verità qui non ho nulla: né volontà, né libertà, ma in cambio ho Dio che tu, mondo, non puoi darmi». La «volontà» e la «libertà» di cui Rafael sta parlando sono soltanto l’illusoria affermazione di sé come centro della propria vita e criterio ultimo del proprio agire al 33 posto della quale il giovane monaco scopre la forza autenticamente liberante dell’appartenenza totale ed esclusiva a Dio e della suprema «follia» dell’amore. Lo scambio è davvero vantaggioso: lasciare quello che apparentemente sembra tutto, ma che è nulla, per avere ciò che davvero è tutto, la pienezza di vita che è dono di Dio. Per questo, come rivelano le lettere degli inizi e le memorie della più tarda Apologia del trappista, non esita anche ad abbracciare con gioia ed entusiasmo le nuove abitudini di vita (il lavoro in campagna, le alzate notturne per la preghiera, il cibo semplice), per molti aspetti del tutto inusuali per un giovane borghese qual è, ironizzando anche bonariamente su di sé, come quando si paragona, divertito, ad un clown del circo che, nel fare tutto quello che può, «trascina i piedi e si asciuga il sudore col suo enorme fazzolettone», guadagnandosi con ciò gli applausi degli Angeli, che dal cielo ridono di lui. Ma passano appena quattro mesi, e la vita di Rafael è segnata da un nuovo evento e da una nuova chiamata: quella della malattia e della sofferenza. Rafael Arnáiz Barón, è infatti, un giovane, sì, e un giovane monaco, ma è anche un giovane che conosce profondamente l’esperienza del dolore e della sofferenza. Ed è questo il terzo tratto della sua persona che vogliamo far risaltare. Una grave forma di diabete, che in pochi giorni gli fa perdere 24 chili e che necessita di cure particolari, lo costringerà più volte a lasciare il monastero, finché non vi ritornerà, come oblato, per trascorrevi gli ultimi mesi della sua breve esistenza. Di questi ultimi mesi ci resta un piccolo e prezioso diario, Dio e la mia anima, che 34 raccoglie la sua più profonda esperienza spirituale e lascia intravedere i moti del suo animo nel tratto finale del cammino che lo conduce alla meta. Fra luci ed ombre, la forza segreta che illumina la malattia e la sofferenza e dà senso ad ogni gesto, è una sola: la Croce di Cristo. «Che cosa ho fatto, Signore? […] Attaccato alla tua Croce, sono entrato in Capitolo… Ai piedi della tua Croce, ho consumato il cibo di cui ha bisogno la mia povera natura… Ai piedi della tua Croce insanguinata trovo la consolazione di scrivere queste righe: Non permettere che io sia separato da Te […]. Quale gioia poter vivere ai piedi della Croce! […]. Là si dimentica tutto, non vi è desiderio alcuno di essere felici, nessuno pensa ai propri guai… Vedendo le tue piaghe, Signore, un pensiero solo occupa l’anima mia… L’Amore… sì, l’amore per asciugare il tuo sudore; l’amore per addolcire le tue ferite; l’amore per alleviare un così immenso dolore. Non permettere, Signore, che da Te io sia separato […]. Lasciami, Signore, vivere ai piedi della tua Croce… il giorno, la notte, nel lavoro, nel riposo, nella preghiera, nello studio, mangiando, dormendo… sempre… sempre». Non è fra le parole più comuni in uso nel vocabolario del nostro tempo, in cui dolore e sofferenza minacciano e spaventano, la parola «Croce». Eppure questa è la vera scuola per il giovane Rafael: «È da poco tempo che ho conosciuto la dolcezza della sequela di Cristo, ma è nella Croce che ho sempre trovato consolazione. È nella Croce che ho appreso quel poco che so». E al fratello scriverà: «Se il mondo sapesse quanto si può imparare stando ai piedi della croce». E che cosa ha imparato Rafael ai piedi della Croce? Ai piedi della Croce ha innanzitutto vissuto al massimo grado l’amore di Dio, l’ha sperimentato anche nella propria carne, nel proprio corpo, rinnovando ancora, quotidianamente, il suo sì e la sua adesione personale, unendosi al Lui, attraverso l’amore e l’oblazione del Figlio. Ai piedi della Croce ha imparato quello che noi oggi facciamo fatica ad imparare: che tutta la vita è abbracciata e illuminata di senso da Cristo, tutta, niente escluso. Non escluso il dolore, non esclusa la sofferenza, non esclusa la morte, che è ciò che più d’ogni altra cosa l’uomo teme. Ha imparato che la sofferenza non è un limite né un passaggio da evitare, ma piuttosto la via che compie fino in fondo la propria esistenza perché diventa il luogo concreto in cui e riconoscere e incontrare l’amore di Dio. Ha avuto la certezza, ai piedi della Croce, che nulla era sottratto della sua vita e della sua giovinezza, fino a pronunciare parole che lascerebbero sconcertati se non fossero la testimonianza che proprio l’esperienza della sofferenza è il punto più altro dell’incontro con Dio, la misura che Egli riempie del suo amore: «Come si vive bene soffrendo!... accanto a Te sulla tua Croce… […] Ah, se io potessi dire al mondo dove si trova la vera gioia! Come è dolce vivere così, con Dio solo nel cuore! Quale dolcezza infinita vedersi pieni di Dio […]. Dio solo colma l’anima… e la colma tutta intera». Ed è perciò ai piedi della Croce che il Beato Rafael ha imparato anche il segreto di quella santità che ora la Chiesa gli riconosce e che propone a modello per tutti: «Se mi si dicesse dettagliatamente quel che devo fare per essere santo e gradito a Dio, credo che, con l’aiuto di Dio e di Maria, lo farei assolutamente. Con Gesù al mio fianco, nulla mi pare difficile e il cammino della santità mi sembra di volta in volta più facile. Ho l’impressione che esso consista più nel togliere delle cose che nell’aggiungerne e diventa a poco a poco un cammino di semplicità, più che complicarsi con cose nuove aggiunte». Un «cammino di semplicità» che consiste nell’avvicinarsi sempre più «all’unico amore, all’unico desiderio, all’unico scopo di questa vita», nell’esperienza quotidiana, resa viva e autenticata dalla sofferenza, che Solo Dios basta: «Sei tu, mio Dio, che riempi la mia anima; sei Tu la mia gioia; sei Tu la mia pace e la mia serenità. Sei Tu, Signore, il mio rifugio, la mia fortezza, la mia vita, la mia luce, la mia consolazione, la mia Unica verità e il mio Unico Amore. Sono felice, ho tutto!». Questa la parola che il giovane fra Rafael ci lascia: la bellezza di aver consegnato a Dio la propria esistenza e di aver ricevuto da Lui il centuplo. E per questo crediamo che egli potrà diventare facilmente amico dei giovani, che più di altri avvertono in sé la domanda di pienezza e di felicità per la propria vita. Ma, ne siamo certi, San Rafael non sarà solo l’amico dei giovani, i santi non fanno preferenze, e chiunque vorrà, troverà aperto il suo cuore, amico di tutti. 35 Figure cistercensi Cronologia della vita 1911 1913 1919 1920 1921 1922 1930 1934 nasce a Burgos il 9 aprile il 1° dicembre riceve il sacramento della Cresima il 25 ottobre fa la Prima Comunione entra nel Collegio de la Mercede dei Gesuiti; si ammala di febbri coli-bacillari e successivamente è colpito da una grave pleurite ristabilito, è offerto dal padre alla Vergine del Pilar la famiglia si trasferisce nella città di Oviedo, dove continua la sua formazione nel Collegio S. Ignazio dei Gesuiti è ammesso alla Scuola Superiore di Architettura di Madrid e visita per la prima volta monastero di San Isidro de Dueñas il 15 gennaio entra nel noviziato di S. Isidro; il 26 maggio, per decisio- ne dei superiori, torna a casa per curare la grave forma di diabete sopraggiunta 1936 l’11 gennaio rientra in monastero come oblato 1936 il 29 settembre esce di nuovo, richiamato sotto le armi durante la causa civile spagnola (1936-1939), ma dichiarato inabile, il 6 dicembre, ritorna al monastero 1937 il 7 febbraio la malattia si aggrava ed è costretto di nuovo a lasciare il monastero, ma il 15 dicembre ritorna definitivamente a San Isidro 1938 il 26 aprile muore in odore di santità 1989 il 7 settembre viene promulgato il decreto sull’eroicità delle sue virtù 1992 il 27 settembre è beatificato da Papa Giovanni Paolo II. Madre Maria Pia Gullini e Suor Maria Gabriella* * di Sr. Maria Paola Santachiara ** o.c.s.o. L a tradizione cistercense, con la sua spiritualità così ricca e così impregnata di umanità, non arriva a noi solo tramite dei testi, ma attraverso una storia. La storia è Per conoscere Rafael Arnáiz Barón (testi in italiano) P. Beltrame Quattrocchi, Nel fascino dell’assoluto. Rafael Arnàiz Baròn, Edizioni del deserto, Napoli 1992 R. Arnàiz Baròn, Dio e la mia anima. L’ultimo opuscolo (febbraio 1937 – aprile 1938), Abbazia Benedettina “Mater Ecclesiae”, Isola San Giulio, traduzione italiana a cura delle monache del testo Dieu et mon ame. Le dernier cahier (février 1937-avril 1938), pubblicato in “Collectanea Cisterciensia” 62 (2000), curato da X. Morales A. Feliz, Il Beato Rafael Arnàiz Baròn, in AA. VV. Testimoni cistercensi del nostro tempo, Trappiste-Vitorchiano 2006. 36 Madre Maria Pia Gullini * Conferenza tenuta a Vitorchiano nel 50° anniversario della morte di Madre M. Pia Gullini – 29 aprile 2009. ** Monaca del Monastero Trappista N. S. di San Giuseppe, Vitorchiano (VT). la nostra grande maestra. Quando parlo di storia non parlo di eventi, ma di persone. Perché sono le persone che costituiscono lo spazio storico in cui ci muoviamo. Come potrà mai una comunità pensare alla Gerusalemme celeste senza pensare di rivedere il volto delle sorelle che hanno servito la Gerusalemme terrestre, nell’umile gioia della loro donazione? E che l’ hanno costruita con la loro quotidiana fedeltà? Noi tutte siamo debitrici di umanità e santità a coloro che ci hanno preceduto1. Sappiamo che Maria Sagheddu arrivò al monastero di Grottaferrata il 30 settembre 1935. Così la sua badessa, Madre Pia, descrive, negli appunti stesi per Madre Maria Giovanna Dore, l’autrice della prima biografia di Suor Maria Gabriella, il suo primo incontro con lei in parlatorio e le sue prime impressioni. 1) M. Cristiana Piccardo, Pedagogia viva, Jaca Book, Milano 1999, pp.33-34 37 «Arrivò il 30 settembre – 21 anni – fine e fresca, coi grandi occhi profondi e luminosi. L’anima traspariva pura e piena di stupefazione dinanzi al mistero della Casa del Signore, della vita religiosa… La Madre, dopo Sr. Maria Gabriella qualche colloquio, intuì la profondità di quell’anima, rilevò una memoria non comune, per non dire singolare, un’intelligenza ampia, un senso di equilibrio riposante. Umile, bambina nell’anima, beveva la prima acqua e se ne impregnava. La vita della Trappa, con il suo mistero di silenzio, la sua preghiera di lode, le sue cerimonie di corte, le sue penitenze col Cristo vittima, era vita tutta d’amore, era conversazione con Quei di Lassù, era prezzo di anime, era vita di Paradiso, ma morte di sé; la morte, condizione assoluta per questa vita angelica nell’invisibile e nell’attività. Afferrò subito e, con la sua forte volontà, abbracciò silenzio e rinunzia di sé per seguirlo, Lui il suo Signore, che l’avrebbe poi trovata degna di portare la sua croce»2. Parole, queste, che già in germe riassumono tutta una vita e che pian piano nel solco di una amorosa fedeltà quotidiana porteranno al compimento di una vocazione d’amore e di offerta. 2) M. M. Pia Gullini, Appunti della Rev. Madre su Suor Maria Gabriella – Archivio di Vitorchiano. 38 Da parte sua, Maria scrive nella sua prima lettera alla mamma: Alla mamma darà la notizia qualche mese più tardi in questi termini: «Se sapeste quanto è buona la Rev. Superiora! Mi sembra una madre celeste e non terrena, tanto son buoni i suoi consigli e le parole, e anche la Madre Maestra, con la quale ho parlato oggi, é molto buona. Se sentiste cantare le sorelle del coro direste di sentire tanti angeli e non persone. Tutto qui spira pace e tranquillità e io spero, coll’aiuto del Signore, di trovarmi benissimo»3. Un’altra grazia ancora mi ha concesso il mio celeste sposo. La Rev. Madre mi ha messa fra le coriste a cantare giorno e notte le lodi di Lui, e questa grazia non mi è stata concessa adesso, ma dal primo giorno che io sono entrata in comunità. Sapendo io però che sono poco adatta per il canto, non vi ho scritto niente, non sapendo come sarei andata a finire5. Frutto immediato della prima impressione suscitata dalla postulante dorgalese sulla Badessa, fu la sua libera decisione, fin dal primo giorno, di annoverarla fra le monache di coro, cosa che la colmò di confusione, pensando alle sue amiche di Dorgali che erano tutte converse, e di timore, sapendo di non avere pienamente le doti canore necessarie per assolvere un tale compito ma, al tempo stesso, di riconoscenza per il dono immeritato di cantare le lodi del Signore. Così si esprime dandone la notizia a Don Meloni: Madre Pia, poi, così descrive, nelle risposte ad alcune domande di Gaston Zananiri6, l’autore della prima biografia francese di Gabriella, il suo aspetto fisico: «Egli mi ha voluta più vicina a sé, perché la Rev. Madre mi ha messa al coro per salmeggiare e cantare le sue lodi. Debbo essere molto riconoscente e ringraziare per questa grazia speciale accordatemi; ma Lei, Rev. Padre, può immaginare quanto mi trovi confusa, io che non ho mai saputo che cosa volesse dire musica e canto. Nondimeno, faccio tutto il possibile per studiare e spero che Gesù, se proprio mi vuole, mi aiuterà»4. 3) Lettera del 2 ottobre 1935, in Mariella Carpinello (a cura di), Gabriella dell’Unità (Beata Maria Gabriella Sagheddu), Lettere dalla Trappa, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, pp. 48–49. 4) Lettera del dicembre 1935, in Carpinello, op. cit. pp. 53–54. «Era bella, ma la sua modestia la nascondeva come un velo anche prima di entrare. Fronte larga, occhi bellissimi, luminosi, profondi nello sguardo, ma di una trasparenza tale che, quando veniva a trovarmi, si aveva l’impressione di vedervi l’anima… La bocca era piuttosto larga, ma il suo sorriso aveva una dolcezza, una bellezza sorprendente e scopriva una dentatura regolare, bianca e sana che manifestava giovinezza e salute. Il mento era largo e molto volitivo. Il suo profilo di tre quarti era classico e talvolta il mio occhio, un po’ d’artista, ne restava ammirato. Mi sembrava di rivedere i gessi di cui dovevo rifare il disegno durate gli anni di studio quando ero giovane»7. Continuando la lettura di alcune di queste risposte si può rilevare la loro finezza psicologica nello studio della personalità di Suor Maria Gabriella e l’amore materno con cui Madre Pia ha accompagnato, collaborando con la grazia del Signore, questa sua figlia d’elezione, che altro non le chiedeva che di aiutarla ad amare sempre più Gesù con tutta se stessa. Leggiamo nei ricordi di Madre Carla: «Mi confidava la Rev. Madre Pia che quando le si presentava Suor Maria Gabriella per la conferenza in particolare, era breve, ma prima di congedarsi, col capo chino e facendosi rossa in viso per la timidezza, nel chiederle la benedizione le diceva: “Grazie, mia Rev. Madre, mi aiuti ad amare sempre più Gesù”»8. E così Madre Pia nelle «Risposte» a Zananiri: 6) Gaston Zananiri, Dans le Mystère de l’Unité. Maria Gabriella, Casterman, Tournai–Paris, 1955. «Non diceva quasi niente, ma il suo dono totale, la sua docilità voluta e assoluta, la calma, l’equilibrio, l’umile riconoscenza, l’affetto purissimo e filiale, tutto questo si leggeva nei suoi occhi e si leggeva così bene, che io stessa non trovavo niente da dire o molto poco». «A questo proposito ricordo che mentre facevo il ritiro annuale alla fine di ottobre del 1938, ritiro in cui la Superiora non parla alla comunità, la vidi entrare in coro per la visita al Santissimo, mentre la comunità era al lavoro. Mi ricordai che quel giorno, 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, e nel 1937 festa di Cristo Re, era l’anniversario della sua professione. C’era l’uso che le giovani monache 7) M. M. Pia Gullini, Réponses à des demandes faites par M. Zananiri, qui écrivait la biographie de Sr. M. Gabriella, 1953 – Archivio di Vitorchiano. 8) Madre Maria Carla Valtorta, Memorie, Archivio di Vitorchiano. 5) Lettera del 29.3.1936, in Carpinello op. cit. pp. 58–59. 39 che lo desideravano, andassero dalla Rev. Madre per l’anniversario della professione e rinnovassero i voti. La piccola era da 5 mesi in infermeria. La Madre la chiamò e uscì, facendole segno di seguirla. Suor Maria Gabriella ne fu felice. Ripeté la formula dei voti con le mani nelle mani della Badessa, ne ricevette l’abbraccio rituale con la risposta: “Dio ti dia in ricompensa la vita eterna”. Lei non aggiunse una parola, ma i suoi begli occhi luminosi e il suo sorriso incantevole esprimevano a meraviglia la sua gioia e la sua riconoscenza. La Madre cercò un’immagine e gliela diede, lei pure senza dir parola, e la guardò allontanarsi con il suo modo semplice, umile, e pur tuttavia dignitoso. Rimase stupita ed edificata di quel silenzio che la spingeva ad ammirare ancora una volta il profondo spirito cistercense che si rivelava più con atti che con parole»9. Varie sono le testimonianza che ci parlano inizialmente di una certa «severità» della Madre nei confronti di Gabriella. Madre Pia stessa ce ne dà conferma nei suoi appunti. «Per l’istinto che stupiva essa stessa, la Madre fu quasi sempre severa con essa, cercando di far montare quell’anima, squisitamente femminile, dritta verso il cielo, dritta e forte, e presto. Era esigente; spingendo alle altezze ignorava la volontà ferrea dissimulata sotto quella sensibilità. La conobbe solo dopo la grande prova dell’ospedale. Allora la Madre si chinò su quel fiore e con devozione, con rispetto, con timore sacro l’avvolse di 9) M. M. Pia Gullini, Réponses… 40 soprannaturale affetto, e Madre e figlia si intesero»10. E ancora la Madre Dore: «Senza lasciarle capire la sua tenerezza intuitiva, trattandola anzi, un poco severamente, la Madre considera Suor M. Gabriella come un vaso d’alabastro che il Signore ha portato là perché gli versi sui piedi tutto il suo profumo»11. Madre Pia, poi, nelle risposte a Zananiri spiega il motivo di questa sua «severità» iniziale: «Pur essendo materna, all’inizio avevo paura che il suo affetto per me divenisse troppo vivo (allora avevo circa 42 anni). Volevo che questo fiore, dal gambo così dritto, non s’inchinasse, neppure un poco più del necessario, verso la mano che lo coltivava. Dopo il ritorno dall’ospedale, ormai sicura di lei, le nostre relazioni diventarono molto intime sul piano spirituale»12. Prendendo in esame le lettere scritte da Suor Maria Gabriella a Madre Pia dall’ospedale, quelle che ci sono rimaste, mentre sono andate perdute quelle scritte dalla Madre13, vediamo come la corrispondenza 10) M. M. Pia Gullini, Appunti… 11) Maria Giovanna Dore, Amore e sacrificio per l’Unità della Chiesa. Suor Maria Gabriella della Trappa di Grottaferrata, Pia Società S. Paolo, 1940, p. 35 12) M. M. Pia Gullini, Réponses… 13) M. M. Pia Gullini: “Non ho nessuna traccia o ricordo delle mie lettere a Sr. Maria Gabriella, che può averle strappate lei stessa al suo ritorno dall’ospedale. Soltanto per un caso dovuto alla Provvidenza, ho conservato le sue, ma una o parecchie si sono perdute” – in Réponses… fra di loro diventa frequente, confidenziale, improntata a un crescendo di affezione filiale, di fiducia amorosa e riconoscente, sincera, pur nella sofferenza e nella lotta per l’obbedienza a ciò che le veniva chiesto. Il «Rev. Madre» dell’intestazione della prima lettera (19.4.1938)14 verrà sempre sostituito nelle successive da «Carissima Rev. Madre». Diamo ora una rapida scorsa ad ogni singola lettera. Eviteremo di citare le tante bellissime frasi riportate in questa corrispondenza, che può essere considerata un piccolo capolavoro di spiritualità semplice e profonda, e che ben conosciamo, per attenerci solamente a quelle che ci interessano in questo contesto. «La ringrazio molto di tutto quello che mi ha scritto e mandato. Preghi per me, perché ne ho tanto bisogno. Certe volte mi domando se il Signore non mi ha abbandonata; altre volte penso che Egli prova quelli che ama; altre volte mi sembra impossibile che Dio possa essere glorificato da questa vita, ma finisco sempre con l’ abbandonarmi alla divina volontà. La saluto di tutto cuore e la prego di benedirmi» (Lettera del 24. 4. 1938)15. «… La ringrazio della sua lettera e delle preghiere che lei e le altre fanno per me. Ne ho sentito l’effetto perché in questi giorni sono più tranquilla… Io le auguro buona festa e tutto ciò che il suo cuore desidera. Io non ho potuto far nulla per lei, ma offro le mie preghiere, le mie comunioni e i miei 14) Lettera del 19.4.1938 in Carpinello, op. cit., p.90. 15) In Carpinello, op. cit. p. 93. sacrifici al Signore alla sua intenzione, pregandolo di santificarla sempre più. Egli ha permesso che quest’anno io non possa prendere parte alla sua festa. FIAT…. Noi ci ritroveremo in questo giorno nel Cuore di Gesù» (Lettera del 28. 4. 1938)16. «… Ieri il buon Padre Cappellano è venuto a trovarmi e mi ha portato la sua cara lettera. La ringrazio molto delle cure che lei ha per me e la prego di ringraziare anche tutte le persone che si occupano di me. Il Signore le ricompensi tutte molto largamente in cielo. Ho rimpianto molto di averle recato dispiacere con la mia lettera. Non perderò tempo a scusarmi; ma le domando perdono con tutto il cuore. Preghi per me, perché capisca sempre più il gran dono della croce e perché ne approfitti d’ora innanzi per me e per tutti gli altri Io sento che ora lei mi ama di più e che anche nel mio cuore aumenta il mio amore per lei. A questo proposito ho molto sofferto sia da parte del demonio che mi ha tentato di giudicare i miei superiori senza cuore, perché mi lasciano qui, sia da parte di persone che li biasimano per questo. Io non ho esitato certamente a scacciare queste tentazioni e l’assicuro che le ho vinte; le dico questo con semplicità filiale e se potessi mostrarle il cuore come un libro aperto, sarei felice di farlo. Il Signore mi tiene sulla Croce nuda e io non ho altra consolazione che di sapere che soffro per compiere la volontà divina in spirito di obbedienza… Io non so se converrà cambiare ancora una volta, ma siccome il Signore le dà, Reverenda Madre,la grazia di vedere più 16) In Carpinello, op. cit. pp. 95-96. 41 lontano che non posso io, lei farà ciò che giudicherà più opportuno. …Domani e dopodomani offrirò la mia giornata per lei, pregando il Signore di benedirla e santificarla sempre più, perché possa santificare le altre. Mi raccomando alle sue preghiere, nelle quali ripongo tutta la mia speranza. La saluto con tutto l’affetto più filiale e l’abbraccio di tutto cuore. La sua figlia Suor Maria Gabriella» (Lettera del 3. 5. 1938)17. ...Ieri ho ricevuto il suo pacco e la sua lettera e la ringrazio di tutto. Ho saputo la sua decisione circa il mio ritorno; so che lei fa tutto per il mio maggior bene; ma non le nascondo che questo è stato per me doloroso… Sempre la sua figlia che non desidera che tornare fra le sue braccia. Suor Maria Gabriella» (Lettera del 10. 5. 1938)18. «… La ringrazio molto della sua cara lettera e di quello che mi ha inviato e che ho ricevuto questa mattina. Grazie delle sue buone parole e dei suoi consigli. Da molto mi sono persuasa di non essere che una pigmea nella via dello spirito, perché mi lascio trasportare da ogni vento che soffia. L’anima mia si trova qui come smarrita, perché non ha la sua Mamma (la Badessa) e non una persona amica, a cui domandare consiglio, quando essa ne sente il bisogno… Mamma mia, preghi tanto che non abbia a perdere qui il mio spirito religioso; io ne ho una gran paura, la mia più grande paura, perché mi sento tanto debole e capace di cadere ad ogni istante. Il Signore mi aiuterà, perché non abbandona mai coloro che mettono tutta la sua confidenza in Lui; ma aspetto anche il soccorso delle sue preghiere» (Lettera del 22.5.1938)19. A proposito di questa ultima lettera Madre M. Carla scrive nelle sue «Memorie»: «Alla Trappa, parlando con la prima Superiora, si dice sempre “Mia Rev. Madre”. Suor Maria Gabriella, trovandosi all’ospedale si attiene a questa regola rispettosa quando scrive alla sua Superiora. Anche se nell’intestazione delle sue lettere premette “Carissima Rev. Madre”, il tono è sempre rispettoso. Solo in una lettera scritta dall’ospedale, e come un po’ smarrita, la povera figliola si rivolge alla sua Superiora chiamandola “mamma”. Mi diceva la Rev. Madre Pia: “Non mi sono mai lasciata chiamare “mamma” da nessuna, ma a sentirmi chiamare “mamma” da questa cara figliola, ho provato una grande gioia»20. Leggiamo nel Prologo della Regola di S. Benedetto: «Ascolta, o figlio, i precetti del maestro, e inchina l’orecchio del tuo cuore e accogli volentieri gli ammonimenti del tuo padre amoroso e con ogni potere li adempi affinché tu ritorni per fatica di obbedienza a Colui dal quale ti eri allontanato per l’accidia della disobbedienza. A te, dunque, ora si rivolge il mio discorso, chiunque tu sia, che rinnegando ogni tua volontà pronto a militare sotto Cristo Signore, vero Re, ti cingi le robustissime e tersissime armi dell’obbedienza» (Prol. 1-3). 17) In Carpinello, op. cit. pp. 96-98. 19) In Carpinello, op. cit. pp 100-101 18) In Carpinello, op. cit. pp. 99-100. 20) M. M. Carla Valtorta, op. cit. p. 18 42 «... Eccoci dunque a costituire la scuola del servizio del Signore. E nel costituirla speriamo di non prescrivere nulla di aspro, nulla di pesante. Ma se qualcosa sarà, per giuste ragioni un po’ più rigoroso, per emendare i vizi o custodire la carità, non fuggir tosto per questo, dominato dallo sgomento, la via della salute i cui inizi non possono essere che stretti. Col progredire poi nella vita monastica e nella fede è con cuore dilatato ed ineffabile dolcezza di amore che si corre la via dei divini voleri; in modo che non dipartendoci mai dall’insegnamento di Lui, e perseverando fino alla morte nella sua dottrina in monastero, diveniamo partecipi per mezzo della pazienza dei patimenti di Cristo, per poi meritare di essere con Lui nel suo regno. Amen» (R.B. Prologo, V, 45-50)21. monastiche»23 – penso sia opportuno dire ugualmente qualche cosa su Madre Pia stessa, sull’ambiente che Maria Sagheddu ha trovato entrando a Grottaferrata, sulla sua Madre Maestra, Madre Tecla24; persone e ambiente che hanno contribuito a portare a compimento il suo desiderio di donazione totale a Gesù Cristo, già inizialmente forgiato, dall’inizio della sua conversione, a Dorgali con la sua corrispondenza alla grazia del Signore sotto la illuminata e paterna guida spirituale di Don Basilio Meloni25, il quale ha così testimoniato al Processo per la beatificazione: È a questa scuola del servizio divino che Gabriella cresce, una scuola esigente, di amore totale, indiviso, per il Signore, amato con tutta se stessa, nella cattiva e nella buona sorte, in una adesione filiale e sponsale alla Sua volontà, amata, vissuta in ogni momento e in ogni circostanza. Sia la comunità di Grotta, sia individualmente Madre Pia e Madre Tecla, devono la loro formazione monastica a Dom Norberto Sauvage, ex abate dell’abbazia di Scourmont (Belgio), Procuratore dell’Ordine Pur rimandando alla lettura dei due bellissimi articoli di Madre Augusta Tescari su Madre Pia22 – a che l’autrice della biografia della Madre Dore, Suor Maria Marta Morganti definisce una «plasmatrice di coscienze 21) S. Regula Benedicti Abbatis, Viboldone. Abbazia di 22) Augusta Tescari, “Madre Pia Gullini, fervente promotrice per l’unità dei cristiani”, in L’Osservatore Romano, 4 luglio 1999, 5. Idem, “Una grande badessa del XX secolo: Madre Pia Gullini”, in L’Ulivo, Rivista Olivetana di spiritualità e di cultura monastica 2(2006), 3-31. «Si lasciò guidare completamente e docilmente dal suo direttore spirituale, cioè da me, e fu costante nel progresso delle virtù»26. 23) Maria Marta Morganti, Maria Giovanna Dore, Morcelliana, Brescia, 2001, p. 189 24) Madre Tecla Fontana, nasce a Milano il 24 aprile 1871. Nel 1888 entra nella Congregazione delle Suore Missionarie Francescane d’Egitto e parte subito per il Cairo. Ritorna a Roma nel 1913 ed entra a Grottaferrta il 20 gennaio 1917. Non accettata per la professione, ne esce nel luglio del 1919 ed entra nel monastero di Chimay in Belgio. Richiesta da M. M. Pia come Maestra delle novizie, arriva a Grotta il 20 aprile 1932. Vi fa stabilità il 20 gennaio 1935. Eletta Badessa della comunità per 2 mandati, dal 1940 al 1946, e Superiora ad nutum nel 1951 – 1952, muore a Grottaferrata il 10 novembre 1955. 25) Don B. Meloni (1900 – 1967). Vice-parroco a Dorgali dal 1925 al 1927 e dal 1930 al 1935, e parroco dal 1939 al 1967. 26) Positio super virtutibus, p.156 43 Trappista a Roma dal 1913 all’anno della sua morte avvenuta alla casa generalizia l’8 luglio 192327. Fin dagli inizi della sua permanenza a Roma, Dom Norberto si occupò della formazione spirituale della comunità di Grottaferrata di cui fu anche il confessore per alcuni anni. Il pomeriggio di ogni sabato e la vigilia delle feste si recava a Grottaferrata rimanendovi fino al giorno seguente, confessando e dando conferenze. Voleva formare le monache a una solida spiritualità, alla Sacra Scrittura, alle fonti della spiritualità cistercense. Dava corsi alle novizie, ai quali assisteva anche tutta la comunità28. Leggiamo nel Diario di Madre Teresa Bottasso29: re le cattive erbe. Credo che ha pregato per me e, qual santo che era, metteva subito il dito nella piaga, non diceva due volte la stessa cosa, con lui bisognava camminare senza fermate. Con tale direttore le mancanze sparivano, si correva, anzi, si volava nella via della perfezione. «Siamo nel 1914, nella grande guerra. Abbiamo avuto la fortuna di avere Dom Norberto come cappellano. La prima volta che mi confessai da Dom Norberto, sentivo una grande ripugnanza per confessarmi, invece alle prime parole rimasi confortata, conobbe le buone disposizioni e mise la mano all’opera per strappa- Ecco la trascrizione di un biglietto di Dom Norberto a Madre Teresa: 27) Dom Norberto Sauvage nasce il 3 luglio 1876 ad Avesnes-le-Sec (Francia). Il 4 settembre 1894 entra alla Trappa di Scourmont. Eletto Abate della comunità il 15 gennaio 1902, dimissiona nell’ottobre 1913. Viene quindi inviato a Roma come Procuratore dell’Ordine Trappista. Muore a Roma l’8 luglio 1923. E’ sepolto nel cimitero dell’Abbazia delle Tre Fontane. 28) Armand Veilleux, Dom Norbert Sauvage. L’art de préparer son successeur - Collectanea Cisterciensia, 63, 2001, pp. 213 – 223. 29) Diario, Archivio di Vitorchiano, p. 16. Madre Teresa Bottasso nasce a Peveragno (Cn) l’8 gennaio 1881. L’8 settembre 1896 entra a S. Vito (To). Fa la professione perpetua a Grottaferrata il 13 novembre 1900. Muore a Vitorchiano il 9 agosto 1965, ultima delle monache entrate a S. Vito. 44 Sacro Cuore, 7 giugno 1918 Dietro gli insegnamenti, nella direzione del mio Padre spirituale farò i più grandi sforzi per acquistare la vera umiltà; nelle occasioni reprimere l’orgoglio, sopportare di non essere compresa, messa a parte, dimenticata, ripresa a torto, schiacciata, calpestata. Umiliata tacerò senza tante spiegazioni, prontamente mi metterò in ginocchio dicendo “mea culpa”»30. Roma, 3 aprile 1919 «Non mi disturba per niente, vengo con piacere a rendere alla sua anima pace e slancio nel servizio di Gesù. Lei deve praticare generosamente un’umiltà non qualunque, ma profondissima; una mortificazione non qualunque, ma di ogni momento. Questa è la condizione domandata da Gesù per continuare il suo divino lavoro nella sua anima. Di più, lei deve vivere con Gesù raccolta, distaccata. Gesù vuole guidarla, ma allora lei deve tenerlo come per mano, almeno tornare a Lui frequentemente nella giornata. Dalla fedeltà alla pratica di questa umiltà, di questa mortificazione, di questa unione con Lui, dipenderà l’azione di Gesù in lei. Sia dunque fedele, generosa, la cosa è 30) Diario, p.31. sì grave per lei! Oh! se sapesse bene, quanto avrebbe paura di essere negligente, di non rispondere bene ad un’azione sì preziosa di Gesù sulla sua anima. Nella virtù, specialmente nell’umiltà, lei deve tendere al più perfetto. Nel sacrificio non deve mai risparmiarsi e Gesù non metterà più misura nelle sue grazie di scelta per la povera Teresa. Fra Norberto»31 (Diario, p.32) Grazie a Madre Tecla, nell’archivio di Scourmont si conservano alcuni brani di conferenze tenute da Dom Norberto a Grotta. Vediamone alcuni passaggi. Formazione alla Vita Interiore 31) Diario, p.32. «… L’amore del cuore di Gesù è un abisso, un oceano, che l’anima, soprattutto l’anima delle spose di Gesù, delle religiose contemplative, deve gustare continuamente. Ciò che ci interessa di conoscere in Gesù è il suo amore, il suo cuore… Dobbiamo studiare, meditare tutto il Vangelo per scoprirvi tutto l’amore che ci manifesta, per studiare il suo cuore… Questo studio di Gesù, ce lo farà conoscere, ci rivelerà specialmente il suo cuore. Non si conosce Gesù quando non si conosce il suo cuore e noi non ci sentiamo afferrati dall’amore che ci manifesta questo cuore divino. Ma per noi, ora, il vero Gesù della terra è il Gesù dell’Eucaristia. Quindi, dopo averlo studiato nel Vangelo, dobbiamo studiarlo nell’Eucaristia… …Che ogni giorno la vostra anima progredisca, mediante la preghiera, nella conoscenza dell’amore di Gesù. Allora l’amore diventerà facile per voi, non parlo dell’amore sentimento, ma di un amore illuminato, ragionevole, che vi sosterrà in un sevizio di amore costante e generoso, malgrado tutte le aridità e le difficoltà che potete incontrare… ...Quanto entusiasmo e santa gioia richiede la nostra vita cistercense! Ora, non sono le regole severe, le austere Ritratto di Sr. M. Gabriella osservanze, i numerosi esercizi che stancano il corpo e le spirito… che ci daranno tutto ciò, ma piuttosto l’amore di Gesù. Dobbiamo dunque, ogni mattina, uscire dalla meditazione colme di Gesù, e non cessare di lavorare per acquistare l’amore perfetto. Quelle che spesso sono turbate, inquiete, oppresse dagli scrupoli, piuttosto di fare tanti esami di coscienza che le turbano, meditino piuttosto tante belle scene del Vangelo in cui Gesù ci rivela il suo cuore misericordioso… 31) Diario, p.32. 45 ...Chiediamo alla Santa Vergine di donarci il suo orrore per l’orgoglio sotto tutte le forme. Si dice: “La tal suora è sensibile, è suscettibile”. Con queste parole e altre simili si vorrebbe nascondere la verità. Perché non si chiamano le cose con il proprio nome? Questa sensibilità, questa suscettibilità non sono altro che una forma di orgoglio. Combattiamo ovunque l’orgoglio dove ama nascondersi, e facciamogli una guerra senza pietà. Fra tutti i vizi, tutte le malattie dell’anima è la più grave, la più dannosa, tanto più che noi non ce ne vergognamo come per altri vizi tuttavia meno gravi e meno dannosi per noi. La causa principale per cui Gesù non compie in noi tutto ciò che vorrebbe è perché trova questo terribile ostacolo dell’orgoglio che non solo gli impedisce di agire in noi, ma lo allontana da noi». Sermone per la festa di S. Stefano Harding «...Le nostre Regole, le nostre Costituzioni, i nostri Usi ci insegnano il genere particolare di vita religiosa che noi dobbiamo vivere e verso quale forma speciale di santità dobbiamo tendere. Ma è soprattutto alla scuola di coloro che hanno realizzato perfettamente l’ideale del nostro Ordine che impariamo in un modo più vitale in che cosa consiste questa caratteristica santità che deve essere la nostra. Si dice che per prendere l’acqua pura di un ruscello o di un fiume bisogna risalire alla fonte. Così per trovare il vero spirito di un Ordine bisogna risalire fino ai fondatori, studiare i loro scritti, il loro spirito, soprattutto il loro esempio»32. Madre Tecla, entrata a Grottaferrata il 20 gennaio 1917, nel giugno del 1919 non è accettata per la professione, e per interessamento di Dom Norberto entra a Chimay (Belgio) dove farà la professio32) Florilège de sermons donnés à la communauté de Grottaferrata, Archivio di Scourmont. 46 ne perpetua l’8 settembre 1921. Richiesta come Madre Maestra da Madre Pia per la comunità di Grotta, vi arriva il 20 aprile 1932 e si fa stabilizza il 20 gennaio 1935. Quindi durante il suo noviziato a Grottaferrata gode della direzione spirituale di Dom Norberto che continuerà a seguirla anche a Chimay. Inoltre a Chimay Madre Tecla poté godere dell’insegnamento di Dom Anselme Le Bail33 e di Dom Godefroid Belorgey34 che la intro33) Dom Anselmo Le Bail (1878 – 1956). Nasce in Bretagna il 31 dicembre 1878. Il 21 maggio 1904 entra alla Trappa di Scourmont e il 4 ottobre 1913 viene eletto abate della comunità, carica che terrà fino alla sua morte avvenuta nel 1956. Per una conoscenza più approfondita dell’importanza della figura di Dom Anselme Le Bail per il rinnovamento dell’Ordine Cistercense dalla Stretta Osservanza, rimandiamo all’articolo di Dom Armand Veilleux, “Un grand formateur monastique. Dom Anselme Le Bail, Collectanea Cisterciensia 63, 2001, pp.224-233. 34) Dom Godefroid Belorgey, monaco dell’Abbazia di Scourmont, ricopre in comunità varie cariche: Maestro dei fratelli conversi, Maestro dei novizi, Priore. Nominato nel 1932 Superiore della comunità di Cîteaux, ne viene benedetto abate ausiliario il 14 settembre 1933, carica che ricopre fino al 1952. dussero allo studio non solo dei Padri cistercensi, ma anche di S. Lutgarda, S. Gertrude, Beatrice di Nazareth ecc…35. Per Maria Gullini sappiamo che fu decisivo, per la sua vocazione monastica, l’incontro con Dom Norberto e il ritiro fatto sotto la sua direzione alla Trappa di Grottaferrata nel novembre del 1916 a cui seguì, il 28 giugno1917, il suo ingresso nel monastero di Laval (Francia). Dom Norberto continuò a seguire la sua figlia spirituale, sia attraverso la corrispondenza, sia nelle visite fatte a Laval in occasione del Capitolo generale che si teneva ogni anno a Cîteaux. Memorabile fu il ritiro annuale da lui tenuto a Laval nell’ottobre del 1921. Anche solo dal titolo di ogni conferenza ci si può rendere conto della ricchezza del suo insegnamento in un’epoca in cui la predicazione tendeva ad essere molto moralista. Vediamoli per rendercene meglio conto: 1) Necessità di studiare Cristo per conoscerlo, amarlo, per vivere in intimità con Lui e farlo vivere in noi. 2) Le 5 disposizioni che la conoscenza di Dio produrrà in noi: ammirazione – adorazione – rispetto – sottomissione e confidenza. 3) La divinità di Gesù Cristo. 4) La maternità divina. 5) Il mistero di Gesù Cristo crocifisso. 6) Le caratteristiche del Salvatore in Gesù. 7) Maria corredentrice degli uomini. 8) Gesù, l’amico divino. 9) Gesù, lo sposo divino. 10) L’Eucaristia. 11) La nostra incorporazione a Cristo, secondo S. Paolo. 12) Idem (seguito). 13) La nostra vita divina è la nostra santificazione. 14) La mortificazione. 15) I mezzi da usare per lavorare alla nostra santificazione. 16) La maternità di Maria. 17) L’umiltà di Gesù. 18) La carità di Gesù. 35) Cusack Pearse Aidan, Abbess Thecla Fontana, Hallel, A Review of Monastic Spirituality and Liturgy, Roscrea, 2004, volume 29, N. 2, pp. 96-117. 19) la Comunione. 20) Conclusione: la vita di preghiera36. Madre Pia, nei suoi ricordi su Dom Norberto commenta che: «Dopo questo ritiro ci si mise a studiare il Vangelo con commentari e sinossi»37. Si formerà così in Madre Pia una spiritualità cristocentrica («lasciamoci innamorare dell’umanità di Cristo, l’Uomo – Dio») mariana, eucaristica, ecclesiale, che si fonda sul Vangelo, la Regola di San Benedetto, i Padri e le sante del nostro Ordine, in particolare, anche per lei, S. Lutgarda e S. Gertrude. Dice Sr. Fara che: «Umiltà ed obbedienza erano i suoi cavalli di battaglia, e il substrato indispensabile di tutto, era l’amore… Detestava l’invidia e la gelosia come uno dei peggiori ostacoli al fiorire della carità fraterna, e non dava tregua a questo nemico quando lo vedeva in una o l’altra delle sue figliole»38. 36) Archivio dell’Abbazia di Scourmont. 37) M. M. Pia Gullini, Quelques souvenirs sur le Vénéré Père Dom Norbert, Grottaferrata 1931, Archivio dell’Abbazia di Scourmont. Non ci sembra fuori posto citare in nota il brano intero: “Fu un vero successo. Non si era mai sentito parlare a questo modo. Ebbe l’effetto di infiammare tutte le anime migliori e di spingerle ad una conoscenza sempre più approfondita di Gesù, per amarlo ancora di più. Ci si mise a studiare il Vangelo con commentari e sinossi. Alcune giovani religiose, alle quali i genitori erano ben lieti di poter offrire qualcosa, chiesero loro la “Sacra Scrittura” commentata da Fillon in 8 volumi, e le altre opere di Fillon: “La Vita di Gesù Cristo” in 3 volumi. Fu un vero soffio di vita soprannaturale, di quella vita d’amore vissuta dagli antichi cistercensi, così profondamente ammaestrati sui Libri Sacri e la cui spiritualità è così semplice: Gesù e nient’altro all’infuori di Lui. Ma in quale rapporto di intimità, di fiducia, di abbandono!” 38) Sr. Fara Crapanzano, Memorie inedite, Archivio di Vitorchiano. 47 «Aveva un senso vivissimo della maestà, della magnificenza, della regalità, della grandezza di Dio, di fronte al quale gli unici atteggiamenti possibili erano la lode, l’adorazione, il ringraziamento, l’abbandono. Una volta in S. Pietro per una canonizzazione – aveva un posto in tribuna fra gente molto compassata – la Sistina cantava un “Credo” meraviglioso, gli assistenti erano seduti – “ad un tratto, racconta Madre Pia, al “descendit de coelis”, ebbi il senso vivissimo della maestà di Dio che si abbassa verso di noi e, senza rendermene conto, mi trovai sprofondata in ginocchio, di colpo»39. Nel 1931 l’Abate di Scourmont chiese a Madre Pia di stendere i ricordi suoi e della comunità su Dom Norberto. Questo comportò anche la trascrizione di suoi pensieri e consigli a Madre Pia stessa o ad altre monache. La lettura di alcuni di questi brani ci sembra interessante e dimostra come attraverso il suo insegnamento un certo linguaggio fosse in uso nella comunità. «… Una religiosa deve essere Sposa. Gesù conta un gran numero di religiose, ma poche Spose, e Lui, il Dio – Uomo, dal cuore che ama, ha bisogno di amore. Una religiosa può essere donna, ma se non ha un amore ardente per Gesù Cristo la sua vita manca di tono. In un Ordine contemplativo la vita senza questa grande fiamma sarebbe una vita vegetativa, una vita impossibile. La sua vita deve essere una vita d’amore per Lui. … Le lascio questi due principi: abbia un vero culto per l’autorità; l’autorità è Gesù… Ami le sue sorelle per amore di Gesù. Sia 39) Idem, Memorie inedite, Archivio di Vitorchiano. 48 sua, tutta per Lui. Gesù l’ama. Ami e creda, non dubiti mai; non si meriti mai quel triste rimprovero che Gesù ha sovente rivolto agli apostoli: “Uomini di poca fede, perché avete paura?” Egli ci ama a motivo del suo amore. Facciamogli l’onore di aver fede in Lui… … La religiosa appartiene a Gesù. Le miserie della vita comune spariscono per la religiosa che dice a se stessa: “Io sono qui per Gesù. Forse che questa piccola contrarietà può togliermelo? No, allora andiamo avanti”. E questo non deve essere un sentimento, ma un principio. Bisogna avere un’idea molto grande di Gesù, della sua presenza reale nella sua Casa, perché il monastero è la sua casa… Gesù è presente nella casa. Una religiosa che non pensi a Lui, ma a se stessa, è un orrore!! La santità non è un lusso. Bisogna arrivarci perché è la vita di Gesù. … Quando fate qualcosa ditegli: “Ti piace?” e quindi. “Sei contento?” Forse non si fa così con quelli che amiamo? Si guarda la persona amata e le si dice: “E’ per te che ho fatto questo” E se Gesù risponde: “Eh! Eh! c’era un pochino d’amor proprio in questa azione” – allora si deve rispondergli: “Perdonami!”. … Pensi che Gesù la guarda sempre, e che si prende cura sempre di lei, mentre lei lo dimentica! Gesù l’ama teneramente e lei non gli rende amore per amore. Pensi dunque alla gravità di questo! Faccia dei piccoli doni a Gesù, ma che siano frequenti. Per non scoraggiarsi, ne faccia prima uno, poi un altro, e poi un terzo e così via fino a sera. E prima che venga sera, quanti piccoli regali avrà ricevuto Gesù da lei! Ma pensi poi se Lui accetterà di lasciarsi vincere in generosità! Lui darà alla sua piccola sposa grazia su grazia e la renderà forte e generosità»40. Pochi mesi dopo la sua professione perpetua – il 16 luglio 1922 – la Badessa di Laval41 nominò Madre Pia Maestra delle sorelle converse che erano una quarantina. Vediamo dalla testimonianza di una di loro, come la giovane Maestra, che si impegnò totalmente con tutta se stessa nel compito formativo che le era stato assegnato, riecheggino nei suoi insegnamenti le parole, i pensieri, i concetti di Dom Norberto. «Mi ricordo ancora qualcuna delle sue lezioni alle sorelle converse. Un giorno, una delle nostre sorelle era stata “proclamata”, perché non era “regolare”. Madre Pia le ha detto: “Sorella, si direbbe che lei è incaricata di tutti i pollai della Francia! Gesù l’ha scelta per essere sua sposa e lei, per la sua volontà propria, si comporta da serva, da sposa di seconda categoria. Immagina una sposa che cura bene suo marito, che prepara bene i suoi pranzi e anche gli indumenti, ma non ha mai tempo di stare con lui, di parlargli e di vivere in intimità con lui?… Pensa che lui sia felice? No, ha bisogno del suo affetto, di stare in intimità con lei. Ebbene, Gesù attende questo da lei.” Un’altra volta è venuta a farci una lezione con delle immaginette del Sacro Cuore che aveva fatte lei stessa. Non tutte erano ben riuscite; alcune erano più belle di altre, e dice: “Vedete queste immagini sorelle mie? 40) M. M. Pia Gullini, Quelques souvenirs sur le Vénéré Père Dom Norbert, Archivio di Scourmont 41) Lutgarde Hémery, badessa di Laval dal 1900 al 1944. Voi dovete essere tutte delle immagini di Gesù: è il nostro voto di conversione che ci chiede di diventare, giorno dopo giorno, un po’ più simili a Gesù: è Lui il nostro modello”. E ha consacrato tutta la lezione per spiegarci questo”. Un giorno una delle nostre sorelle si accusò di aver svegliato una sorella che russava e le impediva di dormire, ma Madre Pia le disse: “Sorella, ma come ha potuto osare di svegliare Gesù? Non sa che tutto quello che fa alle proprie sorelle, lo fa a Gesù stesso?” E continuò su questo tono»42. Dopo questo «intermezzo», in cui ho cercato, sia pure in modo succinto, di dare un’idea dell’ambiente trovato da Suor Maria Gabriella a Grotta, nella comunità e nelle persone direttamente interessate alla sua formazione, passiamo nuovamente ad ascoltare Madre Pia che parla della sua figliuola dorgalese: «Il suo sorriso era diventato come naturale: sorrideva sempre. Era affettuosa come una bambina nei riguardi della Madre e della Maestra e si stupiva umilmente delle premure che avevano per lei. Avrebbe voluto che nessuno la vedesse o si occupasse di lei. La sua passione per il disprezzo era qualche cosa di molto grande per lei, che camminava un passo dopo l’altro, senza voler seguire le strade più ardue, ma lasciandosi guidare. Era aliena dal farsi conoscere. Perfino desiderosa: voleva essere dimenticata, lasciata da parte, e da parte sua non faceva niente per attirare l’attenzione, per fare in modo che ci si occupasse di lei. Bisognava interrogarla per farla parlare di se stessa. Questo pudore 42) Lettera di Sr. M. L. – Archivio di Vitorchiano 49 nasceva dal suo amore: voleva essere tutta di Gesù, soltanto sua. Egli doveva essere interamente libero nei suoi riguardi; fare tutto quello che voleva, Lui. Ma in quanto a lei, doveva conservarsi gelosamente per Lui… Non aveva nessuna pretesa, tutto le sembrava immeritato, senza prezzo. Viveva di riconoscenza. Il “GRAZIE” era come il respiro della sua anima… Grazie, grazie… La gratitudine in cui ha vissuto si dilata sempre di più, è come un oceano in cui la sua anima si tuffa e si annega. Ella non ne uscirà più. Sulle sue labbra le parole per esprimere questa riconoscenza saranno invariabilmente semplici e modeste, ma avranno il timbro della profondità che le anima. Questo cammino sempre avanti, che il suo amore le faceva capire come necessario, e che in tal modo costituiva un aiuto per la sua forte volontà e per la sua ragione giusta e retta, le conferiva quel marchio di semplicità per cui la si ammirava, senza neanche sapere perché. “Bene omnia fecit”. Ma dal momento che si dovrebbe sempre agire così, trovava tutto questo naturale. Ella era la prima a considerarlo naturale»43. «Poiché entrando in monastero il terreno della sua anima era già decisamente ripulito, ella s’impregnò delle istruzioni che riceveva (soprattutto perché aveva una memoria che l’aiutava molto) tanto che io mi stupivo della sua saggezza, che era frutto della esperienza altrui. L’umile docilità di spirito, il suo buon senso e la fedeltà alla grazia la condussero in tre anni e mezzo di vita monastica a dei vertici di virtù… Lui solo – Dio solo – dunque non io. Niente di me, perché altrimenti saremmo due. “Ecce, fiat mihi”. 43) M. M. Pia Gullini, Réponses… 50 Prontezza e assenza di iniziativa personale. Anche qui spicca la sua coerenza: Dio che sa tutto e può tutto la portava ad abbandonarsi completamente in Lui… La sua docilità, il suo abbandono provenivano dal fatto che aveva intuito la grandezza di Dio e, senza analizzare i suoi sentimenti, viveva nell’adorazione concreta di quel Dio che l’aveva scelta e che l’amava. Si sentiva così indegna, così piccola, così niente: da questo derivavano la sua umiltà e la sua gratitudine. Non si saprebbe pensare una vita interiore più semplice che la sua: niente bravure ascetiche, né sforzi voluti per collocarsi su questo o su quel grado di orazione: nessun bagaglio di devozioni (cioè di preghiere supplementari) né di pratiche aggiunte alla santa Messa, all’Ufficio Divino. Diceva sempre il Rosario e amava molto la Via Crucis, che era collocata nel corridoio dell’infermeria. Non sarebbe entrata in gara di zelo e di voli mistici per nessuna cosa al mondo. Era perfino restia ad ammettere che quei voli fossero da desiderarsi. Continuava a camminare standosene sotto le ali della FEDE, riconoscente di quanto aveva ricevuto, innamorata della bontà di Gesù – Dio… Non divorava, non bruciava la sua strada, impaziente di averla finita: la terminava passo, passo, senza apparenze eroiche. Ma il Signore l’avrebbe bruciata Lui, venendole incontro. Tuttavia ella occupa bene il suo posto fra i grandi personaggi ascetici o mistici dell’Ordine di Cîteaux, della Trappa. Il suo monastero per lei era semplicemente: Gesù, il Suo amore, la Sua volontà, la Sua gloria. Quanto a lei, era la Sua discepola e la Sua sposa, imitando la santissima Vergine che accoglieva Gesù nel suo seno, rispondendo all’angelo: “Ecce, fiat mihi”44». In alcune delle biografie di Suor Maria Gabriella leggiamo l’episodio, narrato da Madre Pia stessa, di come, in un angolo della stanza dell’infermeria, abbia annotato le risposte date da Suor Maria Gabriella ad alcune madri e novizie. Leggiamo sempre nelle «Risposte» a Zananiri: «Sr. Maria Gabriella seppe trovare per ognuna una parola “ad hoc”, tanto che si sarebbe potuto dire che era ispirata. Soprattutto quando la sentii dire ad una novizia molto cocciuta in quelle che erano le “sue buone idee”: “Per me, quando le superiore mi hanno detto una cosa mi sarebbe impossibile pensare in modo diverso”… Noti la parola “pensare” e la metta di fronte alla sua personalità molto forte, alla sua vecchia testardaggine e alla sua incontentabilità…»45. E Madre Tecla, da parte sua, parlando della sua docilità alla decisione di Don Meloni di inviarla alla Trappa di Grottaferrata, commenta: «Fu lui che qui l’indirizzò. La piena fiducia nel sacro ministro aveva guidato la giovinetta Maria Sagheddu nella sua scelta. 44) M. M. Pia Gullini, Réponses… 45) In una lettera a Pd. P. Cappio dalla Fille-Dieu, Madre Pia a proposito di questa frase, dice: “Né la Dore, né Zananiri l’hanno citata alla lettera per non “scandalizzare” i piccoli di spirito. Ma per me fu il fatto rivelatore della sua santità, e eminente santità. Conoscendo la forte personalità di quella figliola, questa rinunzia al suo giudizio, risultato di volontà e di sforzi, era il grado eroico di molte virtù e in primis della fede”. (M. M. Pia Gullini, Romont, 12 febbraio 1958, Archivio di Vitorchiano). Questa totale sottomissione di intelletto e di volontà resterà la caratteristica della sua spiritualità… Aveva il culto dell’obbedienza… In un suo trattenimento con me, con la solita pacatezza, mi fece questa dichiarazione: “Non ho altro programma se non quello di rinunciare alla mia volontà” e con essa Sr. Gabriella rinunciò anche al suo giudizio. Questa, a parer mio, è la scorciatoia per arrivare alla santità. Non fa dunque meraviglia che Sr. Gabriella abbia fatto tanto cammino in breve tempo»46. Come a Gastone Zananiri, pure a noi oggi, viene normale chiederci il motivo profondo che porta una persona a fare al Signore l’offerta della propria vita per questa o quella causa cara al Cuore di Cristo. Leggiamo la risposta data da Madre Pia a questa domanda: «Lei mi chiede se l’olocausto della propria vita è una tradizione cistercense. Io penso che è un bisogno di ogni anima generosa, soprattutto in clausura. Non abbiamo nient’altro che noi stesse, abbiamo dato tutto, e ci siamo date coi voti in modo normale; vogliamo ora sottolineare maggiormente l’offerta aggiungendovi un significato di consumazione sofferente e la rinuncia della vita con l’accettazione di una morte prematura»47 46) M. Tecla Fontana, Mie memorie della cara consorella Sr. Maria Gabriella, che lasciò questa terra d’esilio il 23 aprile 1939, Archivio di Vitorchiano. Madre Tecla, continuando le sue memorie, a un certo punto dice: “In pochi mesi le sue disposizioni si trasformarono sempre in meglio e, se tempo addietro, mi aveva detto essere suo programma la rinuncia alla sua volontà, poco prima della sua professione mi diceva: “Non cerco più altro che la gloria di Dio.” 47) M. M. Pia Gullini, Réponses… 51 Monache Cistercensi Maria Gabriella camminava, con il suo passo, calmo e sicuro, verso la felicità eterna. Ma il dolore si faceva a volte insopportabile e non riusciva a trattenere le lacrime. La Madre se ne accorgeva: «Ha pianto, piccola mia? Perché? Perché non so soffrire bene. Non sento la gioia di soffrire. Vorrei dominare la sofferenza con lo spirito, e non so come prendermi». Ma finalmente il suo buon senso arriva alla conclusione: «Ma… se ci si rallegra… non si soffre più…»48. Avvicinandosi per questa sua figlia «il giorno delle nozze», è sempre commovente leggere questa pagina della biografia della Madre Dore: «La sera accoglieva la Madre con un sorriso calmo e raggiante, dicendo il suo intercalare: “Com’è buono il Signore!” con un accento sempre nuovo, un lieve alzar di braccia e gli occhi luminosi volti in alto. La Madre, che ne aveva penetrata l’anima, soprattutto dopo la grande prova dell’ospedale, si chinò su quel fiore e con devozione, con rispetto, con timore sacro, l’avvolse di soprannaturale affetto, e figlia e Madre si intesero. “Vengo a prepararla alle nozze”. Era il saluto nell’entrare. Si parlava di amore divino e il fiore si schiudeva, con profumo delizioso, in quell’intimità. Rimanevano così a lungo, Sr. M. Gabriella come rapita in quel Dio così buono con lei, e la Madre commossa di tanto splendore soprannaturale»49. Madre e figlia, due vite accomunate in un’unica offerta, in un unico amore indiviso per il «dolce Signore» delle loro vite, consumate, anche se in modo diverso, per la Sua gloria e perché tutti i figli dell’unico Padre siano UNO, ora e sempre. Monache Cistercensi 100 anni di presenza a San Giacomo di Veglia I l 12 agosto u.s. abbiamo festeggiato i nostri cento anni di presenza monastica a San Giacomo di Veglia. Alle ore 9.30 è stata celebrata una solenne messa di ringraziamento al Padre celeste nella chiesa del monastero che era gremita da fedeli sangiacomesi, da amici e conoscenti venuti da vicino e da lontano. Hanno celebrato il Parroco di S. Giacomo don Giulio Fabris, padre Renato Martini, superiore dei Missionari della Consolata di Vittorio Veneto e P. Tiziano Sartori, monaco benedettino dell’Abbazia di Praglia, che ha presieduto la solenne Eucaristia. 48) Une Religieuse de la Trappe, Une vie offerte pour l’unité chrétienne, Bruges 1956, p. 27 La trappa di Sr. Maria Gabriella 48) Une Religieuse de la Trappe, Une vie offerte pour l’unité chrétienne, Bruges 1956, p. 27 52 49) M. Giovanna Dore, op. cit. p. 141. 53 Le melodie dei canti gregoriani del nostro coro si alternavano con le voci maschili dei celebranti, elevando al cielo le lodi più eccelse al Signore per i doni di misericordia con i quali ci avvolto in questi cento anni. «Cantare senza fine, in eterno e per sempre le misericordie del Signore» (Sal 144 della liturgia), per noi che ne abbiamo fatto l’esperienza, è stato un gaudio indescrivibile. Padre Tiziano ha detto nell’omelia: «Celebrare, secondo la Scrittura e secondo la dottrina della chiesa, un anniversario cioè un anno che ritorna su se stesso e tanti anni che ritornano su se stessi è sempre ricordare la fedeltà di Dio, non c’è altro fondamento per la nostra vita se non la fedeltà di Dio. Abbiamo sentito nella prima lettura (Is 63,7-9) questo amore viscerale, questa passione di Dio per l’uomo – non toccate i miei consacrati, non fate del male ai miei eletti – è la grande sfida di Dio, di un Dio onnipotente, che non adopera mezzi straordinari, né teofanie eccezionali, ma entra con la sua onnipotenza nella storia dell’uomo e la indirizza alla salvezza, la indirizza alla gloria. Il nostro Dio è un Dio che salva! Per questo ci ha scelti affinché diventiamo lode della sua gloria». Ricordare i benefici del passato è attualizzare la costante e reale benevolenza di Dio: è ricordando la liberazione dall’Egitto che gli esiliati hanno vissuto la liberazione. Anche noi, con gli israeliti vogliamo cantare a Dio, nostro Padre amabilissimo, il cantico eseguito dopo il passaggio del mar Rosso: «Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato. È il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio Padre e lo 54 voglio esaltare! (Es 15,1-3)». Tale canto prolunga la sua eco in questi lunghi cento anni vissuti nell’amore, nell’adorazione e nella lode a Dio Padre che afferma nel Suo Verbo incarnato: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose – cioè il cibo, il vestito e tutto l’occorrente per la vita presente – vi saranno date in aggiunta». I sentimenti che sgorgano dai nostri cuori sono di profonda riconoscenza a Dio ai nostri amati superiori nostro Ordine Cistercense, ai vescovi, ai sacerdoti e alla buona popolazione di San Giacomo di Veglia. Alla parrocchia di San Giacomo rivolgiamo il nostro doveroso e gioioso ringraziamento, perché il 12 agosto 1909 siamo state accolte e salutate al suono delle campane che quella sera suonarono a distesa. La comunità parrocchiale, riunita in piazza con il parroco, ha ricevuto la comunità monastica giunta da Belluno con una grandiosa manifestazione di gioia. Grazie per la benevolenza donataci all’arrivo e proseguita lungo il cammino di questi cento anni! Il Signore benedica sempre la cara parrocchia e la protegga da ogni male, sia spirituale che temporale. Ci sembra doveroso ricordare le nostre care sorelle, native della comunità sangiacomese: M. Scolastica Fioretti, M. Edvige Paludetti, M. Chiara Zaros, M. Teresa Meneghin, M. Fortunata Rosset, M. Luigia Tomasella, M. Beatrice Paludetti, M. Redenta Paludetti, M. Bernarda Zaros, M. Elisabetta Zaros, Sr. Agnese Zaros e M. Stefania Piccin. Siamo grate a queste amate sorelle che ora vivono in Dio e nei nostri cuori». In questo evento storico del nostro monastero è giusto menzionare un’altra ricorrenza che abbiamo festeggiato con grande giubilo: il 43° anniversario dell’ele- zione abbaziale della nostra cara abbadessa, Madre Maria Rosaria Saccol, eletta precisamente il 12 agosto 1966. Con grande riconoscenza possiamo dire che in questi cent’anni la Madre ha svolto un ruolo importantissimo nella storia della comunità, specialmente nella formazione spirituale di ogni monaca. Ringraziamo Dio per questo bell’anniversario e lo benediciamo soprattutto per il dono di una abbadessa secondo il suo cuore, che ha l’intelligenza dell’amore verso di noi e di quanti avvicinano il monastero. Nel nostro rendimento di grazie per la nostra vita a San Giacomo, esprimiamo ai nostri concittadini sangiacomesi il vincolo spirituale che ci unisce a loro. Secondo San Bernardo i monaci e le monache hanno un compito per tutta la Chiesa, cominciando dalla chiesa locale e, di conseguenza, per il mondo intero. Con molte immagini egli illustra la responsabilità dei monaci e delle monache per l’intero organismo della Chiesa e per l’umanità. Dice: «Il genere umano vive grazie a pochi, se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe» (Sentenze III,118). Anche se afferma esplicitamente che neppure il monastero può ripristinare il Paradiso, sostiene però che esso deve, in modo pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso. Il Signore ci benedica affinché possiamo eseguire le esortazioni del nostro santo abate, Bernardo di Chiaravalle. Origine del Monastero Questo monastero affonda le sue radici nel lontano medioevo, quando Baldovino, decano del Capitolo della chiesa di Belluno, con atto stipulato dal Notaio Alberico, alla presenza del Vescovo Filippo di Feltre e di Belluno, il 13 di maggio 1212, dà in donazione a Donna Acega di Belluno, la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio con tutta la terra e circuito relativo e i diritti annessi1. In conseguenza della legge di Cavour sulla soppressione delle istituzioni religiose, nel 1906 la comunità delle monache cistercensi fu costretta a cercarsi una sede alternativa. Non potendo pensare, per motivi economici, ad una nuova costruzione, si ritennero idonee le due barchesse con giardini annessi di San Giacomo di Veglia. 1) Per una conoscenza più completa della storia del monastero, vedere Vita Nostra, anno XXXI, n. 3, 2002. Il 21 marzo 1908 il procuratore delle monache, mons. Benedetti, firmò il contratto di compravendita grazie anche alla donazione testamentaria della sorella di un monsignore di Belluno, che garantì il denaro per l’acquisto e per il necessario adeguamento dello stabile a monastero. L’arrivo delle monache si svolse in due tempi: un primo gruppo arrivò il 20 luglio 1909 con l’abbadessa Maria Giovanna Renier, accolte dall’arciprete don Antonio Grava e il 12 agosto arrivò il secondo gruppo al suono delle campane, ricomponendo la comunità claustrale. Inutile descrivere la curiosità della gente per il nuovo monastero e per la vita affascinate di chi vive in clausura. Il mattino seguente il vescovo Caron benedì la cappella esterna. Il 26 agosto fu stabilita la clausura vescovile, in attesa di quella papale che arrivò il 20 agosto 1913. 55 Nei primi cinque anni fu alzato il muro di cinta e si costruì la chiesetta nel brolo per collocare il quadro dell’immagine miracolosa della Madre di Dio, che gli studiosi dicono che non ha autore umano, il cui altare venne consacrato il 5 agosto 1914, con la messa celebrata dall’abate Angelo Testa. Nel 1918, dopo la ritirata di Caporetto, gli invasori occuparono una parte del edificio: nonostante il permesso concesso dal vescovo Eugenio Beccegato, le 35 monache non lasciarono il convento, senza subire poi nessuna molestia. L’unico danno fu una razzia di opere d’arte, mobili e biancheria di pregio. Nella seconda guerra mondiale davanti al monastero ci fu una sanguinosa battaglia tra SS e partigiani: si temette che tutte le monache fossero morte, invece ci fu solo qualche vetro rotto. Negli anni successivi ci si impegnò molto per risistemare l’edificio, in particolare il suo tetto, con particolare impegno della madre abbadessa, Madre Maria Eletta De Noni. Nel 1955 fu eletta abbadessa, Madre Maria Franca Fin. Nel 1957 gli undici La chiesetta del brolo. 56 monasteri cistercensi d’Italia si riunirono in «Federazione» e il 5 ottobre 1960 venne eletta presidente della Federazione l’abbadessa di San Giacomo, M. Maria Franca Fin. Il 12 agosto 1963 fu eletta abbadessa Madre Maria Teresa Meneghin, sotto il cui mandato, grazie ad un grande benefattore, furono apportati radicali cambiamenti alla chiesa esterna: mediante un’apertura con vetrata scorrevole, le monache dal loro coro potevano vedere il celebrante all’altare consacrato dal vescovo di Vittorio Veneto mons. Albino Luciani. Il 12 agosto 1966 venne eletta abbadessa, Madre Maria Rosaria Saccol, sotto il suo abbaziato il monastero venne aggiornato alle nuove realtà spirituali contemporanee secondo il Concilio Vaticano II. In questi ultimi trent’anni sono stati eseguiti molti lavori di conservazione e di ristrutturazione degli edifici. Il 15 agosto 1985 il monastero ha avuto la visita di Papa Giovanni Paolo II, che ha voluto iniziare la visita pastorale della diocesi di Vittorio Veneto, incontrando per prime le monache cistercensi, unica presenza claustrale a Vittorio Veneto.