Caritas in Veritate

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Caritas in Veritate
La Parola del Papa
Benedetto XVI
Caritas in Veritate
Cari fratelli e sorelle!
La mia nuova Enciclica Caritas in veritate che ieri (7 luglio) è stata ufficialmente
presentata, si ispira per la sua visione
fondamentale ad un passo della lettera
di san Paolo agli Efesini, dove l’Apostolo
Benedetto XVI firma la nuova enciclica
Caritas in Veritate.
parla dell’agire secondo verità nella carità:
«Agendo – lo abbiamo sentito ora – secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere
in ogni cosa tendendo a Lui, che è il capo,
Cristo» (4,15). La carità nella verità è quindi
la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera.
Per questo, attorno al principio «caritas in
veritate», ruota l’intera dottrina sociale della
Chiesa. Solo con la carità, illuminata dalla
ragione e dalla fede, è possibile conseguire
obiettivi di sviluppo dotati di valenza umana
e umanizzante. La carità nella verità «è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale
della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi» (n. 6).
L’Enciclica richiama subito nell’introduzione due criteri fondamentali: la giustizia e il
bene comune. La giustizia è parte integrante
di quell’amore «coi fatti e nella verità» (1 Gv
3,18), a cui esorta l’apostolo Giovanni (cfr n.
6). E «amare qualcuno è volere il suo bene e
adoperarsi efficacemente per esso. Accanto
al bene individuale, c’è un bene legato al
vivere sociale delle persone… Si ama tanto
più efficacemente il prossimo, quanto più
ci si adopera» per il bene comune. Due
sono quindi i criteri operativi, la giustizia e il
bene comune; grazie a quest’ultimo, la carità acquista una dimensione sociale. Ogni
cristiano – dice l’Enciclica – è chiamato a
questa carità, ed aggiunge: «é questa la via
istituzionale … della carità» (cfr n. 7).
Come altri documenti del Magistero,
anche questa Enciclica riprende, continua
ed approfondisce l’analisi e la riflessione
della Chiesa su tematiche sociali di vitale
interesse per l’umanità del nostro secolo.
In modo speciale, si riallaccia a quanto
scrisse Paolo VI, oltre 40 anni or sono, nella
Populorum progressio, pietra miliare dell’insegnamento sociale della Chiesa, nella qua-
1
le il grande Pontefice traccia alcune linee
decisive, e sempre attuali, per lo sviluppo
integrale dell’uomo e del mondo moderno.
La situazione mondiale, come ampiamente
dimostra la cronaca degli ultimi mesi, continua a presentare non piccoli problemi e lo
«scandalo» di disuguaglianze clamorose,
che permangono nonostante gli impegni
presi nel passato. Da una parte, si registrano
segni di gravi squilibri sociali ed economici;
dall’altra, si invocano da più parti riforme
non più procrastinabili per colmare il divario
nello sviluppo dei popoli. Il fenomeno della
globalizzazione può, a tal fine, costituire una
reale opportunità, ma per questo è importante che si ponga mano ad un profondo
rinnovamento morale e culturale e ad un
responsabile discernimento circa le scelte
da compiere per il bene comune. Un futuro
migliore per tutti è possibile, se lo si fonderà
sulla riscoperta dei fondamentali valori etici.
Occorre cioè una nuova progettualità economica che ridisegni lo sviluppo in maniera
globale, basandosi sul fondamento etico
della responsabilità davanti a Dio e all’essere umano come creatura di Dio.
L’Enciclica certo non mira ad offrire
soluzioni tecniche alle vaste problematiche
sociali del mondo odierno – non è questa
la competenza del Magistero della Chiesa
(cfr n. 9). Essa ricorda però i grandi principi
che si rivelano indispensabili per costruire
lo sviluppo umano dei prossimi anni. Tra
questi, in primo luogo, l’attenzione alla vita
dell’uomo, considerata come centro di ogni
vero progresso; il rispetto del diritto alla
libertà religiosa, sempre collegato strettamente con lo sviluppo dell’uomo; il rigetto di
una visione prometeica dell’essere umano,
che lo ritenga assoluto artefice del proprio
2
destino. Un’illimitata fiducia nelle potenzialità della tecnologia si rivelerebbe alla
fine illusoria. Occorrono uomini retti tanto
nella politica quanto nell’economia, che
siano sinceramente attenti al bene comune.
In particolare, guardando alle emergenze
mondiali, è urgente richiamare l’attenzione
della pubblica opinione sul dramma della
fame e della sicurezza alimentare, che investe una parte considerevole dell’umanità.
Un dramma di tali dimensioni interpella la
nostra coscienza: è necessario affrontarlo
con decisione, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo
lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri.
Sono certo che questa via solidaristica allo
sviluppo dei Paesi più poveri aiuterà certamente ad elaborare un progetto di soluzione
della crisi globale in atto. Indubbiamente va
attentamente rivalutato il ruolo e il potere
politico degli Stati, in un’epoca in cui esistono di fatto limitazioni alla loro sovranità
a causa del nuovo contesto economicocommerciale e finanziario internazionale. E
d’altro canto, non deve mancare la responsabile partecipazione dei cittadini alla politica nazionale e internazionale, grazie pure a
un rinnovato impegno delle associazioni dei
lavoratori chiamati a instaurare nuove sinergie a livello locale e internazionale. Un ruolo
di primo piano giocano, anche in questo
campo, i mezzi di comunicazione sociale
per il potenziamento del dialogo tra culture
e tradizioni diverse.
Volendo dunque programmare uno sviluppo non viziato dalle disfunzioni e distorsioni oggi ampiamente presenti, si impone
da parte di tutti una seria riflessione sul senso stesso dell’economia e sulle sue finalità.
Lo esige lo stato di salute ecologica del pia-
neta; lo domanda la crisi culturale e morale
dell’uomo che emerge con evidenza in ogni
parte del globo. L’economia ha bisogno
dell’etica per il suo corretto funzionamento; ha bisogno di recuperare l’importante
contributo del principio di gratuità e della
«logica del dono» nell’economia di mercato,
dove la regola non può essere il solo profitto. Ma questo è possibile unicamente grazie
all’impegno di tutti, economisti e politici,
produttori e consumatori e presuppone una
formazione delle coscienze che dia forza ai
criteri morali nell’elaborazione dei progetti
politici ed economici. Giustamente, da più
parti si fa appello al fatto che i diritti presuppongono corrispondenti doveri, senza i quali i diritti rischiano di trasformarsi in arbitrio.
nel rispetto delle grandi tradizioni morali e
religiose dell’umanità.
Occorre, si va sempre più ripetendo,
un diverso stile di vita da parte dell’umanità intera, in cui i doveri di ciascuno verso
l’ambiente si colleghino a quelli verso la
persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. L’umanità è una sola famiglia
e il dialogo fecondo tra fede e ragione non
può che arricchirla, rendendo più efficace
l’opera della carità nel sociale, e costituendo la cornice appropriata per incentivare la
collaborazione tra credenti e non credenti,
nella condivisa prospettiva di lavorare per
la giustizia e la pace nel mondo. Come
criteri-guida per questa fraterna interazione,
nell’Enciclica indico i principi di sussidiarietà e di solidarietà, in stretta connessione
tra loro. Ho infine segnalato, dinanzi alle
problematiche tanto vaste e profonde del
mondo di oggi, la necessità di un’Autorità
politica mondiale regolata dal diritto, che si
attenga ai menzionati principi di sussidiarietà e solidarietà e sia fermamente orientata alla realizzazione del bene comune,
Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché anche questa Enciclica possa aiutare
l’umanità a sentirsi un’unica famiglia impegnata nel realizzare un mondo di giustizia e
di pace. Preghiamo perché i credenti, che
operano nei settori dell’economia e della
politica, avvertano quanto sia importante
la loro coerente testimonianza evangelica
nel servizio che rendono alla società. In
particolare, vi invito a pregare per i Capi
di Stato e di Governo del G8 che si incontrano in questi giorni a L’Aquila. Da questo
importante summit mondiale possano scaturire decisioni ed orientamenti utili al vero
progresso di tutti i Popoli, specialmente di
quelli più poveri. Affidiamo queste intenzioni
alla materna intercessione di Maria, Madre
della Chiesa e dell’umanità.
Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane
vive l’uomo: non con beni materiali soltanto
si può soddisfare la sete profonda del suo
cuore. L’orizzonte dell’uomo è indubbiamente più alto e più vasto; per questo ogni
programma di sviluppo deve tener presente,
accanto a quella materiale, la crescita spirituale della persona umana, che è dotata
appunto di anima e di corpo. È questo lo
sviluppo integrale, a cui costantemente la
dottrina sociale della Chiesa fa riferimento,
sviluppo che ha il suo criterio orientatore
nella forza propulsiva della «carità nella
verità».
Udienza generale.
Aula Paolo VI,
mercoledì, 8 luglio 2009.
3
Padri Cistercensi
Educare nell’amore,
una pedagogia viva nel «De diligendo Deo»
di San Bernardo di Chiaravalle
Leandro Posadas Carrero* osb.
«O amor sanctus et castus! O dulcis et suavis affectio!
O pura et defaecata intentio voluntatis,
eo certe defaecatior et purior,
quo in ea de proprio nil iam admixtum reliquitur,
eo suavior et dulcior, quo totum divinum est quod sentitur!
Sic affici, deificari est» (Dil, X, 28)
San Bernardo di Chiaravalle, uomo nella scuola dell’amore
N
el XXXI canto del Paradiso, Dante
è improvvisamente abbandonato da
Beatrice, che manda da lui «un sene vestito con le genti gloriose», i cui occhi e le
cui guance risplendono di gioia benevola.
Il vecchio è Bernardo di Chiaravalle, che
sarà la guida suprema del poeta – quella
che lo condurrà a Maria, la Madre di Dio
la più grande delle creature, e da ultimo,
all’indescrivibile visione della Trinità, «l’amor
che muove il sole e le altre stelle». Bernardo
è lo specchio umano in cui Dante può
iniziare a vedere Dio stesso, come alcuni
pellegrini fissano lo sguardo sulla reliquia
della Veronica, l’immagine sacra di Cristo:
«Tal era io mirando la vivace carità di colui,
che in questo mondo, contemplando, gustò
di quella pace» (Paradiso XXXI, 109-111)1.
Dante non era l’unico degli scrittori medioevali a considerare Bernardo di Chiaravalle
(1090-1153), la somma guida alle vette della
contemplazione celeste.
Questo mistico del XII secolo, uomo dai
molteplici talenti, come si può immaginare
dalle sue vicende di crociato, poeta di corte,
politico, costituisce una figura così grande
da far risultare quasi insufficiente qualsiasi
sintesi biografica.
* Monaco benedettino dell’Abbazia di Guigue,
Venezuela, studente di Filosofia al Pontificio Ateneo
di Sant’Anselmo di Roma.
1) McGinn, B., Storia della Mistica Cristiana in
Occidente. Lo Sviluppo (VI-XII secolo), Marietti,
Genova - Milano 2003, 241.
4
La sapienza della Mistica Cistercense
prosegue educando l’uomo moderno nella
ricerca di Dio. San Bernardo, discepolo ed
amante della tradizione dei Padri, ci parla
per mezzo di uno dei suoi trattati, De diligendo Deo (Dil), del processo per il quale
l’uomo, nella sua grandezza d’immagine e
somiglianza di Dio, può farsi ciò per cui è
stato chiamato ed è stato creato. Il dottore mellifluo ha sviluppato una concezione
dell’amore come possibilità di raggiungere
il vero bene dell’uomo, cioè l’amore di Dio;
quell’amore che è al di là di ogni desiderio e
di ogni ambizione umana; l’amore attraverso
il quale si ritrova riconosciuto come amato
e amante. Ma questo processo ha bisogno
di stadi, di momenti, a questi momenti non
successivi li possiamo chiamare doni di Dio,
giacché in ogni grado è Dio che spinge lo
uomo a «contemplarsi» come la Sua immagine e somiglianza. San Bernardo dirà nel
suo trattato: Magna res amor, sed sunt in eo
gradus: grande cosa è l’amore; ma in esso
vi sono dei gradi. San Bernardo propone
una dottrina del progresso nell’amore di Dio
attraverso di una gradualità.
Questi gradi non debbono essere pensati come tappe successive, ma come l’insieme di una espansione del cuore umano
che impara per mezzo dell’ordinamento
degli affetti e dei suoi desideri ad amare Dio
senza misura.
Immagine e somiglianza:
grandezza e miseria dello Spirito Umano,
antropologia teologica di Bernardo
Tema fondamentale dell’antropologia e
della cosmologia cristiana antica è quello
dell’uomo fatto ad immagine e somiglianza
di Dio; lo ritroviamo in Ireneo, Clemente,
Origene, Atanasio, Gregorio Nisseno,
Agostino e in Bernardo. Quando due esseri
si amano e si cercano reciprocamente,
prendono spontaneamente coscienza della
situazione dell’uno in rapporto all’altro. Per
san Bernardo l’amore di Dio verso la sua
creatura spirituale è innanzitutto immenso
e gratuito. «In ogni coscienza umana esiste
un senso di giustizia innata che le grida il
suo dovere di amare, con tutto il cuore,
colui cui essa deve tutto»2. La possibilità
2) Dumont, Ch., Sulla via della Pace. La sapienza
cisterciense secondo San Bernardo, Jaca Book,
Milano 2000, 19. .
di un incontro fra questi due amori è fondata essenzialmente sul fatto della somiglianza tra il Creatore e la sua creatura. È
pressoché incalcolabile l’importanza della
«dottrina dell’immagine» nell’insegnamento
monastico di san Bernardo. La creazione
dell’uomo ad immagine di Dio, come narrata nel primo capitolo del libro della Genesi,
è per lui rivelatrice; e non è esagerato dire
che tutta la sua ascesi e la sua mistica, in lui
i due elementi rappresentano una sola cosa,
sono fondate sul modo attraverso cui egli
sviluppa un’antropologia totalmente dipendente da questa verità prima. Possiamo
riassumere la sua antropologia teologica
così: creato ad immagine e somiglianza
dell’Essere divino, l’essere umano ha in
parte perso la sua vera natura, cioè il fatto di
essere immagine di Dio. Ha conservato, tut-
5
tavia, questa capacità radicale, inestinguibile, di essere «come Dio», ma, questa volta,
nella sua dipendenza. Capace di Dio (Capax
Dei), perché sua immagine, l’anima mediante l’amore può ritrovare la sua «capacità»
originale di Dio, che è Amore. La metafora
dell’immagine, per gli antichi, era tra le più
eloquenti, ma per noi lo è meno. Nell’epoca
patristica e anche nel Medioevo, l’immagine
suppone una relazione dinamica e viva di
causalità, non solo esemplare, ma anche
efficiente e formale. Scostarsi dal prototipo equivale a perdersi nella regione della
dissomiglianza. Il potere spirituale di somigliare, di essere conforme (in san Bernardo
tale parola assumerà una grande importanza) sta, dunque, nell’impronta originaria
ed inalienabile dell’essere divino dell’anima
umana. La somiglianza (similitudo) di Dio
è stata perduta a causa del peccato. «A
motivo del peccato originale, la capacità di
Adamo di non peccare si è trasformata nella
nostra incapacità di non peccare, o libertà di
peccare»3. Questa libertà di peccare, che è
il risultato della deformazione dell’immagine
divina in noi, cerca di darsi il nome di libertà,
in quanto rappresenta ciò che il soggetto
vuole fare: conformare il mondo alla sua
propria deformazione, piuttosto che alla
rettitudine della volontà divina.
Il peccato originale, come lo definisce
H. U. Von Balthasar; è l’incapacità di tutti a
perseguire efficacemente il proprio scopo
finale in Dio, con le forze che ancora gli
rimangono. Peccare (in opposizione all’agire
nella grazia dell’amore) isola l’uomo, sminuisce o distrugge il suo rapporto comunitario4.
Insieme con san Bernardo, P. Schoonenberg
descrive il peccato originale come la libertà
del singolo «situata», per principio, prima di
qualsiasi decisione propria, la quale resta sì
libera, ma manca dello spazio e della comunità verso i quali il singolo può praticare
l’atto dell’amore; fisicamente egli è libero,
ma moralmente incapace di sviluppare la
sua libertà5.
3
Balthasar , H.U. von, L’azione.
TeoDrammatica, vol. 4, Jaca Book, Milano 1986,
169.
somiglianza:
Ritorno alla
l’autoconoscenza
4) Ibid.
Bernardo ci parla, anche, di una restaurazione, cioè la possibilità di una progressiva restituzione alla somiglianza originaria,
grazie al legame dell’anima con la manifestazione umana del verbo in Cristo Gesù.
Dunque, il soggetto della somiglianza
divina è esclusivamente l’anima, specialmente nella sua capacità di conoscere Dio
e possederlo nell’amore, eo quod est capax
3) McGinn, B., Storia della Mistica, 250.
6
5) AA.VV. Mysterium Salutis. Manual de teologia
como Historia de la Salvación, vol. II, Cristiandad,
Madrid
1970,dirà
909.san Bonaventura6. Per l’abaDei,
come
te di Chiaravalle, la nostra esperienza testimonia la tensione insopportabile tra quello
per cui saremmo stati pensati e quello che
siamo; tra la grandezza e la miseria della
condizione umana.
4) Balthasar, H.U. von, L’azione. TeoDrammatica,
vol. 4, Jaca Book, Milano 1986, 169.
5) Ibid.
6) AA.VV. Mysterium Salutis. Manual de teologia
como Historia de la Salvación, vol. II, Cristiandad,
Madrid 1970, 909.
Il punto di partenza esistenziale dell’antropologia di Bernardo, l’adattamento cristiano della massima delfica «conosci te
stesso» (scito teipsum), consisteva nel riconoscimento della nostra combinazione di
miseria e di maestà.
Come tutti i monaci medievali, e da
buon seguace di Agostino, Bernardo aveva
un profondo senso della nostra esperienza
quotidiana.
La conoscenza di sé, dunque, è conoscenza della nostra condizione di peccatori
e del predominio, nelle nostre vite, della
«carnalità», in senso negativo.
Per Bernardo, alunno della Scrittura, dei
Salmi, di san Paolo, non è tanto la «carne»
il luogo della miseria, quanto il «cuore» in
senso biblico: centro intimo, dove s’incontrano e scontrano tutte le tendenze e le
aspirazioni dell’animo; quelle che elevano e
quelle che opprimono7.
L’esito dell’onesto riconoscimento della
nostra difficile situazione è la necessità
dell’umiltà, punto di partenza essenziale
della vita spirituale.
Ma a dispetto della nostra deplorevole
condizione, noi sappiamo che Dio ha creato
le nostre menti perché partecipassero in Lui,
e perciò, la conoscenza di noi stessi porta
con sé la speranza nel cambiamento della
nostra condizione.
Si tratta del primo passo nel processo
di conversione (conversio), lungo quanto
la nostra vita, che Bernardo concepisce in
modo assai vicino a quello di Agostino nelle
confessioni8.
Per il dottore mellifluo, la vera scienza
consiste nel riconoscere che la nostra digni-
tà di esseri liberi è un dono del Creatore.
L’ignoranza della dipendenza che, per un
essere creato, ne deriva, ci ha fatto dimenticare Dio, ed è stata la nostra rovina.
«Sarà ancora attraverso la scienza che
noi ritorneremo a Lui, perché attraverso
una lucida conoscenza del nostro essere
vero ricorreremo ad un Salvatore. Sarà la
conversione»9.
Pertanto, dobbiamo anzitutto conoscere
noi stessi. Questa conoscenza realistica di
ciò che siamo conduce all’umiltà, che è il
fondamento di ogni conversione spirituale.
Per san Bernardo, l’umiltà non è l’umiliazione dell’uomo, ma la presa di coscienza di
quello che siamo davanti a Dio10.
Quando la coscienza si pone con lealtà
di fronte a se stessa, non può non riconoscere di essere nella «regione della dissomiglianza», ben lungi dalla perfezione della sua
causa esemplare, infelice.
«La coscienza è oppressa dalla distanza
che constata tra ciò che sa di poter essere
e ciò che è di fatto, ma, anziché restare con
gli occhi fissi sulla propria miseria, si affida
alla preghiera, e san Bernardo ripete che
essa si rivolge (convertetur) verso il Signore
e Gli grida:
“Guarisci la mia anima, perché ho peccato contro di te” (Sal 40,5), e rivoltasi (conversa) in tal modo verso il Signore, essa sarà
liberata, consolata, salvata»11.
9) Dumont,
ch.,
Sulla Via della Pace, 31.
10) Cf. Gastaldelli, F., Studi su San Bernardo e
7) Cf. Biffi, I., Tutta la Dolcezza della Terra. Cristo e
i Monaci Medievali, Jaca Book, Milano 2004, 49.
Goffredo di Auxerre, Sismel, Firenze 2001, 322.
8) Cf. McGinn, B., Storia della Mistica, 257.
11) Dumont,
ch.,
Sulla Via della Pace, 32.
7
Educare all’amore:
una pedagogia viva nel «De diligendo Deo»
San Bernardo fa una descrizione fenomenologica della situazione della coscienza davanti a Dio nel campo dell’amore. Si
tratta, per lui, di un movimento dello spirito
che ritrova il suo orientamento verso Dio,
a partire dall’esperienza concreta della sua
miseria; un’esperienza, come abbiamo visto,
che fa nascere, nell’uomo, l’invocazione ad
un Salvatore12. «Questo cammino di conversione nell’abate di Chiaravalle, che comincia
con l’invocazione del Signore, supera, in certo
modo, qualsiasi psicoanalisi moderna, appunto perché non parte mai dalla sola verifica
analitica dei conflitti della persona – anche se
tale analisi non è mai assente dalla sua dinamica introspettiva – ma, superando la pura
analisi, si fonda essenzialmente sul confronto
dell’uomo di fronte a se stesso. L’uomo non
si confronta unicamente con la sua interiore
conflittualità, ma si misura su una risposta che
deve dare alla vita e all’autore della vita»13.
Sappiamo adesso che, in Bernardo, il
primo passo nel cammino di conversione
è attraverso la conoscenza di sé, riconoscere con saggezza la nostra dignità, cioè,
che siamo immagine e somiglianza di Dio;
ma anche la nostra indigenza: riconoscere
che siamo nella regione della dissomiglianza,
che cerchiamo l’Amore nei posti sbagliati.
«Infatti è così: L’uomo è stato creato come
la creatura più degna, ma quando non riconosce la sua propria dignità si somiglia agli
animali e si degrada fino ad essere con loro
partecipe della corruzione e della mortalità.
Colui che non vive come nobile creatura,
12) Ibid., 34.
13) Piccardo, C., Pedagogia Viva. Cîteaux novecento
anni dopo, Jaca Book, Milano 1999, 105.
8
dotata d’intelligenza, si identifica con gli animali irrazionali e ignara della sua gloria che
le viene dall’interno, è trascinata dalla sua
stessa curiosità a conformarsi esteriormente
alle cose che cadono sotto i sensi finendo
per diventare una di loro perche non capisce
d’aver ricevuto qualcosa più di tutte le altre»14.
Nei nostri tempi, la parola «amore» ha
perso il suo profondo significato, perciò dobbiamo intendere cosa voglia dire amore nella
dottrina spirituale del Chiaravallese. Per Jean
Leclercq, il punto di partenza di tutto il pensiero di Bernardo su Dio è l’amore, così com’è
stato definito nel Vangelo di Giovanni: «Deus
caritas est». «Nessuno comunque pensi che
io consideri qui la carità come una qualità o
come qualche accidente, altrimenti direi – Dio
non voglia! – che in Dio c’è qualcosa che non
è Dio. Invece affermo che la carità è la sostanza stessa di Dio, e dico così una cosa che
non è né nuova né insolita, poiché lo stesso
Giovanni dice: “Dio è carità”. Si dice dunque
giustamente che la carità è Dio, e che è anche
un dono di Dio. La Carità dà la carità, la Carità
sostanziale dona quella accidentale»15.
Questa caritas circonda i nostri rapporti
con Dio e i Suoi rapporti con tutti noi. Da Lui
a noi, da noi a Lui, e tra noi vi sono rapporti
d’amore, di carità e di dilezione. Tra i termini
in uso nel linguaggio precristiano, per quanto
in esso fosse abbastanza raro, uno ritorna
molto spesso nella Bibbia e nella tradizione
14) De diligendo Deo (Dil.) II, 4, Opere di San
Bernardo, I, ed. F. Gastaldelli, p. 276. Citeremo l’originale latino di F. Gastaldelli, ma con la traduzione
italiana di Bernardo di Chiaravalle, I Gradi dell’umiltà.
L’amore di Dio, ed. G. Mura, Città Nuova, Roma
1996, 144.
15) Ed. G. Mura, p. 183. Dil., XII, 35, p. 322.
della Chiesa, cioè «misericordia». Esso traduce, a sua volta, parecchie parole ebraiche che
hanno significati affini. Più spesso, include
una sfumatura di compassione e perfino, di
tenerezza. André Chouraqui ha deciso di renderlo sempre con un termine che non esiste
nei dizionari, ma che fa emergere l’intensità
del suo contenuto: lo «Chérissement» di Dio.
Il neologismo ci ricorda che il termine carità,
al quale forse siamo troppo abituati, significa,
prima di tutto, che qualcuno ci è caro e che
noi gli siamo cari. Per san Bernardo, tutti i
termini che designano l’amore sottintendono
il fatto che siamo attaccati a qualcuno, colpiti, presi, afferrati (affici). «Questo affectus è
più forte di un sentimento affettuoso. Non è
nemmeno un concetto: è un’esperienza, una
realtà che si sperimenta: quella di Dio che si
dona a noi, perché noi ci doniamo a Lui e a
tutti»16. Seguendo la tradizione, san Bernardo
considera che non ci può essere carità, se
non per la partecipazione della carità sostanziale che è Dio, come abbiamo citato sopra:
Dio solo può donarla: Caritas dat caritatem
(Dil. 35). Essa è il vincolo della sua unità nella
Trinità delle Persone e, in questo senso, essa
è la sua vita: Ipse ex ea vivit (Dil. 35). Essa è
la fonte del suo amore («chérissement») per
l’uomo. Creandolo a sua immagine, essa
pone in lui, non solo una capacità, ma un
bisogno di ricambiare l’amore, e di farlo liberamente. Creato dall’amore, non può esistere
che per l’amore17. Per descrivere questo processo d’espansione della carità, che va da
Dio a Dio, passando attraverso noi, Bernardo
distingue in essa quelli che egli chiama nella
sua opera De diligendo Deo i quattro gradi
dell’amore. Egli li concepisce, non come
momenti successivi, di cui, l’uno sostituirebbe
l’altro, ma come le componenti simultanee,
le dimensioni di una realtà, che, venuta da
Dio in noi, non cessa, a partire da noi stessi, di estendersi, di dilatarsi come in cerchi
concentrici, il più ampio dei quali raggiunge
Dio stesso. Questa dilatazione o espansione dell’amore, è realizzata dalla grazia, altro
nome della carità, cioè dell’azione amorosa
di Dio in noi18. Questo piccolo trattato è stato
scritto, probabilmente, tra il 1126 e il 1141.
L’opera è indirizzata ad Aimerico, cardinale
diacono e cancelliere della Chiesa romana,
che aveva posto a Bernardo, come lui originario della Borgogna, alcune questioni. Tra
queste, Bernardo ne sceglie una, «quella che
ritiene possa essere gustata con maggiore
dolcezza, trattata con maggiore sicurezza,
ascoltata con maggiore utilità: l’amore di Dio»
(cfr. Dil, prologo). La tesi fondamentale del
trattato è sintetizzata nelle prime righe, con
una formula simile a quella usata da Severo,
vescovo di Milevi, in una lettera ad Agostino
d’Ippona: «Volete dunque sapere da me quale
ragione e in qual modo dobbiamo amare Dio.
Ecco, vi rispondo: la ragione che ci spinge ad
amare Dio, è Dio stesso, è il modo di amarlo senza misura»19. L’elemento per noi più
significativo, che costituisce anche la parte
più famosa del trattato, è la teoria dei quattro
gradi dell’amore. «L’intenzione di Bernardo
è di aiutare a comprendere come chiunque,
partendo dalla propria situazione, possa giungere, senza soluzione di continuità, al vertice dell’esperienza cristiana: la comunione di
amore personale e totale con Dio»20.
16) Leclercq, J., Amore e conoscenza secondo san
Bernardo di Chiaravalle, in «La Scuola Cattolica»
120 (1992) 7.
18) Cf. Ibid.
17) Cf. Ibid., 8.
19) Ed. G. Mura, p. 140. Dil., I, 1, p. 270.
20) Stercal, C., Bernardo di Chiaravalle. Intelligenza
e amore, Jaca Book, Milano 1997, 27.
9
I quattro gradi dell’amore nel «De diligendo Deo»
Come abbiamo osservato, per il nostro
cisterciense, nessun altro testo in tutta la
Bibbia è altrettanto importante come 1 Gv
4,8: «Deus caritas est».
Bernardo ritiene che esso contenga tutto
ciò che noi possiamo effettivamente conoscere di Dio, e che abbiamo veramente
bisogno di sapere.
A differenza degli scolastici contemporanei, Bernardo non perde molto tempo nella
speculazione sulla natura divina e su i suoi
attributi ma, in un passo del trattato De consideratione, analizza le quattro caratteristiche fondamentali di Dio sulla base di Efesini
3,18: «Siate in grado di comprendere con
tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità». La durata di Dio
è la sua eternità; il suo respiro l’amore che
«supera non solo ogni affezione, ma anche
ogni conoscenza»21.
«In questo sta l’amore: non siamo stati
noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi»
(1 Gv 4,10).
Un altro passo dalla lettera di Giovanni
che l’abate non si stanca mai di citare è
l’assoluta priorità dell’amore divino su quello umano, tema naturalmente comune a tutti
gli scrittori cristiani; ma pochi se ne sono
serviti come Bernardo.
Quando la Sposa (l’anima) giunge a
comprendere di essere sempre anticipata
e superata nell’amore, è costretta a cercare di crescere ancor più nell’amore per
corrispondere alla generosità del suo divino
Amante.
La risposta dell’anima al dono dell’amore, da parte dell’amante divino, rappresenta
la concretezza e la gradazione dell’amore con cui ascendiamo a Dio. Bernardo
mostra scarso interesse per la costruzione
di una psicologia dettagliata; intende piuttosto comprendere le dinamiche con cui
l’amore, quello che è stato impiantato in
noi e persino quello che si è ripiegato su
se stesso nella «cupiditas», – cioè nell’egoismo – dell’umanità decaduta, invoca il suo
Creatore e ci sospinge sul cammino verso la
gioia e l’amore celeste, che costituiscono il
nostro vero fine22.
Sviluppando le celebri osservazioni di
Agostino sull’incapacità del cuore umano di
essere pienamente soddisfatto di tutto ciò
che non è Dio, Bernardo afferma nel De diligendo Deo: «Infatti, per quella stessa legge
della cupidigia per la quale, in tutte le cose,
l’uomo è solito desiderare ardentemente
quelle che non possiede rispetto a quelle
che ha, e che gli fa provare fastidio di quelle
ottenute per quelle non ancora conseguite,
se egli riuscisse ad ottenere in una sola volta
tutte le cose che sono in cielo e sulla terra, e
naturalmente se ne disgustasse, correrebbe
finalmente, senza alcun dubbio, lontano da
esse, da colui che solo le mancherebbe, il
Dio di tutte le cose»23.
Il medesimo trattato ci offre la più nota
mappa dei gradi dell’amore, i quattro stadi che Bernardo aveva tratteggiato, per
la prima volta, in una lettera spedita alla
comunità certosina di Mont-Dieu e, successivamente, ampliati nel libro dedicato al
cardinale Aimerico24.
22) Cf. McGinn, B., Storia della Mistica, 289.
23) Ed. G. Mura, p. 162. Dil., VII, 19, p. 298.
21) McGinn, B., Storia della Mistica, 287.
10
24) Cf. McGinn, B., Storia della Mistica, 289-290.
Il primo grado dell’amore
è quando l’uomo si ama per se stesso
La prima esperienza, quella centrale e la
più immediata, è l’amore dell’uomo per se
stesso. Bernardo lo qualifica come amore
«carnale», non nel senso corrente di corporeo, ma nel senso paolino di conforme alla
nostra condizione umana, abbandonata a se
stessa: «È l’amore carnale, col quale l’uomo,
prima di tutte le cose, ama sé per se stesso.
Non gusta ancora altro che se stesso, come
sta scritto: Prima ciò che è animale, poi ciò
che è spirituale. Questo amore non viene
prescritto da alcun comandamento; ma è
insito nella stessa natura. Chi ha mai avuto
in odio la sua carne?»25
Secondo questo linguaggio biblico-bernardino, per Jean Leclercq, «vivere secondo la carne» è vivere in modo puramente
umano, ma è in essa – la nostra condizione
umana, dotata di un corpo – che Dio immette una possibilità, un desiderio, addirittura
un’esigenza di vivere «secondo lo Spirito»,
ossia in maniera conforme all’immagine del
suo stesso amore, secondo la quale ci ha
creati e che ha restaurato o ri-creato dalla
sovrabbondanza dell’amore di Cristo.
«Noi spontaneamente amiamo noi stessi
– e questo è bene – ma se ci amiamo soltanto “per noi stessi”, senza ritorno verso Colui
che non cessa di amarci, ci rinchiudiamo in
noi stessi: ecco l’egoismo. Se ci sforziamo
di liberarcene, usciamo dalla nostra finitezza: il legittimo amore per noi stessi non è
soppresso, ma ri-orientato ed esteso a nuove dimensioni»26.
25) Ed. G. Mura, p. 166-167. Dil., VIII, 23, 304.
26) Leclercq, J., Amore e conoscenza secondo san
Bernardo di Chiaravalle, in «La Scuola Cattolica»
120 (1992) 8.
San Bernardo si pone, con sant’Agostino, su un piano esistenziale. Egli considera
lo stato dell’uomo di fatto, il quale, anche
per potersi dare agli esercizi spirituali, ha
bisogno di soddisfare le necessità del corpo. Il primo grado dell’amore è perciò,
amore di sé, a cui per di più, si unisce lo
stato di natura decaduta dell’uomo, che
genera cupidigia o bramosia. Ma questo
stesso amore, se ordinato rettamente, e se
contenuto nell’alveo della necessità, può
divenire amore di Dio. «In questo caso, esso
deve spogliarsi gradatamente di quanto ha
di egoistico, e questo avviene, soprattutto,
mediante l’amore sociale o del prossimo»27.
«Tuttavia, se questo amore, come di
solito accade, comincia a diventare troppo
sregolato e condiscendente, e in nessun
modo contento nell’alveo della necessità fa
mostra di occupare, straripando più ampiamente, anche i campi del piacere, ecco che
si presenta subito un comandamento per
arrestare questo straripamento, che dice:
Amerai il prossimo tuo come te stesso.
In verità è giustissimo che chi è partecipe
della natura non venga escluso dai beni
della natura, e soprattutto da quei beni che
sono insiti nella natura28. Bernardo presenta
quest’amore «sociale»29 perfino come «un
atto di giustizia» («hoc iustitiae est»); cioè,
condividere con tutti gli altri la medesima
natura, donata da Dio.
27) Introduzione, Bernardo di Chiaravalle, I Gradi
dell’umiltà, 44.
28) Ed. G. Mura, p. 167. Dil., VIII, 23, 304.
29) Nel vocabolario di Bernardo la parola «sociale»
(socialis), significa vita di scambi, nella quale ciascuno dà e riceve: ciascuno di noi è strumento di
grazia per gli altri e anzitutto per quelli associato
ai quali vive, cf. Leclercq, J., Amore e conoscenza
secondo san Bernardo di Chiaravalle, in «La Scuola
Cattolica» 120 (1992) 9.
11
Deve anche – e questo dipende, ad un
tempo, dalla grazia e dall’ascesi – condividere, con tutti gli altri, i doni ricevuti.
Ecco l’intero processo che fa passare
«in linea diretta», (recto tramite), dall’amore
carnale all’amore sociale.
Lo stesso amore si prolunga e si estende
alla comunità. Così, la comunità di natura fonda attraverso questo riconoscimento dell’altro come il suo somigliante, una
comunità di vita. In questo modo, l’amore di
sé e l’amore sociale sono messi a servizio
dell’amore per Dio.
Un aspetto notevole, in questo primus
gradus amoris, è la rilevanza che Bernardo
dà allo stesso affetto dell’uomo per se stesso, che ricordiamo è in un primo momento
egoistico. Possiamo parlare di una certa
tenerezza innata nell’uomo verso se stesso, la quale, ben ordinata, cioè orientata al
di fuori dell’uomo verso il prossimo e con
l’aiuto della grazia, può produrre il frutto
della carità. Possiamo notare come, nella
spiritualità di Bernardo, nulla si perde, tutto
viene trasformato e ri-orientato verso il vero
fine, cioè verso l’amore di Dio.
Un altro aspetto che scaturisce da questo primo grado e che non possiamo trascurare è il valore che Bernardo dà al corpo,
in questo cammino verso l’amore di Dio. Per
il nostro cistercense, il progresso nell’amore
comincia, come abbiamo visto, con la soddisfazione dei desideri del corpo, cioè con
l’amore carnale. In questi desideri carnali,
è iscritto, secondo Bernardo, per volontà
di Dio, il desiderio più profondo dell’uomo,
vale a dire, essere uno con Dio; nell’unione
di amore fra l’uomo e Dio, che si raggiunge
quando la volontà dell’uomo si fa una con
quella di Dio, come vedremo nel quarto
12
grado dell’amore, in cui il corpo ha la sua
funzione e il suo contributo.
In questo senso l’abate di Chiaravalle
dirà: «La carne è una compagna buona e
fedele per uno spirito buono in se stesso»
(Dil XI, 31). Per Bernardo, l’insieme umano,
corpo e anima, è destinato alla beatitudine.
Egli ha segnato tre tappe nella cooperazione della carne alla vita dell’anima: «Se
è sentita come un peso, esso è anche un
aiuto. Poi cessa di aiutarla, ma non gli è
più gravoso. Infine l’aiuta moltissimo e non
le è minimamente gravosa. Il primo stato è
faticoso ma fruttuoso; il secondo è riposante
ma non tedioso; il terzo è glorioso. Ascolta
nella Cantica lo sposo che invita a questo
triplice progresso: Mangiate, dice, o amici,
e bevete, e inebriatevi, carissimi. Invita a
rifocillarsi col cibo quelli che lavorano nel
corpo; invita a bere quelli che riposano dopo
aver deposto il peso del corpo; costringe ad
inebriarsi quelli che riprendono le proprie
membra, e chiama questi ultimi carissimi,
cioè ripieni di carità30.
Deduciamo da questa bella immagine
che, per Bernardo, l’esperienza sensoriale
deve essere esistita perché sia possibile
la beatitudine finale; perciò, viene spesso
affermata da Bernardo l’importanza del corpo e dei sensi per la vita spirituale.
«E, se san Bernardo insiste tanto sulla
partecipazione del corpo alla beatitudine
celeste, è ancora per la sua profonda convinzione sull’unità dell’essere umano, specialmente nella sua affettività, il centro, per
lui, della personalità, nella quale il corpo ha
la sua parte»31.
Il secondo grado dell’amore,
quando l’uomo ama Dio per sé
Per il passaggio al secondo grado, è
Dio stesso, secondo Bernardo, che, nella
Sua sapienza creatrice, ha disposto le
cose in modo che nell’uomo nasca l’amore per Lui. «E allora Dio, che fa tutti gli altri
beni, fa anche in modo di essere amato.
E fa in questo modo: lui che ha creato la
natura, lui stesso la sostiene. L’ha infatti
creata in modo tale che essa abbia bisogno, come reggitore, di quello stesso che
è stato il suo creatore. Come essa non fu
capace di esistere senza di lui, non è neppure in grado, senza di lui di sussistere.
Dio ha fatto in modo che la natura avesse sempre bisogno della sua protezione,
così accade che, sperimentando l’aiuto
di Dio nelle tribolazione, l’uomo animale
e carnale, che non sapeva amare nessuno
all’infuori di se stesso, cominci ad amare
anche Dio, sia pure in considerazione di sé
(propter se), perché s’accorge che in lui,
come spesso gli ha mostrato l’esperienza,
può tutto ciò che gli è utile potere e senza
di lui non può nulla»32.
San Bernardo, in questo passaggio dal
primo al secondo grado dell’amore, considera la possibilità di bene che c’è anche
nella stessa tribolazione o situazione di
crisi, nella quale l’uomo, in molte occasioni
della sua vita, si ritrova. Possiamo dire che
nessuno si conosce da sé, se non è messo
alla prova, cioè, conoscere attraverso la tribolazione e con l’aiuto della grazia la propria
dignità d’immagine e somiglianza di Dio e
il suo vero fine: l’amore di Dio; diventare
amore nell’Amore.
30) Ed. G. Mura, p. 168-169. Dil., VIII, 25, p. 306..
31) Dumont,
ch.,
Sulla Via della Pace, 137.
«La vita come prova», intesa da Gabriel
Marcel, è concepita proprio nello stesso
senso da san Bernardo, nel passaggio
dal primo al secondo grado dell’amore.
Se dinanzi a qualcuno che soffre, sarebbe
imprudente giustificare la sofferenza, tuttavia, questo punto di vista è valido, non come
spiegazione, perché non ne esiste alcuna,
ma come riflessione che ne faciliti l’umile
e salutare accettazione. «Misteriosamente,
Dio conosce meglio di me stesso ciò che,
in definitiva, mi renderà felice. Quando Dio
ama, altro non vuole se non essere amato,
anzi non ama se non per essere riamato,
sapendo che, per questo stesso amore, egli
renderà beati coloro che lo avranno amato.
L’esperienza, spesso ripetuta, di ricorrere a
Dio fa crescere il nostro amore»33.
In questo secondo grado, l’uomo, dunque, ama ormai Dio per sé, ma non ancora
per lui. «Questo modo di amare è segno di
una certa prudenza nel sapere distinguere
quello che puoi fare da te stesso, da quello
che puoi fare solo con l’aiuto di Dio»34.
Il terzo grado dell’amore,
quando l’uomo ama Dio per Lui
Il terzo grado viene ad essere una conseguenza (necesse est) logica del grado precedente. «A causa delle sue molte necessità
è perciò inevitabile che l’uomo ricorra a Dio
con frequenti invocazioni e che, rivolgendosi a lui frequentemente, impari a gustarlo,
e gustandolo, a provare quanto è soave il
Signore. Ne consegue così che, ad amare
Dio di amore puro, più che costringersi la
33) Dumont, Ch., Sulla via della Pace, 35.
32) Ed. G. Mura, p. 168-169. Dil., VIII, 25, p. 306.
34) Stercal, C., Benardo di Clairvaux, 80.
13
nostra necessità, ci attiri la soavità di lui
che abbiamo ormai gustata»35. Bernardo,
utilizzando saggiamente i salmi, descrive
l’esperienza dell’uomo che ha cominciato
a gustare la soavità del Signore ed inizia ad
amare Dio per Dio.
Tuttavia, prima di fare quest’esperienza,
l’uomo si trova nel tempo della necessità,
in altre parole, dell’insoddisfazione umana.
Ciò nonostante, questo tempo dei desideri incessanti contiene, implicitamente, il
desiderio di Dio; nel senso che, a partire dall’esperienza dell’insoddisfazione del
desiderio e del rilancio continuo che essa
implica, l’uomo è condotto ad aprirsi al
Bene supremo. Ed è in quest’apertura verso
Dio che l’uomo comincia a gustare la bontà
del Signore e ad amarlo per se stesso, senza interessi egoistici e comincia a conoscere Dio come Padre.
Nella lettera ai Certosini, incorporata
alla fine del De diligendo Deo, Bernardo, in
modo più breve, definisce il tertius gradus
amoris come l’amore filiale, con cui Dio
viene amato per se stesso. «È un amore
puro, perché ama con opere e in verità;
giusto, perché capisce il debito di amore
che ha verso Dio. Esso è spontaneo, e la
sua legge è quella dei figli di Dio, che non
priva dei pesi del dovere, ma li rende leggeri.
Non annulla il timore, ma è un timore casto,
perché misto alla devozione. È un amore
ordinato, che fa amare il corpo per l’anima,
l’anima per Dio e Dio per se stesso»36. In
questo grado d’amore, è ancora più facile amare il prossimo, poiché l’uomo ama
autenticamente Dio e, di conseguenza, tutto
ciò che è di Dio.
Il quarto grado d’amore,
quando l’uomo ama sé per Dio
Sarà per noi una gioia, non il fatto che
venga appagata la nostra necessità e neppure che conseguiamo la nostra felicità, ma il
vedere compiuta la volontà di Dio in noi e su
di noi, come supplichiamo nella nostra preghiera quotidiana, allorché diciamo: Sia fatta
la tua volontà, come in cielo, così in terra37.
Vediamo, qui, il vertice dell’esperienza
cristiana, individuato da Bernardo in questo
quarto grado, nel quale l’uomo non ama
più se stesso (seipsum), se non per Dio
(nisi propter Deum). «È un amore difficile da
raggiungere; è il vero amore mistico, con il
quale l’anima è assorta totalmente in Dio. È
come un vivere nell’aldilà, vuoti di sé e pieni
di Dio, in un sentimento di totale armonia
con Lui»38. Ha quindi, le caratteristiche di
un’esperienza mistica, nella quale l’uomo
ha la sensazione di perdersi, ma, in realtà,
ritrova più profondamente se stesso39.
In principio, abbiamo trattato dell’uomo come immagine e somiglianza di Dio,
aspetto col quale comincia la dottrina spirituale di Bernardo. Possiamo dire, non senza
temerarietà, che, in questo grado, l’uomo
fa l’esperienza che anticipa e introduce il
compimento della creazione. È la condivisione della volontà di Dio che ci consente di
entrare nel suo affectus e di prepararci alla
conformazione a Lui.
Vivere questa esperienza è essere deificati (sic affici deificari est)40, sintetizza
37) Ed. G. Mura, p. 172-173. Dil., X, 28, p. 312.
38) Gastaldelli, F., Studi su San Bernardo e Goffredo
di Auxerre, 330.
39) Cf. Stercal, C., Bernardo di Clairvaux, 82.
35) Ed. G. Mura, p. 169-170. Dil., IX, 26, p. 308.
36) Cf. Introduzione, Bernardo di Chiaravalle, I Gradi
dell’umiltà, L’amore di Dio, ed. G. Mura, 44.
14
40) «Sic affici, deificare est»: il termine deificazione,
raramente impiegato da san Bernardo, significa,
come per Guglielmo di S. Thierry, l’unione perfet-
Bernardo ed esprime così, il senso di questo quarto grado che porta a compimento
l’itinerario di tutta la vita cristiana.
Per sottolineare l’unione profonda tra
Dio e l’uomo che esso realizza, un’unione che trasforma l’uomo senza annullarlo,
Bernardo propone una triplice metafora, già
nota nella letteratura patristica e medievale:
«Come una piccola goccia d’acqua, mescolata a molto vino, sembra scomparire del
tutto, perché assume il sapore e il colore
del vino, e come un ferro rovente e incandescente diviene molto simile al fuoco e perde
il suo aspetto originario, e come l’aria inondata della luce, a tal punto che non sembra
più illuminata ma appare essa stessa luce,
così è necessario che nei santi ogni affezioni
umana si liquefaccia, in qualche ineffabile
modo, in se stessa e che si trasformi totalmente nella volontà di Dio»41.
«L’uomo, allora, non si annulla, ma entra
in una nuova condizione e in una nuova
forma che gli consentono di realizzare una
comunione totale e personale con Dio.
Si tratta della humana affectio che si dissolve e trapassa nella volontà di Dio; coincidenza della volontà dell’uomo con quella di
ta dell’anima con Dio, nella volontà e nell’amore:
«unus cum Deus esse spiritus» (1 Cor 6,17). Il
concetto della deificazione dell’uomo in Cristo,
nell’amore, e frequente nella tradizione della teologia origeniana, e troverà ampi sviluppi nella
teologia mistica occidentale, che intenderà per
«deificazione» lo stato mistico di unione trasformante dell’anima nell’amore puro di Dio. per quanto
riguarda il contesto teologico bernardino, valgono le
osservazione di È. Gilson: «La deificazione… non
è niente di meno, ma niente di più, che l’accordo
perfetto tra la volontà della sostanza umana e quella
della sostanza divina, in una distinzione rigorosa
delle sostanze e delle volontà», cf. Introduzione,
Bernardo di Chiaravalle, I Gradi dell’umiltà, L’amore
di Dio, ed. G. Mura, 173.
41) Ed. G. Mura, p. 173. Dil., X, 28, p. 312.
Dio»42. San Bernardo per chiudere l’ultimo
grado dell’amore della sua opera, rivolgendosi al Signore domanda: «Chi potrà vedere
la sostanza dell’uomo nella forma di gioia e
potenza nella quale Dio sarà tutto in tutto?
Quando accadrà? Chi potrà conseguirlo?
«Quando potrò venire e apparire al cospetto
del Signore?» O Signore mio Dio, «il mio
cuore ti ha parlato, il mio volto ti ha cercato;
cercherò, Signore, il tuo volto». Credi che
potrò vedere il tuo tempio santo?»43.
Per dare risposta con autorevolezza a
queste basilari domande, Bernardo, allo
stesso modo che ha chiesto attraverso la
citazione della Sacra Scrittura sul come,
sul chi e sul quando sarà questa gioia per
l’uomo, risponde dicendo: «Credo che il
comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua,
con tutte le tue capacità” non potrà essere
completamente adempiuto finché il cuore
non cesserà d’esser costretto a pensare al
corpo, e l’anima non cesserà d’infondere
in esso vita e sensibilità per conservarlo nel
suo stato, e la sua virtù, sollevata dai fastidi carnali, potrà irrobustirsi profondamente
nella potenza de Dio»44.
E nella lettera ai Certosini, Bernardo
dichiara la sua incertezza sulla possibilità
dell’uomo di poter raggiungere perfettamente questo quarto grado dell’amore in
questa vita e, citando il Vangelo di Matteo,
conclude affermando che questo grado si
produrrà certamente «quando il servo buono e fedele verrà introdotto nel gaudio del
suo Signore, e si sarà inebriato dell’abbondanza della casa di Dio.
42) Gastaldelli, F., Studi su San Bernardo e Goffredo
di Auxerre, 331.
43) Ed. G. Mura, p. 173-174. Dil., X, 28, p. 312.
44) Ed. G. Mura, p. 174. Dil., X, 29, p. 312.
15
Formazione
Allora quasi dimentico di sé in modo
mirabile, e quassi staccandosi totalmente da
se stesso, si volgerà tutto a Dio e aderendo
totalmente a Lui, diverrà con Lui un solo
spirito. Credo che il profeta pensasse proprio a questo, quando diceva: Entrerò nelle
potenze del Signore; Signore, mi ricorderò
solo della tua giustizia»45.
Lectio divina
quotidiana
Conclusione
45) Ed. G. Mura, p. 188-189. Dil., XV, 39, p. 328.
La citazione dal Paradiso di Dante con
cui abbiamo aperto questo tentativo di
ricerca, indica chiaramente come il cristianesimo latino ritenesse Bernardo come una
delle guide alla gioia della contemplazione
mistica.
«Quel sene che contemplando gustò di
quella pace», ci ha fatto ricordare attraverso
il suo trattato De diligendo Deo che l’uomo
è capace di Dio (capax Dei) che l’unione
all’amore divino è una possibilità aperta
all’uomo grazie al «chérissement» di Dio
per noi.
Quest’esperienza non è stata data soltanto all’uomo del XII secolo, pieno dei
grandi maestri «mistici», ma, anche all’uomo
moderno è stata data questa possibilità di
raggiungere il suo vero fine. Questa possibilità ha bisogno prima di tutto della libertà
dell’uomo, della sua risolutezza e prontezza
per iniziare questo cammino di trasformazione.
Abbiamo visto implicitamente nel De diligendo Deo come Bernardo attraverso il suo
plastico linguaggio adopera la ragione e gli
affetti per descrivere quell’esperienza che
può «pregustare» l’uomo dell’amore divino.
Questa descrizione è anche un invito per
16
noi, uomini di oggi, a cercare con serietà e
impegno non più fuori di noi, ma nel nostro
cuore, dove si trovano le radici dei nostri
desideri. San Bernardo vuole che le persone
abbiano un’esperienza di «unione» con Dio.
Questa esperienza mistica dell’«unione» potrebbe sembrare strana, giacché lo
stesso sostantivo «mistico» ha perso tutto il
suo significato, rimanendo come parola che
descrive qualcosa che non m’incombe, che
è al di là della mia vita e delle mie faccende.
In mezzo alla continua proiezione che
l’uomo fa nel tempo, qualche volta opprimente e ambivalente, ormai soltanto una
vera esperienza di ricerca di Dio può farci
vedere che quasi nulla di quello che desideriamo o cerchiamo può riempire il nostro
abisso, ed è in grado di soddisfare i nostri
desideri più intimi, forse impossibili di soddisfare sotto questo cielo o sopra questa
terra.
I grandi profeti di tutti i tempi, come
Bernardo nel XII secolo, ci hanno fatto, ci
fanno e ci faranno l’invito, rimane in noi trovare il modo e il coraggio.
45) Ed. G. Mura, p. 188-189. Dil., XV, 39, p. 328.
di P. Amedeo Cencini* fdcc
O
ggi si parla molto di lectio divina, forse
ancor più di quanto la si pratichi realmente e quotidianamente. Vogliamo offrire
con queste pagine qualche semplice suggestione sulla natura, ovvero sul concetto e
sulla metodologia, di questa preghiera che
apre ogni giorno la nostra vita di apostoli
e consacrati, preghiera che la tradizione
ci consegna e che la spiritualità moderna
non fa che raccomandare ad ogni credente.
Quanto più a un consacrato!
La vedremo alla luce di quattro caratteristiche: «lectio matutina», divina, continua,
vespertina (o «nocturna»).
1. «Lectio matutina»
La maturità spirituale o la sintonia con i
desideri di Dio nasce e cresce ogni giorno
esattamente attraverso la lettura per eccellenza della vita del credente, quella delle
Scritture sante e più in particolare tramite la
lettura della Parola-del-giorno.
Non potrebbe avere altra fonte, altra
scuola, altro contenuto, altro maestro, altro
ritmo quotidiano e mattutino.
* Docente dell’Università Pontificia Salesiana.
Articolo preso in sostanza dalla pubblicazione: A.
Cencini, La vita al ritmo della Parola. Come lasciarsi
plasmare dalla Scrittura, San Paolo, Cinisello B.
2008.
Lectio straordinaria?
Forse non è particolarmente originale dire questo, la lectio è entrata ormai
nella cultura del credente, all’interno di
quel movimento di ritorno alla centralità
della Parola innescato dal Concilio, e che
senz’altro è stato uno dei suoi frutti più belli. Eppure si ha l’impressione che si stenti
ancora a comprenderne la natura profonda,
ben oltre il fatto d’esser una pratica di pietà,
più o meno facoltativa.
La meditazione della Parola è ciò che
normalmente apre la giornata del credente
e del discepolo, il quale è tale proprio perché crede nella Parola, si nutre d’essa, e
17
solo d’essa, secondo il menù preparato dal
Padre ogni giorno, e dunque della Paroladel-giorno, quella di cui tutti i credenti in
tutta la Chiesa sono invitati a nutrirsi.
Natura e funzione della Parola-delgiorno è quella di aprire e accompagnare la
giornata, come costituisse il respiro segreto
e cadenzato, il punto di riferimento d’ogni
giorno della vita, senz’alcuna eccezione, e
senza pure esser essenzialmente in funzione del proprio ministero, della catechesi o
della predicazione o dello studio personale,
quasi usandola in modo interessato.
Ogni giorno, ogni mattino
Per questo motivo non può esser solo
qualcosa di speciale, da fare una volta alla
settimana, perché costituisce invece ciò che
dà il ritmo a ogni giorno, quasi la sua unità
di misura, ciò che la raccoglie attorno a un
centro che le affida un compito, qualcosa
che non può mancare per nessun motivo e
che va collocato ragionevolmente all’inizio
della giornata. Ogni vocazione, infatti, è
mattutina1, prima ancora che io mi svegli
e dia il via alle corse quotidiane; essa è
già all’opera, già pensata e pronunciata
dall’Eterno, alta e luminosa come il sole che
sorge sul giorno che sta per cominciare.
E così la Parola-del-giorno: è mattutina
per natura sua, perché contiene e svela la
vocazione di colui che la legge, perché non
solo la Parola-del-giorno apre la giornata,
perché ha la precedenza su tutto il resto,
sulla mia agenda, su quella fila di pensieri che
affollano la mia mente non appena mi sveglio,
1) Nuove vocazioni per una nuova Europa,
Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al
Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, Roma,
5-10 maggio 1997, 26 a.
18
pretendendo ognuno la precedenza, e che
spesso hanno il potere di diventare subito
pre-occupazioni e, al tempo stesso la Parola
di oggi è ciò che dà senso e ordine a quel che
farò durante il giorno, che dà intelligenza al
mio essere e rende attento il mio agire.
Il buongiorno di Dio
La Parola-del-giorno è il buongiorno di
Dio al mio risveglio, come un messaggio
puntuale e sempre nuovo, che non cessa di
trasmettermi giorno per giorno il suo piano
amoroso; per questo non può che essere
una lectio amorosa. Per questo, soprattutto,
senza la lectio del mattino io perdo la chiave di lettura della mia persona, come fossi
privo d’intelligenza e ignorante. Il giorno si
preannuncia vuoto e insensato, gli impegni
diventano dispersivi, i rapporti umani superficiali o ambigui, gli imprevisti una rottura
che viene a spezzare il ritmo che io pretendo
d’aver impresso al mio tempo, mentre l’agitazione nervosa di fronte alle tante cose da
fare prende il sopravvento e sottrae la gioia
pacata (come in Marta); e poi siccome sono
tante, davvero tante, devo correre e non
posso stare a fare meditazione o dedicarle
troppo tempo... Mica sono un novizio, poi!
Che tristezza quando la meditazione
diventa semplice pratica di pietà od obbligo
disciplinare, e non è cercata come dono,
come dono di Dio che m’illumina, come
ordo o regola di vita che dà ordine alla mia
giornata, come parola autorevole che mi
assegna un compito da attuare durante
il giorno, come gesto affettuoso di chi si
prende cura di me, come amore preveniente
che ha la precedenza su tutti i miei appuntamenti, oasi che calma la mia fretta e sgonfia
le mie ansietà.
2. Lectio divina
La lectio si chiama divina proprio perché
è Dio l’autore di quella parola, è Dio che mi
parla attraverso essa, è l’Eterno che l’ha
ispirata, e non un Dio lontano nel tempo, ma
quello che oggi mi rivolge quella parola, e
«se lo Spirito ha ispirato Isaia, quello stesso
Spirito ha scelto anche questo momento e
questo versetto, sul quale io mi soffermo…,
per darmi un aiuto e quasi una seconda
ispirazione»2; e se Dio ne è il soggetto, ne
è anche l’oggetto, è Dio che mi parla di sé,
che mi svela il mistero, e sempre secondo
la sua sapiente pedagogia che tiene conto
delle mie limitate capacità, cioè ogni giorno
svelandomene un aspetto nuovo, inedito,
che risponde alle mie reali necessità del
momento, che lui conosce molto meglio di
me, «per la razione d’un giorno» (Es 16,4),
come la manna un tempo, e risponde pure
alle reali domande del cuore in questo preciso oggi della mia esistenza, quelle che Dio
stesso ha posto in me e che lui solo conosce.
Teofania e antropofania
E non solo Dio mi parla di sé, ma anche
di me; non è solo una teofania che apre la
mia giornata di credente e discepolo della
Parola, ma un’antropofania attraverso la
quale il Padre e Creatore mi svela progressivamente anche la mia personale identità,
la mia vocazione, come abbiamo accennato
prima, quello che sono chiamato a essere
per divenire conforme al Figlio suo e avere i
suoi sentimenti. E anche questa rivelazione
2) J. Guitton, Il lavoro intellettuale. Consigli a coloro
che studiano e lavorano, Cinisello Balsamo 1996,
89.
è situata nell’oggi, ovvero mi dice quel che
oggi il Signore mi dona e pure mi chiede.
Quasi potremmo dire che mi consegna
il compito per questa giornata che va a
cominciare, e che io potrò accogliere e portare a termine solo se lo accetto dalle sue
mani, dentro un dialogo d’amore, come è e
dev’esser la meditazione del mattino.
E la cosa singolare e misteriosa è, che le
due rivelazioni in qualche modo coincidono,
poiché la mia identità è dentro quella di Dio,
per così dire, perché in quella stessa Parola
che parla di Dio sono invitato a cogliere
anche la mia vocazione, il mio modo di
rassomigliargli, il mio progetto esistenziale, il mio nome nascosto nel suo. Proprio
perché viene da Dio e parla del Dio eterno
e immutabile, la Parola-del-giorno parla
anche di me nell’oggi della mia vita. E allora
va accolta nel silenzio delle parole umane,
nel raccoglimento interiore con cui ci s’avvicina al mistero, nell’attesa di chi si prepara a
ricevere un tesoro che gli verrà messo tra le
mani, con la meraviglia di chi conosce l’agire di Dio ed è abituato alle sue sorprese cui
non ci si abitua mai. In una parola va accolta
con atteggiamento tipicamente mariano.
Come Maria
Perché la Parola-del-giorno mi viene
incontro, in realtà, come l’angelo che apparve a Maria il giorno dell’Annunciazione, e
Maria è l’immagine dell’autentico credente
che l’accoglie davvero da discepolo della
Parola, con tutto il suo carico di mistero, con
il timore e tremore di chi sa di trovarsi dinanzi
a Dio, dinanzi a una Parola che è dolce nella
bocca, ma amara nelle viscere (cf Ap 10,9),
19
ma pur sempre dinanzi a un progetto che ha
Dio per autore, e che dunque sarà Dio a portare a termine. Nel mosaico di padre Rupnik
nella cappella della «Casa incontri cristiani»
dei padri Dehoniani a Capiago, la scena
dell’Annunciazione è resa in modo da sottolineare proprio questo turbamento umano
che poi s’apre alla fiducia, perché illuminato
dalla certezza che si tratta d’una iniziativa
divina. Maria infatti, nel mosaico volge stranamente le spalle all’angelo che le parla e
guarda pensosa addirittura dall’altra parte.
L’angelo allora, ne rimane così intenerito
che, per proteggerla, allunga la sua ala, quasi
avvolgendola, ma insieme scosta l’ala stessa, per non fare rumore e incutere spavento,
sconcertando ulteriormente Maria. Gesto
d’infinita dolcezza! Maria, a questo punto,
lascia cadere la mano, ma al tempo stesso
la apre. È ancora il suo turbamento, ma è
anche gesto di disponibilità. Non capisce –
come potrebbe? –, ma ha compreso che è il
Signore e questo le basta: «Sono la tua serva, fa di me quello che a te piace». È l’Ecce
ancilla, che incontra l’Ecce venio di Gesù (cf
Eb 10,9), il Verbo che bussa alla sua porta3.
Parola-del-giorno
e «giorno fatto dal Signore»
Come può una giornata diventare «giorno fatto dal Signore» (Sal 118,24, come canta la liturgia del giorno di pasqua), messo in
atto da lui per compiere la salvezza attraverso una creatura chiamata e plasmata per
questo, se non partendo dalla Parola, accolta con atteggiamento tipicamente mariano?
Solo allora quella giornata qualsiasi, feriale
e ordinaria, è riscattata dalla possibile bana3) Cf L. Guccini, Volgeranno lo sguardo a colui che
hanno trafitto, Capiago 2006, pp.13-14.
20
lità dei giorni che scorrono rotolando uno
sull’altro senza lasciar traccia alcuna sul
vivente, e si preannuncia come giorno di
formazione permanente. Grazie all’atteggiamento di colui che accoglie e legge la Parola
come lectio divina, non umana, con tutto
ciò che questo significa e implica in pratica
per la coscienza del credente. è Dio che
mi dà l’appuntamento, non io che assolvo
a un obbligo o che scelgo di fare una cosa
bella, ma tutto sommato facoltativa, che
posso permettermi di fare quando mi sento
di farla, quando c’è un testo che mi piace o
andando a scegliermelo (o aprendo, peggio
ancora, la Bibbia a caso), o quando e finché
sono nella formazione iniziale e se l’orario
lo prevede, quando ne ho il tempo e magari
comprimendola nel ritaglio di tempo che le
posso «concedere» (bontà mia! con tutto
quel che ho da fare…). Non si tratta d’esser
moralisti (non è questo, in genere, il problema oggi), ma di capire, ancora, che siamo di
fronte a un dono che anticipa l’agire umano,
che l’iniziativa è di Dio, il Padre-maestro della mia formazione permanente, che gode di
stare con me, che ogni giorno pone mano al
suo progetto e mi chiama e mi propone un
passo avanti, una nuova meta, definita da
lui e dalla sua Parola, proprio perché la mia
formazione abbia un preciso punto di riferimento, ogni giorno, e non giri a vuoto. E io
non corra il rischio di divenire uno splendido
ignorante (quanto analfabetismo biblicoteologico di ritorno in tanti consacrati!)4…
4) Al IV convegno della chiesa italiana, celebrato a Verona, il monaco Mosconi ha provocato
soprattutto sacerdoti e consacrati a chiedersi, a
40’anni dal Concilio: «Questo tempo – che per la
Bibbia è il segno d’una intera generazione –quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola?
cosa ne abbiamo fatto della Parola?». (F. Mosconi,
Meditazione, in «Avvenire», 18.X.2006, p.10).
Come potrei non tener conto di questo invito, sottovalutarlo e trattarlo con sufficienza, o
ritenere che il mio cammino di crescita possa
avere altri punti di riferimento al di fuori della
sua Parola, nella quale anch’io, come tutte
le cose, sono stato creato, pensato, amato?
3. Lectio continua
Con le prime due sottolineature abbiamo
indicato soprattutto il contenuto della nostra
conoscenza (e formazione) quotidiana, con
le prossime due indichiamo in particolare il
metodo che ci porta allo stesso obiettivo
conoscitivo e formativo.
La lectio nella giornata
La lectio è continua quando segue
in modo regolare il medesimo libro della
Scrittura, senza interruzioni o salti di sorta.
Ma non è questo il senso che noi attribuiamo ora all’espressione: la lectio è continua quando l’approccio meditativo mattutino alla Parola-del-giorno continua lungo la
giornata. Ovvero, quando la Parola che ha
aperto la giornata la accompagna nel suo
svolgersi, d’istante in istante, fino a sera, in
qualche modo compiendosi in essa. È per
questo, in fondo, che la Parola è stata detta
da Dio, non per una semplice consolazione
spirituale del pio lettore, ma per incarnarsi
nella storia, nella piccola storia di ciascuno
di noi, e realizzare salvezza. Altrimenti siamo simili a quel terreno pietroso di cui dice
Gesù, che ha accolto all’inizio con entusiasmo la Parola e fatto germogliare i semi,
lasciandoli poi inaridire (cf Lc 8,6.13). Non
basta la prima adesione mattutina.
La Parola fecondata dagli eventi
Quella Parola, allora, come dice il profeta (Is 55,10-11), non tornerà al Padre così
come è uscita dalla sua bocca, bensì ricca
di ciò che ha operato nel cuore del credente, ma ciò avverrà solo se la giornata del
credente, e dunque la sua vita, la sua persona, i suoi affetti, le sue relazioni, persino
i suoi fallimenti e delusioni, tutto, insomma,
diventa come un grembo, come il grembo
di Maria, ancora, che ogni giorno partorisce
una parola sempre nuova di Dio.
È lo schema rigorosamente biblico della
Parola fecondata dagli eventi. La Paroladel-giorno è seme divino, da Dio seminato
nel terreno della nostra giornata: sarà solo
l’incontro tra i due elementi che consentirà
alla Parola di svelarsi pienamente, d’esser
compresa in tutta la sua ricchezza, di compiersi in maniera sempre nuova e inedita
per la salvezza. Quel compimento, o tutte
quelle fasi che portano a esso, è la nostra
formazione permanente ordinaria.
A che serve, infatti, una meditazione
accurata e condotta secondo le moderne e
classiche regole della lectio, se resta confinata in uno spazio rigoroso?
A che pro meditare, passando ordinatamente e con certo sussiego attraverso lectio, meditatio, oratio, contemplatio,
discretio, se questo non continua poi lungo
il giorno?
Come si può parlare di unità di vita
attorno alla Parola se il credente non trova
il modo di proseguire durante le attività
quotidiane il suo rapporto con quella Parola
specifica?
Sarebbe come uno che si nutre anche
21
abbondantemente (della Parola), ma poi
non fa movimento (= non fa circolare la
Parola lungo la giornata). Ovvero c’è in noi
una certa abbondanza di conoscenza della
Scrittura, ma con scarso risvolto e coinvolgimento esistenziale; e la Parola rimane sterile in un discepolo sterile, che magari non
ricorderà nemmeno durante il giorno quale
Parola ha dato l’avvio al giorno.
Credo che sia uno dei limiti dell’interpretazione odierna della lectio, che finisce
per relegare l’incontro con la Parola a un
momento della giornata, per quanto dignitosamente gestito. È, tutto sommato, un’interpretazione riduttiva e debole, che fa della
lectio una pratica di pietà qualsiasi e non
rispetta la centralità assoluta della Parola
nella vita del discepolo, non solo in teoria
o nella sua testa di studioso (quando va
bene). In particolare nella vita così dinamica
e complessa dell’apostolo oggi è fondamentale chiarire questo punto, nel quale consiste
buona parte di quella che chiamiamo formazione permanente ordinaria, quotidiana. Sarà
certo indispensabile l’approccio mattutino
con la Parola-del-giorno, ma senza pretendere d’esaurire in quel momento il rapporto
con la Parola stessa. Quello è solo il primo
approccio, destinato a segnare la giornata
e continuare in maniera sempre più intensa
e articolata nella giornata stessa. In che
modo? Con alcune attenzioni metodologiche riguardanti sia il momento specifico della
meditazione che il séguito poi della giornata.
Custodire la Parola
Anzitutto, in concreto, dalla meditazione del mattino è importante che il lettore
ne venga via con una Parola, un versetto,
una scena o immagine precisa, qualcosa
in cui sente concentrarsi il dono e l’appello
22
del Signore per quella giornata. Dice infatti
Bossuet che, quando si medita e si coglie
una verità rilevante per la propria persona
è importante fermarsi, e non passare da
un pensiero all’altro, da una verità all’altra:
«Tenetene una, stringetela finché penetri
in voi; legate a essa il vostro cuore, estraetene, per così dire, tutto il succo a forza
di strizzarla con la vostra attenzione»5. La
meditazione mattutina è più il momento
dell’accoglienza che non quello della comprensione, momento nel quale si lascia che
la Parola o una parte d’essa entri nel proprio
cuore, per esservi custodita e conservata
lungo la giornata come un tesoro, anche se
non è stata «capita» in tutto il suo senso (è
l’ascolto verginale, di chi, come Maria, non
fa alcuna violenza alla Parola, neppure per
capirla o per capirla subito, cf Lc 2,19.51).
Quella Parola così custodita assumerà sempre più un ruolo attivo nella vita del credente, diventerà suo custode: «Se conserverai
e custodirai la Parola… in modo che scenda
nel profondo della tua anima e si trasfonda
nei tuoi affetti e nei tuoi costumi…, non
c’è dubbio che tu pure sarai conservato da
essa», dice infatti san Bernardo. E qui inizia
la lectio nella giornata, o durante la giornata.
credente desse in ogni circostanza la parola
a Gesù, fidandosi del vangelo e andando
ben oltre il buon senso umano o le proprie
esclusive congetture. Così nasce di fatto la
familiarità profonda e appassionata con la
Scrittura, mentre la Parola «rimane» nel cuore e nella mente, è proprio questo rapporto
costante e vitale tra la Parola-del-giorno e
il credente che dà luogo lentamente a quel
processo d’incarnazione della Parola stessa
nella vita del discepolo, che ne renderà sempre più comprensibile il mistero. La formazione permanente è parte e frutto di questo
processo, ed è già in atto a questo punto,
rinnovando la mente e mantenendola giovane e creativa. Come ben dice Origene: «La
nostra mente si rinnova, esercitandosi nella
sapienza, con la meditazione della Parola di
Dio e l’intelligenza spirituale della sua Legge,
e quanto più trae profitto quotidianamente
dalla Scrittura e penetra in essa, tanto più
si rinnova. Non so come possa rinnovarsi
invece una mente pigra nel leggere la Sacra
Scrittura e nell’esercizio della meditazione,
la quale ci permette non solo di capire ciò
che abbiamo letto, ma anche di chiarirlo ulteriormente e comunicarlo agli altri»6
Scommettere sulla Parola
Rimanere nella Parola
Quella stessa Parola conservata-custodita dovrà concretamente durante il giorno
diventare la radice d’ogni gesto e pensiero, affetto e desiderio, in modo che tutto
nell’essere e nell’agire della persona trovi in
essa la propria sorgente e forza, come fosse
piantato in essa, esattamente come il tralcio
che è unito alla vite (cf Gv 15), o come se il
Il passo successivo in tale cammino è il
riferimento esplicito alla Parola-del-giorno
quando c’è da prendere qualche decisione
lungo la giornata. Ovvero si tratta di render la Parola che Dio ha in qualche modo
consegnato al credente criterio di discernimento in generale e punto di riferimento
specifico delle proprie scelte, piccole o
grandi che siano; e noi sappiamo quante
5) J. Bossuet, Méditations sur l’Evangile, cit. da
G. Ravasi, Meditare e masticare, in «Avvenire»,
17/V/1997, 1.
6) Origene, Commento alla Lettera ai Romani, a cura
di F. Cocchini, vol II, Genova 1986, 95 (In epistola ad
Romanos IX, 1 commento a Rm 12,1-2.
siano o quante potrebbero essere le scelte
che riempiono un giorno. La Parola-delgiorno è compresa solo se e quando ogni
progetto passa attraverso essa, ne è filtrato
e purificato nelle sue componenti impure,
e solo quando quella stessa Parola diventa
l’unico motivo, l’unico fondamento, l’unica
spiegazione della decisione. Anzi, lì nasce
il credente, quando uno può dire, come
Pietro quella volta sul lago: «Signore, questa scelta la faccio solo poggiandomi sulla
tua Parola, non perché una certa logica
umana vorrebbe portarmi in questa direzione, ma perché mi pare che tu mi chieda
questo attraverso quella Parola che ha
aperto oggi la mia giornata; anzi, un certo
criterio umano mi condurrebbe altrove, ma
io voglio scommettere su quella Parola che
m’hai donato, e proprio perché me l’hai
donata oggi so che essa ha qualcosa da
dire a questa mia giornata e può dar senso
e vigore alle mie scelte, voglio credere che
essa è vera e non inganna, voglio provare
cosa diventa la mia vita costruita solo in
verbo tuo…». Rigorosamente parlando, chi
non ha mai fatto questo tipo di scommessa
tratta la Parola come un libro interessante,
che magari parla di Marte e dell’ipotesi di
vita su quel pianeta. Ovvero, chi non ha mai
scommesso sulla Parola non è credente,
tutt’al più è un’ipotesi di credente.
Compiere la Parola
Quando invece c’è il coraggio di scommettere sulla Parola allora la Parola si compie e anche la nostra formazione si compie,
ovvero diventa permanente nel giorno qualsiasi. Si compie la Parola per la sua forza
intrinseca, come disse quella volta Gesù
nella sinagoga di Nazaret (cf Lc 4,21); ma
anche perché di fatto il credente la compie,
23
le dà vita e sembianze umane, le dà visibilità
e calore nella sua persona, le dà originalità
e novità nell’imprevedibilità del proprio vivere quotidiano. Anzi, «uno diventa la Parola
che ascolta (...). La assimila come latte»7.
La compie come in Maria si compirono
i giorni del parto e diede alla luce Gesù.
Torniamo ancora per un attimo al mosaico
dell’Annunciazione di padre Rupnik: Maria
vi è rappresentata con in mano un gomitolo
di lana rossa appoggiato discretamente sul
suo grembo, mentre il filo già in parte srotolato dal gomitolo giunge all’altra mano, la
sinistra, tenuta aperta a significare l’assenso
della Vergine. Il filo rosso che dal grembo di
Maria va fino alla mano girando attorno alle
dita indica che la decisione contenuta nel
suo «sì» è già un tessere la carne del Verbo.
È il mistero dell’Incarnazione: mistero
grande che può essere racchiuso nella misura piccola e limitata di ogni nostra giornata,
di ogni nostra scelta! La Parola-del-giorno
è come il filo rosso che lega tra loro tutti gli
istanti della giornata, li connette tra loro dando unità alla vita e alla personalità del credente, ma è anche il filo rosso con cui ognuno di
noi tesse la carne al Verbo nel grembo verginale della sua giornata, d’ogni sua giornata.
Con gelosa vigilanza e pazienza testarda, con senso di responsabilità e cuore
pensante senza pretendere che ogni giorno
venga fuori chissà quale ricamo, ovvero che
ogni giorno vi sia chissà quale rivelazione
e scoperta, ma semplicemente «accontentandosi» di realizzare la propria vita in
coerenza con quella Parola, o di compiere
quella Parola nel tessuto della vita. Detto in
altre parole: la formazione diventa davvero
permanente, o diciamo pure «si compie»
nell’ordinarietà della vita, grazie al dono
quotidiano e sempre nuovo della Parola,
che trova terreno accogliente nel discepolo
della Parola, nel suo impegno fattivo, nella serietà con cui accoglie la Parola ogni
giorno.
La conserva, la custodisce in sé come
un tesoro, rimane in essa facendone la
radice d’ogni espressione vitale, e il punto
di riferimento d’ogni sua scelta. È come un
tessere e ritessere il tessuto della vocazione
con il filo della Parola. Così quella Parola si
compie nella sua vita. Formazione permanente nella dimensione ordinaria vuol dire in
fondo passare dalla concezione antica della
meditazione come preghiera del mattino, a
questa logica della Parola-del-giorno che
abbraccia tutta la giornata. O, altrimenti detto, la formazione iniziale sta alla formazione
permanente così come la lectio matutina sta
alla lectio continua.
7) Mosconi, Meditazione, 10.
4. Lectio vespertina (o nocturna)
E siamo alla fine della giornata.
L’appuntamento con quella Parola che ha
aperto la giornata e che è proseguito lungo
la giornata stessa, non cessa ma continua
ancora. Anzi, è sempre quella stessa Parola,
7) Mosconi, Meditazione, 10.
24
che ha aperto la giornata, che ora la chiude.
Logico che sia così, in teoria.
Contemplazione grata
In altre parole, la lectio prosegue, prosegue con quella preghiera della sera che
è posta al termine del giorno del discepolo.
Potremmo addirittura dire che è più
lectio quella della sera, che non quella del
mattino. Perché? Perché al termine della
giornata il credente ha di fronte a sé non
solo la Parola, ma la Parola più gli eventi del
giorno nei quali la Parola stessa s’è compiuta, come prima abbiamo visto, dunque
una Parola più chiara e comprensibile, più
evidente nel suo significato, più bella da
contemplare, più viva e vivente.
È, in effetti, il momento della contemplazione. Di quella cognitio vespertina o visione
nuova, serale, forse notturna, comunque
conclusiva della giornata, in cui la luce
s’oscura, il sole scompare, le voci tacciono,
certe tensioni s’allentano, ed è un’altra la
luce quieta che illumina gli occhi e rende
mente e cuore capaci di intus-legere.
è la tipica contemplazione dell’apostolo,
contemplazione piena di gratitudine per
quanto il Signore ha rivelato di sé, ma anche
contemplazione ruspante, terra terra, intrisa
di storia, di vicende umane, di domande
magari rimaste inevase, di ansie che si sono
riversate nel cuore dell’apostolo, ma tutto
questo è ora lasciato aperto alla potenza
della Parola e della Parola-del-giorno, è luogo misterioso di grazia, per una rivelazione
ancora non del tutto chiara, per certi versi
opaca, ma quanto basta perché l’apostolo
vi scorga il seme del Regno che sta per
venire, i germi di quella salvezza che si sta
per compiere.
«Buonanotte, mio Dio»
E allora può pregare con Simeone: «Ora
lascia, Signore che il tuo servo vada in pace,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza… » (Lc 2,29-30). Simeone pregò così
al termine della sua lunga vita, dopo aver
finalmente «visto» la salvezza; il discepolo
della Parola prega così al termine della
sua giornata, di ogni giornata, perché ogni
giorno vissuto alla luce della Parola è per
lui giorno in cui si compie la salvezza. È la
maturazione e maturità della fede, favorita
dall’intelligenza delle Scritture: gli occhi
e tutti i sensi si sono resi attenti, cuore e
mente son sempre più intelligenti, capaci di
«leggere dentro» il mistero, la persona intera
sempre più docibilis per lasciarsi formare
ogni giorno dalla Parola-del-giorno.
E così il cantico del vecchio credente
che saluta la vita diventa simile alla buonanotte che il credente di oggi rivolge a Dio
con cuore grato; come la lectio matutina è il
buongiorno di Dio, così la lectio vespertina o
nocturna è la buonanotte del discepolo. La
giornata è proprio finita, attraversata dalla
Parola che s’è compiuta in essa.
E l’animo è pieno di gioia, quella gioia
serena e distesa che concilia il sonno e
prepara una nuova giornata, in cui un’altra
Parola si compirà.
Pace e distensione
L’apostolo che ha faticato tutta la giornata non potrebbe concludere diversamente la sua giornata, non potrebbe trovare
altra distensione al di fuori di quella che
gli è offerta dal ritorno a quella Parola che
ha aperto la giornata e che ora vede come
dispiegarsi lungo la giornata medesima,
raccogliendola e dandole un cuore e quasi
illuminarsi così d’una luce nuova.
Questo, ripeto, è distensivo, oltreché
intrinsecamente formativo, perché profondamente rappacificante, armonico, divino e
umano, lineare e coerente (e nulla è distensivo come la coerenza). L’apostolo che ha
annunciato l’evangelo ai piccoli e agli umili
ha bisogno di distensione, di distensione
25
Monastica
vera, del corpo e della mente, al termine
della fatica quotidiana, ne ha diritto.
Nessuno dica, allora, che non fa la preghiera della sera perché è stanco, perché
vorrebbe dire che non ha capito nulla della
natura della stessa preghiera della sera,
e perché sarebbe contraddittorio: proprio
perché è stanco ha bisogno dell’orazione
della lectio vespertina e di quella pace profonda e rilassante che solo dalla Parola può
venire. E stia attento, semmai, a non cercare
forme strane e improprie di distensione a
fine-giornata (dando una sorta di libera uscita, più o meno trasgressiva, a certi impulsi
e istinti, in modi irriflessi, o semplicemente
cliccando e navigando), forme distensive
strane e improprie nel senso che, al di là
dell’esser moralmente rilevanti, non sarebbero in linea con la sua identità e verità, e
dunque sarebbero anche incapaci di dargli
quel che lui cerca e che esse sembrano promettergli, non potrebbero mai assicurargli
la vera distensione della mente e del cuore,
ma tutt’al più solo qualche briciola di gratificazione dei sensi, subito bruciata da un
retrogusto doloroso, ma pronta poi a ripresentarsi sempre più esigente e prepotente,
fino a renderlo dipendente.
Altro che distensione, qui nascono piano
piano nuove schiavitù! Ancora una volta, al
di là della virtù o della fedeltà in senso morale, c’è poca intelligenza e molta stoltezza
nella facilità e leggerezza con cui molti non
s’accorgono di questi tranelli finendo per
svendere dignità e libertà personale e per
smarrire la pace interiore.
Verifica di fronte alla Parola
Al tempo stesso la Parola dinanzi alla
quale si conclude la giornata diventa anche
26
verifica molto realistica, punto di riferimento per un esame di coscienza puntuale. Ed
è del tutto logico e coerente con quanto
abbiamo detto: la contemplazione della
Parola che s’è compiuta negli eventi del
giorno, renderà inevitabilmente più chiari
ed evidenti quei momenti della giornata o
quegli atteggiamenti del discepolo che non
hanno consentito alla Parola, per quanto
dipende dall’uomo, di compiersi e operare
salvezza.
D’altronde è nella natura della Parola:
non sei tu che la leggi e contempli, ma è
essa che ti guarda, ti fissa, ti rivolge uno
sguardo tenero e pure severo, ti accusa, ti
ferisce, ti risana, ti salva, ti chiama, ti accarezza, ti trafigge il cuore.
Per questo la Bibbia appartiene a chi
la legge, perché ogni lettore sa che in un
rotolo del libro c’è qualcosa scritto su di lui
e per lui (cf Sal 40,8).
E proprio questo, forse, si sente e scopre ancor più nella preghiera della sera.
E così l’esame di coscienza assume importanza a partire anch’esso dalla
Parola-del-giorno, perché può esser fatto
solo dinanzi a essa, per cui non sarà mai
ripetitivo e scontato (per poi finire per
esser abbandonato come cosa non così
importante), ma mi darà di conoscere
sempre aspetti nuovi della mia povertà e
debolezza.
E così la conoscenza di me, del mio
mondo interiore, cresce assieme alla conoscenza di Dio, della sua Parola, della sua
salvezza.
E si realizza così uno dei primi obiettivi
della formazione permanente: la capacità
di lettura della vita alla luce dell’intelligenza
delle Scritture.
Perché la vita sia «vera».
Carisma cistercense
di M. Hildegard Brem* o.cist.
I
nvitata a presentare il carisma cistercense
come lo viviamo attualmente nell’Ordine
di Cîteaux nei paesi germanofoni, comincio con uno sguardo sulle congregazioni
germanofone e sui monasteri che ne sono
membri. Il mondo cistercense germanofono
di oggi è il risultato di una lunga storia che
ha conosciuto molti avvenimenti dolorosi; in
un mondo che cambia esso pure persiste a
condurre la vita cistercense.
Il nostro Ordine è suddiviso in congregazioni. Nei paesi germanofoni ci sono tre che
costituiscono il legame tra i monasteri, quelle
di Mehrerau, d’Austria e del Purissimi Cordis
(Boemia e Germania dell’Est). I monasteri di
Seligenthal, Marienkron e Helfta non appartengono a nessuna congregazione: sono
sotto la giurisdizione dell’Abate generale.
Il ritmo di vita varia molto tra le diverse
congregazioni e tra i monasteri. Tutti i monasteri della congregazione d’Austria hanno
dei licei e un gran numero di monaci sono
impegnati nelle parrocchie: era il solo mezzo
di sfuggire alla soppressione programmata
da Giuseppe II nel XVII secolo. Non si può
* Abadessa dell’Abbazia cistercense MariasternGwiggen, Hohenweiler, (Vorarlberg) Austria.
immaginare in quali condizioni questi monasteri, all’inizio del XIX secolo, hanno perseverato, bloccati come erano da leggi civili
rigide e dal controllo di uno stato ostile alla
vita monastica considerata inutile. I suddetti
monasteri sono quasi gli unici che esistevano senza interruzione dal XII secolo e costituiscono così il legame tra l’antico Ordine di
Cîteaux e il periodo contemporaneo.
Nel nostro tempo, mentre molti preti
secolari soffrono di solitudine e di sovraccarico di lavoro, questo genere di vita può
attirare delle vocazioni come succede a
Heiligenkreuz nella foresta viennese, ma
esso pone anche dei gravi interrogativi ai
monasteri il cui reclutamento è di lieve entità, ed è il caso più frequente.
Come si può vivere una vita monastica
autentica se, praticamente, non vivono in
comunità che i membri più giovani o i più
anziani. Anche se i mezzi di trasporti moderni come la macchina permette di occuparsi
delle parrocchie vicine pur vivendo in monastero…
Gli altri monasteri germanofoni – maschili e femminili – hanno subito anch’essi una
storia piena di sfide: soppressione o pericolo di soppressione durante la secolarizza-
27
zione decretata da Giuseppe II e i decenni
susseguenti, restrizioni o soppressione al
tempo del nazional-socialismo, restrizioni
o soppressione al tempo del comunismo.
Nessun monastero si è arreso. Speriamo
che la crisi attuale delle vocazioni non riesca
ad estinguere questi monasteri che hanno
sopravvissuto a tutti i terrori della storia!
Monastero di Mariastern-Gwiggen
Il nostro monastero di MariasternGwiggen ha le sue origini nel cantone
svizzero di Thurgovie. I tre monasteri di
monache cistercensi – Kalchrain, Feldbach
e Taenikon – che vi esistevano, datavano dal
XIII secolo.
Dopo secoli di prosperità seguiti da un
tempo di prove durante la Riforma, questi
monasteri sono stati brutalmente soppressi
nel 1848. Il Gran Consiglio di Thurgovie
concesse una pensione a ciascuna monaca
affinché essa potesse ritirarsi nella sua famiglia o presso amici. Lungi dal consentire alla
loro sorte, la maggior parte di esse si lanciò
in una vera odissea per trovare, finalmente
nel 1856, una nuova casa nel piccolo castello di Gwiggen che datava dal XVII secolo,
allora molto malandato. Dodici sorelle di
Kalchrain e Feldbach, alle quali si unirono
un po’ più tardi le monache di Taenikon, vissero là un periodo molto duro, ma fecondo.
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È così che il nuovo monastero di Mariastern
– che si chiama fino ad ora “le abbazie
unite di Kalchrain, Feldbach e Taenikon a
Mariastern” – poté ottenere nel 1861 la sua
approvazione ecclesiastica. Ne seguì un
tempo di prosperità malgrado una grande
povertà materiale e penosi anni durante la
prima e la seconda guerra mondiale.
Malgrado questa lunga storia, la nostra
comunità oggi è giovane. Negli ultimi
trent’anni sono entrate più di trenta giovani.
Così è stato possibile fare una fondazione
nella Bassa-Austria (nord dell’Austria) (19821991). Questo monastero, Marienfeld, a 50
km a nord di Vienna è, dal 2001, un’abbazia
indipendente. Attualmente siamo 25 monache, di cui quattro in formazione.
Come viviamo il carisma cistercense?
Ho posto questa domanda alle mie consorelle, ed ecco alcune risposte:
«Dopo 26 anni di vita monastica sono
profondamente commossa per questo Dio
che è felice in sé e che si è annientato nel
suo Figlio per invitare gli uomini a partecipare alla sua vita e al suo amore. “Dio è
prodigo di se stesso nel suo amore per l’uomo” (Guerrico d’Igny). Il desiderio di Dio è di
donarsi a noi. Per questo Egli ci guarda con
un volto umano, ci abbraccia e ci attira al
suo cuore umano che è, allo stesso tempo, il
cuore di Dio. Tutta la mia vita è una risposta
a questo amore!» (Sr. Colomba).
«Io gioisco di poter attingere l’amore,
soprattutto nella celebrazione della nostra
bella liturgia che posso prolungare nel silenzio della nostra vita – come lo dice san
Bernardo nel commento del Cantico dei
Cantici –, essere la fidanzata che cerca e
trova il suo benamato, e che può rallegrarsi
delle visite del Verbo. Perché è vero: “Colui
che si unisce al Signore non è che un solo
spirito con Lui” (1 Cor 6,17)» (M. Agnese).
«“I cistercensi non cercano tanto Dio,
essi si dedicano a Lui”. Affascinata da
questa frase letta in un libro, ho potuto fare
l’esperienza che Dio mi ha trovata e condotta in questo luogo, un giardino chiuso
(hortus conclusus) dove io posso dedicarmi
a Lui in una vita semplice e nascosta – non
tanto in un luogo sperduto che nel deserto
del mio proprio cuore. Così desidero arrivare
a questo: cuore a cuore con Gesù, a questa
unione intima con il fidanzato benamato di
cui testimoniano i santi e le sante del nostro
Ordine» (Sr. Anastasia, novizia).
Per il momento la foresteria, che può ospitare da 15 a 25 persone, il laboratorio liturgico
e la decorazione delle candele sono il nostro
mezzo principale di sostentamento. Il negozio del monastero è in pieno sviluppo e ci dà
la possibilità di vendere i prodotti del giardino
biologico e del nostro artigianato monastico così come i prodotti di altri monasteri.
Le nostre sorelle (la cui età media è
tra i 40 e i 50 anni) sono molto dinamiche.
Questi ultimi anni, alcune di loro hanno
chiesto, dopo una decina di anni di vita nel
monastero, di poter seguire una piccola
formazione teologica e pratica per essere
capaci di trasmettere i frutti della nostra
vita contemplativa alle persone che cercano un nutrimento spirituale. In questo
modo, è stato possibile arricchire il nostro
programma della foresteria offrendo diverse
attività: gruppi di bambini, di giovani, scambi di giovani mamme, gruppi di preghiera e
di meditazione biblica, accompagnamento
spirituale, ritiri, danza religiosa, guarigione
interiore. Da più di quarant’anni, il 13 di
ogni mese, un gruppo di 200 o 300 fedeli
si riunisce con la comunità per pregare e
celebrare l’Eucaristia per le grandi intenzioni
della Chiesa: il rinnovamento della fede, le
famiglie cristiane, le vocazioni religiose, la
pace nel mondo.
Tutte queste riunioni sono molto apprezzate dai fedeli della zona e la nostra abbazia
è diventata un vero centro di spiritualità.
Inoltre io stessa, da due anni, animo una
settimana di spiritualità cistercense, che
riunisce monaci/monache cistercensi e laici
per studiare e meditare insieme i testi cistercensi. Pensiamo che questi raduni siano
una forma attuale di vivere un’accoglienza
monastica nello spirito di san Benedetto.
Tutte queste attività sono un mezzo per
condividere il nostro carisma cistercense con
quelli che cercano Dio, ma siamo anche molto vigili affinché la vita monastica resti il centro della nostra vita; perciò ogni sorella non
ha che alcune ore di attività pastorali al mese.
In questi ultimi anni, abbiamo anche
scoperto che un numero sempre crescente di persone si sentiva attirata dalla vita
cistercense e desiderava partecipare non
soltanto alla ricchezza della nostra liturgia e
agli incontri di preghiera, ma anche al nostro
lavoro.
Per queste persone è stato redatto un
piccolo regolamento come struttura per
accogliere questi aiuti da svolgere nel giardino, nel negozio e nella foresteria e per
proteggere, allo stesso tempo, la clausura
monastica e la zona di silenzio nel monastero. Siamo tanto riconoscenti a questi ausiliari regolari che diventano sempre più degli
amici, e che sono essi stessi riconoscenti
per i suggerimenti spirituali, la preghiera, la
comunione con le sorelle e per la ricca spiritualità cistercense. Alcuni di essi sono già
diventati oblati cistercensi, altri sono interessati e altre persone cercano un legame
spirituale con il monastero.
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Figure cistercensi
Dovuto a questo interessamento abbiamo fatto un piccolo regolamento per precisare le condizioni di questa oblazione: 1) la
persona deve essere legata al monastero
e alle sorelle; 2) vivere nello spirito della
Regola di san Benedetto e dei Padri cistercensi e ricercare l’accompagnamento delle
sorelle in questa via; 3) aiutare il monastero
secondo le proprie possibilità.
Io penso che la nostra spiritualità cistercense è allo stesso tempo interiore e aperta.
È allo stesso tempo frutto e sorgente di una
vita cistercense equilibrata. Mentre, negli
anni 50, il lavoro agricolo era preponderante
e pesava sulle spalle delle sorelle, la generazione attuale è meno resistente fisicamente
e psichicamente. Dopo il concilio Vaticano
II, c’è stato un nuovo interesse per la nostra
ricca spiritualità, interesse di cui uno dei
primi frutti è stata la riorganizzazione della
nostra vita in favore della lectio divina e della
preghiera silenziosa.
Quali sono le sfide e le difficoltà da
superare? Viviamo in un paradiso di armonia e di pace? Sì e no. Sì, perché le sorelle,
in generale, fanno l’esperienza che il ritmo
della vita monastica, la comunione con Dio
e con le sorelle le trasformano sempre di più
e le aiutano a vivere meglio la loro risposta
a Dio. No, perché anche il nostro difficile
tempo ha lasciato le sue tracce nel cuore
delle sorelle. Più che una volta, esse hanno
bisogno di accompagnamento, di dialogo
e di guarigione interiore. In tutta la misura
del possibile, io do loro la possibilità per
tutto ciò.
La nostra spiritualità cistercense è molto
ricca, ma ho l’impressione che ci manchi
spesso l’esperienza pratica per applicare la
fede nella vita concreta. Per far fronte a questa situazione siamo state aiutate parecchie
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volte da esperti nello stesso tempo spirituali
e psicologi.
Un altro punto diventa per noi sempre
più importante: stiamo cercando delle nuove
forme di obbedienza monastica, dialogando
sulle questioni che vengono poste e che
riguardano tutte le sorelle. E abbiamo fatto
l’esperienza che è molto più facile obbedire
a un superiore che ci dice la volontà di Dio
che cercare insieme questa volontà. Questo
porta frutti solo se impariamo ad ascoltarci
le une le altre e se siamo pronte a riscoprire
la mutua obbedienza, cioè se il nostro cuore diventi abbastanza aperto per lasciare
entrare anche le altre con le loro opinioni e
le loro esperienze. Siamo ancora delle principianti in questa via. Questo ascolto non si
impara in un solo giorno. Anche qui siamo
riconoscenti per la mediazione degli esperti
che ci insegnano e ci aiutano quando ci
sono delle questioni delicate da trattare.
Io stessa sto seguendo un corso pratico
che mette insieme la spiritualità e la dinamica di gruppo per poter meglio guidare
la comunità. Penso che questi sforzi fanno
anche parte della spiritualità cistercense. La
vita fraterna di cui i nostri Padri cistercensi,
soprattutto Baldovino di Ford, sono i maestri e i testimoni, è nello stesso tempo un
dovere e un dono che richiede cure tutti i
giorni… Sì, il nostro monastero è una scuola, una scuola del servizio al Signore come
dice san Benedetto, una scuola dell’amore
come dice san Bernardo. Desidero che
attraverso questa scuola, Cristo ci conduca
tutti insieme alla vita eterna!
Da Collectanea Cisterciensia, tomo
70-2008-4, con la dovuta autorizzazione.
Traduzione dal francese di
Sr. Anna Grazia Loredan
Un giovane Santo per i giovani
Rafael Arnáiz Barón
di Sr. Patrizia Girolami* o.c.s.o.
«Solo hay una cosa: Dios»
S
e i Santi sono gli amici degli uomini, presto avremo un nuovo amico.
Soprattutto i giovani lo avranno. Un amico
in cielo e sulla terra. Uno che ci capisce, che
sa indicarci la via.
Un compagno di strada che conosce la
meta e il cammino, a cui ci si può rivolgere
certi che non ci negherà l’aiuto, perché questo fanno i veri amici, i Santi.
Un giovane amico, un amico dei giovani,
con cui i giovani non potranno che far subito
amicizia.
Un giovane dalla tempra forte, anche se
dalla salute debole, un giovane che certamente avrebbe fatto amicizia con una altro
nostro giovane santo: il Beato Pier Giorgio
Frassati.
Come lui brillante, amante della vita, dello sport, della bellezza, come lui conquistato
dal volto bello di Cristo, come lui stroncato,
in giovane età, da una grave malattia: l’uno
*
Monaca del Monastero Trappista N. S. di San
Giuseppe, Vitorchiano (VT).
nel servizio della carità e nell’associazionismo cattolico nella Torino dei primi decenni
del secolo scorso, l’altro nel servizio divino
della lode e nell’offerta totale di sé nella
Trappa di S. Isidro de las Dueñas, a Siviglia.
Stiamo parlando del Beato Rafael Arnáiz
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Barón, che il prossimo 11 ottobre Benedetto
XVI eleverà alla dignità degli altari. Il giovane
santo, il nuovo amico è lui.
Chi è, dunque, Rafael Arnáiz Barón e
perché dovrebbe diventare amico dei giovani? Molto è già stato detto di lui, soprattutto in lingua spagnola. Perciò ci limitiamo
soltanto a richiamare, qui, tre tratti della
sua figura che lo rendano familiare, amico,
anche a nuovi amici italiani.
Prima di tutto Rafael Arnáiz Barón è un
giovane, che, come è stato scritto, «fu e non
poté essere nient’altro che giovane», «giovane per sempre», dal momento che la sua
vita si consumò nell’arco di soli 27 anni. Un
giovane la cui giovinezza, nel fiorire dei suoi
anni, è potentemente segnata dall’incontro
con Cristo.
difficile e piena di spine; non m’importa se
tu chiedi che io muoia con Te sulla Croce…
Vengo, Signore, perché sei tu che mi guidi, sei tu che mi prometti una ricompensa
eterna, sei tu che perdoni e che salvi…
sei tu l’Unico che ricolma l’anima mia.
Allontanatevi preoccupazioni di quello che
mi potrà capitare nel futuro; allontanatevi
paure umane, perché – dato che è Gesù di
Nazareth colui che guida – che cosa c’è da
temere? Non ti pare, fratello, che lo avresti
seguito e che non ti sarebbe importato di
nessuna cosa al mondo e neppure di te
stesso”?
Ebbene è proprio questo che capita
a me: sento ben dentro all’anima questo
sguardo di Gesù…, sento che niente al
modo mi colma, che… soltanto Dio, soltanto
Dio, soltanto Dio!».
«Se tu vedessi che Gesù ti chiama e ti dà
un posto nel suo seguito, e se lui ti guardasse con quei suoi occhi divini che irradiano
amore, tenerezza e perdono, e ti dicesse:
Perché non mi segui?
Tu che faresti? Forse gli risponderesti:
“Signore, ti seguirei […] se fossi sano e forte
per bastare a me stesso…”
No. Certo se tu avessi visto la dolcezza
degli occhi di Gesù, non gli avresti detto
niente di tutto questo, non avresti fatto altro
che alzarti dal tuo letto senza pensare alle
tue cure né a te stesso.
Ti saresti unito – pur essendo l’ultimo,
nota bene: l’ultimo! – alla comitiva di Gesù,
e gli avresti detto: “Vengo, Signore, non
m’importano le mie sofferenze, né la morte,
né il mangiare, né il dormire: se tu mi accetti,
vengo.
Se tu vuoi, puoi guarirmi… Non m’importa se la strada per cui mi porti è scoscesa,
Quando scriveva queste parole, Rafael
era ormai colpito dalla malattia, ma ciò che
rinnovava era il sì alla sequela di Cristo che
già aveva detto, quando per la prima volta
gli aveva rivolto l’invito a seguirlo.
Studente di architettura, intelligente,
affabile, aperto, socievole, brillante in compagnia, amante della vita, era allora, intorno ai vent’anni, che nel segreto del cuore
doveva aver avvertito il fascino irresistibile
di quell’incontro.
Allora, quando, fra gli impegni dello
studio, delle lezioni, delle relazioni che scandivano la sua vita di giovane a Madrid,
trovava modo e tempo di iniziare la sua giornata con la Messa e di concluderla davanti
al Santissimo, quale «Socio Attivo della
Adorazione Notturna» di Oviedo.
Allora certamente il Signore si era affacciato nella sua vita, o forse vi era prepotentemente entrato, allora aveva incontrato il
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suo sguardo, e allora la sua vita si era allargata e dischiusa a quell’orizzonte di amore
e di pienezza che soltanto Dio poteva dare.
Solo Lui e nient’altro.
Solo Lui e nessun altro. Solo Dios, come
avrebbe amato ripetere con un ritornello che
scandisce tutta la sua esistenza.
Ricordando i motivi che lo avevano
spinto a dire quel «vengo» al Signore, e poi
a seguirlo nella vita monastica, egli dirà,
infatti:
«Non fuggii il mondo […] perché fossi
rattristato nel costatare che esso non mi
dava che menzogna e inganni […]. Il mondo
non mi ha ingannato nemmeno una volta
[…]. Ero appena all’inizio della vita, poiché
21 anni non credo che comportino un’esperienza tale da consentirmi di dire enfaticamente e con voce sonora: Me ne vado in un
chiostro perché sono disingannato dalla vita
e con aria compunta mi ritiro nella solitudine
monastica a piangere sui miei peccati. Nulla
di tutto questo.
La vita mi fioriva, mi accarezzava, e Dio
mi lusingava […]. Ho un carattere allegro,
godevo della musica e della natura; non ho
avuto difficoltà a conoscere il mondo: l’ho
visto da vicino».
«E allora perché me ne andai alla
Trappa?» – continuava. «Non appena mi
avvidi che il piacere del corpo e tutte le sue
cure, altro non erano che un po’ di fango,
concentrai la mia attenzione sull’anima che
è immortale […]. I desideri e l’impegno per
divenire, un giorno, un buon architetto li ho
mutati con il desiderio di assicurarmi un
posto in cielo, amando Dio».
Un guadagno, dunque, e non una perdita, quello che porta Rafael al monastero.
Il guadagno più alto, l’investimento di sé, di
tutte le risorse della sua umanità e della sua
giovinezza sul tesoro prezioso e inestimabile, vero centro della vita: l’amore di Dio che
non delude.
Perché Rafael Arnáiz Barón, ed è il
secondo tratto della sua persona che richiamiamo, non è solo un giovane, è anche un
giovane monaco.
O almeno avrebbe voluto esserlo, se la
malattia non glielo avesse impedito, consentendogli di abbracciare la vita monastica
soltanto come semplice oblato, anche se
con frutti di santità.
È un giovane che nella vita monastica
intravede la possibilità di un’esperienza
radicale d’incontro con Dio che non uccide
e non mortifica la giovinezza, al contrario
la esalta e la fa fiorire, perché la afferra al
cuore e ne dischiude tutte le sue infinite
potenzialità.
Per questo, lasciati gli studi di architettura, all’età di 23 anni, entra nel monastero
trappista di San Isidro de las Dueñas, dove
quel «profitto» intravisto, o piuttosto la perla
preziosa, è subito confermato: «Neppure un
milione di mondi carichi di ricchezza valgono
quanto l’atto di amore del più umile oblato
trappista.
Il mondo dice al monaco: Sei pazzo,
abbandoni tutto e ti trovi contento del nulla.
Risponde il monaco: Lascio tutto ciò che è
nulla per possedere tutto: in verità qui non
ho nulla: né volontà, né libertà, ma in cambio
ho Dio che tu, mondo, non puoi darmi».
La «volontà» e la «libertà» di cui Rafael
sta parlando sono soltanto l’illusoria affermazione di sé come centro della propria
vita e criterio ultimo del proprio agire al
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posto della quale il giovane monaco scopre
la forza autenticamente liberante dell’appartenenza totale ed esclusiva a Dio e della
suprema «follia» dell’amore.
Lo scambio è davvero vantaggioso:
lasciare quello che apparentemente sembra
tutto, ma che è nulla, per avere ciò che davvero è tutto, la pienezza di vita che è dono
di Dio.
Per questo, come rivelano le lettere degli
inizi e le memorie della più tarda Apologia
del trappista, non esita anche ad abbracciare con gioia ed entusiasmo le nuove abitudini di vita (il lavoro in campagna, le alzate notturne per la preghiera, il cibo semplice), per
molti aspetti del tutto inusuali per un giovane
borghese qual è, ironizzando anche bonariamente su di sé, come quando si paragona,
divertito, ad un clown del circo che, nel fare
tutto quello che può, «trascina i piedi e si
asciuga il sudore col suo enorme fazzolettone», guadagnandosi con ciò gli applausi
degli Angeli, che dal cielo ridono di lui.
Ma passano appena quattro mesi, e la
vita di Rafael è segnata da un nuovo evento e da una nuova chiamata: quella della
malattia e della sofferenza.
Rafael Arnáiz Barón, è infatti, un giovane, sì, e un giovane monaco, ma è anche
un giovane che conosce profondamente
l’esperienza del dolore e della sofferenza.
Ed è questo il terzo tratto della sua persona
che vogliamo far risaltare.
Una grave forma di diabete, che in pochi
giorni gli fa perdere 24 chili e che necessita
di cure particolari, lo costringerà più volte a
lasciare il monastero, finché non vi ritornerà,
come oblato, per trascorrevi gli ultimi mesi
della sua breve esistenza.
Di questi ultimi mesi ci resta un piccolo
e prezioso diario, Dio e la mia anima, che
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raccoglie la sua più profonda esperienza
spirituale e lascia intravedere i moti del suo
animo nel tratto finale del cammino che lo
conduce alla meta.
Fra luci ed ombre, la forza segreta che
illumina la malattia e la sofferenza e dà
senso ad ogni gesto, è una sola: la Croce
di Cristo.
«Che cosa ho fatto, Signore? […]
Attaccato alla tua Croce, sono entrato in
Capitolo… Ai piedi della tua Croce, ho
consumato il cibo di cui ha bisogno la mia
povera natura…
Ai piedi della tua Croce insanguinata
trovo la consolazione di scrivere queste
righe: Non permettere che io sia separato
da Te […].
Quale gioia poter vivere ai piedi della
Croce! […]. Là si dimentica tutto, non vi
è desiderio alcuno di essere felici, nessuno pensa ai propri guai… Vedendo le tue
piaghe, Signore, un pensiero solo occupa
l’anima mia… L’Amore… sì, l’amore per
asciugare il tuo sudore; l’amore per addolcire le tue ferite; l’amore per alleviare un così
immenso dolore.
Non permettere, Signore, che da Te io
sia separato […].
Lasciami, Signore, vivere ai piedi della
tua Croce… il giorno, la notte, nel lavoro, nel
riposo, nella preghiera, nello studio, mangiando, dormendo… sempre… sempre».
Non è fra le parole più comuni in uso nel
vocabolario del nostro tempo, in cui dolore
e sofferenza minacciano e spaventano, la
parola «Croce». Eppure questa è la vera
scuola per il giovane Rafael: «È da poco
tempo che ho conosciuto la dolcezza della
sequela di Cristo, ma è nella Croce che ho
sempre trovato consolazione. È nella Croce
che ho appreso quel poco che so».
E al fratello scriverà: «Se il mondo sapesse quanto si può imparare stando ai piedi
della croce».
E che cosa ha imparato Rafael ai piedi
della Croce? Ai piedi della Croce ha innanzitutto vissuto al massimo grado l’amore di
Dio, l’ha sperimentato anche nella propria
carne, nel proprio corpo, rinnovando ancora, quotidianamente, il suo sì e la sua adesione personale, unendosi al Lui, attraverso
l’amore e l’oblazione del Figlio. Ai piedi della
Croce ha imparato quello che noi oggi facciamo fatica ad imparare: che tutta la vita è
abbracciata e illuminata di senso da Cristo,
tutta, niente escluso.
Non escluso il dolore, non esclusa la sofferenza, non esclusa la morte, che è ciò che
più d’ogni altra cosa l’uomo teme.
Ha imparato che la sofferenza non è
un limite né un passaggio da evitare, ma
piuttosto la via che compie fino in fondo
la propria esistenza perché diventa il luogo
concreto in cui e riconoscere e incontrare
l’amore di Dio.
Ha avuto la certezza, ai piedi della
Croce, che nulla era sottratto della sua vita
e della sua giovinezza, fino a pronunciare
parole che lascerebbero sconcertati se non
fossero la testimonianza che proprio l’esperienza della sofferenza è il punto più altro
dell’incontro con Dio, la misura che Egli
riempie del suo amore: «Come si vive bene
soffrendo!... accanto a Te sulla tua Croce…
[…] Ah, se io potessi dire al mondo dove si
trova la vera gioia! Come è dolce vivere così,
con Dio solo nel cuore! Quale dolcezza infinita vedersi pieni di Dio […]. Dio solo colma
l’anima… e la colma tutta intera».
Ed è perciò ai piedi della Croce che il
Beato Rafael ha imparato anche il segreto di
quella santità che ora la Chiesa gli riconosce
e che propone a modello per tutti:
«Se mi si dicesse dettagliatamente quel
che devo fare per essere santo e gradito a
Dio, credo che, con l’aiuto di Dio e di Maria,
lo farei assolutamente.
Con Gesù al mio fianco, nulla mi pare difficile e il cammino della santità mi sembra di
volta in volta più facile. Ho l’impressione che
esso consista più nel togliere delle cose che
nell’aggiungerne e diventa a poco a poco un
cammino di semplicità, più che complicarsi
con cose nuove aggiunte».
Un «cammino di semplicità» che consiste nell’avvicinarsi sempre più «all’unico
amore, all’unico desiderio, all’unico scopo
di questa vita», nell’esperienza quotidiana,
resa viva e autenticata dalla sofferenza,
che Solo Dios basta: «Sei tu, mio Dio, che
riempi la mia anima; sei Tu la mia gioia; sei
Tu la mia pace e la mia serenità.
Sei Tu, Signore, il mio rifugio, la mia
fortezza, la mia vita, la mia luce, la mia consolazione, la mia Unica verità e il mio Unico
Amore. Sono felice, ho tutto!».
Questa la parola che il giovane fra Rafael
ci lascia: la bellezza di aver consegnato a
Dio la propria esistenza e di aver ricevuto
da Lui il centuplo.
E per questo crediamo che egli potrà
diventare facilmente amico dei giovani, che
più di altri avvertono in sé la domanda di
pienezza e di felicità per la propria vita.
Ma, ne siamo certi, San Rafael non sarà
solo l’amico dei giovani, i santi non fanno
preferenze, e chiunque vorrà, troverà aperto
il suo cuore, amico di tutti.
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Figure cistercensi
Cronologia della vita
1911 1913 1919 1920 1921 1922 1930 1934 nasce a Burgos il 9 aprile
il 1° dicembre riceve il sacramento
della Cresima
il 25 ottobre fa la Prima Comunione
entra nel Collegio de la Mercede
dei Gesuiti; si ammala di febbri
coli-bacillari e successivamente è
colpito da una grave pleurite
ristabilito, è offerto dal padre alla
Vergine del Pilar
la famiglia si trasferisce nella città
di Oviedo, dove continua la sua
formazione nel Collegio S. Ignazio
dei Gesuiti
è ammesso alla Scuola Superiore
di Architettura di Madrid e visita
per la prima volta monastero di San
Isidro de Dueñas
il 15 gennaio entra nel noviziato di
S. Isidro; il 26 maggio, per decisio-
ne dei superiori, torna a casa per
curare la grave forma di diabete
sopraggiunta
1936 l’11 gennaio rientra in monastero
come oblato
1936 il 29 settembre esce di nuovo,
richiamato sotto le armi durante la
causa civile spagnola (1936-1939),
ma dichiarato inabile, il 6 dicembre,
ritorna al monastero
1937 il 7 febbraio la malattia si aggrava
ed è costretto di nuovo a lasciare
il monastero, ma il 15 dicembre ritorna definitivamente a San
Isidro
1938 il 26 aprile muore in odore di santità
1989 il 7 settembre viene promulgato il
decreto sull’eroicità delle sue virtù
1992 il 27 settembre è beatificato da
Papa Giovanni Paolo II.
Madre Maria Pia Gullini
e Suor Maria Gabriella*
*
di Sr. Maria Paola Santachiara ** o.c.s.o.
L
a tradizione cistercense, con la sua
spiritualità così ricca e così impregnata
di umanità, non arriva a noi solo tramite dei
testi, ma attraverso una storia. La storia è
Per conoscere Rafael Arnáiz Barón
(testi in italiano)
P. Beltrame Quattrocchi, Nel fascino dell’assoluto. Rafael Arnàiz Baròn, Edizioni del deserto,
Napoli 1992
R. Arnàiz Baròn, Dio e la mia anima. L’ultimo opuscolo (febbraio 1937 – aprile 1938), Abbazia
Benedettina “Mater Ecclesiae”, Isola San Giulio, traduzione italiana a cura delle monache del testo Dieu et mon ame. Le dernier cahier (février 1937-avril 1938), pubblicato in
“Collectanea Cisterciensia” 62 (2000), curato da X. Morales
A. Feliz, Il Beato Rafael Arnàiz Baròn, in AA. VV. Testimoni cistercensi del nostro tempo,
Trappiste-Vitorchiano 2006.
36
Madre Maria Pia Gullini
*
Conferenza tenuta a Vitorchiano nel 50° anniversario della morte di Madre M. Pia Gullini – 29 aprile
2009.
** Monaca del Monastero Trappista N. S. di San
Giuseppe, Vitorchiano (VT).
la nostra grande maestra. Quando parlo di
storia non parlo di eventi, ma di persone.
Perché sono le persone che costituiscono lo
spazio storico in cui ci muoviamo.
Come potrà mai una comunità pensare
alla Gerusalemme celeste senza pensare
di rivedere il volto delle sorelle che hanno
servito la Gerusalemme terrestre, nell’umile
gioia della loro donazione?
E che l’ hanno costruita con la loro quotidiana fedeltà?
Noi tutte siamo debitrici di umanità e
santità a coloro che ci hanno preceduto1.
Sappiamo che Maria Sagheddu arrivò
al monastero di Grottaferrata il 30 settembre 1935. Così la sua badessa, Madre Pia,
descrive, negli appunti stesi per Madre
Maria Giovanna Dore, l’autrice della prima
biografia di Suor Maria Gabriella, il suo
primo incontro con lei in parlatorio e le sue
prime impressioni.
1) M. Cristiana Piccardo, Pedagogia viva, Jaca Book,
Milano 1999, pp.33-34
37
«Arrivò il 30
settembre – 21
anni – fine e fresca, coi grandi
occhi profondi e luminosi.
L’anima traspariva pura e piena
di stupefazione
dinanzi al mistero della Casa del
Signore, della
vita religiosa…
La Madre, dopo
Sr. Maria Gabriella
qualche colloquio, intuì la profondità di quell’anima, rilevò
una memoria non comune, per non dire
singolare, un’intelligenza ampia, un senso di
equilibrio riposante.
Umile, bambina nell’anima, beveva la
prima acqua e se ne impregnava. La vita
della Trappa, con il suo mistero di silenzio,
la sua preghiera di lode, le sue cerimonie
di corte, le sue penitenze col Cristo vittima,
era vita tutta d’amore, era conversazione
con Quei di Lassù, era prezzo di anime, era
vita di Paradiso, ma morte di sé; la morte,
condizione assoluta per questa vita angelica
nell’invisibile e nell’attività. Afferrò subito e,
con la sua forte volontà, abbracciò silenzio e
rinunzia di sé per seguirlo, Lui il suo Signore,
che l’avrebbe poi trovata degna di portare la
sua croce»2.
Parole, queste, che già in germe riassumono tutta una vita e che pian piano nel
solco di una amorosa fedeltà quotidiana
porteranno al compimento di una vocazione
d’amore e di offerta.
2) M. M. Pia Gullini, Appunti della Rev. Madre su
Suor Maria Gabriella – Archivio di Vitorchiano.
38
Da parte sua, Maria scrive nella sua prima lettera alla mamma:
Alla mamma darà la notizia qualche
mese più tardi in questi termini:
«Se sapeste quanto è buona la Rev.
Superiora! Mi sembra una madre celeste e
non terrena, tanto son buoni i suoi consigli
e le parole, e anche la Madre Maestra, con
la quale ho parlato oggi, é molto buona. Se
sentiste cantare le sorelle del coro direste di
sentire tanti angeli e non persone. Tutto qui
spira pace e tranquillità e io spero, coll’aiuto
del Signore, di trovarmi benissimo»3.
Un’altra grazia ancora mi ha concesso
il mio celeste sposo. La Rev. Madre mi ha
messa fra le coriste a cantare giorno e notte
le lodi di Lui, e questa grazia non mi è stata
concessa adesso, ma dal primo giorno che
io sono entrata in comunità. Sapendo io
però che sono poco adatta per il canto, non
vi ho scritto niente, non sapendo come sarei
andata a finire5.
Frutto immediato della prima impressione suscitata dalla postulante dorgalese sulla
Badessa, fu la sua libera decisione, fin dal
primo giorno, di annoverarla fra le monache
di coro, cosa che la colmò di confusione,
pensando alle sue amiche di Dorgali che
erano tutte converse, e di timore, sapendo di
non avere pienamente le doti canore necessarie per assolvere un tale compito ma, al
tempo stesso, di riconoscenza per il dono
immeritato di cantare le lodi del Signore. Così
si esprime dandone la notizia a Don Meloni:
Madre Pia, poi, così descrive, nelle risposte ad alcune domande di Gaston Zananiri6,
l’autore della prima biografia francese di
Gabriella, il suo aspetto fisico:
«Egli mi ha voluta più vicina a sé, perché la Rev. Madre mi ha messa al coro per
salmeggiare e cantare le sue lodi. Debbo
essere molto riconoscente e ringraziare per
questa grazia speciale accordatemi; ma Lei,
Rev. Padre, può immaginare quanto mi trovi
confusa, io che non ho mai saputo che cosa
volesse dire musica e canto. Nondimeno,
faccio tutto il possibile per studiare e spero
che Gesù, se proprio mi vuole, mi aiuterà»4.
3) Lettera del 2 ottobre 1935, in Mariella Carpinello
(a cura di), Gabriella dell’Unità (Beata Maria
Gabriella Sagheddu), Lettere dalla Trappa, San
Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2006, pp. 48–49.
4) Lettera del dicembre 1935, in Carpinello, op. cit.
pp. 53–54.
«Era bella, ma la sua modestia la nascondeva come un velo anche prima di entrare.
Fronte larga, occhi bellissimi, luminosi, profondi nello sguardo, ma di una trasparenza
tale che, quando veniva a trovarmi, si aveva
l’impressione di vedervi l’anima…
La bocca era piuttosto larga, ma il suo
sorriso aveva una dolcezza, una bellezza sorprendente e scopriva una dentatura
regolare, bianca e sana che manifestava
giovinezza e salute. Il mento era largo e
molto volitivo.
Il suo profilo di tre quarti era classico e
talvolta il mio occhio, un po’ d’artista, ne
restava ammirato. Mi sembrava di rivedere
i gessi di cui dovevo rifare il disegno durate
gli anni di studio quando ero giovane»7.
Continuando la lettura di alcune di queste risposte si può rilevare la loro finezza
psicologica nello studio della personalità di
Suor Maria Gabriella e l’amore materno con
cui Madre Pia ha accompagnato, collaborando con la grazia del Signore, questa sua
figlia d’elezione, che altro non le chiedeva
che di aiutarla ad amare sempre più Gesù
con tutta se stessa. Leggiamo nei ricordi di
Madre Carla:
«Mi confidava la Rev. Madre Pia che
quando le si presentava Suor Maria Gabriella
per la conferenza in particolare, era breve,
ma prima di congedarsi, col capo chino e
facendosi rossa in viso per la timidezza, nel
chiederle la benedizione le diceva: “Grazie,
mia Rev. Madre, mi aiuti ad amare sempre
più Gesù”»8.
E così Madre Pia nelle «Risposte» a
Zananiri:
6) Gaston Zananiri, Dans le Mystère de l’Unité. Maria
Gabriella, Casterman, Tournai–Paris, 1955.
«Non diceva quasi niente, ma il suo dono
totale, la sua docilità voluta e assoluta, la
calma, l’equilibrio, l’umile riconoscenza,
l’affetto purissimo e filiale, tutto questo si
leggeva nei suoi occhi e si leggeva così
bene, che io stessa non trovavo niente da
dire o molto poco».
«A questo proposito ricordo che mentre
facevo il ritiro annuale alla fine di ottobre del
1938, ritiro in cui la Superiora non parla alla
comunità, la vidi entrare in coro per la visita
al Santissimo, mentre la comunità era al
lavoro. Mi ricordai che quel giorno, 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, e nel 1937 festa di
Cristo Re, era l’anniversario della sua professione. C’era l’uso che le giovani monache
7) M. M. Pia Gullini, Réponses à des demandes faites par M. Zananiri, qui écrivait la biographie de Sr.
M. Gabriella, 1953 – Archivio di Vitorchiano.
8) Madre Maria Carla Valtorta, Memorie, Archivio di
Vitorchiano.
5) Lettera del 29.3.1936, in Carpinello op. cit. pp.
58–59.
39
che lo desideravano, andassero dalla Rev.
Madre per l’anniversario della professione e
rinnovassero i voti. La piccola era da 5 mesi
in infermeria.
La Madre la chiamò e uscì, facendole
segno di seguirla. Suor Maria Gabriella ne
fu felice. Ripeté la formula dei voti con le
mani nelle mani della Badessa, ne ricevette
l’abbraccio rituale con la risposta: “Dio ti dia
in ricompensa la vita eterna”.
Lei non aggiunse una parola, ma i suoi
begli occhi luminosi e il suo sorriso incantevole esprimevano a meraviglia la sua gioia e
la sua riconoscenza.
La Madre cercò un’immagine e gliela
diede, lei pure senza dir parola, e la guardò
allontanarsi con il suo modo semplice, umile, e pur tuttavia dignitoso. Rimase stupita
ed edificata di quel silenzio che la spingeva
ad ammirare ancora una volta il profondo
spirito cistercense che si rivelava più con atti
che con parole»9.
Varie sono le testimonianza che ci parlano inizialmente di una certa «severità» della
Madre nei confronti di Gabriella. Madre Pia
stessa ce ne dà conferma nei suoi appunti.
«Per l’istinto che stupiva essa stessa, la
Madre fu quasi sempre severa con essa,
cercando di far montare quell’anima, squisitamente femminile, dritta verso il cielo, dritta
e forte, e presto.
Era esigente; spingendo alle altezze
ignorava la volontà ferrea dissimulata sotto
quella sensibilità. La conobbe solo dopo la
grande prova dell’ospedale. Allora la Madre
si chinò su quel fiore e con devozione,
con rispetto, con timore sacro l’avvolse di
9) M. M. Pia Gullini, Réponses…
40
soprannaturale affetto, e Madre e figlia si
intesero»10.
E ancora la Madre Dore:
«Senza lasciarle capire la sua tenerezza
intuitiva, trattandola anzi, un poco severamente, la Madre considera Suor M. Gabriella
come un vaso d’alabastro che il Signore ha
portato là perché gli versi sui piedi tutto il
suo profumo»11.
Madre Pia, poi, nelle risposte a Zananiri
spiega il motivo di questa sua «severità» iniziale:
«Pur essendo materna, all’inizio avevo
paura che il suo affetto per me divenisse
troppo vivo (allora avevo circa 42 anni).
Volevo che questo fiore, dal gambo così
dritto, non s’inchinasse, neppure un poco
più del necessario, verso la mano che lo coltivava. Dopo il ritorno dall’ospedale, ormai
sicura di lei, le nostre relazioni diventarono
molto intime sul piano spirituale»12.
Prendendo in esame le lettere scritte da
Suor Maria Gabriella a Madre Pia dall’ospedale, quelle che ci sono rimaste, mentre
sono andate perdute quelle scritte dalla
Madre13, vediamo come la corrispondenza
10) M. M. Pia Gullini, Appunti…
11) Maria Giovanna Dore, Amore e sacrificio per
l’Unità della Chiesa. Suor Maria Gabriella della
Trappa di Grottaferrata, Pia Società S. Paolo, 1940,
p. 35
12) M. M. Pia Gullini, Réponses…
13) M. M. Pia Gullini: “Non ho nessuna traccia
o ricordo delle mie lettere a Sr. Maria Gabriella,
che può averle strappate lei stessa al suo ritorno
dall’ospedale. Soltanto per un caso dovuto alla
Provvidenza, ho conservato le sue, ma una o parecchie si sono perdute” – in Réponses…
fra di loro diventa frequente, confidenziale,
improntata a un crescendo di affezione
filiale, di fiducia amorosa e riconoscente,
sincera, pur nella sofferenza e nella lotta per
l’obbedienza a ciò che le veniva chiesto.
Il «Rev. Madre» dell’intestazione della
prima lettera (19.4.1938)14 verrà sempre
sostituito nelle successive da «Carissima
Rev. Madre». Diamo ora una rapida scorsa
ad ogni singola lettera.
Eviteremo di citare le tante bellissime
frasi riportate in questa corrispondenza, che
può essere considerata un piccolo capolavoro di spiritualità semplice e profonda,
e che ben conosciamo, per attenerci solamente a quelle che ci interessano in questo
contesto.
«La ringrazio molto di tutto quello che mi
ha scritto e mandato. Preghi per me, perché
ne ho tanto bisogno.
Certe volte mi domando se il Signore
non mi ha abbandonata; altre volte penso
che Egli prova quelli che ama; altre volte mi
sembra impossibile che Dio possa essere
glorificato da questa vita, ma finisco sempre
con l’ abbandonarmi alla divina volontà. La
saluto di tutto cuore e la prego di benedirmi»
(Lettera del 24. 4. 1938)15.
«… La ringrazio della sua lettera e delle
preghiere che lei e le altre fanno per me. Ne
ho sentito l’effetto perché in questi giorni
sono più tranquilla… Io le auguro buona
festa e tutto ciò che il suo cuore desidera.
Io non ho potuto far nulla per lei, ma offro
le mie preghiere, le mie comunioni e i miei
14) Lettera del 19.4.1938 in Carpinello, op. cit.,
p.90.
15) In Carpinello, op. cit. p. 93.
sacrifici al Signore alla sua intenzione, pregandolo di santificarla sempre più.
Egli ha permesso che quest’anno io non
possa prendere parte alla sua festa. FIAT….
Noi ci ritroveremo in questo giorno nel
Cuore di Gesù» (Lettera del 28. 4. 1938)16.
«… Ieri il buon Padre Cappellano è venuto a trovarmi e mi ha portato la sua cara lettera. La ringrazio molto delle cure che lei ha
per me e la prego di ringraziare anche tutte
le persone che si occupano di me. Il Signore
le ricompensi tutte molto largamente in
cielo. Ho rimpianto molto di averle recato
dispiacere con la mia lettera. Non perderò
tempo a scusarmi; ma le domando perdono
con tutto il cuore. Preghi per me, perché
capisca sempre più il gran dono della croce
e perché ne approfitti d’ora innanzi per me e
per tutti gli altri
Io sento che ora lei mi ama di più e che
anche nel mio cuore aumenta il mio amore
per lei. A questo proposito ho molto sofferto
sia da parte del demonio che mi ha tentato
di giudicare i miei superiori senza cuore,
perché mi lasciano qui, sia da parte di persone che li biasimano per questo. Io non
ho esitato certamente a scacciare queste
tentazioni e l’assicuro che le ho vinte; le dico
questo con semplicità filiale e se potessi
mostrarle il cuore come un libro aperto, sarei
felice di farlo.
Il Signore mi tiene sulla Croce nuda e
io non ho altra consolazione che di sapere
che soffro per compiere la volontà divina in
spirito di obbedienza…
Io non so se converrà cambiare ancora una volta, ma siccome il Signore le dà,
Reverenda Madre,la grazia di vedere più
16) In Carpinello, op. cit. pp. 95-96.
41
lontano che non posso io, lei farà ciò che
giudicherà più opportuno.
…Domani e dopodomani offrirò la mia
giornata per lei, pregando il Signore di benedirla e santificarla sempre più, perché possa
santificare le altre. Mi raccomando alle sue
preghiere, nelle quali ripongo tutta la mia
speranza.
La saluto con tutto l’affetto più filiale e
l’abbraccio di tutto cuore. La sua figlia Suor
Maria Gabriella» (Lettera del 3. 5. 1938)17.
...Ieri ho ricevuto il suo pacco e la sua
lettera e la ringrazio di tutto. Ho saputo la
sua decisione circa il mio ritorno; so che lei
fa tutto per il mio maggior bene; ma non le
nascondo che questo è stato per me doloroso… Sempre la sua figlia che non desidera
che tornare fra le sue braccia. Suor Maria
Gabriella» (Lettera del 10. 5. 1938)18.
«… La ringrazio molto della sua cara
lettera e di quello che mi ha inviato e che
ho ricevuto questa mattina. Grazie delle sue
buone parole e dei suoi consigli. Da molto
mi sono persuasa di non essere che una pigmea nella via dello spirito, perché mi lascio
trasportare da ogni vento che soffia. L’anima
mia si trova qui come smarrita, perché non
ha la sua Mamma (la Badessa) e non una
persona amica, a cui domandare consiglio,
quando essa ne sente il bisogno… Mamma
mia, preghi tanto che non abbia a perdere
qui il mio spirito religioso; io ne ho una gran
paura, la mia più grande paura, perché mi
sento tanto debole e capace di cadere ad
ogni istante.
Il Signore mi aiuterà, perché non abbandona mai coloro che mettono tutta la sua
confidenza in Lui; ma aspetto anche il
soccorso delle sue preghiere» (Lettera del
22.5.1938)19.
A proposito di questa ultima lettera
Madre M. Carla scrive nelle sue «Memorie»:
«Alla Trappa, parlando con la prima
Superiora, si dice sempre “Mia Rev. Madre”.
Suor Maria Gabriella, trovandosi all’ospedale si attiene a questa regola rispettosa
quando scrive alla sua Superiora. Anche
se nell’intestazione delle sue lettere premette “Carissima Rev. Madre”, il tono è
sempre rispettoso. Solo in una lettera scritta
dall’ospedale, e come un po’ smarrita, la
povera figliola si rivolge alla sua Superiora
chiamandola “mamma”. Mi diceva la Rev.
Madre Pia: “Non mi sono mai lasciata chiamare “mamma” da nessuna, ma a sentirmi
chiamare “mamma” da questa cara figliola,
ho provato una grande gioia»20.
Leggiamo nel Prologo della Regola di S.
Benedetto:
«Ascolta, o figlio, i precetti del maestro,
e inchina l’orecchio del tuo cuore e accogli
volentieri gli ammonimenti del tuo padre
amoroso e con ogni potere li adempi affinché tu ritorni per fatica di obbedienza a
Colui dal quale ti eri allontanato per l’accidia
della disobbedienza. A te, dunque, ora si
rivolge il mio discorso, chiunque tu sia, che
rinnegando ogni tua volontà pronto a militare sotto Cristo Signore, vero Re, ti cingi
le robustissime e tersissime armi dell’obbedienza» (Prol. 1-3).
17) In Carpinello, op. cit. pp. 96-98.
19) In Carpinello, op. cit. pp 100-101
18) In Carpinello, op. cit. pp. 99-100.
20) M. M. Carla Valtorta, op. cit. p. 18
42
«... Eccoci dunque a costituire la scuola
del servizio del Signore. E nel costituirla speriamo di non prescrivere nulla di aspro, nulla
di pesante. Ma se qualcosa sarà, per giuste
ragioni un po’ più rigoroso, per emendare
i vizi o custodire la carità, non fuggir tosto
per questo, dominato dallo sgomento, la via
della salute i cui inizi non possono essere
che stretti.
Col progredire poi nella vita monastica e
nella fede è con cuore dilatato ed ineffabile
dolcezza di amore che si corre la via dei
divini voleri; in modo che non dipartendoci
mai dall’insegnamento di Lui, e perseverando fino alla morte nella sua dottrina in
monastero, diveniamo partecipi per mezzo
della pazienza dei patimenti di Cristo, per
poi meritare di essere con Lui nel suo regno.
Amen» (R.B. Prologo, V, 45-50)21.
monastiche»23 – penso sia opportuno dire
ugualmente qualche cosa su Madre Pia
stessa, sull’ambiente che Maria Sagheddu
ha trovato entrando a Grottaferrata, sulla
sua Madre Maestra, Madre Tecla24; persone
e ambiente che hanno contribuito a portare
a compimento il suo desiderio di donazione totale a Gesù Cristo, già inizialmente
forgiato, dall’inizio della sua conversione, a
Dorgali con la sua corrispondenza alla grazia del Signore sotto la illuminata e paterna
guida spirituale di Don Basilio Meloni25, il
quale ha così testimoniato al Processo per
la beatificazione:
È a questa scuola del servizio divino che
Gabriella cresce, una scuola esigente, di
amore totale, indiviso, per il Signore, amato
con tutta se stessa, nella cattiva e nella
buona sorte, in una adesione filiale e sponsale alla Sua volontà, amata, vissuta in ogni
momento e in ogni circostanza.
Sia la comunità di Grotta, sia individualmente Madre Pia e Madre Tecla, devono la loro formazione monastica a Dom
Norberto Sauvage, ex abate dell’abbazia di
Scourmont (Belgio), Procuratore dell’Ordine
Pur rimandando alla lettura dei due bellissimi articoli di Madre Augusta Tescari su
Madre Pia22 – a che l’autrice della biografia
della Madre Dore, Suor Maria Marta Morganti
definisce una «plasmatrice di coscienze
21) S. Regula Benedicti Abbatis,
Viboldone.
Abbazia di
22) Augusta Tescari, “Madre Pia Gullini, fervente
promotrice per l’unità dei cristiani”, in L’Osservatore
Romano, 4 luglio 1999, 5. Idem, “Una grande
badessa del XX secolo: Madre Pia Gullini”, in
L’Ulivo, Rivista Olivetana di spiritualità e di cultura
monastica 2(2006), 3-31.
«Si lasciò guidare completamente e
docilmente dal suo direttore spirituale, cioè
da me, e fu costante nel progresso delle
virtù»26.
23) Maria Marta Morganti, Maria Giovanna Dore,
Morcelliana, Brescia, 2001, p. 189
24) Madre Tecla Fontana, nasce a Milano il 24
aprile 1871. Nel 1888 entra nella Congregazione
delle Suore Missionarie Francescane d’Egitto e
parte subito per il Cairo. Ritorna a Roma nel 1913
ed entra a Grottaferrta il 20 gennaio 1917. Non
accettata per la professione, ne esce nel luglio del
1919 ed entra nel monastero di Chimay in Belgio.
Richiesta da M. M. Pia come Maestra delle novizie,
arriva a Grotta il 20 aprile 1932. Vi fa stabilità il 20
gennaio 1935. Eletta Badessa della comunità per 2
mandati, dal 1940 al 1946, e Superiora ad nutum nel
1951 – 1952, muore a Grottaferrata il 10 novembre
1955.
25) Don B. Meloni (1900 – 1967). Vice-parroco a
Dorgali dal 1925 al 1927 e dal 1930 al 1935, e parroco dal 1939 al 1967.
26) Positio super virtutibus, p.156
43
Trappista a Roma dal 1913 all’anno della
sua morte avvenuta alla casa generalizia l’8
luglio 192327.
Fin dagli inizi della sua permanenza
a Roma, Dom Norberto si occupò della formazione spirituale della comunità di
Grottaferrata di cui fu anche il confessore per alcuni anni. Il pomeriggio di ogni
sabato e la vigilia delle feste si recava a
Grottaferrata rimanendovi fino al giorno
seguente, confessando e dando conferenze. Voleva formare le monache a una solida
spiritualità, alla Sacra Scrittura, alle fonti
della spiritualità cistercense. Dava corsi
alle novizie, ai quali assisteva anche tutta la
comunità28.
Leggiamo nel Diario di Madre Teresa
Bottasso29:
re le cattive erbe. Credo che ha pregato per
me e, qual santo che era, metteva subito
il dito nella piaga, non diceva due volte la
stessa cosa, con lui bisognava camminare
senza fermate. Con tale direttore le mancanze sparivano, si correva, anzi, si volava
nella via della perfezione.
«Siamo nel 1914, nella grande guerra.
Abbiamo avuto la fortuna di avere Dom
Norberto come cappellano.
La prima volta che mi confessai da Dom
Norberto, sentivo una grande ripugnanza
per confessarmi, invece alle prime parole
rimasi confortata, conobbe le buone disposizioni e mise la mano all’opera per strappa-
Ecco la trascrizione di un biglietto di
Dom Norberto a Madre Teresa:
27) Dom Norberto Sauvage nasce il 3 luglio 1876
ad Avesnes-le-Sec (Francia). Il 4 settembre 1894
entra alla Trappa di Scourmont. Eletto Abate della
comunità il 15 gennaio 1902, dimissiona nell’ottobre 1913. Viene quindi inviato a Roma come
Procuratore dell’Ordine Trappista. Muore a Roma
l’8 luglio 1923. E’ sepolto nel cimitero dell’Abbazia
delle Tre Fontane.
28) Armand Veilleux, Dom Norbert Sauvage. L’art de
préparer son successeur - Collectanea Cisterciensia,
63, 2001, pp. 213 – 223.
29) Diario, Archivio di Vitorchiano, p. 16.
Madre Teresa Bottasso nasce a Peveragno (Cn) l’8
gennaio 1881. L’8 settembre 1896 entra a S. Vito
(To). Fa la professione perpetua a Grottaferrata il
13 novembre 1900. Muore a Vitorchiano il 9 agosto
1965, ultima delle monache entrate a S. Vito.
44
Sacro Cuore, 7 giugno 1918
Dietro gli insegnamenti, nella direzione
del mio Padre spirituale farò i più grandi
sforzi per acquistare la vera umiltà; nelle
occasioni reprimere l’orgoglio, sopportare
di non essere compresa, messa a parte,
dimenticata, ripresa a torto, schiacciata, calpestata. Umiliata tacerò senza tante spiegazioni, prontamente mi metterò in ginocchio
dicendo “mea culpa”»30.
Roma, 3 aprile 1919
«Non mi disturba per niente, vengo
con piacere a rendere alla sua anima pace
e slancio nel servizio di Gesù. Lei deve
praticare generosamente un’umiltà non qualunque, ma profondissima; una mortificazione non qualunque, ma di ogni momento.
Questa è la condizione domandata da Gesù
per continuare il suo divino lavoro nella
sua anima. Di più, lei deve vivere con Gesù
raccolta, distaccata. Gesù vuole guidarla,
ma allora lei deve tenerlo come per mano,
almeno tornare a Lui frequentemente nella
giornata. Dalla fedeltà alla pratica di questa
umiltà, di questa mortificazione, di questa
unione con Lui, dipenderà l’azione di Gesù
in lei. Sia dunque fedele, generosa, la cosa è
30) Diario, p.31.
sì grave per lei! Oh! se sapesse bene, quanto
avrebbe paura di essere negligente, di non
rispondere bene ad un’azione sì preziosa di
Gesù sulla sua anima. Nella virtù, specialmente nell’umiltà, lei deve tendere al più
perfetto. Nel sacrificio non deve mai risparmiarsi e Gesù non metterà più misura nelle
sue grazie di scelta per la povera Teresa. Fra
Norberto»31 (Diario, p.32)
Grazie a Madre Tecla, nell’archivio di
Scourmont si conservano alcuni brani di
conferenze tenute da Dom Norberto a
Grotta. Vediamone alcuni passaggi.
Formazione alla Vita Interiore
31) Diario, p.32.
«… L’amore del cuore di Gesù è un
abisso, un oceano, che l’anima, soprattutto l’anima delle spose di Gesù, delle
religiose contemplative, deve gustare continuamente. Ciò che ci interessa di conoscere in Gesù è il suo amore, il suo cuore… Dobbiamo studiare, meditare tutto il
Vangelo per scoprirvi tutto l’amore che ci
manifesta, per studiare il suo cuore…
Questo studio di Gesù, ce lo farà conoscere, ci rivelerà specialmente il suo cuore. Non si conosce Gesù quando non si
conosce il suo cuore e noi non ci sentiamo
afferrati dall’amore che ci manifesta questo cuore divino. Ma per noi, ora, il vero
Gesù della terra è il Gesù dell’Eucaristia.
Quindi, dopo averlo studiato nel Vangelo,
dobbiamo studiarlo nell’Eucaristia…
…Che ogni giorno la vostra anima
progredisca, mediante la preghiera, nella
conoscenza dell’amore di Gesù.
Allora l’amore diventerà facile per voi,
non parlo dell’amore sentimento, ma di
un amore illuminato, ragionevole, che vi
sosterrà in un sevizio di amore costante
e generoso, malgrado tutte le aridità e le
difficoltà che potete incontrare…
...Quanto entusiasmo e santa gioia
richiede la nostra vita cistercense! Ora,
non sono le regole severe, le austere
Ritratto di Sr. M. Gabriella
osservanze, i numerosi esercizi che stancano il corpo e le spirito… che ci daranno
tutto ciò, ma piuttosto l’amore di Gesù.
Dobbiamo dunque, ogni mattina, uscire
dalla meditazione colme di Gesù, e non
cessare di lavorare per acquistare l’amore
perfetto. Quelle che spesso sono turbate,
inquiete, oppresse dagli scrupoli, piuttosto di fare tanti esami di coscienza che
le turbano, meditino piuttosto tante belle
scene del Vangelo in cui Gesù ci rivela il
suo cuore misericordioso…
31) Diario, p.32.
45
...Chiediamo alla Santa Vergine di
donarci il suo orrore per l’orgoglio sotto
tutte le forme. Si dice: “La tal suora è sensibile, è suscettibile”.
Con queste parole e altre simili si vorrebbe nascondere la verità. Perché non si
chiamano le cose con il proprio nome?
Questa sensibilità, questa suscettibilità non sono altro che una forma di
orgoglio. Combattiamo ovunque l’orgoglio
dove ama nascondersi, e facciamogli una
guerra senza pietà. Fra tutti i vizi, tutte le
malattie dell’anima è la più grave, la più
dannosa, tanto più che noi non ce ne vergognamo come per altri vizi tuttavia meno
gravi e meno dannosi per noi.
La causa principale per cui Gesù non
compie in noi tutto ciò che vorrebbe è perché trova questo terribile ostacolo dell’orgoglio che non solo gli impedisce di agire
in noi, ma lo allontana da noi».
Sermone per la festa di S. Stefano Harding
«...Le nostre Regole, le nostre
Costituzioni, i nostri Usi ci insegnano il
genere particolare di vita religiosa che noi
dobbiamo vivere e verso quale forma speciale di santità dobbiamo tendere. Ma è
soprattutto alla scuola di coloro che hanno
realizzato perfettamente l’ideale del nostro
Ordine che impariamo in un modo più vitale
in che cosa consiste questa caratteristica
santità che deve essere la nostra. Si dice
che per prendere l’acqua pura di un ruscello o di un fiume bisogna risalire alla fonte.
Così per trovare il vero spirito di un Ordine
bisogna risalire fino ai fondatori, studiare i
loro scritti, il loro spirito, soprattutto il loro
esempio»32.
Madre Tecla, entrata a Grottaferrata il
20 gennaio 1917, nel giugno del 1919
non è accettata per la professione, e per
interessamento di Dom Norberto entra a
Chimay (Belgio) dove farà la professio32) Florilège de sermons donnés à la communauté
de Grottaferrata, Archivio di Scourmont.
46
ne perpetua l’8 settembre 1921. Richiesta
come Madre Maestra da Madre Pia per la
comunità di Grotta, vi arriva il 20 aprile 1932
e si fa stabilizza il 20 gennaio 1935. Quindi
durante il suo noviziato a Grottaferrata gode
della direzione spirituale di Dom Norberto
che continuerà a seguirla anche a Chimay.
Inoltre a Chimay Madre Tecla poté godere
dell’insegnamento di Dom Anselme Le Bail33
e di Dom Godefroid Belorgey34 che la intro33) Dom Anselmo Le Bail (1878 – 1956). Nasce in
Bretagna il 31 dicembre 1878. Il 21 maggio 1904
entra alla Trappa di Scourmont e il 4 ottobre 1913
viene eletto abate della comunità, carica che terrà
fino alla sua morte avvenuta nel 1956.
Per una conoscenza più approfondita dell’importanza della figura di Dom Anselme Le Bail per il
rinnovamento dell’Ordine Cistercense dalla Stretta
Osservanza, rimandiamo all’articolo di Dom Armand
Veilleux, “Un grand formateur monastique. Dom
Anselme Le Bail, Collectanea Cisterciensia 63,
2001, pp.224-233.
34) Dom Godefroid Belorgey, monaco dell’Abbazia
di Scourmont, ricopre in comunità varie cariche:
Maestro dei fratelli conversi, Maestro dei novizi,
Priore. Nominato nel 1932 Superiore della comunità
di Cîteaux, ne viene benedetto abate ausiliario il 14
settembre 1933, carica che ricopre fino al 1952.
dussero allo studio non solo dei Padri cistercensi, ma anche di S. Lutgarda, S. Gertrude,
Beatrice di Nazareth ecc…35.
Per Maria Gullini sappiamo che fu decisivo, per la sua vocazione monastica, l’incontro con Dom Norberto e il ritiro fatto sotto
la sua direzione alla Trappa di Grottaferrata
nel novembre del 1916 a cui seguì, il 28
giugno1917, il suo ingresso nel monastero
di Laval (Francia). Dom Norberto continuò
a seguire la sua figlia spirituale, sia attraverso la corrispondenza, sia nelle visite
fatte a Laval in occasione del Capitolo
generale che si teneva ogni anno a Cîteaux.
Memorabile fu il ritiro annuale da lui tenuto
a Laval nell’ottobre del 1921. Anche solo dal
titolo di ogni conferenza ci si può rendere
conto della ricchezza del suo insegnamento
in un’epoca in cui la predicazione tendeva
ad essere molto moralista. Vediamoli per
rendercene meglio conto: 1) Necessità di
studiare Cristo per conoscerlo, amarlo, per
vivere in intimità con Lui e farlo vivere in
noi. 2) Le 5 disposizioni che la conoscenza
di Dio produrrà in noi: ammirazione – adorazione – rispetto – sottomissione e confidenza. 3) La divinità di Gesù Cristo. 4) La
maternità divina. 5) Il mistero di Gesù Cristo
crocifisso. 6) Le caratteristiche del Salvatore
in Gesù. 7) Maria corredentrice degli uomini.
8) Gesù, l’amico divino. 9) Gesù, lo sposo
divino. 10) L’Eucaristia. 11) La nostra incorporazione a Cristo, secondo S. Paolo. 12)
Idem (seguito). 13) La nostra vita divina è la
nostra santificazione. 14) La mortificazione.
15) I mezzi da usare per lavorare alla nostra
santificazione. 16) La maternità di Maria.
17) L’umiltà di Gesù. 18) La carità di Gesù.
35) Cusack Pearse Aidan, Abbess Thecla Fontana,
Hallel, A Review of Monastic Spirituality and Liturgy,
Roscrea, 2004, volume 29, N. 2, pp. 96-117.
19) la Comunione. 20) Conclusione: la vita
di preghiera36. Madre Pia, nei suoi ricordi su
Dom Norberto commenta che: «Dopo questo ritiro ci si mise a studiare il Vangelo con
commentari e sinossi»37.
Si formerà così in Madre Pia una spiritualità cristocentrica («lasciamoci innamorare dell’umanità di Cristo, l’Uomo – Dio»)
mariana, eucaristica, ecclesiale, che si fonda sul Vangelo, la Regola di San Benedetto,
i Padri e le sante del nostro Ordine, in
particolare, anche per lei, S. Lutgarda e S.
Gertrude. Dice Sr. Fara che:
«Umiltà ed obbedienza erano i suoi cavalli di battaglia, e il substrato indispensabile di
tutto, era l’amore… Detestava l’invidia e la
gelosia come uno dei peggiori ostacoli al
fiorire della carità fraterna, e non dava tregua
a questo nemico quando lo vedeva in una o
l’altra delle sue figliole»38.
36) Archivio dell’Abbazia di Scourmont.
37) M. M. Pia Gullini, Quelques souvenirs sur
le Vénéré Père Dom Norbert, Grottaferrata
1931, Archivio dell’Abbazia di Scourmont.
Non ci sembra fuori posto citare in nota il brano
intero: “Fu un vero successo. Non si era mai
sentito parlare a questo modo. Ebbe l’effetto di
infiammare tutte le anime migliori e di spingerle ad
una conoscenza sempre più approfondita di Gesù,
per amarlo ancora di più. Ci si mise a studiare il
Vangelo con commentari e sinossi. Alcune giovani
religiose, alle quali i genitori erano ben lieti di poter
offrire qualcosa, chiesero loro la “Sacra Scrittura”
commentata da Fillon in 8 volumi, e le altre opere
di Fillon: “La Vita di Gesù Cristo” in 3 volumi.
Fu un vero soffio di vita soprannaturale, di quella
vita d’amore vissuta dagli antichi cistercensi, così
profondamente ammaestrati sui Libri Sacri e la
cui spiritualità è così semplice: Gesù e nient’altro
all’infuori di Lui. Ma in quale rapporto di intimità, di
fiducia, di abbandono!”
38) Sr. Fara Crapanzano, Memorie inedite, Archivio
di Vitorchiano.
47
«Aveva un senso vivissimo della maestà,
della magnificenza, della regalità, della grandezza di Dio, di fronte al quale gli unici atteggiamenti possibili erano la lode, l’adorazione, il ringraziamento, l’abbandono. Una volta
in S. Pietro per una canonizzazione – aveva
un posto in tribuna fra gente molto compassata – la Sistina cantava un “Credo” meraviglioso, gli assistenti erano seduti – “ad un
tratto, racconta Madre Pia, al “descendit de
coelis”, ebbi il senso vivissimo della maestà
di Dio che si abbassa verso di noi e, senza
rendermene conto, mi trovai sprofondata in
ginocchio, di colpo»39.
Nel 1931 l’Abate di Scourmont chiese a
Madre Pia di stendere i ricordi suoi e della
comunità su Dom Norberto. Questo comportò anche la trascrizione di suoi pensieri
e consigli a Madre Pia stessa o ad altre
monache. La lettura di alcuni di questi brani
ci sembra interessante e dimostra come
attraverso il suo insegnamento un certo linguaggio fosse in uso nella comunità.
«… Una religiosa deve essere Sposa.
Gesù conta un gran numero di religiose, ma
poche Spose, e Lui, il Dio – Uomo, dal cuore
che ama, ha bisogno di amore. Una religiosa
può essere donna, ma se non ha un amore
ardente per Gesù Cristo la sua vita manca
di tono. In un Ordine contemplativo la vita
senza questa grande fiamma sarebbe una
vita vegetativa, una vita impossibile. La sua
vita deve essere una vita d’amore per Lui.
… Le lascio questi due principi: abbia un
vero culto per l’autorità; l’autorità è Gesù…
Ami le sue sorelle per amore di Gesù. Sia
39) Idem, Memorie inedite, Archivio di Vitorchiano.
48
sua, tutta per Lui. Gesù l’ama. Ami e creda,
non dubiti mai; non si meriti mai quel triste
rimprovero che Gesù ha sovente rivolto agli
apostoli: “Uomini di poca fede, perché avete
paura?” Egli ci ama a motivo del suo amore.
Facciamogli l’onore di aver fede in Lui…
… La religiosa appartiene a Gesù. Le
miserie della vita comune spariscono per
la religiosa che dice a se stessa: “Io sono
qui per Gesù. Forse che questa piccola contrarietà può togliermelo? No, allora
andiamo avanti”. E questo non deve essere
un sentimento, ma un principio. Bisogna
avere un’idea molto grande di Gesù, della
sua presenza reale nella sua Casa, perché
il monastero è la sua casa…
Gesù è presente nella casa. Una religiosa
che non pensi a Lui, ma a se stessa, è un
orrore!! La santità non è un lusso. Bisogna
arrivarci perché è la vita di Gesù.
… Quando fate qualcosa ditegli: “Ti piace?” e quindi. “Sei contento?” Forse non si
fa così con quelli che amiamo? Si guarda
la persona amata e le si dice: “E’ per te
che ho fatto questo” E se Gesù risponde:
“Eh! Eh! c’era un pochino d’amor proprio in
questa azione” – allora si deve rispondergli:
“Perdonami!”.
… Pensi che Gesù la guarda sempre, e
che si prende cura sempre di lei, mentre lei
lo dimentica! Gesù l’ama teneramente e lei
non gli rende amore per amore. Pensi dunque alla gravità di questo!
Faccia dei piccoli doni a Gesù, ma che
siano frequenti. Per non scoraggiarsi, ne
faccia prima uno, poi un altro, e poi un terzo
e così via fino a sera. E prima che venga
sera, quanti piccoli regali avrà ricevuto Gesù
da lei! Ma pensi poi se Lui accetterà di
lasciarsi vincere in generosità! Lui darà alla
sua piccola sposa grazia su grazia e la renderà forte e generosità»40.
Pochi mesi dopo la sua professione
perpetua – il 16 luglio 1922 – la Badessa
di Laval41 nominò Madre Pia Maestra delle
sorelle converse che erano una quarantina.
Vediamo dalla testimonianza di una di loro,
come la giovane Maestra, che si impegnò
totalmente con tutta se stessa nel compito
formativo che le era stato assegnato, riecheggino nei suoi insegnamenti le parole, i
pensieri, i concetti di Dom Norberto.
«Mi ricordo ancora qualcuna delle sue
lezioni alle sorelle converse. Un giorno, una
delle nostre sorelle era stata “proclamata”,
perché non era “regolare”. Madre Pia le ha
detto: “Sorella, si direbbe che lei è incaricata
di tutti i pollai della Francia! Gesù l’ha scelta
per essere sua sposa e lei, per la sua volontà
propria, si comporta da serva, da sposa di
seconda categoria. Immagina una sposa
che cura bene suo marito, che prepara bene
i suoi pranzi e anche gli indumenti, ma non
ha mai tempo di stare con lui, di parlargli e
di vivere in intimità con lui?… Pensa che lui
sia felice? No, ha bisogno del suo affetto, di
stare in intimità con lei. Ebbene, Gesù attende questo da lei.”
Un’altra volta è venuta a farci una lezione
con delle immaginette del Sacro Cuore che
aveva fatte lei stessa. Non tutte erano ben
riuscite; alcune erano più belle di altre, e
dice: “Vedete queste immagini sorelle mie?
40) M. M. Pia Gullini, Quelques souvenirs sur le
Vénéré Père Dom Norbert, Archivio di Scourmont
41) Lutgarde Hémery, badessa di Laval dal 1900
al 1944.
Voi dovete essere tutte delle immagini di
Gesù: è il nostro voto di conversione che ci
chiede di diventare, giorno dopo giorno, un
po’ più simili a Gesù: è Lui il nostro modello”. E ha consacrato tutta la lezione per
spiegarci questo”.
Un giorno una delle nostre sorelle si
accusò di aver svegliato una sorella che russava e le impediva di dormire, ma Madre Pia
le disse: “Sorella, ma come ha potuto osare
di svegliare Gesù? Non sa che tutto quello
che fa alle proprie sorelle, lo fa a Gesù stesso?” E continuò su questo tono»42.
Dopo questo «intermezzo», in cui ho
cercato, sia pure in modo succinto, di
dare un’idea dell’ambiente trovato da Suor
Maria Gabriella a Grotta, nella comunità e
nelle persone direttamente interessate alla
sua formazione, passiamo nuovamente ad
ascoltare Madre Pia che parla della sua
figliuola dorgalese:
«Il suo sorriso era diventato come naturale: sorrideva sempre. Era affettuosa come
una bambina nei riguardi della Madre e della
Maestra e si stupiva umilmente delle premure che avevano per lei. Avrebbe voluto che
nessuno la vedesse o si occupasse di lei. La
sua passione per il disprezzo era qualche
cosa di molto grande per lei, che camminava un passo dopo l’altro, senza voler seguire
le strade più ardue, ma lasciandosi guidare.
Era aliena dal farsi conoscere. Perfino desiderosa: voleva essere dimenticata, lasciata
da parte, e da parte sua non faceva niente
per attirare l’attenzione, per fare in modo che
ci si occupasse di lei. Bisognava interrogarla
per farla parlare di se stessa. Questo pudore
42) Lettera di Sr. M. L. – Archivio di Vitorchiano
49
nasceva dal suo amore: voleva essere tutta
di Gesù, soltanto sua. Egli doveva essere
interamente libero nei suoi riguardi; fare tutto quello che voleva, Lui. Ma in quanto a lei,
doveva conservarsi gelosamente per Lui…
Non aveva nessuna pretesa, tutto le
sembrava immeritato, senza prezzo. Viveva
di riconoscenza. Il “GRAZIE” era come il
respiro della sua anima… Grazie, grazie… La
gratitudine in cui ha vissuto si dilata sempre di più, è come un oceano in cui la sua
anima si tuffa e si annega. Ella non ne uscirà
più. Sulle sue labbra le parole per esprimere
questa riconoscenza saranno invariabilmente semplici e modeste, ma avranno il timbro
della profondità che le anima.
Questo cammino sempre avanti, che il
suo amore le faceva capire come necessario, e che in tal modo costituiva un aiuto
per la sua forte volontà e per la sua ragione
giusta e retta, le conferiva quel marchio di
semplicità per cui la si ammirava, senza
neanche sapere perché. “Bene omnia fecit”.
Ma dal momento che si dovrebbe sempre
agire così, trovava tutto questo naturale. Ella
era la prima a considerarlo naturale»43.
«Poiché entrando in monastero il terreno
della sua anima era già decisamente ripulito,
ella s’impregnò delle istruzioni che riceveva
(soprattutto perché aveva una memoria che
l’aiutava molto) tanto che io mi stupivo della
sua saggezza, che era frutto della esperienza
altrui. L’umile docilità di spirito, il suo buon
senso e la fedeltà alla grazia la condussero
in tre anni e mezzo di vita monastica a dei
vertici di virtù… Lui solo – Dio solo – dunque non io. Niente di me, perché altrimenti
saremmo due. “Ecce, fiat mihi”.
43) M. M. Pia Gullini, Réponses…
50
Prontezza e assenza di iniziativa personale. Anche qui spicca la sua coerenza:
Dio che sa tutto e può tutto la portava ad
abbandonarsi completamente in Lui… La
sua docilità, il suo abbandono provenivano
dal fatto che aveva intuito la grandezza di
Dio e, senza analizzare i suoi sentimenti,
viveva nell’adorazione concreta di quel Dio
che l’aveva scelta e che l’amava.
Si sentiva così indegna, così piccola,
così niente: da questo derivavano la sua
umiltà e la sua gratitudine. Non si saprebbe pensare una vita interiore più semplice
che la sua: niente bravure ascetiche, né
sforzi voluti per collocarsi su questo o su
quel grado di orazione: nessun bagaglio di
devozioni (cioè di preghiere supplementari)
né di pratiche aggiunte alla santa Messa,
all’Ufficio Divino.
Diceva sempre il Rosario e amava molto
la Via Crucis, che era collocata nel corridoio
dell’infermeria.
Non sarebbe entrata in gara di zelo e
di voli mistici per nessuna cosa al mondo.
Era perfino restia ad ammettere che quei
voli fossero da desiderarsi. Continuava a
camminare standosene sotto le ali della
FEDE, riconoscente di quanto aveva ricevuto, innamorata della bontà di Gesù – Dio…
Non divorava, non bruciava la sua strada,
impaziente di averla finita: la terminava passo, passo, senza apparenze eroiche. Ma il
Signore l’avrebbe bruciata Lui, venendole
incontro.
Tuttavia ella occupa bene il suo posto
fra i grandi personaggi ascetici o mistici
dell’Ordine di Cîteaux, della Trappa. Il suo
monastero per lei era semplicemente: Gesù,
il Suo amore, la Sua volontà, la Sua gloria.
Quanto a lei, era la Sua discepola e la Sua
sposa, imitando la santissima Vergine che
accoglieva Gesù nel suo seno, rispondendo
all’angelo: “Ecce, fiat mihi”44».
In alcune delle biografie di Suor Maria
Gabriella leggiamo l’episodio, narrato da
Madre Pia stessa, di come, in un angolo
della stanza dell’infermeria, abbia annotato
le risposte date da Suor Maria Gabriella ad
alcune madri e novizie. Leggiamo sempre
nelle «Risposte» a Zananiri:
«Sr. Maria Gabriella seppe trovare per
ognuna una parola “ad hoc”, tanto che
si sarebbe potuto dire che era ispirata.
Soprattutto quando la sentii dire ad una novizia molto cocciuta in quelle che erano le “sue
buone idee”: “Per me, quando le superiore
mi hanno detto una cosa mi sarebbe impossibile pensare in modo diverso”… Noti la
parola “pensare” e la metta di fronte alla
sua personalità molto forte, alla sua vecchia
testardaggine e alla sua incontentabilità…»45.
E Madre Tecla, da parte sua, parlando
della sua docilità alla decisione di Don
Meloni di inviarla alla Trappa di Grottaferrata,
commenta:
«Fu lui che qui l’indirizzò. La piena fiducia
nel sacro ministro aveva guidato la giovinetta
Maria Sagheddu nella sua scelta.
44) M. M. Pia Gullini, Réponses…
45) In una lettera a Pd. P. Cappio dalla Fille-Dieu,
Madre Pia a proposito di questa frase, dice: “Né la
Dore, né Zananiri l’hanno citata alla lettera per non
“scandalizzare” i piccoli di spirito. Ma per me fu il
fatto rivelatore della sua santità, e eminente santità.
Conoscendo la forte personalità di quella figliola,
questa rinunzia al suo giudizio, risultato di volontà e
di sforzi, era il grado eroico di molte virtù e in primis
della fede”. (M. M. Pia Gullini, Romont, 12 febbraio
1958, Archivio di Vitorchiano).
Questa totale sottomissione di intelletto
e di volontà resterà la caratteristica della sua
spiritualità… Aveva il culto dell’obbedienza…
In un suo trattenimento con me, con la solita
pacatezza, mi fece questa dichiarazione:
“Non ho altro programma se non quello di
rinunciare alla mia volontà” e con essa Sr.
Gabriella rinunciò anche al suo giudizio.
Questa, a parer mio, è la scorciatoia per arrivare alla santità. Non fa dunque meraviglia
che Sr. Gabriella abbia fatto tanto cammino
in breve tempo»46.
Come a Gastone Zananiri, pure a noi
oggi, viene normale chiederci il motivo
profondo che porta una persona a fare al
Signore l’offerta della propria vita per questa o quella causa cara al Cuore di Cristo.
Leggiamo la risposta data da Madre Pia a
questa domanda:
«Lei mi chiede se l’olocausto della propria vita è una tradizione cistercense. Io
penso che è un bisogno di ogni anima generosa, soprattutto in clausura. Non abbiamo
nient’altro che noi stesse, abbiamo dato tutto, e ci siamo date coi voti in modo normale; vogliamo ora sottolineare maggiormente
l’offerta aggiungendovi un significato di consumazione sofferente e la rinuncia della vita
con l’accettazione di una morte prematura»47
46) M. Tecla Fontana, Mie memorie della cara consorella Sr. Maria Gabriella, che lasciò questa terra
d’esilio il 23 aprile 1939, Archivio di Vitorchiano.
Madre Tecla, continuando le sue memorie, a un
certo punto dice: “In pochi mesi le sue disposizioni
si trasformarono sempre in meglio e, se tempo
addietro, mi aveva detto essere suo programma
la rinuncia alla sua volontà, poco prima della sua
professione mi diceva: “Non cerco più altro che la
gloria di Dio.”
47) M. M. Pia Gullini, Réponses…
51
Monache Cistercensi
Maria Gabriella camminava, con il suo
passo, calmo e sicuro, verso la felicità eterna. Ma il dolore si faceva a volte insopportabile e non riusciva a trattenere le lacrime.
La Madre se ne accorgeva:
«Ha pianto, piccola mia? Perché? Perché
non so soffrire bene. Non sento la gioia di
soffrire. Vorrei dominare la sofferenza con lo
spirito, e non so come prendermi».
Ma finalmente il suo buon senso arriva
alla conclusione:
«Ma… se ci si rallegra… non si soffre
più…»48.
Avvicinandosi per questa sua figlia «il
giorno delle nozze», è sempre commovente
leggere questa pagina della biografia della
Madre Dore:
«La sera accoglieva la Madre con un
sorriso calmo e raggiante, dicendo il suo
intercalare: “Com’è buono il Signore!” con
un accento sempre nuovo, un lieve alzar
di braccia e gli occhi luminosi volti in alto.
La Madre, che ne aveva penetrata l’anima,
soprattutto dopo la grande prova dell’ospedale, si chinò su quel fiore e con devozione,
con rispetto, con timore sacro, l’avvolse di
soprannaturale affetto, e figlia e Madre si
intesero. “Vengo a prepararla alle nozze”.
Era il saluto nell’entrare.
Si parlava di amore divino e il fiore
si schiudeva, con profumo delizioso, in
quell’intimità. Rimanevano così a lungo, Sr.
M. Gabriella come rapita in quel Dio così
buono con lei, e la Madre commossa di tanto splendore soprannaturale»49.
Madre e figlia, due vite accomunate in
un’unica offerta, in un unico amore indiviso
per il «dolce Signore» delle loro vite, consumate, anche se in modo diverso, per la Sua
gloria e perché tutti i figli dell’unico Padre
siano UNO, ora e sempre.
Monache Cistercensi
100 anni di presenza
a San Giacomo di Veglia
I
l 12 agosto u.s. abbiamo festeggiato i
nostri cento anni di presenza monastica a
San Giacomo di Veglia.
Alle ore 9.30 è stata celebrata una solenne messa di ringraziamento al Padre celeste nella chiesa del monastero che era
gremita da fedeli sangiacomesi, da amici
e conoscenti venuti da vicino e da lontano.
Hanno celebrato il Parroco di S. Giacomo
don Giulio Fabris, padre Renato Martini,
superiore dei Missionari della Consolata di
Vittorio Veneto e P. Tiziano Sartori, monaco
benedettino dell’Abbazia di Praglia, che ha
presieduto la solenne Eucaristia.
48) Une Religieuse de la Trappe, Une vie offerte
pour l’unité chrétienne, Bruges 1956, p. 27
La trappa di Sr. Maria Gabriella
48) Une Religieuse de la Trappe, Une vie offerte
pour l’unité chrétienne, Bruges 1956, p. 27
52
49) M. Giovanna Dore, op. cit. p. 141.
53
Le melodie dei canti gregoriani del nostro
coro si alternavano con le voci maschili dei
celebranti, elevando al cielo le lodi più
eccelse al Signore per i doni di misericordia
con i quali ci avvolto in questi cento anni.
«Cantare senza fine, in eterno e per
sempre le misericordie del Signore» (Sal
144 della liturgia), per noi che ne abbiamo
fatto l’esperienza, è stato un gaudio indescrivibile.
Padre Tiziano ha detto nell’omelia:
«Celebrare, secondo la Scrittura e secondo
la dottrina della chiesa, un anniversario cioè
un anno che ritorna su se stesso e tanti
anni che ritornano su se stessi è sempre
ricordare la fedeltà di Dio, non c’è altro fondamento per la nostra vita se non la fedeltà
di Dio. Abbiamo sentito nella prima lettura
(Is 63,7-9) questo amore viscerale, questa
passione di Dio per l’uomo – non toccate
i miei consacrati, non fate del male ai miei
eletti – è la grande sfida di Dio, di un Dio
onnipotente, che non adopera mezzi straordinari, né teofanie eccezionali, ma entra con
la sua onnipotenza nella storia dell’uomo e la
indirizza alla salvezza, la indirizza alla gloria.
Il nostro Dio è un Dio che salva! Per questo
ci ha scelti affinché diventiamo lode della
sua gloria».
Ricordare i benefici del passato è attualizzare la costante e reale benevolenza di
Dio: è ricordando la liberazione dall’Egitto
che gli esiliati hanno vissuto la liberazione.
Anche noi, con gli israeliti vogliamo cantare
a Dio, nostro Padre amabilissimo, il cantico
eseguito dopo il passaggio del mar Rosso:
«Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato
in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio
canto è il Signore, egli mi ha salvato. È il mio
Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio Padre e lo
54
voglio esaltare! (Es 15,1-3)». Tale canto prolunga la sua eco in questi lunghi cento anni
vissuti nell’amore, nell’adorazione e nella
lode a Dio Padre che afferma nel Suo Verbo
incarnato: «Cercate prima il Regno di Dio e
la sua giustizia e tutte queste cose – cioè
il cibo, il vestito e tutto l’occorrente per la
vita presente – vi saranno date in aggiunta».
I sentimenti che sgorgano dai nostri
cuori sono di profonda riconoscenza a
Dio ai nostri amati superiori nostro Ordine
Cistercense, ai vescovi, ai sacerdoti e alla
buona popolazione di San Giacomo di
Veglia. Alla parrocchia di San Giacomo
rivolgiamo il nostro doveroso e gioioso
ringraziamento, perché il 12 agosto 1909
siamo state accolte e salutate al suono
delle campane che quella sera suonarono a
distesa. La comunità parrocchiale, riunita in
piazza con il parroco, ha ricevuto la comunità monastica giunta da Belluno con una
grandiosa manifestazione di gioia. Grazie
per la benevolenza donataci all’arrivo e
proseguita lungo il cammino di questi cento
anni! Il Signore benedica sempre la cara
parrocchia e la protegga da ogni male, sia
spirituale che temporale.
Ci sembra doveroso ricordare le nostre
care sorelle, native della comunità sangiacomese: M. Scolastica Fioretti, M. Edvige
Paludetti, M. Chiara Zaros, M. Teresa
Meneghin, M. Fortunata Rosset, M. Luigia
Tomasella, M. Beatrice Paludetti, M. Redenta
Paludetti, M. Bernarda Zaros, M. Elisabetta
Zaros, Sr. Agnese Zaros e M. Stefania
Piccin. Siamo grate a queste amate sorelle
che ora vivono in Dio e nei nostri cuori».
In questo evento storico del nostro
monastero è giusto menzionare un’altra
ricorrenza che abbiamo festeggiato con
grande giubilo: il 43° anniversario dell’ele-
zione abbaziale della nostra cara abbadessa, Madre Maria Rosaria Saccol, eletta
precisamente il 12 agosto 1966.
Con grande riconoscenza possiamo dire
che in questi cent’anni la Madre ha svolto
un ruolo importantissimo nella storia della
comunità, specialmente nella formazione
spirituale di ogni monaca.
Ringraziamo Dio per questo bell’anniversario e lo benediciamo soprattutto per
il dono di una abbadessa secondo il suo
cuore, che ha l’intelligenza dell’amore verso
di noi e di quanti avvicinano il monastero.
Nel nostro rendimento di grazie per la
nostra vita a San Giacomo, esprimiamo ai
nostri concittadini sangiacomesi il vincolo
spirituale che ci unisce a loro. Secondo San
Bernardo i monaci e le monache hanno un
compito per tutta la Chiesa, cominciando
dalla chiesa locale e, di conseguenza, per il
mondo intero.
Con molte immagini egli illustra la
responsabilità dei monaci e delle monache per l’intero organismo della Chiesa e
per l’umanità. Dice: «Il genere umano vive
grazie a pochi, se non ci fossero quelli, il
mondo perirebbe» (Sentenze III,118). Anche
se afferma esplicitamente che neppure
il monastero può ripristinare il Paradiso,
sostiene però che esso deve, in modo pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso.
Il Signore ci benedica affinché possiamo
eseguire le esortazioni del nostro santo abate, Bernardo di Chiaravalle.
Origine del Monastero
Questo monastero affonda le sue radici
nel lontano medioevo, quando Baldovino,
decano del Capitolo della chiesa di Belluno,
con atto stipulato dal Notaio Alberico, alla
presenza del Vescovo Filippo di Feltre e di
Belluno, il 13 di maggio 1212, dà in donazione a Donna Acega di Belluno, la chiesa dei
SS. Gervasio e Protasio con tutta la terra e
circuito relativo e i diritti annessi1.
In conseguenza della legge di Cavour
sulla soppressione delle istituzioni religiose, nel 1906 la comunità delle monache
cistercensi fu costretta a cercarsi una sede
alternativa. Non potendo pensare, per motivi economici, ad una nuova costruzione,
si ritennero idonee le due barchesse con
giardini annessi di San Giacomo di Veglia.
1) Per una conoscenza più completa della storia
del monastero, vedere Vita Nostra, anno XXXI, n.
3, 2002.
Il 21 marzo 1908 il procuratore delle
monache, mons. Benedetti, firmò il contratto di compravendita grazie anche alla
donazione testamentaria della sorella di un
monsignore di Belluno, che garantì il denaro
per l’acquisto e per il necessario adeguamento dello stabile a monastero.
L’arrivo delle monache si svolse in due
tempi: un primo gruppo arrivò il 20 luglio
1909 con l’abbadessa Maria Giovanna
Renier, accolte dall’arciprete don Antonio
Grava e il 12 agosto arrivò il secondo gruppo al suono delle campane, ricomponendo
la comunità claustrale. Inutile descrivere la
curiosità della gente per il nuovo monastero
e per la vita affascinate di chi vive in clausura. Il mattino seguente il vescovo Caron
benedì la cappella esterna. Il 26 agosto fu
stabilita la clausura vescovile, in attesa di
quella papale che arrivò il 20 agosto 1913.
55
Nei primi cinque anni fu alzato il muro di cinta e si costruì la chiesetta nel brolo per collocare il quadro dell’immagine miracolosa
della Madre di Dio, che gli studiosi dicono
che non ha autore umano, il cui altare venne
consacrato il 5 agosto 1914, con la messa
celebrata dall’abate Angelo Testa.
Nel 1918, dopo la ritirata di Caporetto,
gli invasori occuparono una parte del edificio: nonostante il permesso concesso dal
vescovo Eugenio Beccegato, le 35 monache non lasciarono il convento, senza subire
poi nessuna molestia. L’unico danno fu una
razzia di opere d’arte, mobili e biancheria
di pregio.
Nella seconda guerra mondiale davanti
al monastero ci fu una sanguinosa battaglia
tra SS e partigiani: si temette che tutte le
monache fossero morte, invece ci fu solo
qualche vetro rotto. Negli anni successivi ci
si impegnò molto per risistemare l’edificio,
in particolare il suo tetto, con particolare
impegno della madre abbadessa, Madre
Maria Eletta De Noni.
Nel 1955 fu eletta abbadessa, Madre
Maria Franca Fin. Nel 1957 gli undici
La chiesetta del brolo.
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monasteri cistercensi d’Italia si riunirono
in «Federazione» e il 5 ottobre 1960 venne
eletta presidente della Federazione l’abbadessa di San Giacomo, M. Maria Franca Fin.
Il 12 agosto 1963 fu eletta abbadessa
Madre Maria Teresa Meneghin, sotto il cui
mandato, grazie ad un grande benefattore,
furono apportati radicali cambiamenti alla
chiesa esterna: mediante un’apertura con
vetrata scorrevole, le monache dal loro
coro potevano vedere il celebrante all’altare
consacrato dal vescovo di Vittorio Veneto
mons. Albino Luciani.
Il 12 agosto 1966 venne eletta abbadessa, Madre Maria Rosaria Saccol, sotto il suo
abbaziato il monastero venne aggiornato
alle nuove realtà spirituali contemporanee
secondo il Concilio Vaticano II. In questi
ultimi trent’anni sono stati eseguiti molti
lavori di conservazione e di ristrutturazione
degli edifici. Il 15 agosto 1985 il monastero
ha avuto la visita di Papa Giovanni Paolo II,
che ha voluto iniziare la visita pastorale della
diocesi di Vittorio Veneto, incontrando per
prime le monache cistercensi, unica presenza claustrale a Vittorio Veneto.