Capitolo 8

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Capitolo 8
L’autrice
Audrey Carlan è un’autrice bestseller.
Con Calendar girl ha venduto milioni di
copie
e
conquistato
le
classifiche
americane. Vive con il marito e due figli
nella California Valley e ogni giorno si
innamora dell’amore.
www.calendargirlitalia.com
facebook.com/AudreyCarlan
#trustthejourney
Audrey Carlan
CALENDAR GIRL
Gennaio, Febbraio, Marzo
Traduzione di Teresa Albanese, Eloisa Banfi e Bianca Noris
Calendar Girl
Gennaio, Febbraio, Marzo
Dedicato a:
Gennaio
GINELLE BLANCH
Sei stata con me fin dall’inizio…
Le tue letture critiche mi hanno salvato centinaia di volte.
Grazie per aver creduto in me, nelle mie storie,
e averle amate come io amo te e tutte le cose che scrivi.
Namasté, amica mia.
Febbraio
JEANANNA GOODALL
Un anno fa ho pubblicato il mio primo romanzo.
Fin dall’inizio sei stata la mia cheerleader, la mia lettrice,
e la mia fan numero uno. Ora ho l’onore di chiamarti mia
amica.
Ami i miei personaggi come se fossero tuoi,
e mi aiuti a non perdere il contatto con le loro emozioni.
Sei piena di qualità e talenti,
e io ti sono così grata di condividerli con me.
Amore e luce.
Marzo
HEATHER WHITE
Mia è a Chicago a causa tua.
Anche tu hai lasciato ciò che era familiare e sei partita per un
viaggio.
Le pagine di Marzo mostrano quanto sia meraviglioso correre
rischi.
A volte possono cambiarti la vita, anche trasformarla da cima a
fondo.
E quasi sempre ne vale la pena.
Sei bellissima e io sono troppo felice di averti nella mia vita.
Besos, tesoro mio.
MARZO
1
Nel momento in cui misi piede sulla pista
dell’aeroporto di Las Vegas, mi ritrovai intrappolata
tra due figure: una alta e dinoccolata, l’altra piccola
e piena di energia. Mi arrivarono alle narici l’odore
del chewing-gum alla menta e quello delle ciliegie,
mentre quei due corpi sinuosi iniziarono a farmi
rimbalzare tra loro, in un delirio di urletti
simultanei. Quel suono era l’esatta replica del verso
acuto delle iene dello zoo che avevo visitato con
Alec a Seattle.
«Santo cielo, quanto mi sei mancata» disse Gin,
prima di stamparmi un bacio sulle labbra. Ecco da
dove proveniva il profumo di menta. Poi fui spinta
da parte, e la mia sorellina Maddy mi prese tra le
sue lunghe braccia. Ciliegie. Da quando era piccola,
aveva sempre profumato di ciliegia, non sapevo
bene perché: come ogni altra cosa che la
riguardava, l’accettavo così com’era, e tutto il resto
non importava. Maddy mi strinse forte: era più alta
di me, e mi faceva sentire piccola. Anche se ero la
sorella maggiore, era lei a detenere il record di
altezza nella nostra piccola famiglia, con il suo
metro e ottanta. A diciannove anni era nel pieno
della bellezza, ma non aveva ancora iniziato a
mettere su peso, come era successo a me alla sua
età. Il suo formidabile metabolismo la manteneva
magra come un chiodo. Beata lei!
Gli occhi di Maddy si riempirono di lacrime. Le
presi il viso tra le mani. «Sei la ragazza più bella
del mondo» le dissi, vedendo che piangeva. «Ma
solo quando sorridi…»
«Mi dici sempre così.» Le sue labbra si
piegarono all’insù, gratificandomi con un sorriso
che per me era il più bello del mondo.
«Perché tu sei davvero bella. Non è così, Gin?»
Gin fece una bolla con la gomma da masticare,
poi mi prese sottobraccio. «Certo. E adesso
solleviamo il culo.»
Alzai gli occhi al cielo: «Si dice alziamo il culo,
Gin».
Ginelle si fermò nel bel mezzo della zona arrivi
dell’aeroporto.
«Sia come sia, tanto mi hai capita. Ma sei
diventata una specie di dizionario ambulante,
adesso?»
Risi di cuore, e la cosa mi fece sentire bene, anzi
benissimo. Sentivo la tensione abbandonarmi, in
modo quasi tangibile, come se evaporasse dai pori.
Quant’era bello essere di nuovo a casa!
Le ragazze mi accompagnarono alla macchina di
Gin. «Dov’è la macchina di papà, Mads?» Misi il
borsone nel bagagliaio, e mi sedetti davanti.
Maddy si accomodò sul sedile posteriore della
Honda di Ginelle e iniziò a rigirarsi i capelli tra le
dita. «Ehm…» disse guardando fuori dal finestrino:
il suo sguardo vagava, come se stesse cercando
qualcosa da dire.
Mi afflosciai sul sedile. «Ma che cos’ha la
macchina di papà?»
«Niente, niente.» Fece un profondo sospiro,
continuò a rigirarsi una ciocca bionda tra le dita e
si adagiò contro lo schienale. Di qualunque cosa si
trattasse, non voleva parlarmene.
«Diglielo, Mads» la incalzò Gin.
Maddy sbuffò e si rimise diritta. Chiuse le
palpebre e poi le riaprì. Nei suoi occhi verdi c’erano
lampi di determinazione. «Quei tipi che hanno
picchiato papà hanno conciato male anche la
macchina.»
Mi sentii avvampare, tanto ero infuriata. «Perché
non mi hai detto niente?» Un fiotto di rabbia mi
invase e andò a finire nelle mani, che si strinsero
forte a pugno. Se qualcuno in quel momento mi si
fosse avvicinato, sarebbero stati guai.
«Ma io…»
«Ma tu cosa? E come ci vai a scuola adesso?»
«Prendo l’autobus, il più delle volte, e ogni tanto
mi accompagna Ginelle» disse guardando la mia
migliore amica, che accennò un sorriso. «E anche
Matt, il ragazzo di cui ti parlavo. Mi ha dato un
passaggio qualche volta. Dice che farà il possibile
per aiutarmi» aggiunse, con un filo di nervosismo
nella voce.
«Posso ben immaginare che ti voglia aiutare,
Mads, ma non è sicuro. Vivi lontano dalla scuola, e
dopo tutte quelle ore di lezione sei stanca morta. E
vogliamo parlare di quando ti attardi in
biblioteca?» Feci un respiro profondo e sbuffai,
ancora in preda alla rabbia. Quella stordita di mia
sorella in pericolo! E non poteva usare la macchina
di papà perché Blaine e i suoi fottuti sgherri
gliel’hanno mezza distrutta. Che cos’altro poteva
ancora succedere?
Maddy mi posò una mano sulla spalla per
rassicurarmi. «Va tutto bene, Mia, non c’è nessun
problema. Si fa quel che si può, no?»
«Ma neanche per sogno. Domani ti procureremo
una macchina. Non posso credere che tu abbia
dovuto farne a meno per tutto questo tempo.»
Puntai un dito contro il braccio di Gin. «E tu, tu
avresti dovuto dirmi che cosa stava succedendo.»
Con un altro respiro profondo, mi scostai i capelli
dal viso.
«Ma non te la puoi permettere, Mia…»
«Non venire a dirmi che cosa posso o non posso
permettermi. Sei stata sotto la mia responsabilità
negli ultimi quindici anni, e solo perché adesso hai
diciannove anni non vuol dire che smetterò come
per incanto di prendermi cura di te.» Strinsi forte i
denti, per mantenere il controllo. «Maledizione. Il
solo pensiero di te che vai a piedi dalla fermata
dell’autobus fino a casa, nel nostro quartiere, mi dà
i brividi. Mads! Non farlo mai più, ti prego. Fallo
per me» dissi addolcendo il tono. «Domani ti
procuro una macchina. Con gli ultimi due clienti
ho fatto un po’ di soldi in più.»
«Davvero?» mi disse Gin, guardandomi di
sottecchi perché aveva capito bene che cosa avevo
fatto per ricevere quel denaro in più. «E come ci sei
riuscita, tesoro? Sdraiata?» chiese con una risatina.
A quel punto, le diedi un pugno sul braccio,
forte.
«Ahia! Stronzetta! Questo non me lo meritavo.»
«Proprio tu mi dai della puttana? Guarda che te
lo sei voluto.» La fissai, con gli occhi ridotti a una
fessura. Anche se stava guidando, sapevo che
avvertiva la rabbia nel mio sguardo.
«E va bene. Me lo sono meritato, ma adesso ti
rinfaccerò il brutto livido che mi hai lasciato ogni
volta che potrò.»
«Come credi. Domani puoi accompagnare Mads
e me a cercare una macchina?»
Annuì. «Ho preso le ferie per tutto il tempo in
cui rimarrai qui.»
«Oh, sei stata davvero carina.»
«Io sono sempre carina» disse aggrottando le
sopracciglia.
«Non ho mai detto il contrario.»
«Ma il sottinteso era che di solito non lo sono.
Devi sapere che ero con un tipo, e lui è andato
avanti per tutta la sera a dirmi quant’era carina e
dolce la mia fi…» Mi protesi verso di lei e le tappai
la bocca con una mano.
«Magari me lo racconti un’altra volta, troietta.»
Indicai con lo sguardo Maddy seduta sul sedile
posteriore.
«Ma dài» disse Maddy interrompendoci. «Come
se non sapessi quello che stava dicendo… Non
sono poi così innocente.»
Lasciai perdere Gin, e mi girai in un lampo. «In
che senso non sei innocente?» Avrei scommesso
cinquanta dollari che in quel momento la mia pelle,
sempre abbronzata, divenne bianca come un
cencio.
Maddy incrociò le braccia e alzò gli occhi al cielo.
«Sono ancora vergine, lo sai che te lo direi. Ma so
benissimo che cosa vuol dire baciare lì una ragazza,
non sono mica scema!»
«Ti è mai capitato?» Trattenni il respiro: non ero
sicura di voler sapere la verità.
Scosse la testa, si morse il labbro e poi guardò
fuori dal finestrino. «No, ma qualche volta mi fa
proprio incazzare quando mi tratti come una
bambina. Sono grande, sorellina, devi fartene una
ragione. E se vorrò che un ragazzo mi baci anche là,
glielo lascerò fare di sicuro.»
«Baciarti là?» fece eco Gin. «Ah, vuoi dire la
pass…» Le diedi un pizzicotto sulla gamba prima
che potesse dire qualcosa che avrebbe fatto
incazzare Maddy ancora di più.
«Un’altra parola e sei morta» ringhiai a bassa
voce per farmi capire bene. Lei spalancò gli occhi, e
mi diede uno schiaffo per allontanarmi la mano.
«Mads, sai che io ci sono sempre, vero? Se per
caso vuoi parlare di questi argomenti.» Allungai
una mano dietro il poggiatesta, e lei me la strinse.
«Anche se non vivo a Las Vegas, puoi chiamarmi
quando vuoi, anche di notte, ok?»
Si protese in avanti e appoggiò la fronte sulla
mia mano. «Mi sei mancata» sussurrò.
Le strinsi le dita. «A me di più.»
Ammirai il suo sorriso perfetto. Il destino era
stato davvero benevolo con me dandomi Maddy
come sorella minore: io non ne avrei saputa
scegliere una migliore.
«Allora, andiamo in clinica?» chiese Gin
distruggendo la magia del momento.
«Sì, ho proprio voglia di vedere papà.»
La clinica dove mio padre era ricoverato si trovava
in cima a una collina che sovrastava una lunga
distesa di deserto. Faceva impressione: era come se
fosse stata costruita per tenere lontani da Las
Vegas i malati e i convalescenti, in modo che non
guastassero il fascino e le luci sfolgoranti dello
Strip.
Quando mi trovai nell’ingresso, rallentai senza
volere il passo. Le pareti erano dipinte di un giallo
chiaro e lungo il corridoio che percorremmo
c’erano qua e là dei mosaici che raffiguravano il
deserto.
Maddy si fermò di fronte a una porta aperta. «È
qui. Vuoi entrare da sola?»
«Sì, se non ti dispiace.» Lei fece un sorriso dolce:
era molto saggia per la sua età. Il modo in cui
riusciva a comprendere i sentimenti altrui era
sempre stato il suo dono più grande, un dono che
io certamente non possedevo. Forse, se avessi
avuto una personalità più simile alla sua e la sua
generosità, anch’io sarei stata in grado di stare
lontana dagli uomini che non facevano per me.
Forse era per questo che lei era ancora vergine:
perché riusciva a riconoscere i bastardi a chilometri
di distanza.
«Dài, Gin, facciamoci un giro al bar e vediamo se
Mrs Hathaway ha preparato i suoi famosi biscotti.»
Gli occhi di Ginelle si illuminarono come se
stessero guardando un diamante scintillante.
«Torniamo subito.» Prese Maddy sottobraccio e si
allontanarono a grandi passi, in cerca di dolciumi.
Feci un respiro profondo e strinsi a pugno le
mani che tremavano.
“Ce la posso fare. È mio padre. È papà.”
Entrai nella stanza a passi felpati, scostai la
tendina che era stata tirata intorno al letto per
garantire un po’ di tranquillità e vidi mio padre.
Sembrava che stesse dormendo, ma io sapevo che
non era così. Mi avvicinai e mi sedetti al suo
capezzale, con le lacrime che mi offuscavano gli
occhi.
Le mani giacevano inerti lungo i suoi fianchi.
Gliene presi una, stringendola tra le mie, mi chinai,
e gliela baciai. «Papà…» dissi, con un tono di voce
appena percettibile. Mi schiarii la gola, e riprovai.
«Papà, sono io, Mia. Sono qui» sussurrai. Mi portai
la sua mano al petto, e mi avvicinai a lui più che
potevo. Aveva un aspetto mille volte migliore
rispetto a quando l’avevo visto dopo che Blaine e la
sua gang l’avevano pestato. Nel giro di due mesi, i
lividi sul viso erano scomparsi, ma gli restavano
ancora alcuni segni rossi, spessi come un tratto di
matita, sulla tempia e sul lato del volto. Forse
sarebbero rimasti per sempre, forse sarebbero
scomparsi: con il tempo l’avremmo scoperto.
Per il resto, stava bene. Aveva perso molti chili,
tanti da non sembrare nemmeno più il mio solito
papà, grande e adorabile: pareva piuttosto un
guscio vuoto, che un tempo aveva ospitato un
uomo grande e grosso, almeno fino a quando la
mamma non se n’era andata. Trattenni i singhiozzi,
ma le lacrime sgorgarono comunque copiose.
«Perché ti sei cacciato nei guai con Blaine?
Perché?» Gli accarezzai la mano con il mento, poi
appoggiai la testa sul suo petto, e buttai fuori tutto:
ero arrabbiata perché si era lasciato fare del male,
per la sua abitudine di farsi prestare soldi e di
scommettere, perché era un ubriacone, e per
avermi lasciata da sola a rimettere a posto le cose,
per l’ennesima volta, come sempre.
«Papà, stavolta l’hai davvero combinata grossa.
Ciò che sto facendo per te…» Lasciai la frase a
metà, perché non volevo ammettere che ero una
escort. Suonava davvero male, indipendentemente
dal fatto che andassi o meno a letto con i miei
clienti: la parola escort, in sé, aveva una forte
connotazione negativa.
«Sto facendo tutto il possibile. Sto proteggendo
Maddy: mi sto assicurando che continui ad andare
al college. Ha degli ottimi voti, sai? Ha anche
conosciuto un ragazzo: forse è il caso che tu ti
risvegli per metterlo un po’ in riga.» Studiai il suo
volto, sperando con tutto il cuore che avrebbe
aperto gli occhi, ma non successe nulla.
Presi un fazzolettino di carta dal comodino e mi
soffiai il naso. «Ho incontrato persone davvero
incredibili negli ultimi mesi. All’inizio pensavo che
lavorare per zia Millie sarebbe stato un incubo, ma
in realtà non è affatto male. Il mio primo cliente è
stato Weston Channing III. Proprio così, “terzo”.
L’ho preso in giro per tutto il tempo.» Risi e
ripensai a Wes e a come ci eravamo conosciuti; a
come, nel momento in cui l’avevo visto salire quelle
scale sulla spiaggia il giorno del nostro primo
incontro, avevo capito con certezza che mi avrebbe
affascinata.
«Wes mi ha insegnato a fare surf e mi ha fatto
capire che non tutti gli uomini sono fatti allo stesso
modo.» Ridacchiando, mi appoggiai allo schienale
della sedia, con i piedi sul bordo del letto di papà, e
gli raccontai dei miei due ragazzi preferiti. Di Wes,
che faceva lo sceneggiatore e regista e veniva da
una famiglia ricca e potente. Promisi a mio padre
che, se si fosse svegliato, l’avrei portato a vedere
uno dei suoi film e gli avrei comprato una
confezione gigantesca di popcorn.
«E poi c’è stato Alec; un francese, papà. Un
francese vero. Mi chiamava ma jolie, che in francese
significa qualcosa come “mia bella”, e devo
ammettere che quel soprannome mi piaceva.» Mi
scostai una ciocca di capelli dal viso e alzai lo
sguardo al soffitto. C’erano panorami marini sopra
il letto di papà: mi piacevano, mi rinfrancava
pensare che, quando si sarebbe svegliato, la prima
cosa che avrebbe visto sarebbe stata una spiaggia e
non un anonimo muro bianco.
«E così Alec mi ha dipinta, papà. Il suo genere di
quadri, in realtà, non ti piacerebbe troppo, perché
ero senza vestiti, ma lui non se n’è approfittato. Ci
siamo divertiti e lui mi ha voluto bene: il suo
volermi bene era diverso da qualsiasi sentimento, o
amore, che io avessi mai provato prima, o dal
sentimento vivo e intenso che provo tuttora nei
confronti di Wes. È qualcosa che assomiglia
piuttosto al mio voler bene a Ginelle, solo che Alec
è un uomo e con lui c’è un po’ più di contatto
fisico.» Molto di più, a essere sincera. Sorrisi, e
guardai mio padre. No, i suoi occhi erano ancora
chiusi.
«Alec mi ha insegnato che non c’è niente di male
a voler bene alle persone, oltre a te, Mads e Gin.
Che si può tenere a qualcun altro, e persino amarlo,
anche senza dover per forza stare insieme per
sempre: è stata una cosa tenera. Il tempo che ho
trascorso con lui mi ha aiutato a capire alcune cose
di me stessa. È triste pensare che non li rivedrò mai
più… cioè forse Wes sì, sai, devo ancora capire che
cosa fare con lui, papà.» Fissai il suo viso, sereno e
tranquillo, e mi resi conto che era quello il
momento che avevo tanto temuto per più di un
mese: il momento in cui avrei dovuto trasformare
in parole i pensieri che affollavano il mio
subconscio.
Guardai verso la porta, non c’era nessuno.
Lontana da orecchie indiscrete, mi lasciai andare.
«Papà» dissi con voce tremante, passandomi la
lingua sulle labbra per l’imbarazzo e sospirando.
«Potrei perdere la testa per Wes, davvero. Ma sai
una cosa?» gli chiesi, anche se sapevo che non
poteva rispondermi. «Questo mi spaventa. In
passato sono stata fregata più di una volta, non me
n’è mai andata bene una. Il cuore mi dice di
buttarmi, ma la testa mi ricorda tutti quei coglioni
che ci sono stati prima di Wes. E, oltretutto, devo
ancora lavorare per una decina di mesi, per finire
di ripagare il debito con Blaine» dissi sospirando.
«Sì, ovviamente Wes si è offerto di aiutarmi con i
soldi e mi ha chiesto di restare. E io non l’ho fatto.
L’ho lasciato a Malibu.»
Chiusi gli occhi e mi appoggiai di nuovo allo
schienale della sedia, prima di portarmi la mano al
cuore: mi faceva male, per non essere riuscita ad
accettare la promessa di avere qualcosa di più con
Wes. Anche se l’avrei voluto, più di ogni altra cosa.
Non ero il tipo di ragazza difficile da accontentare,
interessata solo ai soldi, alle macchine di lusso e
all’eterna giovinezza. No: ero cresciuta povera, ero
abituata a faticare, mi prendevo cura di mia sorella
e aiutavo mio padre a sopravvivere. La vita che Wes
conduceva non era nemmeno lontanamente
paragonabile a quella che facevo io, e questo era
parte del fascino della situazione: il momento,
però, non era quello giusto, e proprio per questo
era stato così facile finire tra le braccia di Alec.
Finché si può, d’altronde, bisogna vivere la vita fino
in fondo e fare tante esperienze.
«Quanto vorrei che ti svegliassi.» Gli strinsi la
mano, e gliela baciai un’altra volta. «Dài, papà, apri
gli occhi. Abbiamo bisogno di te: Maddy ha
bisogno di te, e anch’io.»
Mia sorella e Ginelle tornarono qualche minuto
più tardi. Sentii che Maddy aggiornava nostro
padre sulla sua scuola e dimenticava di proposito
di parlargli del ragazzo che aveva conosciuto, cosa
per cui decisi di rimproverarla in seguito. Poi Gin
raccontò diverse barzellette che aveva appena
imparato. Nel frattempo tre paia di occhi erano in
allerta e aspettavano un segno di vita da parte di
mio padre: aspettavamo un cenno che ci dicesse
che non ci aveva ancora lasciato.
Prima che me ne andassi, il medico mi aggiornò
sulla prognosi. Fisicamente papà stava andando
benissimo, era quasi completamente guarito. Un
fisioterapista passava da lui ogni giorno, per fargli
muovere le gambe e le braccia. Avrebbero
insegnato anche a Maddy come fare, per stimolarlo
ancora di più. Il pensiero che fosse lei a imparare,
che io non sarei stata lì ad aiutare la mia famiglia a
superare quel periodo, mi uccise.
Quando ce ne andammo, non ne potevo più.
Casa. Avevo bisogno di andare a casa: mangiare
qualcosa seduta al tavolo, scolarmi un paio di
birrette con la mia migliore amica e mettermi a
dormire per dimenticare gli ultimi due mesi. Il
giorno dopo avrei incontrato Blaine.
2
Ginelle e io attraversammo il casinò decise a
portare a termine la nostra missione: andare da
Blaine nel suo ufficio, dargli l’assegno della mia
seconda rata e svignarcela il prima possibile. Il
giorno dopo avrei dovuto sorbirmi un sacco di
appuntamenti per farmi bella, e il giorno dopo
ancora sarebbe iniziato con il volo per Chicago per
incontrare il mio nuovo cliente.
«Secondo te, perché ha un ufficio in un hotel?»
mi domandò Gin mentre ci facevamo largo tra
donne poco vestite che servivano da bere.
Non erano nemmeno le dieci del mattino, e
l’alcol scorreva già a fiumi. C’è un motivo per cui i
giocatori non possono vedere l’esterno nei piani
degli hotel che ospitano i casinò: così hanno
l’impressione che sia sempre presto. Ci sono
rumori artificiali, musica, aperitivi e drink gratis,
almeno finché rimangono lì a scommettere: tutto
ciò finisce per renderli zombie ubriachi, che
ucciderebbero pur di vincere. Ma non vincono mai:
il banco vince sempre. È una storia vecchia, forse la
più vecchia del mondo, eppure la gente è ancora
talmente stupida da tentare la sorte e mandare in
fumo i soldi per l’università dei figli o per l’affitto.
I giocatori più incalliti, come mio padre, iniziano
a chiedere soldi in prestito: molti soldi, più di
quanti potrebbero restituire in tutta la vita. Per
vincere, per ingraziarsi la buona sorte. Nel mio
caso, la buona sorte era una puttana fredda e
incattivita che fumava, aveva le tette finte e, per di
più, pure qualche malattia venerea.
«Blaine una volta mi ha detto di non avere alcun
bisogno di nascondersi. Raccontava di essere un
“investitore” e pensava che avere un ufficio e gente
alle sue dipendenze lo facesse sembrare meno un
criminale e più simile all’uomo d’affari che diceva
di essere.»
Gin sbuffò e fece una bolla con il chewing-gum.
«Davvero intelligente da parte sua.»
«Sì, be’, non ho mai detto che fosse uno stupido:
è solo un bastardo senza cuore che non prova
compassione per nessuno.»
Raggiungemmo gli ascensori, e poi il piano
dell’ufficio. Quando arrivai davanti alla porta mi
fermai e mi sistemai i capelli e la maglietta, per
essere certa che non lasciasse un solo millimetro di
pelle scoperta. Indossavo un giubbotto di pelle
abbinato a un paio di stivali da motociclista con le
borchie sul tacco. La ciliegina sulla torta era il
rossetto
rosso
vivo,
quello
che
durava
ventiquattr ’ore e prometteva di tingere il mio
broncio di un colore fiammante. Mi sentivo carica e
pronta ad affrontare quello stronzo minidotato. In
realtà il suo cazzo era assolutamente normale, ma
pensarlo meno maschio mi faceva stare meglio.
Mi girai verso Gin e mi fermai con la mano sulla
maniglia. «Ok, tu rimani qui.»
Gli occhi di Ginelle si accesero di rabbia. Si mise
una mano sul fianco, e mi lanciò uno sguardo
incredulo. «Se pensi, anche solo per un attimo,
di…» Con una mossa da ninja, le misi una mano
sulla bocca e mi avvicinai: ero così vicina che
riuscivo a sentire il profumo di menta del suo
chewing-gum.
«Gin, Blaine ha già fatto del male a una persona
della mia famiglia, molto male. Ha minacciato di
farne anche a me e a Maddy. Non posso sopportare
l’idea che minacci anche un’altra persona a cui
voglio bene. Desidero che tu te ne vada e mi aspetti
al bar qui sotto.» Presi il portafoglio e tirai fuori un
biglietto da venti. «Ti prego» le dissi
mettendoglielo in mano.
Le feci segno di andare e i suoi occhi si
riempirono di lacrime. «E se facesse del male a te?»
«Non me ne farà. Per lui valgo troppi soldi,
credimi.» La guardai negli occhi, con uno sguardo
che esprimeva affetto e protezione.
Fece un sospiro lungo e profondo. «Okay, se non
sei di ritorno entro mezz’ora chiamerò la polizia.»
«Va bene. E adesso vai, prima che qualcuno ti
veda.»
La feci girare su se stessa, e la spinsi
delicatamente verso l’ascensore.
Aspettai finché non entrò nella cabina. «Ti
voglio un mondo di bene» mi disse.
«Anch’io. Ci vediamo fra un po’, troietta.»
Lei spalancò gli occhi ma, prima che potesse
reagire, le porte dell’ascensore si chiusero. Feci una
risatina poi assunsi un’espressione risoluta: era
arrivato il momento di affrontare quel mostro.
L’ufficio di Blaine era nei toni del nero, del rosso e
del bianco, e mi ricordava la bandiera a scacchi dei
Gran Premi. Non era poi così elegante, ma
esprimeva benissimo il suo desiderio di “vincere”.
Una bionda procace e siliconata, con il culo piccolo,
l’intelligenza di una gallina e un vitino da
anoressica, mi accompagnò nella stanza.
«Mr Pintero, Mia Saunders vorrebbe vederla.»
Mi fece passare. Blaine si alzò in piedi: dall’alto del
suo metro e novantatré mi sovrastava. Era grande e
grosso, e aveva messo su una ventina di chili di
muscoli dall’ultima volta che l’avevo visto.
«Mia, piccola Mia» disse, porgendomi la mano e
cercando di attirarmi a sé. Io evitai di stringergliela
e la alzai, tenendo il palmo rivolto verso di lui.
«No, sono qui per lavoro, non per piacere.»
«Perché non possiamo fare un po’ di entrambi?»
ribatté con tono insinuante e lo sguardo da
serpente. La pupilla era nera e indagatrice, come se
tentasse di affascinarmi con una sola occhiata.
Distolsi lo sguardo e mi sedetti alla sua scrivania.
Tirai fuori una busta dalla tasca della giacca, e la
sbattei sul vetro della scrivania
«Ecco quello che volevi.»
«Come fai a sapere ciò che voglio, piccola Mia?
Non ci vediamo da tantissimo tempo. Un tempo
abbastanza lungo per lenire un po’ le ferite, non
credi?» Invece di sedersi di fronte a me, scelse la
sedia vicino alla mia.
«Che cosa vuoi allora, Blaine?»
«Un po’ del tuo tempo» rispose lui
semplicemente.
«Okay, tesoro, ricevuto. Tempo per cosa?»
«Vedo che non hai perso il tuo solito senso
dell’umorismo.»
«Blaine, non farmi perdere tempo. Vai dritto al
punto.»
«Voglio che tu ceni con me, stasera.»
Quell’uomo andava internato. «Ma sei pazzo?»
«L’ultima volta che ho controllato, non lo ero
affatto» disse in tono distaccato.
Improvvisamente in quel piccolo ufficio
affacciato sullo Strip di Las Vegas cominciò a fare
troppo caldo. Sentivo la pelle bruciarmi, come
dopo un bagno nell’acido: o forse era la rabbia che
covavo, così intensa da risultare insostenibile.
«Hai picchiato mio padre talmente forte che è
ancora in coma.»
«Solo per una questione di affari, e lo sai. Non
mi ha dato scelta.» Allungò il braccio, per
afferrarmi la mano: nell’attimo in cui mi toccò, la
ritirai di scatto.
«Non osare sfiorarmi: hai perso il diritto di farlo
anni fa, quando mi hai fregata. E ora hai
massacrato mio padre. Lo sai, vero, che non si è
ancora svegliato dal coma?»
Alzai così tanto la voce che forse la gente
nell’ufficio vicino riuscì a sentirmi. «I medici non
sanno ancora se il danno che ha subito al cervello
gli causerà problemi nella parola o nei movimenti!»
Blaine tenne fisso lo sguardo da serpente su di
me. «Si è trattato di uno sfortunato effetto
collaterale di quando l’abbiamo punito. Ho pensato
io all’uomo che ha fatto del male a tuo padre: non
darà più fastidio. Quella violenza inutile è stata
vendicata, te lo assicuro.»
«Me l’assicuri? Ma ti rendi conto di cosa stai
dicendo? Parli della vita come se fosse qualcosa che
si può tranquillamente dare o togliere.»
«La vita è breve.»
«Sì, soprattutto se i tuoi sgherri vanno in giro a
toglierla alla gente. Non ci posso credere.» Mi alzai
in piedi, e indicai la busta sul tavolo. «Ecco i tuoi
soldi: la seconda rata. Tra un mese ti spedirò la
terza.»
«Puoi portarmela di persona.» Strinse forte i
denti e afferrò i braccioli della sedia così forte che
le nocche sbiancarono. «Oh, sì, me la porterai di
persona» mi disse con un tono che non ammetteva
replica, ma io non ero una dei suoi galoppini.
«Il nostro accordo non prevedeva questo.»
«Gli accordi possono essere ridiscussi.»
«Questo no.»
«E se ti prenoto per tutto il mese?» disse lui, in
tono minaccioso.
Fu a quel punto che mi girai e mi ritrovai
vicinissima al suo viso. Riuscivo a vedere il mio
fiato che gli scompigliava leggermente le punte dei
capelli castano dorato. «Se fossi in te, ci penserei
due volte a lasciarmi avvicinare così tanto quando
sei vulnerabile.»
«A me piace rischiare» disse con un sorrisetto.
«Non tentare la sorte con me, bello: potrebbe
essere l’ultima volta. Non sono responsabile di ciò
che ti succede mentre dormi, e mi sembra già di
sentire che cosa dirò alla polizia.» Mi raddrizzai, mi
arrotolai una ciocca di capelli tra le dita e feci una
smorfia imbronciata. «È stato un incidente, agente,
lo giuro. Stavamo facendo sesso, e a lui piaceva
farlo in modo un po’ violento: non pensavo che
sarebbe soffocato. Un attimo prima era lì che stava
per venire, e poi di colpo…» Feci schioccare la
lingua, e lo guardai. Deglutì visibilmente, ma non
lasciò trapelare in alcun modo che avevo colto nel
segno: io però lo conoscevo abbastanza bene da
sapere che non era poi così sicuro che stessi
davvero bluffando. Ma non importava: già solo il
fatto che se lo chiedesse per me era una vittoria.
«Ora devo proprio andare. Grazie per
quest’incontro a quattr ’occhi. È sempre bello
rivedere i vecchi amici, specie se non invecchiano
bene. Dovresti cercare una crema per il viso, e
anche una per il contorno occhi: questo caldo del
deserto è letale per la pelle. Ci vediamo!» Agitai le
dita in un cenno di saluto sexy e me ne andai.
Quando arrivai al bar, Ginelle aveva davanti a sé
due bicchierini di liquore.
«Oh, grazie a Dio!» esclamò, mettendosi comoda
sulla sedia. Presi uno dei bicchierini e trangugiai la
tequila. Poi afferrai il secondo e vuotai anche
quello. «Ehi! Li avevo presi per festeggiare!»
«Altri due, allora» dissi indicando i bicchieri ma
guardando il barista. Lui annuì, prese la tequila e
versò un altro paio di bicchierini.
Dopo quattro di fila, smisi finalmente di
tremare.
«Stai bene?» domandò Gin, chinandosi verso di
me.
«Sì, è solo che non c’è nessun altro in grado di
farmi arrabbiare così.»
Bevve un sorso della sua bibita e riappoggiò il
bicchiere sul bancone. «Ti ha minacciata?»
«Sì, ha minacciato di diventare il mio prossimo
cliente. Riesci a crederci?»
Ginelle spalancò gli occhi, che diventarono
grandi come dischi. «Cosa? Ma è pazzo?»
Annuii. «Sì! È esattamente quello che gli ho
detto io.»
«E come l’hai risolta? Non sarà davvero il tuo
prossimo cliente, no?» Cambiò posizione,
imbarazzata dall’argomento proprio come lo ero
stata io un quarto d’ora prima.
«Ma no, figuriamoci! In sintesi gli ho detto che,
nel caso, lo ucciderò nel sonno.»
Spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi, poi gettò
la testa all’indietro scoppiando a ridere.
«Sei sempre la solita» mi disse ridacchiando, e
continuò finché le risate non si trasformarono in
singhiozzi. «Solo tu riesci a minacciare persino un
usuraio, uno che a quanto pare uccide la gente per
lavoro. Dovresti iniziare a guardarti le spalle.»
Riflettei per un attimo su queste parole. Certo,
Blaine avrebbe potuto prendersela con me, ma per
lui sarebbe stato come uccidere la gallina dalle
uova d’oro. Finché gli dovevo dei soldi, o lui aveva
la percezione che gliene dovessi, valevo molto di
più da viva che da morta. Per il momento questo
ragionamento reggeva, e almeno mi avrebbe
permesso di tirare avanti ancora un anno, un
tempo sufficiente per saldare il mio debito con lui
e decidere la mossa successiva.
«E adesso parliamo un po’ di quegli
appuntamenti che mi hai preso per domani. Tra le
clausole del mio contratto» dissi facendo il gesto
delle virgolette per sottolineare che la cosa non mi
andava proprio giù «c’è il fatto di essere sempre
perfettamente presentabile in qualsiasi momento.»
«Be’, con il budget che hai a disposizione ce ne
andremo in un centro benessere, tu, io e Mads. Ho
un buono, così una di noi entra gratis. Ci faranno
trattamenti per il viso, manicure, pedicure e
ceretta! Ah, per te la ceretta è totale: ho dovuto
pagare qualcosina in più, ma tu mi hai detto che ne
avevi bisogno, quindi…»
«E sei riuscita a rimanere nel budget?»
«Conosco un sacco di gente, mi fanno degli
sconti da paura. Tranquilla, non ho sforato.» Gin
rovistò nella borsa e tirò fuori un pacchetto di
chewing-gum: lo aprì e se ne mise uno in bocca,
cominciò a masticarlo e sospirò.
La guardai, cercando di capire che cosa c’era di
diverso dal solito in lei, perché effettivamente
qualcosa non mi tornava. «Ma cos’è questa mania
del chewing-gum, adesso?»
Le si illuminò lo sguardo e un accenno di sorriso
si diffuse sul suo volto. «Sto cercando di smettere.»
«Smettere che cosa?»
Il sorriso svanì di colpo e lei sporse le labbra,
pizzicandole tra il pollice e l’indice. «Di fumare»
disse piano.
Oh, cavolo, e io non ci avevo neanche fatto caso.
Merda, di solito una si accorge quando la sua
migliore amica all’improvviso non ha più quel
cilindretto canceroso che spunta dal lato della
bocca. «Caspita, Gin, ma è meraviglioso! Come sta
andando? E perché non me l’hai detto?»
Lei sospirò. «Ecco, te l’avrei anche detto, ma tu
eri sempre a parlare di Wes, di Alec e del lavoro, e
non mi hai chiesto neanche una volta come me la
passavo qui a Las Vegas, tranne quando mi
domandavi di controllare come stavano Maddy e
tuo padre.»
Chiusi gli occhi, feci un sospiro e poi li riaprii,
guardando la mia migliore amica, l’unica e sola.
«Mi dispiace di non essere stata una buona amica
per te.»
Lei scosse la testa. «No, hai avuto molte
preoccupazioni, lo capisco.»
«Però non va bene. Anche tu sei importante per
me, e voglio sapere che cosa succede nella tua vita.
Sei sempre la mia migliore amica anche se ho
incasinato tutto. Non succederà mai più, te lo
prometto.» Ero sincera, non ero stata un granché
come amica per Gin, e invece lei non aveva fatto
che aiutarmi e starmi vicina in questo
momentaccio. Si era presa cura di Maddy e aveva
assistito mio padre nonostante avesse la sua vita e
relativi problemi.
«E se succedesse di nuovo, io cosa ci guadagno?»
mi disse con tono pacato, già pronta a perdonarmi.
Facevamo sempre così: non ci eravamo mai tenute
il muso per più di un giorno in tutta la vita.
Ci pensai per un attimo. «Le foto di uno dei miei
stalloni nudo?» Gliel’avevo proposto perché sapevo
benissimo che pensava continuamente al sesso.
«Affare fatto!» Allungò la mano e ci stringemmo
i mignoli, poi baciammo le dita intrecciate, prima
lei e poi io. Non lasciai in giro nessuna macchia
rossa: il mio era davvero il miglior rossetto del
mondo! «Però, sai, sei stata molto cattiva…»
Aggrottò le sopracciglia e fece una faccia da
cagnolino triste. «Credo che dovresti darmi
qualcosa per provarmi che la mercanzia ce l’hai
davvero.»
Mi passai la lingua sulle labbra e la guardai
dritta negli occhi. Poi sorrisi, continuai a tenere lo
sguardo fisso su di lei ma presi il telefono dalla
tasca posteriore dei pantaloni. Con un movimento
rapido arrivai alla schermata con la galleria delle
foto. Scesi fino a trovare quella che volevo, e poi
girai il telefono verso Gin.
Lei lo guardò, e rimase a bocca aperta. «Ma che
razza di puttanella…» sussurrò, con la bocca
spalancata e gli occhi incollati allo schermo. Ripresi
il telefono e guardai la foto che avevo scattato ad
Alec mentre dormiva. Era steso a pancia in giù, e
aveva in bella mostra la schiena forte e muscolosa e
il culo nudo e sodo.
I lunghi capelli ramati erano sparsi sul cuscino,
e non facevano altro che sottolineare quant’era
perfetto il suo corpo. La luce quella mattina era
particolarmente
bella,
e
avevo
dovuto
assolutamente catturarla.
Selezionai l’immagine successiva: era Wes, al
mare, dopo che avevamo fatto surf insieme senza
l’istruttore. Durante il mese con lui ero diventata
particolarmente abile nell’arte del surf. Quel giorno
ero in spiaggia e stavo guardando il telefono
quando lui era uscito dalle onde dell’oceano e aveva
iniziato a togliersi il costume bagnato. Il tessuto
era scostato e, quando la fotocamera aveva scattato
la foto, era abbassato fin quasi al punto di non
ritorno. L’immagine mostrava il suo petto dorato e
scendeva fino alla vita asciutta e perfetta. Una
striscia di peli anticipava il ciuffo di riccioli intorno
al suo membro, nascosto dal costume bagnato.
Cercai di riprendere il telefono ma Ginelle si
oppose. Afferrò il suo bicchierino di tequila e lo
vuotò in un colpo solo. «Non sai quanto ti odio»
disse guardando la foto.
«Sì, anch’io mi odio» dissi guardando il mio
dolce Wes. Lui, che mi aveva chiesto di restare:
qualcosa di me era rimasto con quel regista
californiano che amava il surf, ma non avrei mai
avuto il coraggio di ammetterlo, mai e poi mai.
3
Il maggiordomo che mi accolse mi fece attraversare
tutto l’attico e superare una porta a due battenti
alla fine di un enorme appartamento al
quattordicesimo
piano.
L’ascensore
pareva
un’attrazione da luna park per tutto il tempo che
impiegò ad arrivare fino in cima: avrei scommesso
una bella cifra che il panorama sarebbe stato
mozzafiato.
L’uomo posò il mio borsone su una panca
imbottita davanti a un letto di dimensioni
impressionanti, poi si girò e scomparve. Fu a quel
punto che sentii il rumore dell’acqua che scorreva.
Qualcuno si stava facendo una doccia.
“Merda. Merda. Merda.”
Incontrare il mio nuovo cliente nudo era l’ultima
cosa che volevo. Strinsi la mano intorno alla
maniglia del borsone e feci per uscire di scena in
tutta fretta, quando la porta si aprì. Una sagoma
grande e grossa emerse da una densa nuvola di
vapore. Le luci intorno al suo profilo creavano
un’immagine eterea che non avrebbe sfigurato sul
grande schermo. Rimasi impietrita, travolta da
tanta meraviglia.
In quel momento il mio cliente entrò nella
stanza, con addosso solo un piccolo asciugamano,
in equilibrio precario sui fianchi. L’acqua gocciolava
in piccoli rivoli sul suo corpo muscoloso, e ne
faceva risplendere ogni singolo centimetro. Mi si
azzerò la salivazione, e in quel momento il mio
cuore avrebbe anche potuto smettere di battere. In
effetti sarebbe stato un momento perfetto per
andarsene: in sostanza, a ventiquattro anni, avevo
finalmente visto la perfezione, in tutta la sua
gloriosa nudità.
“Santa Madre di Dio.” Forse mi ero sbavata
addosso. Wes e Alec erano uomini di cui scrivere a
casa, e infatti scrivevo di loro molto spesso: a
Ginelle, che leggeva avidamente ogni lettera.
Anthony Fasano, invece, andava oltre ciò che una
donna poteva comprendere: era massiccio, come
una casa di mattoni. Le sue cosce, da ciò che
riuscivo a vedere sotto l’asciugamano, erano grandi
come tronchi d’albero. I pettorali e gli addominali
disegnavano una specie di griglia sul suo petto e
sulla pancia. E le braccia… La voglia di toccarle mi
mandava in confusione, avrei voluto farmi
abbracciare, averle intorno a me, far andare via
tutto il dolore degli ultimi due mesi.
Anthony aveva i capelli corvini tirati all’indietro.
L’acqua gocciolava dalle ciocche e cadeva sulle
spalle più larghe che avessi mai visto: e dire che
avevo visto un bel numero di uomini fighi nudi.
Lui aveva un fisico perfetto, e non in quel modo
volgare da palestrato, con i muscoli gonfi e le vene
sporgenti come corde. No, lui era una storia a sé.
Sapevo che era un pugile, e avevo visto una sua
fotografia in calzoncini da boxe, ma era ben poca
cosa rispetto al suo aspetto dal vivo. Porca miseria,
era un vero colpo. Più di una mano vincente a
poker.
Mi passai la lingua sulle labbra, e rimasi a
contemplarlo, lasciando cadere il borsone sulla
panca ai piedi del letto. Lo sguardo assassino di
quel dio greco mi squadrò dalla testa ai piedi. Era
appoggiato allo stipite con una spalla ben tornita e
dall’aria forte e si era messo intorno al collo
l’asciugamano che prima gli copriva i fianchi. Poi
aveva incrociato le braccia sul petto. Come avrei
voluto che non l’avesse fatto: nel giro di un attimo
le mie antenne sessuali si drizzarono e fui costretta
a controllare il respiro per non svenire di fronte
alla pura perfezione maschile che avevo davanti.
«Papi, è arrivata Mia» furono le prime parole
pronunciate da quella bocca con le labbra
perfettamente disegnate.
“Un attimo… Papi?”
Un altro uomo entrò nella stanza e mise un
braccio intorno alla vita del dio greco. Sul suo viso
era dipinto un sorriso radioso. Anthony era
massiccio, mentre quest’uomo era più piccolo ma
comunque in forma, con un addome scolpito. Non
si vedeva neanche un filo di grasso, e io
normalmente ne vedevo parecchio. Il suo corpo mi
ricordava quello del mio francese: non era
magrissimo, ma l’imponente muro di muscoli a cui
era appoggiato avrebbe potuto far sembrare
qualunque uomo meno grosso di quanto in realtà
fosse.
E comunque aveva un viso incredibilmente
affascinante: bello, quasi androgino. Un volto che ti
faceva venire voglia di fotografarlo e appendere il
ritratto alle pareti. Poiché vivevo in California, ero
quasi sicura che fosse latinoamericano: aveva i
capelli scuri, gli occhi scuri, la pelle scura, e i
lineamenti caratteristici.
Il modo in cui quei due se ne stavano in piedi
come se niente fosse, praticamente nudi,
appoggiati l’uno all’altro, era una scena davvero
potente, e proprio in quel momento ebbi la
rivelazione, come un fulmine a ciel sereno. Sono
quasi sicura di essere rimasta a bocca aperta, e di
aver puntato un dito prima verso uno e poi verso
l’altro. «Oh! Wow! Okay, dunque… Ora so perché
avete chiesto di me.»
«Che ragazza intelligente hai scelto» disse
l’uomo sconosciuto. Poi mi squadrò dalla testa ai
piedi. «E anche incredibilmente bella» aggiunse
aggrottando la fronte. «Dovevi proprio scegliere la
più bella di tutte, eh?» Si scostò da Anthony,
incrociò le braccia sul petto, e fece un sospiro
teatrale.
«Mi
devo
preoccupare?»
chiese,
tamburellando il pavimento con un piede.
Gli occhi di Anthony parvero esplorare le mie
curve, poi fece un sorriso malvagio. «Forse»
rispose, scandendo bene la parola. «E sì, ho dovuto
scegliere la migliore. La mia famiglia vorrebbe
vedermi con la donna perfetta.» Allungò la mano
verso di me, ma guardò l’uomo al suo fianco. «Lei è
dannatamente perfetta, non sei d’accordo?»
L’ispanico serrò le labbra e poi fece uno sguardo
severo. «Sì. Sei bellissima» disse, decidendosi a
parlare direttamente con me.
«Grazie… suppongo di doverti ringraziare. Chi
sei?» Quella era la domanda da un milione di
dollari.
«Sono Hector Chavez, il compagno di Anthony.»
«No, per questo mese non lo sei» disse Anthony
con una risatina.
Hector si intristì. «Non è per niente divertente.
Dobbiamo risolvere questa situazione. Io, per
quanto mi riguarda, non ne ho la minima voglia.»
La sua voce si alzò di un tono, mentre lui si
scostava e scompariva oltre una porta,
probabilmente dentro una cabina armadio.
«State insieme?» domandai con un gesto in
direzione della porta.
Anthony fece un ampio sorriso e si toccò il
mento. Il mio cuore ricominciò a battere forte.
Cavolo, sapevo che non tutti gli uomini fighi sono
per forza gay, ma lui era bellissimo e decisamente
gay.
«Che ne dici se ci vestiamo prima di parlarne?»
«Sì. Sì, certo.» Mi girai e iniziai ad armeggiare
goffamente con la borsetta e il borsone.
«La seconda camera a sinistra è tua per questo
mese. Credo che troverai tutto ciò di cui hai
bisogno per i prossimi giorni. Puoi andare a
sistemarti. Domani Hector ti accompagnerà a
comprare ciò che ti manca.» Feci una smorfia di
imbarazzo. Anthony piegò la testa di lato, e mi
fissò con i suoi occhi azzurro ghiaccio. «Vedo che
non sei entusiasta all’idea. A qualunque ragazza
piacerebbe avere la possibilità di comprare una
quantità incredibile di vestiti costosi.»
Sbuffai. «Credo che scoprirai abbastanza in
fretta che non sono come tutte le altre ragazze. Per
non parlare del fatto che sono una donna, non una
ragazza.» Ammiccai, e abbassai lo sguardo. «Forse
vuoi sistemarti l’asciugamano: ti si vede il cazzo.»
Abbassai un’altra volta lo sguardo, oltre il ciuffo di
peli, fino alla punta del suo membro.
Lui non batté ciglio, ma si limitò a passarsi la
lingua sul labbro inferiore e a guardarmi fisso con
la sua aria impenetrabile. «Ci divertiremo con te
qui, già me lo immagino.»
Girai sui tacchi e aprii la porta. «Un uccellino –
oh, scusa – mi ha detto che non dovresti
immaginare troppo» dissi voltandogli le spalle e
uscendo dalla stanza.
Fece una risatina, scosse la testa e chiuse la
porta.
Mezz’ora dopo stavo sbocconcellando un sandwich
con insalata di pollo quando Hector e Anthony
riemersero.
«È l’insalata di pollo migliore che io abbia mai
mangiato» dissi a Renaldo, e scostai la sedia per
farli passare. Renaldo mi aveva aggiornata sulle
ultime novità mentre preparava il pranzo. A quanto
pareva, non era soltanto il maggiordomo, ma faceva
le pulizie, cucinava e si occupava di tutte le
necessità dei due uomini. Scoprii che era anche
ferrato nell’arte del pettegolezzo. A quanto pareva,
il fatto di essere una dipendente mi dava il diritto
di essere aggiornata sulle ultime vicende dei nostri
muscolosissimi capi.
Renaldo mi mise davanti due piatti, uno per lato,
e poi tornò a dedicarsi alle sue faccende,
canticchiando sommessamente. Era proprio un bel
tipo: sicuramente di origine latina o ispanica, era
grassottello e alto circa un metro e sessantacinque.
Aveva poco più di cinquant’anni ed era sicuramente
gay, a giudicare dall’entusiasmo con cui parlava di
quanto fossero belli i suoi capi: in lui c’era qualcosa
di tenero e amichevole che ricordava un cucciolo.
«Mia Saunders» disse Hector avvicinandosi a
braccia spalancate e stringendomi in un forte
abbraccio. «Grazie per essere venuta.»
«Non ringraziarmi. Sono stata pagata per venire,
no?»
Hector si sciolse dall’abbraccio e mi accarezzò
una ciocca di capelli sulla spalla. «Sì, ma comunque
non eri obbligata. Siamo felici che tu abbia deciso
di venire.»
Alzai le spalle. «Bene, è un piacere conoscervi.»
Diedi un’occhiata a quel bel pezzo d’uomo e
ritrassi la mano. «Anthony Fasano, il mio nuovo
fidanzato, giusto?»
Anthony ridacchiò ed esalò un profondo respiro
dal naso, prima di stringermi la mano con
decisione. «L’unico e il solo. Lietissimo di
conoscere la mia futura moglie.»
Hector girò la testa di scatto. «Un attimo: vorrai
dire moglie per finta. Se c’è qualcuno che può
portarti all’altare, ragazzo mio, quello sono io!»
Strinse le labbra e mormorò qualcosa tra i denti
mentre si sedeva vicino a me.
«Dài, Papi, non fare così. Stavo scherzando, e lo
sai. Non devi prendere tutto alla lettera.» Anthony
appoggiò le mani sui fianchi. «Puoi chiamarmi
Tony. Se devi fingere di essere la mia fidanzata, è
meglio chiarire subito le cose.» Si alzò e spostò la
sua massiccia figura verso lo sgabello, che sembrò
piccolo quando lui ci si sedette sopra. Rimasi a
fissare le gambe di legno, per vedere se si
sarebbero rotte sotto la pressione di tutti quei
muscoli.
Hector mi diede un colpetto con la spalla,
ridestandomi dallo stupore. «Ehi, guarda il tuo
orticello, ragazzina. Quella meraviglia sexy» disse,
con un cenno del mento verso Tony e poi di nuovo
verso di me «è mia, e mia soltanto. Se lo capisci,
non ci saranno problemi.»
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma riuscii solo
a sospirare e annuire.
«Allora, qual è il mio primo compito?» dissi
addentando il sandwich, e guardandomi intorno.
Tony fece fuori metà del suo sandwich in appena
tre morsi. Cavolo, quant’era grosso.
Si pulì la bocca con il tovagliolo. «Stasera
inizieremo a conoscerci noi tre. Domani mattina
incontrerai la mamma.»
Sono certa di essere rimasta di sasso: quelle
parole mi colpirono come una forte botta in testa.
«Domani? Dopo una sola sera, ti aspetti che mi
comporti come se fossi innamorata di te e riesca a
ingannare tua madre, la donna che ti ha messo al
mondo?»
Hector e Tony annuirono, poi fu Hector a
parlare. «La tua scheda diceva che sei un’attrice.
Abbiamo pensato che per noi questo è un
vantaggio. Poi domani è venerdì, e andiamo sempre
a cena dalla mamma con tutta la famiglia.»
«La famiglia?»
Tony sorrise e diede un morso vorace al
sandwich, poi trangugiò quel che rimaneva.
Renaldo gli mise un altro panino sul piatto,
accompagnato da un bicchiere di latte. Tony
tracannò il latte in una sola sorsata.
«Notevole» dissi.
Hector mi diede un altro colpetto sulla spalla.
«Lo so» disse aggrottando le sopracciglia e
sorridendo.
Mi concentrai sul problema che dovevo
affrontare. Girai la sedia per guardare in faccia
Hector e gli dissi: «Tu vuoi che io non solo finga di
essere la sua fidanzata, ma che riesca anche a
convincere sua madre e i suoi parenti? E tutto in un
colpo solo?».
Gli occhi castani di Hector brillarono. «Sì. Ho
sempre saputo che sei una donna intelligente.»
«È impossibile.»
«No, non credo.» Tony mi diede una pacca sulla
spalla, come se fossi un suo vecchio amico. «Ce la
puoi fare, te lo dico io. Sei bellissima, sei un tipo
alla mano ma tosto: agli italiani piacciono le donne
così. Cucini?»
«Me la cavo.»
Tony si passò la lingua sulle labbra, mise un
braccio sul ripiano della cucina e invase il mio
spazio personale. «Ti piace la cucina italiana?»
«E a chi non piace?»
Lui lanciò un’occhiata prima a Hector e poi a me.
«Ti lasci intimidire facilmente…?»
Spinsi il petto in fuori, raddrizzando la schiena e
invadendo a mia volta il suo spazio. «Ti sembro il
tipo che si lascia intimidire facilmente?»
«Non mi hai fatto finire.» Tony si avvicinò
ancora un po’, io cercai di non tirarmi indietro ma
non ci riuscii, perciò finii tra le braccia di Hector.
«Ti lasci intimidire dalle donne forti?»
«Senti, posso far fronte a un branco di italiani.»
Tony ed Hector sorrisero all’unisono, erano uno
lo specchio dell’altro. «Okay, così va bene. Adesso
possiamo iniziare a parlare dei dettagli.»
«Oh, aspetta. Per questo avremo bisogno di un
fiume di vino.» Hector sospirò e poi uscì dalla
stanza, molto probabilmente per andare a
prendere una bottiglia.
«Oh, mio Dio! Non potete aver fatto una cosa del
genere!» strillai. Riuscii per miracolo a non
rovesciare il vino sul tappeto, e soltanto poche
gocce finirono sul tavolo. Hector nascose la faccia
tra le mie gambe, ridendo così tanto che riuscivo a
sentire il calore del suo fiato sulla pelle. Tony pulì il
tavolo e mi riempì di nuovo il bicchiere.
«E invece sì. Ce ne siamo andati in giro nudi
come vermi. Abbiamo corso per tutto il campo da
football con addosso solo i caschi. Ciascuno di noi
aveva disegnata una lettera diversa sul petto e
quando è stata segnata l’ultima meta la
confraternita di studenti quasi al gran completo ha
invaso il campo. La scritta F-O-T-T-E-T-E-V-I P-E-R-D-EN-T-I è stata in bella vista per un po’, prima che ce
la dessimo a gambe.»
Diedi un buffetto sulla schiena a Hector. «Ma
c’eri anche tu?»
Lui annuì e iniziò a raccontare. «Fu poco dopo
quel fatto che Anthony e io ci mettemmo insieme.
In segreto, ecco.»
«Adesso chi sa che state insieme?» Era la
domanda che volevo fare da tutta la sera.
«Non
molte
persone»
rispose
Hector
amaramente.
«Papi, per favore…» lo pregò Tony.
Hector sospirò, poi mi abbracciò più forte.
Ricademmo contro il divano spalla contro spalla,
con lui praticamente incollato al mio fianco. Era
una bella sensazione, come se stessi abbracciando
un fratello. «Vedi, il mio Anthony non vorrebbe
avere problemi con la stampa, con la sua famiglia o
sul lavoro se dovesse rendere pubblico il suo
orientamento sessuale.»
«Gran bel casino» commentai, con un tono
risoluto che sorprese anche me.
«Puoi dirlo forte!» rispose Hector brindando con
me.
Tony posò il bicchiere sul tavolo. «Guarda, è già
abbastanza difficile essere un pugile prestato al
mondo degli affari. Aggiungi il fatto che sono gay e
capirai che disastro mi trovo ad affrontare. La
federazione forse non mi farà più salire sul ring.»
Mi indignai. «Non possono farti questo, cavolo.
Sarebbe calunnia, diffamazione o roba del genere!»
Il mio cervello offuscato dall’alcol in quel momento
non riusciva a farsi venire in mente tutti i motivi
per cui era sbagliato, ma appena avessi recuperato
l’uso della ragione mi sarebbe uscita una risposta
fantastica.
«Purtroppo è così, troveranno qualche altra
scusa, ma il fatto che sono gay sarà la vera causa.
Poi c’è il lavoro: sono un italiano che gestisce un
ristorante a conduzione familiare. La gente è
abituata a collegare il ristorante Da Fasano con i
volti di papà, mamma e delle mie quattro sorelle.»
Mi faceva piacere che avesse detto “papà” anziché
“padre”, proprio come facevo io: mi sentivo in
qualche modo vicina a lui.
Non riuscii a trattenermi. «Hai quattro sorelle!
Oh, cavolo! Lo sai che si renderanno conto subito
che non stiamo insieme, vero?» Scossi la testa, ed
Hector annuì. «Le donne si rendono sempre conto
quando c’è qualcosa che non va. Sei sicuro che non
sappiano già tutto di te?»
Tony si alzò e iniziò a camminare nervosamente.
«No, non sanno nulla. Non ho dato loro motivo di
sospettare niente. E ciò che tu, Mia, non sai ancora
è che il vero motivo per cui tu ti trovi qui è il buon
nome della mia famiglia.»
«I Fasano» ruggii, sentendomi come la bambina
che, in classe, sa la risposta e la dice ad alta voce
senza essere stata interpellata.
Si sedette sul bracciolo del divano. «Sì, sono
l’unico erede dell’azienda di mio padre, anche se
tutte le mie sorelle partecipano in qualche modo.
Prendiamo molte delle decisioni insieme.» Scosse
la testa e poi se la prese tra le mani. «In realtà le
cose sono più complicate. Vedi, sono l’unico erede
maschio dei Fasano. Se non avrò un figlio, il mio
cognome morirà con me. E, visto che sono gay…» Il
discorso gli morì tra le labbra e chinò di nuovo la
testa, come se avesse sulle spalle tutto il peso del
mondo.
«Vuoi dei figli?» dissi senza pensarci, come mi
capitava le volte in cui bevevo parecchio.
Tony si passò le dita tra i capelli. Poi guardò
Hector. «Be’, ecco, non ne abbiamo mai parlato
seriamente.»
Hector sembrò diventare più alto sulla sedia. Si
alzò, si avvicinò a Tony e gli prese il viso tra le
mani. «Tesoro, tu vuoi dei figli?»
Me ne sarei dovuta andare, sgattaiolando via, ma
non sarebbe stato nella mia natura. No, ero il tipo
di persona capace di rimanere muta come un pesce
nel mezzo di una situazione del genere senza farsi
coinvolgere.
Tony guardò Hector con amore e tristezza allo
stesso tempo. «Li ho sempre voluti» disse con un
groppo in gola che tradiva la sua emozione.
«Possiamo trovare un modo, con l’adozione o
forse anche con la maternità surrogata.»
Feci un gran sorriso, poi bevvi il resto del vino in
un sorso solo, sentendo la gola bruciare.
Nell’alzarmi barcollai e dovetti stringermi tra le
braccia per mantenere l’equilibrio e recuperare
l’uso delle gambe.
«Ora è il momento di andare. Non ho più nulla
da fare qui.» Mi piegai in avanti in un inchino. Gli
altri due non mi notarono nemmeno, troppo persi
nella loro dimensione di coppia. Si abbracciavano,
fronte contro fronte, e si sussurravano parole che
solo loro due potevano sentire. Era una bella
visione, anzi di più: era speciale, e io ero contenta
di averne fatto esperienza.
Senza girarmi, andai in fretta nella mia camera,
dove mi tuffai sul letto e mi addormentai
all’istante.
4
Tony tenne aperta la grande porta di legno con la
maniglia ricurva di metallo per far entrare Hector e
me nel ristorante. Erano le sei di un venerdì
pomeriggio, e il ristorante Da Fasano era in pieno
fermento. C’era un viavai di camerieri in camicia
bianca inamidata, pantaloni neri e cravatta che
versavano da bere e servivano ai tavoli piatti tipici
italiani con un profumo che non avevo mai sentito
prima. Quando sentii nell’aria una zaffata di
salsiccia, mi venne l’acquolina in bocca.
Uno dei camerieri si girò per versare il vino, e
così riuscii a vedere meglio com’era vestito. Risi
sotto i baffi, non appena notai la cravatta. Pasta.
Sulle cravatte erano riprodotti piatti di pasta.
«Perché ridi?» disse Hector avvicinandosi,
mentre Tony mi accompagnava verso il retro del
ristorante.
«Hai visto le cravatte?»
Hector fece un gran sorriso. «A dire il vero è
stata una mia idea.»
«Davvero?»
Annuì e mi fece l’occhiolino. La mano di Tony
smise di tenermi il braccio, mi scivolò sulla schiena
e mi accarezzò il fianco. Il suo fiato era caldo
mentre mi sussurrava all’orecchio. «Okay, ci sono
già tutti. Lasciati guidare e non meravigliarti se ti
tocco… molto.»
Mi sentii percorrere da brividi, che si fermarono
appena sopra il fondoschiena. Tony era
incredibilmente bello, anzi di più: era un figo
pazzesco, e per di più non era libero perché stava
con Hector, a cui ero più che affezionata. Feci un
respiro profondo, e nel frattempo raggiungemmo
una spessa tenda rossa, che nascondeva una zona
sul retro del ristorante.
«Questo è il nostro spazio privato, dove mangia
solo la nostra famiglia. È l’equivalente della sala da
pranzo a casa della mamma. Ora che siamo
diventati un bel gruppo, abbiamo dovuto spostare
tutte le nostre cene di famiglia qui al ristorante. Ho
ricavato questa stanza riservata per i Fasano.»
«Wow» dissi a bocca aperta, mentre Tony
scostava la tenda, rivelando un enorme ambiente
pieno di gente che rideva, mangiava e beveva. C’era
un caos incredibile: tutti parlavano ad alta voce,
gesticolavano come se stessero scacciando le
mosche e si davano di gomito mentre
chiacchieravano. Un manicomio… un manicomio
in piena regola: non avrei saputo descriverlo
diversamente.
Quando entrammo, tutti, uno dopo l’altro, ci
notarono: a un certo punto nella stanza cadde il
silenzio. Una donna piccola con la carnagione
olivastra, i capelli neri e un paio d’occhi azzurri che
mi erano familiari si alzò in piedi. Sembrava molto
sicura di sé. Teneva la schiena dritta, il petto in
fuori e gli occhi fissi su di me. Si avvicinò: per
prima cosa alzò la mano verso suo figlio, che si
chinò leggermente a baciarla sulla bocca. Non era
altro che un semplice contatto delle labbra,
eppure… Non avevo mai visto un uomo adulto
baciare la madre sulla bocca. Io sicuramente non
baciavo così mio padre, anzi non lo baciavo
proprio: il più delle volte ci limitavamo a un
abbraccio impacciato.
«Mamma» disse Tony, poi si raddrizzò e mi
indicò con un gesto. «Lei è Mia, la mia fidanzata.
Mia, lei è mia madre, Mona Fasano.»
«Sono felice di conoscerla, Mrs Fasano» dissi con
un sorriso.
Lei piegò appena le labbra in risposta, e mi si
avvicinò, squadrandomi senza alcun ritegno. «Sei
una bella donna» si decise a commentare. Io mi
attaccai ancora di più al fianco di Tony.
«Grazie» replicai, con l’ampio sorriso che ormai
era diventato il mio marchio di fabbrica.
Non si limitò a quel complimento. Piegò la testa
di lato e strinse le labbra. «E hai tutte le curve al
loro posto. Ai Fasano piacciono le donne con le
curve» disse mettendosi le mani sui fianchi
generosi. Se fosse stata più magra, l’avrei presa
come un’offesa.
«Mi piace mangiare, e la cucina italiana è la mia
preferita» ribattei, mentendo. Era meglio cercare di
guadagnare punti.
«Hai i fianchi larghi, mi darai dei nipotini
meravigliosi.»
«Ehm…» reagii perplessa a quell’osservazione
inattesa.
«Ma’» cercò di interromperla Tony, senza
successo. Quando quella donna aveva qualcosa da
dire, lo diceva, e gli altri dovevano starla a sentire.
«Sì, mi darai dei nipotini maschi bellissimi.
Dobbiamo tramandare il nome dei Fasano, sai?»
disse Mona con gli occhi fissi nei miei. «Tu vuoi
avere dei figli?»
A quel punto Tony venne in mio soccorso.
«Mamma, ne parliamo dopo. Muoio di fame e
voglio presentare Mia al resto della famiglia.»
«Okay, okay.» Mona batté le mani, poi mi afferrò
per le braccia e mi attirò a sé in un forte abbraccio.
Mi sussurrò all’orecchio, con un groppo in gola e
sul punto di piangere, parole che avrebbero fatto
sciogliere qualsiasi donna con un po’ di cuore: «Ti
stavo aspettando. Tutte le sere ho pregato che il
mio Anthony trovasse l’anima gemella. Sono felice
che tu sia qui con noi». Si tirò indietro, mi prese il
viso tra le mani e mi diede un grosso bacio sulla
bocca. Baciare una ragazza di solito non è niente di
che. A volte Gin o Maddy mi baciavano, ma non ero
mai stata baciata da una donna appena conosciuta,
da una persona a cui avrei sicuramente spezzato il
cuore. La cosa mi mise a disagio.
Hector si avvicinò e abbracciò un po’ dei
presenti prima di sistemarsi su una delle tre sedie
libere nella parte anteriore della stanza.
«Vieni, tesoro» disse Tony, facendo strada.
“Tesoro”: anche Wes mi chiamava così. In quella
situazione si sarebbe sicuramente divertito e forse
l’avrebbe addirittura inserita in uno dei suoi film,
come soggetto romantico. Un uomo d’affari
splendidamente bello, un pugile, assume una
escort perché è gay e non è pronto a confessarlo
alla propria famiglia.
Mi sedetti vicino a Hector. Ero sicurissima che
quella fosse una mossa strategica di Tony, ma
Hector era visibilmente deluso che Tony non si
fosse seduto vicino al suo vero compagno. Era tutto
così deprimente: due uomini, chiaramente
innamorati, che sentono di non poter stare insieme
per colpa della società, della famiglia, degli affari e
dei doveri. Presi la mano di Hector sotto il tavolo e
la strinsi. Lui mi diede un’occhiata di traverso,
piegando appena l’angolo della bocca. «Non
preoccuparti, cara. Ci ho fatto l’abitudine ormai.»
Nell’ora che seguì fui presentata alle quattro
sorelle di Tony. La più anziana era Giovanna, che
aveva trentanove anni. Doveva aver preso tutto
dalla madre, perché non arrivava al metro e
sessanta, era grassottella e aveva i capelli neri, ma
con gli occhi di un marrone talmente scuro che
sembravano chicchi di caffè tostati e nei quali non
si riusciva a distinguere il nero della pupilla. La sua
bellezza non ne perdeva nemmeno un po’. Aveva
qualche ruga, perlopiù di espressione, ai lati degli
occhi, ma ciò non cambiava il fatto che era proprio
una bella donna, come tutte le altre Fasano. Avevo
perso traccia dei suoi quattro figli, di età diverse,
che giravano tutt’intorno come trottole. Ero riuscita
a captare solo un po’ di nomi italiani, che non sarei
stata in grado di ricordare, e il fatto che erano due
maschi e due femmine.
Poi c’era Isabella. Era un po’ più alta di sua
sorella, appena sopra il metro e sessanta, e aveva
trentasette anni. Aveva gli stessi occhi e capelli
scuri, ma la sua bocca disegnava un arco perfetto
come quella di Tony. Mi presentò i suoi due
bambini: andavano sicuramente a scuola, ma non
riuscivo a capire quanti anni avessero, perché non
avevo molta esperienza di bambini.
Sophia era la terza, aveva trentacinque anni ed
era qualche centimetro più alta della sorella
maggiore, superava il metro e sessantacinque. A
quanto pareva, con il diminuire dell’età aumentava
l’altezza. Lo ricordai più tardi, mentre
chiacchieravo scherzosamente con Hector. Sophia
era una donna davvero di classe: indossava una
gonna dritta, una camicia di seta e aveva i capelli
neri raccolti in uno chignon ordinato sulla nuca.
Sul suo elegante naso c’era un paio di occhiali con
la montatura in tartaruga. Aveva anche lei gli occhi
scuri, ma la carnagione era molto più chiara
rispetto al resto della famiglia, tanto che mi
domandai quanto fosse scuro il padre di Tony.
Forse era un italiano pallido.
«Sei appena uscita dal lavoro?» domandai.
Sophia bevve un sorso di vino. «Sì, è stata una
giornata lunga in ufficio. Sono il direttore
finanziario della Fasano’s Unlimited.»
«Hai le chiavi della cassaforte, quindi.»
Facemmo un brindisi scherzoso.
«Esatto. Qualcuno deve pur tenere tutti questi
teppistelli in riga. Se non fosse per me e per il mio
team, andrebbero in giro a sprecare soldi nelle cose
più inutili. Tony e io teniamo il resto dei parenti
attaccato a ciò che il cognome Fasano significa:
cucina buona e autentica, alla portata delle tasche
di ogni famiglia.» Annuii e mi guardai intorno:
tutti avevano l’aria felice, e sui loro volti erano
dipinti sorrisi sinceri. Parevano a loro agio, senza
alcuna tensione.
Era una cosa che non avevo mai vissuto nella
mia famiglia, da quando mia madre se n’era
andata. Papà aveva fatto del suo meglio, ma nel
crescere due figlie femmine gli era mancato il tocco
speciale che una madre avrebbe avuto.
«Quindi lavorate tutti insieme in azienda?»
«Sì, e ciascuno di noi ha un ruolo diverso:
nessun compito è troppo umile. Per esempio, ai
bambini facciamo riempire le buste con gli inviti
per i compleanni, o i buoni sconto. Ciascuna di noi
sorelle ha un ruolo: Giovanna si occupa dell’asilo
nido e del doposcuola aziendale. Io sono il
direttore finanziario, Isabella è a capo delle risorse
umane, e Angelina si occupa del marketing.
Persino la mamma ha un ufficio, ma passa la
maggior parte del tempo in cucina a inventarsi
nuove ricette e a mettere a punto i menu. Tony,
come sai, gestisce l’azienda. Anche Hector lavora
per noi, è il nostro avvocato: lo conosciamo da così
tanto tempo che è come un fratello.»
«Ci credo. È un ragazzo davvero straordinario.»
Stavo per insinuare qualcosa sulla loro relazione
quando una mano sulla spalla mi fermò. Mi girai e
fui salutata dal volto sorridente della donna più
bella che avessi mai visto. I folti capelli color ebano
le ricadevano ondulati fino al fondoschiena. Aveva
gli occhi dello stesso azzurro ghiaccio di Tony.
L’arco perfetto delle labbra era tinto di rosa e il
vestito che indossava le ondeggiava intorno come
un vortice di arancio, rosso e giallo.
«Non vedevo l’ora di conoscerti, Mia!» Si protese
e mi abbracciò con forza. «Sono Angelina, ma tutti
mi chiamano Angie. Il figo dietro di me è mio
marito Rocco.» Rocco era la quintessenza
dell’uomo italiano, identico a Sylvester Stallone da
giovane: una somiglianza davvero imbarazzante. E
il suo nome, così simile a Rocky? Pazzesco. Scossi
la testa e gli diedi la mano.
Aprii e chiusi gli occhi un po’ di volte per
vederci meglio: no, erano davvero uguali. «Sei
preciso identico a…»
«Sylvester Stallone?» Inarcò le sopracciglia, mi
prese la mano e mi attirò in un abbraccio talmente
forte da togliermi il fiato.
Due mani mi distolsero dalla stretta di Rocco.
«Vacci piano con la mia donna, fratello!» esclamò
Tony in tono protettivo. Riuscivo a percepire
chiaramente la tensione di Hector durante questo
scambio di battute.
«È incredibile quanto gli somigli! Sei il suo
sosia.» Non riuscivo a capacitarmene.
Alzò il mento e rise. «Me lo dicono tutti. E, per
di più, faccio pugilato con il tuo uomo. È così che
ho conosciuto Angie: ero il suo allenatore. Ora
siamo fuori dal giro degli incontri e passiamo più
tempo in palestra ad allenare la prossima
generazione di pugili professionisti. O meglio…»
disse dando un pugno sul bicipite di Tony «sono io
che sto in palestra ad allenare i nuovi, mica il qui
presente Mr Affari d’Oro. Ma non posso
lamentarmi: è lui che porta a casa la pagnotta.»
«Sì, sì, come no, Rocky Balboa. Rimettiti a
sedere, okay?» disse Tony; il suo accento
italoamericano era ancora più pronunciato quando
scherzava.
Angelina mi strinse forte la mano. «Dài,
vediamoci questa settimana! Magari domani per un
po’ di shopping? Dobbiamo procurarci un vestito
per il lancio della nuova linea di surgelati Fasano,
la settimana prossima. Daremo una grande festa il
giorno prima, con tutta la gente che conta
dell’industria alimentare. È un grande traguardo
per noi, il più grande di sempre!» disse con un
gridolino.
«Tony deve rimanere in ufficio, ma io avevo in
programma di accompagnare Mia a comprare un
vestito. Puoi venire con noi domani. Ha bisogno di
rinnovare il guardaroba per la sua permanenza qui,
e sarebbe fantastico avere un secondo parere»
propose Hector.
«Andare a fare shopping con Hector è la cosa
più bella del mondo.» Angelina alzò il tono di voce,
tutta eccitata. Aveva due anni in più di Tony ed era
la più alta delle sorelle, più o meno quanto me.
Durante la cena non avevo notato bambini suoi. A
quanto pareva, il pugile e la bella non avevano
ancora avuto figli. Caspita, se un giorno li avessero
avuti sarebbero stati belli come i bambini delle
pubblicità.
Poi mi resi conto che stavano parlando di fare
shopping: che orrore! Tremavo all’idea di dover
rinnovare il guardaroba. «Sarebbe davvero…
Bellissimo. Grazie.»
Angelina si sedette sulla sedia che Tony aveva
lasciato libera per andare a parlare con un altro
parente. «Senti, Mia, c’è una cosa che devi sapere:
Hector è gay. Sa quali sono i negozi migliori dove
fare acquisti, sa dare i consigli giusti per
l’abbigliamento per ogni tipo di fisico…»
Hector intervenne. «È vero. Dovresti ascoltarla.
Scelgo insieme a lei i suoi vestiti da quando aveva
poco più di vent’anni.»
«Lui ha davvero buongusto in fatto di vestiti»
aggiunse Angie. «Non hai nulla di cui
preoccuparti. Ti vestirà bene. E, con un fisico come
il tuo, sarai strepitosa con qualsiasi cosa tu decida
di mettere.»
«Dice la pollastrella più bella che io abbia mai
visto!» commentai ironicamente, prima di decidere
di tacere.
Lei non colse il tono ironico. Le si illuminò lo
sguardo e un ampio sorriso rischiarò il suo bel viso.
«Pensi davvero che io sia la ragazza più bella che tu
abbia mai incontrato?» Mi strinsi nelle spalle e
bevvi un sorso di vino. «È la cosa più bella che mi
abbiano mai detto. Diventeremo senz’altro grandi
amiche» promise, e mi strinse in un altro
abbraccio. Accidenti, a questa gente piaceva
proprio abbracciarsi! In mezzo a loro non c’era
alcuna possibilità di mantenere un minimo di
spazio vitale. Ero certa che, in un modo o nell’altro,
quella sera ogni singola persona presente in quella
sala mi avrebbe abbracciata, spintonata, baciata.
Nel resto del mese avrei decisamente dovuto farci
l’abitudine.
Proseguimmo la cena, gustando il cibo italiano
più buono che io avessi mai assaggiato, servito
familiarmente in grandi piatti e zuppiere. Il vino
scorreva a fiumi e la famiglia parlava con un tono di
voce talmente alto che iniziarono a fischiarmi le
orecchie. Mi ricordai di quand’ero stata a un
concerto rock, e del fischio continuo che avevo
sentito allora: questo era un tantino più forte.
Quelle persone amavano parlare, e molto, a un
tono assai più alto di quello a cui le persone
normali erano abituate.
Nel complesso, però, i Fasano mi piacevano.
Erano chiassosi, amichevoli, festosi e belli. Era
come stare in una stanza piena di attori italiani in
attesa del provino per una parte. Quando ero a Los
Angeles, il mio agente voleva mandarmi ai provini
per le parti da donna mediterranea, per via delle
mie curve e dei folti capelli neri. Probabilmente
pensava che avessi l’aspetto di un’italiana, ma io
ero più che sicura di essere una specie di
miscuglio.
La serata terminò con abbondanti porzioni di
tiramisù, fatto ovviamente in casa da Mona, e con il
caffè più forte che avessi mai bevuto. Consumati
insieme, erano una gioia per il palato.
Quando, più tardi, uscii dal ristorante insieme a
Hector e Tony, quest’ultimo mi strinse in un grande
abbraccio. Si guardò intorno con aria spaventata,
poi mi diede un bacio sulla bocca. Le sue labbra
erano morbide, calde e umide. Mi prese la nuca tra
le mani, mi fece piegare indietro la testa e mi infilò
la lingua in bocca. Non mi aspettavo un bacio del
genere da Tony: era gay, e aveva un compagno,
quindi le cose non tornavano. Eppure non potei
fare a meno di ricambiare, perché baciava
veramente bene. La sua lingua stuzzicò per un po’
la mia, poi iniziammo ad andare a ritmo. Alzai le
braccia, gli circondai le spalle larghe e mi appesi al
suo collo. Quando strusciai il mio corpo contro il
suo, lui mi prese per i fianchi e mi attirò a sé. Fu in
quel momento che lo sentii, o meglio non lo sentii.
Non era affatto duro. Laggiù non stava succedendo
niente. Tirai indietro la testa, e le nostre labbra,
staccandosi, fecero uno schiocco sonoro.
Lo fissai e mi accorsi che stava guardando da
un’altra parte, dietro di me: mi girai e vidi sua
madre. Aveva le mani giunte e sprizzava gioia da
tutti i pori: sembrava più giovane di dieci anni. Fui
pervasa dal senso di colpa, quando notai le
speranze che quella donna nutriva per suo figlio, il
suo unico figlio maschio, il suo figlio gay, anche se
lei non lo sapeva. In quel momento, sentii qualcuno
schiarirsi la gola. Guardai Hector, sul cui volto c’era
tutt’altra espressione rispetto a Mona: dolore,
tristezza e forse anche una punta di rabbia. Il
macigno che avevo sul cuore era così pesante da
togliermi quasi il respiro. Mamma Mona si girò e
ritornò nel ristorante.
«Hector…» sussurrai. Lui aprì la portiera
dell’auto.
«Sali, Mia. Devo dire due parole a Tony.»
«Papi, sai bene che era tutta scena, che non
voleva dire nulla» giurò lui, con le mani strette a
pugno sui fianchi.
Anche se non avrei dovuto, mi sentii ferita,
perché invece io avevo provato qualcosa. C’era stato
un deciso fremito nelle mie parti intime quando
Tony mi aveva abbracciata e baciata nel modo in cui
un uomo bacia una donna che desidera. Lui, però,
mi aveva dimostrato di non essersi eccitato nel
baciarmi. Non era reale: mi ricordò che avrei
dovuto tenere a bada qualsiasi tipo di pensiero
lascivo. Quest’uomo poteva anche essere
l’incarnazione del sesso e avere il corpo più
incredibile del mondo, ma giocava per un’altra
squadra, quella di Hector.
Mi avvicinai alla macchina. Hector non mi
guardò nemmeno e io bevvi l’amaro calice del
rimorso. Prima di salire, gli misi una mano sulla
spalla e mi protesi per sussurrargli all’orecchio:
«Non voleva dire nulla. Mona ci stava guardando.
Lui non era neanche eccitato: soltanto tu puoi
eccitarlo. Credimi, so distinguere quando un uomo
mi desidera e lui vuole una persona sola: te». Era la
massima rassicurazione che potessi offrirgli.
Mentre mi sedevo, Hector si sporse dal
finestrino. «Grazie per avermelo detto.»
«Prego. Che ne dici di tornare con lui in taxi?
Andate al bar e parlate di come andranno le cose
adesso che ci sono anch’io. Non so se avete già
riflettuto su come la mia presenza potrà influire
sulla vostra relazione, ma è evidente che avete
bisogno di trascorrere un po’ di tempo da soli.» Lui
annuì e si guardò i piedi, sfregando la punta della
scarpa sul marciapiede. «Ho le chiavi. Ci vediamo
domattina, ok?»
«Grazie, Mia» disse Tony. Fece un gesto con il
braccio verso la strada, e un taxi si fermò davanti a
lui. «Hector, per favore, vieni con me» disse con
tono gentile ma esigente.
Li guardai salire sulla vettura, che poi sparì alla
mia vista. La limousine mi riportò all’attico. Ero
appena entrata in camera mia, quando comparve
un messaggio sul mio telefono.
Da: Wes Channing
A: Mia Saunders
Possiamo sentirci?
5
Rimasi a fissare lo schermo del telefono. Me la
potevo giocare in due modi: primo, ignorarlo
finché non avessi smesso di sentirmi così svuotata
emotivamente. Secondo, chiamarlo e lasciare che la
voce di Wes sciogliesse la morsa che mi stringeva il
cuore dopo il casino scoppiato tra Tony ed Hector.
Speravo che sarebbero riusciti a sistemare tutto.
L’ultima cosa che volevo era mettermi in mezzo tra
due persone che si amavano come loro. Non era
giusto, però, che non potessero essere se stessi. O,
almeno, Tony la vedeva in questo modo. Forse avrei
potuto lavorare un po’ su di lui, fargli capire che
uscire allo scoperto poteva essere una buona idea,
che stare con Hector, fare progetti e mettere su
famiglia era la strada giusta per la felicità. Quello
che Tony stava facendo avrebbe finito per ferire
Hector al punto da spingerlo a mollare tutto.
Conosco il tipo. Io sono bravissima ad andarmene.
Presa la decisione, premetti un paio di tasti sul
telefono e la risposta arrivò già al primo squillo.
«Ciao, tesoro, è troppo tardi lì da te? Ma dove sei?»
La sua voce era profonda e roca, evocava promesse
sussurrate al buio, sospiri, gemiti e notti piene di
passione selvaggia. Con Alec avevo trascorso un
periodo meraviglioso, ma Wes era il massimo.
Tutto in lui gridava sesso: intenso, penetrante,
decisamente bollente. Dopo la serata che avevo
appena
passato,
avrei
davvero
voluto
abbandonarmi tra le sue braccia.
«No, non è troppo tardi. Sono a Chicago.»
«Mmh, la Città del Vento. Cosa fa il tizio?»
Non sapevo bene se il livello della nostra
“amicizia” ci permettesse di discutere senza
problemi delle reciproche conquiste, ma visto che
non avevo intenzione di portarmi a letto Tony,
raccontargli tutto non era un problema. «Il
ristoratore.»
«Ah, so bene quanto ti piacciano i manicaretti
fatti in casa.» Di colpo mi tornò alla mente
l’immagine di lui a torso nudo che mi preparava la
colazione. Il suo fisico slanciato, il petto muscoloso
e abbronzato a cui il sole della California aveva
donato un colore che faceva venire voglia di
mangiarlo. Ed era anche buono: Wes aveva sempre
un profumo delizioso, che sapeva di surf e di mare.
Mi accorsi che non parlavo da un po’. «Ehm, sì.
Be’, lo sai che mi piace mangiare.»
«Certo che lo so. E cucina per te?»
«Non ancora, ma spero che lo farà presto.»
Sentii un sospiro dall’altra parte, cui seguirono
lunghi attimi di silenzio. «Con lui stai… come stavi
con me?» mi chiese, e anche se il fatto che sentisse
il bisogno di chiedermelo mi feriva, non gli dovevo
nessuna spiegazione.
«Che importanza ha?» sussurrai piano, sdraiata
sul letto con il telefono attaccato all’orecchio.
«Ne ha per me.»
«No, né adesso né mai.»
«E perché? Ti conosco, la tua libido è sanissima.»
Questa volta percepii una nota divertita nella sua
voce.
Wes aveva avuto un mese di tempo per imparare
a conoscermi, e c’era riuscito fin troppo bene.
Aveva piegato tutte le mie difese e si era
impossessato del mio cuore, che sarebbe stato per
sempre suo. Certo, io non gliel’avrei mai
confessato.
«Perché non credo che il suo compagno Hector
sarebbe entusiasta se mi intrufolassi nel letto del
suo uomo.»
Sentii una grassa risata. Dio, quanto mi
mancava: era quel tipo di risata in grado di
risollevarti dopo qualunque catastrofe. «Ma se il
tipo è gay perché ha preso la escort più sexy del
pianeta?»
«Fottiti» ribattei. Wes ridacchiò di nuovo, e l’eco
della sua risata mi arrivò al cuore, alleggerendo il
peso della serata. «È piuttosto incasinato. Ha una
storia seria con un tipo fantastico, praticamente è
come se fossero sposati, però lui si sente obbligato,
un po’ per la famiglia, un po’ per il lavoro, a
mantenere la facciata dell’uomo d’affari di
successo, sai, il classico italiano tosto e tutto d’un
pezzo.»
«Merda. A quanto pare ha un bel fardello sulle
spalle. Dal punto di vista professionale, posso
capire che voglia tutelare la propria privacy. Se può
permettersi la Exquisite Escorts vuol dire che è
pieno di soldi, e probabilmente avrà sempre i
paparazzi alle calcagna.» Fece un respiro profondo,
ma aveva le labbra troppo vicine al microfono e
venne fuori un suono smorzato. «Sul serio Mia, i
soldi sono una gran cosa e tutto il resto, ma certo
non valgono quanto mantenere la propria privacy e
condurre una vita tranquilla.»
Mi vennero in mente il posto in cui viveva Wes,
monitorato ventiquattr ’ore su ventiquattro da un
servizio di vigilanza, gli impegni mondani che
detestava, la necessità di reclutare una escort ogni
volta che doveva partecipare a qualche evento, in
modo da poter gestire le pubbliche relazioni in
santa pace. Eh, sì, a parte la questione
dell’omosessualità, Wes sapeva benissimo che cosa
stava passando Tony.
«E poi c’è anche la faccenda della famiglia: è
l’unico erede maschio del patrimonio familiare, e
se non dovesse avere figli il loro nome finirà con
lui.»
«Oh, Cristo, alla faccia della pressione!» Annuii,
anche se non poteva vedermi.
«Bene, adesso basta parlare del mio cliente. Tu
come stai? Come viene il tuo film?»
«Davvero bene, Gina in quel ruolo è
straordinaria» disse, con un tono nostalgico che mi
fece subito alzare il livello della gelosia. «Il
personaggio sembra creato apposta per lei. Sono
contento di avere cambiato orientamento sul
personaggio.»
Mi morsi il labbro inferiore e mi trattenni dal
rinfacciargli di avere rimpiazzato me con lei,
sapendo che non sarebbe stato giusto. Quello che
Wes aveva fatto – dare il mio nome al personaggio –
era un onore, e persino un gesto di tenerezza. Era
un regalo e così avrei voluto ricordarlo, senza che il
mostro dagli occhi verdi riuscisse a rovinarlo. E poi
non potevo avanzare alcuna pretesa su di lui,
eravamo solo amici… di letto.
«Allora tu e Gina andate proprio d’accordo, eh?»
Alzai gli occhi al cielo e cercai di mantenere un
tono neutro.
«Sì, è davvero in gamba. Anche se non è carina
come il personaggio che interpreta.» Il suo tono era
allusivo.
«Davvero?»
«Sì.»
«Ma ti diverti a dirle cosa deve fare… A dirigerla
in scena, intendo.»
«Non quanto mi divertirebbe dirigere te.»
«Ah, davvero? E cosa mi faresti fare?» A quel
punto la conversazione prese una piega diversa, e
anche se non l’avevo mai esplorata prima non
vedevo l’ora di farlo.
Sentii la sua lingua schioccare, come se l’avesse
tenuta contro il palato e l’avesse lasciata andare nel
momento in cui finii di parlare.
«Be’, per prima cosa, ti metterei le mani sulle
ginocchia e ti direi di aprirle e di mostrarti, nuda.
Ti ricordi quando l’hai fatto, Mia? Riesco ancora a
sentirti, calda e bagnata sulle mie dita.»
Tracciai un piccolo cerchio sul ginocchio con la
mano libera. «Me lo ricordo. E poi?»
Wes gemette. Io posai il telefono per un attimo,
afferrai l’orlo del vestito e me lo sfilai rapidamente,
gettandolo dall’altra parte della stanza. Ripresi in
mano il telefono.
Colsi Wes a metà della frase. «… farei scivolare
le mani lungo le tue gambe, tenendotele bene
aperte in modo da guardarti mentre ti bagni. Poi,
con un dito, ti toccherei la punta del clitoride. Ti
piacerebbe, tesoro?»
Mi morsi il labbro e gemetti, piano. «Oddio, sì.»
«Come sei vestita adesso?» mi chiese Wes.
«Mi sono tolta il vestito appena hai cominciato a
dirmi, ehm, quelle sconcezze. Adesso sono sola in
casa, sdraiata sul letto, senza nessuno intorno:
soltanto tu e io in reggiseno e slip verde smeraldo.
E tu come sei vestito?» Chiusi gli occhi,
sentendomi un po’ confusa e frastornata. Non
potevo credere che lo stessimo facendo davvero,
ma era tremendamente eccitante.
Dall’altra parte della linea Wes gemette di
nuovo. «Solo i pantaloni del pigiama scozzesi. Li
hai già visti.»
Altroché. I pigiami di Wes erano fatti con il
cotone più morbido del mondo. Quando ero con
lui, mi piaceva moltissimo infilarmi i pantaloni
dopo il sesso, o al mattino appena alzata. Gliene
avevo anche rubato un paio, ma non avevo nessuna
intenzione di dirglielo.
«Ce l’hai duro, baby?» Tentai con un
vezzeggiativo. Stava bene nella mia bocca. Certo,
qualcos’altro ci sarebbe stato meglio, se solo lui
non si fosse trovato a migliaia di chilometri di
distanza.
«Oh, cazzo se me lo fai venire duro, Mia, c’è già
la goccia sulla punta.»
«Spalmala bene con il pollice. Ti ricordi com’è la
mia mano quando te lo stringe?»
«Cazzo se me lo ricordo.»
«Allora pensaci. Chiudi gli occhi e muovi la
mano su e giù, comincia piano. Immagina che sia la
mia mano che te lo accarezza. Spalma la goccia
umida tutto intorno con il pollice, lungo i solchi,
soprattutto dove io passerei la lingua. Se fossi lì, ti
bagnerei tutto il cazzo leccandotelo dall’inizio alla
fine, e poi ti darei dei colpetti con la punta della
lingua proprio sotto la cappella, dov’è tanto
sensibile.»
Sentii Wes gemere, il suo respiro farsi più
rapido. «E tu cosa mi faresti fare?»
«Togliti le mutandine» mi ordinò. Mi calai gli
slip verdi e li spostai da una parte con il piede.
«Vuoi metterti nuda per me, tesoro?»
«Sì.» Sollevai i fianchi, come se sopra di me ci
fosse Wes e io tentassi di toccare il suo corpo con il
mio.
«Mettiti una mano sul sesso, come farei io se
fossi lì. Stringerei forte. Sai quanto mi piace.»
«Sei possessivo» riuscii appena a sussurrare
mentre mi inarcavo, facendo ciò che mi aveva
chiesto. Il piacere era totale, mi attraversava il
corpo come la scarica di un fulmine.
«Esatto, voglio possedere la tua dolce fichetta. E
mentre tu cerchi un po’ di sollievo ruotando i
fianchi, ti infilerei dentro due dita. Segui le mie
istruzioni, Mia.»
Feci come mi aveva chiesto e mi infilai due dita
fino in fondo. Ondate di calore partivano dal ventre
e risalivano lungo lo stomaco fino ai seni, gonfi e
duri. I capezzoli erano appuntiti e sfregavano
contro il tessuto del reggiseno. Una sensazione
deliziosa. Molto piacevole.
«Ti ricordi quando mi sono preso la tua fica,
sulla moto?» Risposi con un gemito, seguito da
alcuni versi incomprensibili mentre mi tornavano
alla mente le sue dita forti che premevano dentro
di me, come una specie di gancio che mi sollevava
da dietro facendo leva proprio lì dov’ero più
sensibile. «Metti le dita dentro, piegale bene
tesoro, come farei io.»
Ci provai, senza successo. «Non ci arrivo, ho
bisogno di te.» Feci un sospiro di frustrazione, ma
continuai a darmi da fare cercando di raggiungere
l’estasi. Con la testa ero ancora su quella moto, nel
garage di Wes, e lui mi aveva infilato la mano nelle
mutandine e mi scopava con forza, fino in fondo,
come piaceva a lui.
«Ci sei quasi, tesoro?»
«Oh, sì, ti voglio, Wes, ti voglio dentro di me…»
Ci fu una sfilza di imprecazioni al telefono
mentre il suo respiro si faceva sempre più rapido.
Anche il mio cominciò ad accelerare mentre ci
davamo piacere, ognuno per conto suo, persi nella
passione del ricordo reciproco.
«Se fossi lì ora, premerei forte con le dita
proprio in quel punto lì, dentro di te, e comincerei
ad accarezzarti. Poi ci metterei anche la lingua e
comincerei a leccarti tutt’intorno alla ciliegina del
clitoride. Lo farei diventare bello duro e gonfio con
le labbra, e te lo succhierei fino a sentire la tua fica
che mi stringe forte le dita mentre vieni su di me.»
«Oh, sì, Wes, sto per venire, non ce la faccio più,
ti voglio qui con me…» Gettai la testa all’indietro,
tutti i miei sensi, tutto il mio corpo erano
concentrati sul piacere che montava tra le mie
cosce.
«Sono qui con te, tesoro. Sono mie le dita che hai
dentro di te. Adesso stringi il clitoride tra il pollice
e l’indice. Cazzo, sto per venire anch’io, con te.
Mia, sei uno schianto, non ho mai provato niente
del genere in vita mia.» Le sue parole erano come
un ruggito. Feci come mi aveva chiesto,
passandomi le dita umide dei miei umori sul
clitoride.
Era lo stimolo di cui avevo bisogno: raggiunsi
l’orgasmo travolta da una cascata di luce e di
energia, il mio corpo si irrigidì e lanciai un grido
feroce, come se fossi posseduta, e un’ondata di
piacere
dopo
l’altra
mi
fece
tremare
convulsamente. Al telefono, sentii il grido di
liberazione di Wes.
Ci volle qualche momento perché ci calmassimo,
l’unico suono era quello del nostro respiro
affannoso.
«Mia» disse Wes, estasiato. Era meraviglioso
sentire il mio nome sulle sue labbra, mi faceva
venire voglia di baciarle, di leccarle.
«Porca miseria, Wes, ci sai fare anche al
telefono» replicai. Lui rise. «Sai che non l’avevo mai
fatto prima?» ammisi.
«Davvero?» Sembrava stupito, quasi sorpreso, e
questo mi rese un po’ triste.
Feci un sospiro, tirai indietro le coperte e mi
infilai sotto. Era stata una giornata interminabile, e
dopo un orgasmo del genere tutto ciò di cui avevo
voglia era accoccolarmi vicino all’uomo che me
l’aveva procurato e addormentarmi cullata dal
battito del suo cuore. «Sì, sul serio.» Sbadigliai e
chiusi gli occhi.
«Non vedo l’ora di rifarlo.»
Un altro sbadiglio. «Anch’io.»
«Mi manchi, Mia.»
Sorrisi e avvicinai il più possibile il telefono
all’orecchio per cogliere ogni sfumatura del suo
respiro. Mi faceva sentire al sicuro, proprio come se
fosse accanto a me.
«Tu mi mancherai sempre, Wes» dissi con voce
assonnata, pregustando già il momento in cui
l’avrei rivisto.
«Sogni d’oro…» furono le ultime parole che udii
prima di cadere addormentata.
Quando mi svegliai il mattino dopo avevo ancora il
cellulare in mano, completamente scarico. Mi girai
e fissai il soffitto, pensando alla sera prima. Tutta la
giornata, fino alla cena e al sesso al telefono con
Wes, era stata un susseguirsi di emozioni. La
conclusione, almeno, era stata molto soddisfacente.
Mi domandai che cosa avessero fatto Tony ed
Hector, e se avessero risolto i loro problemi. Quei
due erano innamorati, senza ombra di dubbio, e di
un amore destinato a durare. Non come quando
conosci un artista francese, te lo scopi per un mese
e con ogni probabilità non lo vedrai mai più.
Eppure, sentivo un po’ la mancanza del mio
Francesino. Ero grata ad Alec per come aveva
arricchito la mia vita nel periodo che avevamo
trascorso l’uno accanto all’altra. Non solo avevamo
realizzato insieme dei magnifici lavori artistici, ma
mi aveva anche insegnato un sacco di cose su me
stessa, sull’amore e sulla vita in generale. Sarei
stata per sempre grata ad Alec e al tempo passato
con lui, e forse avrei potuto fare buon uso di ciò
che avevo imparato per aiutare Tony ed Hector. In
fondo, l’amore è amore, e non è possibile scegliere
di chi innamorarsi, e neanche decidere quanto
durerà. Visto che il loro era amore vero, prima o poi
qualcosa sarebbe dovuto succedere.
Continuai a pensare a queste cose anche durante
la doccia e mentre mi vestivo. Andando verso la
cucina, sentii il profumo delle uova e della
pancetta. Quando mi sistemai sullo sgabello, il mio
stomaco aveva già cominciato a brontolare.
Renaldo si girò a guardarmi. «Mi pare che il suo
stomaco sia felice di vedermi, vero?»
«Vero! Come stai stamattina, Renaldo?»
«Mi sento un fiore, Ms Mia. E lei? Ha l’aria di
avere riposato piuttosto bene.» Fece una leggera
smorfia e mi fece l’occhiolino mentre girava la
pancetta nella padella.
«Proprio così» dissi, sorridendo al ricordo della
telefonata con Wes. Certo che quell’uomo sapeva
come dire le cose più sconce. Mi aveva eccitata così
tanto che ero andata in orbita nel giro di pochi
minuti. Alla fine l’appagamento era stato tale da
farmi crollare con il telefono vicino all’orecchio.
Quando mi ero truccata, quella mattina, avevo
ancora il segno del cellulare stampato su una
guancia. Dovevo ricordarmi di mandargli un
messaggio di ringraziamento più tardi, per dirgli
quanto mi era piaciuto parlare con lui, e non solo
per il sesso. Adoravo chiacchierare con Wes,
sembrava sempre tutto così normale, come se
fossimo vecchi amici o innamorati contrastati. Lui
riusciva a rendere semplice ogni cosa e speravo che
questo non sarebbe cambiato per il resto dell’anno.
L’avremmo scoperto solo con il tempo.
Renaldo mi mise davanti un piatto fumante con
uova, pancetta e frutta, e quando Tony ed Hector
entrarono in cucina avevo la bocca piena di cibo.
Tony teneva il braccio appoggiato sulle spalle di
Hector e aveva un’aria molto soddisfatta. Mi morsi
il labbro, piegando la testa di lato. «A quanto pare,
non sono l’unica ad aver passato una buona notte.»
Non so perché diavolo lo dissi. C’era qualcosa in
quei due che mi spingeva a spiattellare tutto, e non
era affatto da me.
Tony inarcò le sopracciglia ed Hector prese una
sedia e venne a sedersi vicino a me. Appoggiò i
gomiti sul tavolo tenendosi la testa tra le mani.
«Davvero? Ora ti racconto com’è andata la mia
serata» disse con un sorrisetto. «Però devi
spiegarmi come hai fatto a fare baldoria anche tu,
visto che, usciti dal ristorante, ti abbiamo spedita
direttamente a casa.» Ci pensai su un attimo,
mandai giù un altro boccone di uova e lo
accompagnai con un sorso di caffè.
«Affare fatto.»
E fu così che Hector e Tony vennero a sapere di
Wes.
6
«E tu te ne sei andata? Che donna insensibile!»
Hector sbuffò indignato, già schierato dalla parte
di Wes prima che avessi la possibilità di spiegare la
storia di mio padre e il motivo per cui ero diventata
una escort. Gli uomini sono sempre i soliti: a volte
sentono solo ciò che vogliono sentire. Non importa
se sono gay: sono comunque geneticamente diversi
e quindi non possono capire le donne e il motivo
per cui si comportano in un certo modo.
«Hector, non capisci. Me ne sono dovuta andare
per forza. Dovevo farlo, non potevo assolutamente
restare.»
«È meglio che me lo spieghi subito, cara. Se Tony
mi lasciasse così di punto in bianco, io sarei
distrutto.»
«No, tra me e Wes è una cosa diversa.»
«Ah, sì? E che tipo di cosa?»
«Siamo amici.»
«Amici che fanno sesso al telefono? Che si
amano per un mese…» cercai di interromperlo, ma
lui fece un gesto per farmi tacere «… e poi pregano
l’altro di stare con loro per sempre?»
Questo era un colpo basso. «Non ha detto
questo! Sì, mi ha chiesto di restare con lui. Sì, ho
rifiutato, anche se lo avrei voluto più di ogni altra
cosa, ma non potevo restare, e basta!»
«Perché?» volle sapere. Prima che potessi
rispondere, fummo interrotti da un rumore di
tacchi sulle piastrelle. Feci un respiro profondo, nel
tentativo di calmarmi il più possibile: non sarebbe
stato saggio scoprirsi proprio con la sorella di Tony,
cioè con una delle persone che dovevo ingannare
durante questo lavoro.
«Ciao, ragazzi! Sono così entusiasta di andare a
fare shopping, oggi!» Angelina, la più giovane delle
sorelle di Tony, entrò nella stanza. Abbracciò prima
Hector poi me. «Mio fratello è già al lavoro?»
«Sì, è uscito più o meno un’ora fa. Vuoi qualcosa
da bere o da mangiare?» le chiese Hector.
«No, sono già pronta per le vetrine! Mia, ma tu
hai voglia di andare o no?»
Mi sfuggì un gemito, poi presi la borsetta dal
tavolo. «Sì, certo.»
«Non mi sembri entusiasta» notò Angelina,
perplessa.
Hector fece una risatina e la prese sottobraccio.
«Non le piace fare shopping.» La sorella di Tony
fece una faccia stupita e spalancò gli occhi.
«Ma sei una ragazza?»
«Certo che lo sono, ma non del tipo tradizionale,
e vivo comunque benissimo.»
Hector borbottò qualcosa. «Sì. Nel suo
guardaroba c’erano solo jeans, top molto essenziali
e magliette a maniche corte. Tutta roba pessima! La
cosa più elegante sono i pigiami.»
Aveva ragione. «Perché li ha comprati la
personal shopper di Wes.» Trasalii e mi morsi le
labbra.
«Wes? Chi è Wes?» Angelina mi guardò
stringendo gli occhi. Tacque, in attesa di una
risposta.
«Ah, è solo un amico. Il mio migliore amico a
casa, è gay.» Le bugie sgorgavano dalle mie labbra
come vomito su un tappeto: acide, abiette e con un
gusto pessimo.
«Ah, va bene» disse scostando di lato i
meravigliosi capelli lunghi. «Bene. Adesso
usciamo!» Ci accompagnò fuori dall’attico e poi in
ascensore. Hector mi lanciò un’occhiata di
disapprovazione: io mi feci piccola piccola e mimai
con le labbra un “mi dispiace” dietro le spalle di
Angelina.
Hector e Angelina mi chiusero in un camerino da
Gucci, costringendomi a provare tutto, dai vestiti
alle gonne, ai jeans, persino una specie di abito
hawaiano. Erano capi eleganti, con uno stile e un
fascino che non mi appartenevano. Dopo avere
indossato un capo, dovevo sfilare per loro, salendo
su una pedana davanti a una parete piena di
specchi, mentre i due esaminavano ogni singolo
dettaglio, dal modo in cui cadeva un orlo a quella
che loro chiamavano vita alta. Mi toccavano e mi
spostavano a loro piacimento, come se fossi un
animale in gabbia. Probabilmente i vestiti che
avevano classificato come indispensabili per il mio
guardaroba mi stavano bene, ma tutto il processo
mi sembrò degradante.
Per tutto il tempo Angelina continuò a parlare di
suo fratello e della nostra relazione. Il discorso
stava iniziando a stancarmi.
«Allora tu e Tony avete già fissato una data per il
matrimonio?» domandò.
Scossi la testa. «No, non ancora.»
Tirò la maglietta che indossavo, lisciandomela
leggermente sui fianchi. «Sul serio? Voglio dire,
uscite insieme da un sacco di tempo, no? Almeno,
così dice Tony.»
«Sì, è vero.»
«Forse sono io che non capisco quale sia il
problema. La mamma mi ha detto che vuole
proporre a te e a Tony di sposarvi questo mese,
durante la tua permanenza qui. Per rendere le cose
ufficiali, ecco.» Hector e io rimanemmo impietriti e
guardammo Angelina sbalorditi, senza muovere
un muscolo. «Cosa?»
Hector riprese fiato molto prima di me. «Stai
scherzando, vero?» Aveva gli occhi scuri spalancati
e le labbra imbronciate. Non era bravissimo a
dissimulare il suo malcontento.
«Hector» lo misi in guardia.
Angelina si strinse nelle spalle. «Non
dovrebbero esserci problemi, no? Voglio dire, siete
innamorati, non avete più vent’anni e la mamma
vuole un erede maschio. Proprio in questo
momento è a pranzo con Tony, e gliene starà
sicuramente parlando.»
Rimasi a bocca aperta, con gli occhi fuori dalle
orbite per lo stupore. Improvvisamente là dentro
cominciò a fare troppo caldo, e io mi sventolai il
viso. «Ehm, Tony e io non abbiamo ancora pensato
ai dettagli.»
«Non importa, quando la mamma vuole
qualcosa, la ottiene sempre. Vero, Hector?» disse
Angelina, guardando Hector, che arretrava
lentamente finché non colpì il bordo di una sedia e
cadde seduto. «Vero?»
Lui annuì, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si
prese la testa tra le mani, passandosi le dita tra i
capelli. Non avevo mai visto un uomo così
demoralizzato da quando avevo detto a Wes che
non potevo restare con lui. Saltai giù dalla pedana e
mi inginocchiai di fronte a Hector. Quando alzò la
testa, vidi che non riusciva a trattenere le lacrime.
Gli presi il volto tra le mani e scossi la testa, nel
silenzioso tentativo di dirgli che non sarebbe
successo, mai e poi mai, perché Tony lo amava. Lui
chiuse gli occhi e inspirò. Una lacrima solitaria gli
scivolò sulla guancia.
«Non sarò mai io» sussurrò.
«Sei tu, sì» gli giurai con la massima decisione
possibile. Avvicinai la mia fronte alla sua, e ripetei:
«Sei tu, tu quello che lui ama».
Sfortunatamente entrambi dimenticammo chi
assisteva al nostro scambio di confidenze.
«Lo sapevo!» disse Angelina, e crollò sulla sedia
vicina a quella di Hector.
Fu in quel momento che lui si trasformò. Irrigidì
la schiena, strinse le mani intorno alle ginocchia e
si raddrizzò. Era come se fosse ritornato a essere il
solito Hector che tutti conoscevano, freddo, calmo e
compassato, non l’uomo dilaniato per amore, che
combatte una battaglia seria con il suo compagno.
«Ehm, Hector ha qualche problema, e io lo sto
solo aiutando…»
«Stai aiutando lui e Tony a nascondere la loro
tresca alla nostra famiglia.»
Questa non me l’aspettavo. Gli occhi di Hector
diventarono di un marroncino verdastro che faceva
spavento. «Non capisco che cosa vuoi dire…» disse,
ma il suo tentativo fallì miseramente.
«Risparmiatela. Pensi che non sappia che tu e
mio fratello state insieme dall’università? Ma per
chi mi hai presa? Sono la migliore amica di Tony;
be’, oltre a te, naturalmente.»
«Te l’ha detto lui?» sussurrò Hector.
«No, ma conosco bene mio fratello, e anche te.
Nessuno di voi due ha avuto una compagna in tutti
questi anni. Una volta ogni morte di papa Tony
portava una “fidanzata” a cena da noi, ma era
evidente che non era interessato a lei. Però devo
dire che, quando sei comparsa tu, un po’ mi sono
preoccupata.» Mi guardò e mi fece un piccolo
sorriso. «Se mai ci fosse una donna in grado di
rendere etero un gay, quella saresti tu.»
«Come complimento è un tantino imbarazzante.
Credo di doverti ringraziare, però.» Mi sedetti sul
pavimento di fronte a loro. «Quindi ora che
facciamo?»
Angelina si strinse nelle spalle. «Tony deve dirlo
alla mamma.»
Hector scosse la testa con forza. «No,
impossibile. Non vuole deludere Mona, né i
parenti. E poi ci sono di mezzo questioni di lavoro
e il pugilato, che gli piace ancora molto.»
«Che si fotta il pugilato. È salito poche volte sul
ring, da quando è morto papà. Inoltre Rocco ha
tutto sotto controllo, e Tony può partecipare
quando vuole. Il pugilato è una scusa che regge
fino a un certo punto.»
«E gli affari?» le chiese Hector. «Cosa mi dici
degli affari? Pensi che un’azienda familiare come la
vostra possa gestire il danno d’immagine causato
dall’avere un gay come capo?»
Angelina si strinse di nuovo nelle spalle. «Il
lavoro è lavoro. A me non importa di che cosa
pensano gli altri nel nostro giro.»
Hector sospirò. «Interessa a Tony, però. Per lui il
lavoro è tutto.»
Misi una mano sul ginocchio di Hector. «No,
secondo me ti sbagli. Tu sei tutto per lui.»
Hector si alzò all’improvviso. «Non te la
prendere, Mia, ma se fosse vero tu non saresti qui.»
Con quelle parole di commiato, uscì.
Mi alzai dal pavimento e mi lasciai cadere sulla
sedia vicino ad Angelina. «Che casino!»
«Sì, davvero. Lo sospettavo da un sacco di
tempo, ma questa è la prima volta che ho avuto il
coraggio di ficcarci il naso. Mia…» I suoi occhi
azzurri, così simili a quelli di Tony, erano lucidi. «La
mamma crede davvero che tu sia la donna giusta. È
convinta di dovervi far sposare in modo che
possiate iniziare ad avere dei figli.» Su queste
ultime parole si morse un labbro e distolse lo
sguardo.
«Ehi, è tutto a posto. Parlerò io con Hector e
Tony: ci inventeremo qualcosa per risolvere la
faccenda. Andrà tutto bene. Posso inscenare una
rottura, o qualcosa del genere. Non devi
preoccuparti.»
«Non è per questo, è che Rocco e io cerchiamo
da un po’ di avere un figlio, e non arriva. La
mamma ha persino smesso di chiederci notizie: ora
è tutta presa dal fatto che Anthony avrà un figlio e
porterà avanti il nostro cognome.»
Le accarezzai la schiena. «Sì, è difficile sentirsi
gli eterni secondi.»
Lei sbuffò. «Siamo in cinque, Mia.» Aveva la voce
stanca, sembrava completamente svuotata. «Eterno
secondo, terzo, quarto o quinto non importa: è che
Tony è sempre il primo.»
Capivo benissimo di cosa stava parlando. Dopo
la cena con i parenti e dopo aver visto il modo in
cui Mona stravedeva per il figlio e i nipoti, il fatto
che Tony fosse arrivato al punto di assumere una
escort per farle fare la parte della fidanzata e
ingannare sua madre la diceva lunga sul tipo di
potere che quella donna esercitava sulla famiglia.
«Allora che cosa pensi che dovremmo fare?»
Angelina si alzò e prese i vestiti che avevamo
deciso di comprare. Ritornai nel camerino per
rimettermi gli abiti con cui ero arrivata.
«Per quanto riguarda la mamma, non so di
preciso che cosa dirti. Per quanto riguarda la boxe,
non ci saranno problemi. Per quanto riguarda il
lavoro… be’, procureremo a Tony un addetto
stampa che sappia il fatto suo, uno che renda
l’omosessualità di Tony qualcosa che non interessa
la stampa. Io mi occupo del marketing, e posso fare
una riunione con la mia squadra: ci inventeremo di
sicuro qualcosa. In ogni caso, l’azienda è della
famiglia, di tutta la famiglia.» Sembrava sempre
più sicura di sé, man mano che andava avanti. «Il
fatto che il presidente sia gay può fare notizia per
un po’, ma ciò che conta è che abbiamo un buon
prodotto. Non falliremo né perderemo clienti. Alla
gente piacciono le ricette della mamma, e i prezzi
sono alla portata di tutti.»
«Sì, il cibo è maledettamente buono. Il miglior
cibo italiano che io abbia mai mangiato.»
«Giusto! Tony deve perdere l’abitudine di
cercare di compiacere tutti, di essere come gli altri
lo vogliono, sai?»
Come tutta risposta, annuii. Era vero e lo sapevo,
più di quanto fossi disposta ad ammettere di fronte
a quella che di fatto era un’estranea. Da quando
mia madre se n’era andata, avevo cercato di tenere
unita la famiglia, di fare tutto ciò che bisognava
fare.
Prendermi cura di papà quando era in alto mare.
Nessun problema: ci avrebbe pensato Mia.
Aiutare Maddy con la scuola. Sì, fare i compiti
insieme a lei e rimanere alzata fino a tardi per stare
dietro alla mia, di scuola. Ma Maddy veniva sempre
prima.
Facevo in modo che avessimo tutti da mangiare
e un tetto sopra la testa. A sedici anni mi ero fatta
in quattro a servire ai tavoli del casinò per
guadagnare due soldi. Qualche volta, la sera, avevo
portato a casa gli avanzi dell’aperitivo prima che li
togliessero di mezzo per il giorno successivo, e
allora ci riempivamo tutti la pancia. Anche papà mi
faceva i complimenti e mi diceva “Ben fatto,
ragazza!” con la voce impastata dall’alcol.
Ovviamente avevo fatto tutto ciò quando ero
ancora minorenne. Tutto quel lavoro mi aveva
permesso di iscrivermi alla previdenza sociale una
volta raggiunti i diciott’anni. E ancora adesso.
Facevo la escort solo per aiutare mio padre a
pagare i debiti. Non avevo alcun diritto di dire agli
altri come vivere la loro vita, visto che la mia faceva
schifo. Tuttavia qualcosa stava cambiando, le cose
stavano lentamente migliorando. Ora avevo delle
risorse: c’erano diverse persone che tenevano a me.
Maddy, Ginelle, Millie, Wes e persino Alec mi
avrebbero aiutata a tirarmi fuori dai guai. Il loro
aiuto era impagabile. E Tony ed Hector mi
piacevano: averli incontrati non era un caso.
«Voglio fare tutto il possibile per aiutare Tony ed
Hector.»
«Come ti hanno trovata?»
Non sapevo bene che cosa rispondere. Se le
avessi detto che ero una escort avrebbe pensato
male di me? Di solito, la parola escort è associata
alle prostitute o alle squillo, ma nel mio caso non
era vero, almeno finora. Certo, tecnicamente ero
stata a letto con Wes e Alec, e all’inizio sbavavo
dietro a Tony, ma quei sentimenti erano spariti da
tempo.
Angelina sembrava aspettare con pazienza che
elaborassi una risposta, cosa che apprezzai.
Trasmetteva calma e tranquillità, un tratto
decisamente ammirevole. Mi soffermai a guardarla
nel suo bel viso. Aveva uno sguardo gentile, sereno,
e occhi azzurri come il mare.
«Sono una escort.»
Rimase a bocca aperta, con le sopracciglia
inarcate. Poi, anziché imprecare e iniziare a darmi
della puttana, buttò indietro la testa. I capelli,
simili a seta nera, ricaddero come un’onda sulla
schiena. Scoppiò a ridere. Una risata convulsa, che
la lasciò senza fiato nel giro di pochi secondi, una
risata contagiosa, a cui non potei fare a meno di
unirmi.
Quando ritrovammo Hector alla cassa avevamo
entrambe le lacrime agli occhi. «Ma che cosa vi è
successo?» domandò lui, guardando prima me e
poi Angelina. Cercammo entrambe di smettere di
ridere, senza riuscirci. Alla fine fui io a ricompormi
per prima.
«Ha scoperto che lavoro faccio.» Sogghignai,
destando la sua attenzione. Hector prese Angelina
per un braccio e la tirò verso di sé.
«Non è come sembra» disse a denti stretti.
«Cioè tu e Tony non state pagando Mia per un
mese, per togliervi di torno la mamma e continuare
a fare la vostra vita in santa pace?»
«Ok, se la metti così, è esattamente come
sembra.»
A queste parole, entrambe ricominciammo a
ridere convulsamente. Hector pagò i vestiti e ci
accompagnò fuori. Solo quando fummo sulla
limousine riuscimmo a riprendere il controllò. Lui
si girò verso Angelina e le prese la mano. «Non
puoi dirlo a Mona: ci starà malissimo. Ho promesso
a Tony che mi sarei fidato di lui, e rispetto la sua
decisione. Crede che Mona non sia in grado di
capire che cosa siamo l’uno per l’altro: lui sa che
per lei il vero amore è soltanto quello tra un uomo
e una donna.»
«Anche se questo significa che dovrete
nascondere il vostro amore per sempre?»
Hector si afflosciò e fece un’espressione
corrucciata. Chiuse gli occhi, come se stesse
riflettendo. Entrambe rimanemmo in silenzio. «Se
nasconderci serve ad avere l’amore di tuo fratello,
mi accontenterò. Lo amo, e farei qualsiasi cosa per
lui.»
A quanto pareva Hector era sincero e stette al gioco
benissimo. Nella settimana successiva trascorsa
con i Fasano partecipammo diverse volte alle
riunioni di lavoro e agli eventi di famiglia. Passai la
maggior parte del tempo con lui, e mi limitai a fare
da accompagnatrice a Tony solo quando gli serviva
una bella donna da tenere sottobraccio ed esibire
come una specie di trofeo. Mi sentivo a disagio, da
molti punti di vista. Non perché venivo usata per il
mio aspetto, ma perché sapevo che, ogni volta che
Tony mi presentava come la sua fidanzata e la
gente ci faceva i complimenti per la nostra
relazione, Hector si sentiva morire un po’ di più.
Dovevo fare qualcosa, solo che non sapevo bene
che cosa.
7
«Arriverà da un momento all’altro» disse Hector,
entrando in cucina in calzini. «Dove sono le mie
scarpe?»
«Devi proprio metterti le scarpe, Papi?» lo prese
in giro Tony, guardandogli i piedi.
«Uffa» sbuffò Hector. «Proprio non ci arriva.» Si
fermò di colpo davanti a me. «Ma come ti sei
vestita?» Esaminò i miei jeans e la mia maglietta:
dalla smorfia schifata che fece, capii che il mio look
non lo entusiasmava affatto.
«Pensavo che avere qui tua madre a prepararci la
cena fosse un evento informale.» Tirai la maglietta
per assicurarmi che mi coprisse bene. Avevo
lasciato i capelli sciolti e spettinati. Erano il mio
punto forte, oltre alle tette naturalmente, che erano
davvero uno schianto.
Tony si girò verso di me, mi studiò per un attimo
e si strinse nelle spalle. «È Hector il modaiolo. A
me sembri perfetta.»
Misi le mani sui fianchi. «Vedi? A lui sembro
perfetta» dissi, facendo la linguaccia a Hector. «Sei
tu quello che si comporta come un pazzo. Che cosa
c’è che non va?» Hector ignorò le mie domande e si
allontanò indispettito. «Oh, sul serio, perché si
comporta così?»
«È tutto preso a convincere la mamma che lui è
l’uomo perfetto.»
«Lo è» dissi, e Tony annuì, guardando in
direzione dell’ingresso, dove si era diretto di gran
carriera Hector. «Lo pensi anche tu, vero?»
«Sì, certo.» Aggrottò le sopracciglia piegando la
testa di lato. «Non sarei stato con lui per tutti
questi anni se non lo pensassi.»
Era arrivato il momento della sincerità. Avevo
trascorso quasi tutte le due settimane precedenti
con Hector e Tony, e mi pareva di avere capito
piuttosto bene le loro dinamiche. A quanto pareva,
Hector era il soggetto passivo, il meno dominante
tra i due, mentre Tony era il maschio alfa. Forse
avrei potuto fare appello a questo lato del suo
carattere e fargli vedere che cosa si celava dietro la
mia presenza lì. Se non avesse parlato a sua madre
e al resto della famiglia della relazione con Hector,
rischiava di perdere qualcosa di molto prezioso: la
fiducia del suo compagno.
«Tony, ascolta, stare qui è stato meraviglioso, e
anche passare tanto tempo con te ed Hector.»
«Siamo contenti di averti con noi, Mia, davvero,
qui sarai sempre la benvenuta. Il tuo supporto in
questo pasticcio vuol dire molto per noi.»
«Be’, tecnicamente lo stai pagando.» Feci un
ampio sorriso, che lui contraccambiò.
«Solo che… mi domandavo, hai mai pensato di
uscire allo scoperto?» Il sorriso di Tony si
trasformò in una smorfia. Alzai le mani e mi
avvicinai a lui. «Stammi a sentire.»
Afflosciò le spalle e si appoggiò alla credenza,
incrociando le braccia. Mio Dio, che braccia! Anche
se era gay, mi facevano letteralmente sbavare. Mi
appoggiai al bancone di fronte a lui.
«Sai, tua sorella Angelina sa la verità.» Tony
sgranò gli occhi e rimase a bocca aperta. «Non sono
stata io a dirglielo, lo giuro. L’ha capito l’altra
settimana, mentre stavamo facendo shopping, ma
dice che in realtà lo sa dai tempi dell’università.»
Tony fece un sospiro profondo, passandosi la
mano sull’accenno di barba che gli scuriva le
guance. Accidenti, quanto era bello. «Oddio, e tu
che cosa le hai detto? Hector lo sa?»
«C’era anche lui.» Mi guardai i piedi nudi.
Hector mi aveva dipinto le unghie di un bel rosso
brillante, uguale a quello delle mani. Aveva fatto un
ottimo lavoro. «Tua sorella in buona sostanza si
chiede perché non avete ancora fatto coming out.»
«E tu che cosa le hai detto?»
«Io?» Mi portai una mano al cuore e scossi la
testa. «Io non le ho detto proprio niente!» Sentii la
mia voce salire di tono, ma non potei farci niente.
L’irritazione per tutta la situazione era ormai a un
livello altissimo, e quella fu la classica goccia che
fece traboccare il vaso. «È stato Hector a dirle che
tu non vuoi deludere la famiglia e che potrebbero
venire fuori problemi sia sul lavoro sia con la boxe.
E, soprattutto, che sei preoccupato di come
potrebbe prenderla tua madre.» Tony si appoggiò
con le mani al bancone. Era come se il nome dei
Fasano gli gravasse sulle spalle con tutto il suo
peso.
«Sapessi, Mia, quanto è stancante! Sempre a
nascondersi, sempre preoccupati di essere scoperti,
di cosa succederebbe con la mamma e il resto della
famiglia. Come reagirebbe la gente. Non potrei
sopportare l’idea di fare del male ai miei parenti e
a Hector solo per i miei desideri egoistici.»
Mi avvicinai a lui e gli appoggiai le mani sulla
schiena. «Non è affatto egoista voler stare con la
persona che si ama, Tony.»
«Dici?»
«Non lo è. È un diritto fondamentale di ogni
essere umano. E poi Hector ti ama. Non c’è nulla
che lui desideri più del fatto che tu lo urli al mondo
intero. O che permetti a lui di farlo.» Soffocai una
risatina e gli posai la fronte sulla schiena. Lui si
voltò e mi prese tra le braccia; erano meravigliose,
calde, forti, sicure. Proprio come me le aspettavo:
nessuno sapeva abbracciare come Tony.
«Non so cosa fare» sussurrò.
«Sì che lo sai, l’hai sempre saputo: devi farlo e
basta.»
«Non è un buon momento.»
Feci un passo indietro e lo guardai negli occhi,
mentre mi teneva le braccia intorno alla vita. «Non
è mai un buon momento per ferire qualcuno.» Tony
trasalì e gli appoggiai una mano all’altezza del
cuore. «Ma quando è fatto, è fatto, non te ne devi
più preoccupare. La vita va avanti, la tua e quella
degli altri.»
«E la boxe?»
«Angelina dice che non ci sei più dentro come
una volta, e comunque non sono affari loro.»
Inclinò leggermente la testa e mi guardò con
attenzione. «E poi sei uno sponsor importante, non
rischierebbero mai di perderti. Guardati: sei un
gigante in mezzo ai nani, e sei un vero spettacolo.
Tutti – e intendo proprio tutti – adorano guardare
questo ben di Dio» dissi, passandogli una mano
davanti al viso, «tutto sudato che picchia
selvaggiamente un altro tipo… gay o no.» Gli
sorrisi e gli feci l’occhiolino.
Lui scoppiò a ridere e si tirò su, ravviandosi i
capelli con una mano. «E il lavoro?»
«Anche lì, Angelina dice che è solo una
questione di marketing. Assumerà un guru delle
pubbliche relazioni che si inventerà qualche trucco
in cambio di un mucchio di denaro. Lei pensa che
la vicenda farà notizia per poco tempo, al massimo
qualche mese, poi si sgonfierà e tutto tornerà come
prima. L’azienda produce cibo troppo buono e
troppo conveniente per fallire a causa dei gusti
sessuali del suo presidente.»
Sospirò, aprì il frigo e prese una birra, che finì in
un paio di sorsate. Quando mangiava o beveva,
Tony sembrava uno di quei professionisti delle gare
di cibo: riusciva a mandare giù le cose più
incredibili.
«E la mamma, la famiglia? È tutto così difficile.»
Il suo tono si fece più aspro.
Annuii. «Sì, sarà dura, e forse si arrabbierà, si
metterà a piangere… Magari ti tirerà qualcosa
dietro. È una donna italiana, decisamente tosta.»
Ecco di nuovo l’irresistibile, bianchissimo sorriso a
trentadue denti di Tony. Nella mia esperienza, nella
maggior parte dei casi i ragazzi gay sono davvero
carini, se non decisamente stupendi. «Tu ed Hector
avete intenzione di mettere su famiglia?» gli chiesi.
Morivo dalla voglia di saperlo, ma esitavo a ficcare
ulteriormente il naso nei loro affari.
Tony prese un’altra birra, l’aprì e appoggiò il
tappo sul bancone. «Sì, lui mi ha detto che vuole
dei bambini, appena possibile.» Il suo sorriso si
fece ancora più luminoso, sembrava riflettere la
luce del sole. «Però vuole che prima ci sposiamo, o
comunque che facciamo una specie di cerimonia di
fidanzamento.»
«Capisco. Quando si parla di figli, la cosa più
intelligente da fare è sposarsi, prima.»
Tony strinse le labbra. «È che non ci vedo tanto
come una coppia sposata. Sembra una cosa così
formale e fuori moda. La nostra relazione è sempre
stata all’insegna dell’essenzialità, senza tante
cerimonie. Stiamo bene insieme, tutto qui, come le
tessere di un puzzle.»
«Anche Hector la pensa così? Per come l’ho
conosciuto in queste due settimane, mi pare il tipo
che un po’ apprezza le cerimonie e le grandi
manifestazioni d’affetto.»
«Frequenti troppo Angie, Mia. Stai diventando
come una di loro.»
«Oh, no, non c’è pericolo. Se mai dovessi
sposarmi, cosa alquanto improbabile, andrei a Las
Vegas.»
«Dovrete passare sul mio cadavere» disse una
voce dietro di noi: era Mona Fasano in persona.
«Mamma! Non ti abbiamo sentita arrivare.»
Tony la raggiunse, la baciò sulle guance e
l’abbracciò. Hector era dietro di lei e mi lanciava
occhiatacce. Scossi la testa nel tentativo di fargli
capire che non era come pensava lui.
Mona venne accanto a me, mi abbracciò, mi
baciò sulle guance e poi mi squadrò con i suoi
occhi d’acciaio. «Sì, sei perfetta per i miei nipotini»
disse, battendo le mani tutta contenta. «Ehi,
Hector, ragazzo mio» disse, girandosi appena.
«Eccomi, ma’» rispose lui, avvicinandosi.
«Che cosa cuciniamo oggi?» gli chiese
accarezzandogli una guancia con un gesto pieno
d’affetto. Gli voleva bene come a un figlio, e forse
questo avrebbe aiutato un po’ quando la verità
fosse venuta a galla. Sempre che Tony si decidesse
a tirare fuori le palle.
«Enchiladas!»
«Niente cibo italiano?» domandai, un po’
sorpresa che la più tipica delle madri italiane non
preparasse uno dei suoi famosi piatti.
Mona scosse la testa. «No, quando cucino con il
mio Hector prepariamo piatti della sua terra, così
ho la possibilità di imparare cose nuove. Un giorno
o l’altro inventerò un piatto che fonderà la
tradizione italiana e quella messicana e lo servirò al
ristorante.» Mi condusse fuori dalla cucina e mi
fece sedere su uno sgabello. «Ora accomodati qui,
così possiamo parlare mentre io ed Hector
prepariamo da mangiare.»
Per me andava benissimo. Tony mi passò una
birra e poi si sistemò sullo sgabello accanto al mio.
«Allora, che cos’è questa storia del matrimonio a
Las Vegas?» Mona andò dritta al punto.
«Ma’, stavamo solo chiacchierando, non vuol
dire niente» disse Tony. La frase era rivolta a sua
madre, che gli voltava la schiena mentre era
impegnata ai fornelli, ma lui continuava a fissare
Hector. «Non sposerei mai Mia di nascosto, mai e
poi mai.» Parlò con un filo di voce, ma abbastanza
forte perché tutti potessimo sentire. Hector chiuse
gli occhi, lentamente, e quando li riaprì il suo
sguardo era pieno di amore, desiderio e speranza.
Era palese che adorava Tony, e ne era
contraccambiato. Il marchio di disonore impresso
sul loro amore stava creando una crepa nel muro
che circondava la loro relazione. Se fosse crollato,
avrebbe travolto tutto ciò che avevano di più caro:
al solo pensiero mi venivano i brividi.
«Bene, allora da bravo cattolico ti sposerai in
chiesa, nella nostra parrocchia di San Pietro, dove
io e tuo padre ci siamo sposati tanti anni fa» disse,
in tono trionfante. «Devo confessare che a un certo
punto ho avuto paura che non ti saresti mai
sposato, ma adesso che c’è la nostra Mia…» si voltò
verso di me, con un sorriso pieno di entusiasmo e
io fui travolta dai sensi di colpa «… la nostra
famiglia sarà finalmente completa e potrai
tramandare il nome dei Fasano.»
Mona posò il cucchiaio di legno che teneva in
mano e si girò per abbracciare Tony. «Io e papà
siamo così orgogliosi di te… Se fosse qui oggi
benedirebbe questa unione con tutto il cuore.» Si
asciugò qualche lacrima dal viso, si schiarì la gola e
riprese a cucinare. Hector deglutì, tentando di
trattenere l’emozione che, lo sapevo bene, lo stava
devastando.
«E a proposito di chiesa, padre Donahue sarà
felicissimo di celebrare il matrimonio, ma prima
dovrete iscrivervi al corso prematrimoniale. Che ne
dite di cominciare questo weekend?»
Strabuzzai
gli
occhi.
Chiesa?
Corso
prematrimoniale? «Io… ehm, non saprei»
cominciai,
ma
Tony
mi
interruppe
immediatamente.
«Non abbiamo ancora deciso la data, ma’. E non
abbiamo neanche discusso dell’aspetto religioso.»
Mona sussultò come se le avessero tirato un
pugno. «Come? È una delle prime cose da
sistemare. Mia, cara, sei cattolica?»
«Io, ehm, non sono niente…» Mona mi fulminò
con lo sguardo. «Non sono cresciuta in una
famiglia religiosa.»
Fece un sospiro. «Ma sei battezzata?» Il suo tono
adesso era accusatorio, e il brivido di paura che mi
corse lungo la schiena attivò il mio meccanismo di
difesa.
«No.» Serrai la mascella e raddrizzai la schiena.
«Sei mai stata sposata?» mi chiese, una mano
appoggiata sul fianco e l’altra che brandiva il
cucchiaio di legno.
Scossi la testa, e lei mi fece il verso. «Mia deve
cominciare subito ad andare in chiesa, figlio mio.
Se volete sposarvi è meglio che inizi subito a
frequentare la parrocchia, e probabilmente dovrete
seguire il corso prematrimoniale più approfondito,
se vuoi che il prete ti sposi con una non cattolica. E
poi bisogna che si faccia battezzare, molto presto:
questo è assolutamente fondamentale. Dobbiamo
darci da fare subito.»
Mi sentivo schiacciata dal peso delle sue parole,
e dovevo uscire di lì prima possibile. «Oddio.»
Balzai in piedi. Mi sembrava di impazzire,
respiravo a fatica e cominciavo ad avere i sudori
freddi: avevo bisogno di un po’ d’aria,
immediatamente. Andai di corsa sul terrazzo e mi
riempii i polmoni dell’aria fresca di marzo. Grazie a
Dio. Anzi no, non Dio: per quella sera non volevo
più sentirne parlare, poco ma sicuro.
Due braccia possenti mi strinsero, e anche se era
una sensazione molto bella non erano le braccia
che desideravo. Avrei tanto voluto che Wes fosse lì
con me, si sarebbe fatto un sacco di risate: la escort
che diventava una sposina modello! «Ascolta, Mia,
va tutto bene, non dare retta alla mamma.
Sistemeremo tutto.» Tony era dietro di me e mi
abbracciava, e io cominciai a fare una serie di
respiri profondi. Il battito del mio cuore tornò
lentamente alla normalità e appena mi ripresi un
po’ mi girai verso di lui, appoggiandogli una mano
sul petto per tenerlo a distanza.
«Devi dire la verità a tua madre, questa storia ci
sta sfuggendo di mano.»
Chinò la testa per la vergogna. «Lo so, solo che…
è così difficile, sai?»
«Sì, lo so.»
Ci sedemmo sulle chaise longue, faccia a faccia.
«E guarda che non sono l’unica a sentirsi a pezzi:
Hector non la sta prendendo affatto bene.»
Tony sollevò la testa, si leggeva la
preoccupazione nei suoi occhi. «Che cosa vuoi
dire?»
Gli presi le mani tra le mie. «Rifiutandoti di
accettare chi sei, di fatto non accetti neanche lui.»
Tony socchiuse gli occhi, ma rimase in silenzio. «Il
fatto di omettere la verità… Detesto dirtelo, Tony,
ma devo farlo.» Si sfiorò il mento e mi fece cenno
di proseguire. «Guardala dal punto di vista di
Hector: sostanzialmente stai dicendo che lui non è
all’altezza, che per il suo amore non vale la pena
correre dei rischi.»
Rimase a bocca aperta. «Ma non è vero! Io lo
amo.»
«Davvero? E allora perché lo tieni nascosto?»
«Lo sai, perché.» Il suo tono era aggressivo, la
mascella contratta.
«Mica tanto. Sono tutte scuse, e dopo tanti anni
cosa intendi fare? Ti stai nascondendo da un sacco
di tempo e adesso è arrivato il momento di
liberarti. Fa’ che lui diventi una priorità per te,
come tu lo sei per lui. In questi anni avrebbe
potuto rivelare tutto alla tua famiglia, ai tuoi amici,
al tuo ambiente di lavoro, ma non l’ha fatto. Si è
accontentato di rimanere sullo sfondo, pur di
averti. A lui importa solo la tua felicità, ma ti giuro
che il folle piano di prendere in giro la tua famiglia
per mantenere viva la pantomima… lo sta
distruggendo. Glielo leggo negli occhi. Come fai a
non accorgertene?»
«Cazzo, perché deve essere tutto così
complicato?»
«È la vita, Tony, è arrivato il momento di
crescere. Scegli Hector, costi quel che costi. Lui lo
ha fatto per te, ha deciso di mettere la tua felicità
davanti alla sua, perché ha scelto te.»
Con quest’ultima stoccata rientrai in casa.
Hector e sua madre aspettavano nel soggiorno,
quando passai per andare in camera mia.
«Ehi, Mia…» La voce di Hector tremava mentre
mi chiamava, ma io proseguii senza fermarmi. Mi
resi subito conto che, presa dalla rabbia, mi stavo
comportando in modo scortese: verso i miei clienti,
verso Mona, verso le persone a cui avevo imparato
a voler bene.
Mi fermai prima di arrivare nell’ingresso e mi
girai. «Dovete scusarmi, ma non mi sento affatto
bene e vado direttamente a letto. Mona, grazie per
essere venuta, sono sicura che la tua cena sarebbe
stata davvero fantastica.»
Hector mi si avvicinò, mi prese per un braccio, e
mi strinse in un caldo abbraccio. Gli occhi mi si
riempirono di lacrime. «Mi dispiace tanto, anzi,
dispiace tanto a tutti e due.» Parlava a voce così
bassa che solo io ero in grado di udirlo. Era davvero
un uomo straordinario.
«Lo so. È solo che dopo stasera ho bisogno di
stare un po’ tranquilla.»
Mi lasciò andare e tornai nella mia camera, poi
mi stesi sul letto e telefonai all’unica persona che
non avrei dovuto chiamare. Dopo quattro squilli,
scattò la segreteria telefonica.
“Sono Wes, lasciate un messaggio dopo il bip e vi
richiamerò al più presto.” La voce di Wes era come
un tuono lontano e mi arrivò dritta al cuore.
Bip.
«Ehi, sono Mia, ehm… volevo…» Feci un lungo
respiro cercando di trovare le parole da dire ma
non mi venne in mente niente che non sembrasse
una richiesta disperata. «Volevo sentire la tua
voce.» Chiusi gli occhi. «Ci sentiamo presto, ok?
Ciao.»
8
Nei giorni successivi fra noi tre ci fu un po’ di
tensione. Ero un’outsider, e per la prima volta in tre
settimane me ne rendevo conto. Tony era stressato,
e salutava a malapena. Hector era più gentile,
tranquillo, stressato anche lui, ma non nei miei
confronti. Era evidente che aveva problemi con
Tony e che non voleva parlarmene, e lo capivo. Il
fine settimana precedente avevo fatto una mezza
scenata parlando di sua madre. Non ero orgogliosa
di come mi ero comportata, ma ero comunque
convinta che quelle cose andassero dette. Il fatto di
continuare a evitare il discorso era deleterio per la
loro relazione ed era una tortura per entrambi, per
non parlare della serie di bugie dette alle famiglie,
che sicuramente avevano un impatto pesante sulla
loro coscienza.
Poi c’ero io, presa nel mezzo.
Ero in piedi davanti alla cabina armadio, con
addosso solo il reggiseno e le mutandine, e tentavo
di decidere che cosa mettermi. L’aria di marzo a
Chicago era fresca ma quasi sempre gradevole.
«Ehi, mettiti i pantaloni aderenti e il giubbotto
di pelle» disse Hector, facendo capolino. Ero così
persa nei miei pensieri che non l’avevo sentito
aprire la porta. Entrò e si sedette sul letto mentre io
prendevo un paio di jeans scuri aderentissimi, poi
si alzò e mi prese un maglioncino verde e uno
strepitoso giubbotto di pelle color cioccolato. Mi
preparai a indossare i vestiti che aveva scelto per
me, sempre in silenzio. Quando aveva voglia di
parlare, di solito lo faceva in privato, e rispettando
lo spazio personale degli altri. Infilai i jeans, poi mi
passò il maglioncino e indossai anche quello.
«So che mi ama» disse tirando fuori dalla cabina
armadio un paio di stivali al ginocchio, decorati con
strisce di pelle intrecciate. Erano morbidissimi e
probabilmente costavano più della macchina che
avevo comprato a mia sorella. Non replicai,
limitandomi a stare seduta sul letto, in silenzio. Lui
si inginocchiò e mi sollevò un piede per aiutarmi a
calzare gli stivali. «È solo che ha una paura terribile
di deludere sua madre. Prima pensavo che fosse a
suo padre che aveva paura di dirlo. Joseph Fasano
era un uomo tutto d’un pezzo: italiano fino al
midollo e molto all’antica. Quando è mancato,
l’anno scorso, pensavo che forse… a quel punto ne
avrebbe parlato. Mona mi vuole bene, mi tratta
come se fossi un suo figlio.» Alzò lo sguardo, con i
dolci occhi castani velati dalle lacrime.
Mi protesi verso di lui e gli presi le guance tra le
mani. «Sì, certo che ti vuole bene.»
«Quindi pensavo…» Scosse la testa. «Era una
speranza vana. E adesso non so più nulla. Con te
qui, con tutto questo gran parlare di matrimonio e
di figli, inizio a volere di più, sai? Penso alla vita
che avremmo dovuto vivere in tutti questi anni.»
Una lacrima mi scivolò lungo la guancia, e lui
me l’asciugò con il pollice. «Dolcissima Mia, nulla
di tutto questo è colpa tua.»
«Davvero? Sono io il terzo incomodo.»
«Siamo stati noi a farti venire qui.» Aggrottò le
sopracciglia.
«È vero. Hai ragione: non è affatto colpa mia.»
Gli sorrisi e lui fece una risata leggera che spezzò la
tensione.
«Dài, Tony e io ti portiamo fuori, dobbiamo farti
vedere una cosa.» Hector prese dalla cabina
armadio una sciarpa di un verde smeraldo così
brillante che, di mia spontanea volontà, non l’avrei
mai messa.
«Come mai tutto questo verde?»
Hector spalancò gli occhi, incredulo. «Mia, oggi è
San Patrizio. In città ci sono grandi festeggiamenti,
e noi non saremo da meno! È il nostro giorno di
festa
preferito:
senza
tristezza,
senza
preoccupazioni, solo divertimento, amicizia e
amore. Vieni?»
Un senso di grande sollievo mi pervase, fino in
fondo al cuore.
«Non mancherei per tutto l’oro del mondo!»
«Forza, señorita, andiamo!»
Una folata mi scompigliò i capelli quando
scendemmo dalla macchina. «Accidenti, che
vento!» dissi ai due ragazzi, mentre mi prendevano
a braccetto, uno per lato.
«Per questo la chiamano la Città del Vento. Non
preoccuparti: fra mezz’ora il tempo sarà già
cambiato.» Alzai la testa e lanciai a Tony
un’occhiata del tipo “mi stai prendendo per i
fondelli”. «Davvero, il clima è così. Vivo qui da
sempre, e non c’è mai stato un giorno in cui è
rimasto uguale dalla mattina alla sera.»
«Dovresti vivere in California. Là il tempo è
sempre meraviglioso» dissi sorridendo, e lui scosse
la testa.
«Guarda, c’è uno spazio libero vicino al
parapetto, laggiù.» Hector indicò, un po’ più in là,
un vasto spiazzo erboso vicino a una balaustra di
metallo. C’era molta gente accalcata a guardare un
grande corso d’acqua.
Ci avvicinammo e ci affacciammo anche noi.
«Dove siamo?» domandai guardando le onde.
L’acqua era agitata e si infrangeva sul cemento
degli argini sotto di noi. Eravamo almeno tre metri
sopra il livello dell’acqua ma si poteva già avvertire
lo sbalzo di temperatura dovuto alla sua vicinanza.
«Ecco il fiume Chicago» disse Tony con orgoglio,
buttando in fuori il petto. Lanciai un’occhiata a
Hector, che alzò gli occhi al cielo.
«Non guardare me: l’idea è di Tony. Io vengo da
San Diego.»
Gli diedi un colpetto sulla spalla. «Non sapevo
che fossi della California.»
Annuì e guardò il fiume. «Sì, me ne sono andato
per frequentare l’università, ho incontrato Tony alla
Columbia e poi mi sono trasferito qui con lui dopo
la laurea.»
«Alla Columbia? Wow!» Sapevo che i miei due
amici erano intelligenti, ma non che avessero
frequentato un’università così prestigiosa. Io
l’università
l’avevo
lasciata,
però
adesso
guadagnavo centomila dollari al mese: non male
per un’ex cameriera di casinò a Las Vegas.
Tony venne a mettersi in mezzo a noi e ci posò
un braccio sulle spalle. «Succederà adesso. Mia,
guarda quella barca!» disse eccitato. Era il Tony più
felice che avessi visto in tutta la settimana, mi era
mancato il suo bel sorriso. Le sue braccia
muscolose
stringevano
Hector
e
me.
All’improvviso, si voltò, si guardò intorno e disse:
«Al diavolo!». Si girò verso di me e mi diede un
velocissimo bacio fraterno sulle labbra. Poi si girò
verso Hector e gli diede un bacio voluttuoso che
durò un’eternità, tanto che alla fine persino io ero
arrossita. Hector aveva gli occhi spalancati come un
bambino. «Buon San Patrizio, Papi!» esclamò Tony,
e lo baciò di nuovo teneramente sulla bocca. Il
sorriso di Hector era sorpreso, affascinato e pieno
d’amore.
Era gioia, gioia pura. Hector, io e Tony
rimanemmo abbracciati mentre la barca scendeva a
tutta velocità lungo il fiume spruzzando qualcosa
di verde nell’acqua.
«Ma perché sporca l’acqua così?» Disgustata,
puntai il dito sulla scena davanti a noi.
Tony scosse la testa. «Hanno tinto il fiume di
verde!» Non stava più nella pelle. «È una
tradizione, e il colore non è tossico.» Socchiusi gli
occhi e lo lasciai continuare. «Fa parte di una
tradizione che dura da più di cinquant’anni: il
Chicago viene colorato di verde per la festa di San
Patrizio. Ci impiega diversi giorni a tornare del
colore normale. Usano un colore vegetale che non
danneggia i pesci e non inquina l’acqua. È
addirittura sponsorizzato dal locale sindacato degli
idraulici.»
Dovevo ammettere che era davvero uno
spettacolo: la barca spruzzava il colorante nel
fiume andando su e giù nello spazio stretto tra gli
argini. Mulinelli color verde fluorescente si
mescolavano con le onde e diffondevano il colore.
Le spirali verdi nell’acqua mi ricordavano la Notte
stellata di Van Gogh. Non avevo mai visto nulla del
genere: una città tingeva di verde un fiume per una
ricorrenza che non era nemmeno festa nazionale.
Ero incapace di comprendere l’unicità e insieme
l’assurdità totale di quella scena. «Ma perché si
festeggia San Patrizio?»
Tony ci strinse ancora di più a sé e parlò tenendo
lo sguardo fisso sull’acqua. «Per commemorare la
conversione al cristianesimo dell’Irlanda. Solo per
questo giorno la Chiesa cattolica dà il permesso di
bere alcolici e di interrompere il digiuno
quaresimale per festeggiare.»
Rimasi per un attimo a pensare a ciò che aveva
detto. «Sei irlandese?» Guardai Hector e lui scosse
la testa, sogghignando. Mi girai verso Tony.
«No» rispose lui.
«Non ho ancora capito cosa ci sia di tanto
straordinario.» Non riuscivo proprio ad afferrare
l’importanza dell’evento.
Tony mi indicò l’acqua, come se fossi una
bambina. «Un fiume colorato di verde per la festa
di un santo della mia fede. Tutto ciò che ha a che
vedere con la Chiesa è importante» spiegò,
imperturbabile. Un piccolo sorriso gli curvò le
labbra. Sentii la stretta delle sue dita sul braccio,
mentre tratteneva quella che quasi certamente era
una risata.
«È solo che ti piace far festa, ammettilo!» Gli
diedi una leggera gomitata sul petto.
«Ahia!» Scoppiò a ridere, ed Hector lo imitò.
«Dài, Mia, ora dobbiamo andare al nostro pub.»
Spalancai gli occhi, mentre una folata d’aria
fredda mandava i miei capelli sul viso di Hector.
«Scusa.» Lui strizzò gli occhi e proseguì. «Ma
possedete anche un pub?»
Tony fece una risatina. «Prendi sempre tutto così
alla lettera?»
«Non direi, ma di solito non frequento persone
ricche. Quando vi mettete a giocare con i vostri
soldi del Monopoli, credo che più o meno tutto sia
possibile.»
«È arrivato il momento di presentarti un certo
Jameson, che viene direttamente dall’Irlanda.»
Tony, grande e grosso com’era, mi faceva da
schermo contro il vento sferzante.
«Devi sapere che Jameson è un mio vecchio
amico. Sarà bello incontrarlo di nuovo» dissi con
un gran sorriso.
«Oh,
finalmente!»
Tony,
raggiante,
ci
accompagnò alla macchina.
Mi portarono in un locale che si chiamava Declan’s
Irish Pub. Per entrare attraversammo un’enorme
porta rossa, con finiture in legno nero. L’insegna
era nera, e c’era scritto DECLAN’S in caratteri corsivi
dorati. Dentro era buio. Sentivamo la gente parlare
a bassa voce, mentre passavamo in mezzo alle
panche per raggiungere il bancone. C’erano tre
sgabelli liberi e davanti a ciascuno di essi c’era un
bicchiere con sopra un tovagliolo di carta e la
parola RIS ERVATO scritta con il pennarello nero.
Tony mi spostò lo sgabello e io mi sedetti.
«Posti riservati in un pub?» dissi ridendo e
scuotendo la testa.
«Ogni anno, chica» rispose Hector.
«Conosco il proprietario» aggiunse Tony con il
forte accento italiano di Chicago a cui mi ero
abituata nelle ultime tre settimane.
«Tu pensi di conoscerlo, bastardo di un
italiano!» Il barista allungò la mano. Tony si
protese sul bancone e attirò l’uomo dai capelli rossi
al suo petto, per dargli un abbraccio cameratesco.
«Dec, come va, cazzone di un irlandese?» Tony
ribatté a tono all’insulto cameratesco. Se fossero
state due donne, quelle parole sarebbero state il
preludio a un litigio. Ma l’uomo dai capelli rossi le
incassò senza battere ciglio.
«Eh, gli affari vanno bene» disse, indicando il
locale pieno di gente.
«Con questa cazzo di festa di San Patrizio è
ovvio che sia pieno» disse Tony continuando a
provocare l’uomo che aveva chiamato Dec.
«E chi è questa fata? Di sicuro non è roba per
te.» Lo sguardo complice dell’uomo si spostò su
Hector, che gli diede la mano.
«Lei è Mia, un’amica che viene da fuori città. Le
stiamo facendo fare un giro.»
«E ovviamente l’hai dovuta portare nel mio pub,
perché qui ho il miglior cibo e il miglior whiskey di
tutta Chicago.»
«Il migliore davvero» rispose Tony, con un
accento ancor più marcato.
«Bene, Mia, è un piacere. Sono Dec, o Declan.»
Mi porse la mano e io gli diedi la mia, ma anziché
stringermela se la portò alle labbra e mi baciò le
nocche. Un lieve fremito di eccitazione mi arrivò al
braccio per poi diffondersi in tutto il corpo. I suoi
occhi verdi brillavano. Inarcò le sopracciglia.
Tony tolse la mia mano da quella del barista.
«Tieni giù quelle manacce! Non ci porti da bere? E i
nostri menu?»
Dec rise, si buttò il canovaccio sulla spalla e ci
passò tre menu, poi versò subito tre bicchieri di
whiskey irlandese a noi e uno per sé. Alzammo i
bicchieri, e brindammo, mentre Dec diceva: «Alla
salute!».
Sentii la vibrazione nella tasca dei pantaloni
mentre appoggiavo il bicchiere sul bancone.
Da: Wes Channing
A: Mia Saunders
Buon San Patrizio. Sai che cosa dicono degli occhi verdi?
Hector aggrottò la fronte nel vedermi sorridere.
Tenni il telefono vicino al petto, per leggere il
messaggio. Poiché lui sbirciava spudoratamente da
sopra la spalla, mi arresi e lasciai il telefono ben
visibile a entrambi mentre rispondevo.
Da: Mia Saunders
A: Wes Channing
No, non lo so. Che cosa dicono?
Mi rispose immediatamente.
Da: Wes Channing
A: Mia Saunders
Dove sei?
Da: Mia Saunders
A: Wes Channing
In un pub irlandese di Chicago, che si chiama Declan’s.
Adesso mi dici che cosa dicono delle ragazze con gli occhi
verdi?
Da: Wes Channing
A: Mia Saunders
Che ne combinano sempre di nuove. E tu cosa stai
combinando?
Da: Mia Saunders
A: Wes Channing
Hanno ragione. Sto bevendo un whiskey. Buon San Patrizio!
Aspettai qualche minuto, ma non ricevetti
alcuna risposta: che strano. Qualcuno doveva
averlo chiamato. Hector e io ci guardammo,
complici, poi lui si strinse nelle spalle, alzò una
mano e indicò i due bicchieri vuoti. Declan li
riempì immediatamente. «Volete anche una birra?»
ci domandò.
«Oh, puoi giurarci!» Ingollai il whiskey, che mi
bruciò la gola. Quel bruciore era nulla in confronto
al pensiero di Wes che continuava a girarmi nella
testa. Pensare a lui troppo e troppo spesso era una
cosa stupida, e io non ero per niente stupida. «E
qualche altro whiskey!»
Nell’ora che seguì Hector e Tony mi
raccontarono storie della loro giovinezza, di come
avevano conosciuto Declan alla Columbia e di
come, stranamente, tutti erano andati a finire a
Chicago. Erano amici dai tempi dell’università, e
quindi aveva senso che Declan avesse fatto capire
tra le righe che conosceva la vera natura della loro
relazione. Doveva essere uno dei pochi a saperlo.
Scoprii che era anche uno dei ragazzi che avevano
fatto il giro del campo nudi.
Mi fecero ridere a crepapelle, finché le risate
ebbero ragione sulla mia vescica, che era sul punto
di scoppiare. Mi alzai per cercare il bagno.
«Dove vai?» Tony mise una mano sul mio
braccio.
«Non ce la faccio più, ho bisogno del bagno»
dissi dondolandomi nervosamente sui piedi.
Tony fece una smorfia di disgusto. «No, non
farlo, poi è peggio: dovrai andare in bagno ogni
venti minuti.»
«Devo! Stai zitto adesso!» Gli diedi un pugno sul
braccio e lui finse di accusare il colpo.
«Sei un peso piuma» disse strofinandosi il
braccio e sorridendo. Sapevo benissimo di averlo
colpito abbastanza forte, e speravo che gli sarebbe
rimasto un bel livido viola, ma non ne ero del tutto
sicura, perché le sue braccia erano muscolosissime,
e probabilmente lui aveva sentito solo una specie
di puntura d’insetto. Risi tra me e me del suo fisico
da cavernicolo, mentre andavo in bagno.
Feci quel che dovevo fare, e mi lavai le mani. In
un raro momento di femminilità, chinai la testa,
scossi i capelli, li pettinai con le dita e buttai la
testa all’indietro, per dar loro un po’ di volume. Mi
venne da vomitare, e dovetti reggermi con una
mano. Era il momento di mettere qualcosa sotto i
denti. Il whiskey stava cominciando a fare effetto e,
senza mangiare, sapevo che sarei finita al tappeto
molto presto: alla faccia del peso piuma. Gli uomini
pensano di avere una marcia in più rispetto alle
donne, ma non sanno niente. Scusate se peso la
metà del gigante che è in grado di scolarsi una
bottiglia senza accorgersene. Dovrebbe essere
contento che bastino pochi bicchieri per farmi
ubriacare! Indignata, uscii dal bagno e mi feci
strada nella calca.
C’era più gente rispetto a quando eravamo
arrivati. La folla del dopocena si era data tutta
appuntamento lì, e il pub era stracolmo di gente.
La musica celtica a tutto volume accentuava
l’atmosfera irlandese del locale. Mentre iniziavo a
muovermi a ritmo della musica, andai a sbattere la
testa contro un corpo muscoloso.
«Ahia!» dissi strofinandomi il naso e alzando la
testa. Anche se le luci colorate formavano un alone
intorno al suo corpo, il mio sguardo rimase
inchiodato ai suoi occhi verdi. Sussultai, perché
non riuscivo a credere che fosse lì, davanti a me.
«Allora, non mi dici niente, tesoro?» Le lunghe
ciocche di capelli biondo scuro gli ricadevano sugli
occhi.
«Non riesco a credere che tu sia qui…»
Il suo sguardo accarezzò il mio corpo. «Caspita,
quanto sei bella. Vieni qui.» E in un attimo fummo
una nelle braccia dell’altro. Il mio Wes. Mi baciò, le
sue labbra erano calde. Sapeva di menta e
profumava di oceano. Quanto mi mancavano il
mare, la brezza salata e… lui. Con una mano mi
teneva ferma la testa, mentre con l’altra mi attirava
a sé. I nostri corpi erano incollati. Esisteva solo lui,
e la tensione magnetica che mi attraeva verso il suo
corpo. Gli leccai il contorno delle labbra e lui le
aprì per far entrare la mia lingua.
Perfetto.
Baciare Wes era il massimo. L’energia ci
avvolgeva come un guscio protettivo, mentre la
folla ci spintonava. Sentii provenire da chissà dove
una serie di “scusate”, ma continuammo a baciarci.
Non riuscivamo a smettere: entrambi avvertivamo
il magnetismo che ci univa. Mi baciava come nei
film, quando l’uomo torna dalla guerra e rivede
finalmente la donna che ama. Mi baciava come se
fossi il suo mondo, e in quel momento lui era il
mio.
«Porca puttana, stai lontano da lei!» La voce di
Tony mi raggiunse attraverso la folla un attimo
prima che venissi strappata via dall’abbraccio di
Wes. Mi rimasero le braccia sospese a mezz’aria,
come quelle di una marionetta appesa ai fili.
«No, Tony, no!» disse Hector e si frappose tra
Wes e Tony.
«Che cosa credi di fare?» Wes fece un passo
avanti, spingendo via me ed Hector.
«No, no, Wes, ti prego, no! Lui è Tony!» Premetti
forte contro il petto di Wes cercando di
allontanarlo.
«Sì, e sarà meglio che ti tolga le mani di dosso,
altrimenti succederà un casino» ringhiò Wes, con lo
sguardo in fiamme fisso su Tony.
«Davvero?» Tony si scagliò verso di noi,
spingendoci l’uno contro l’altra.
«Ragazzi, smettetela. Wes, lui è Tony, il mio
cliente. Tony, lui è… ecco, lui è Wes!» urlai, nel
disperato tentativo di farmi sentire sopra la musica
ad alto volume.
Tony aggrottò le sopracciglia ed Hector lo spinse
via. «Tesoro, è il ragazzo di Mia. Sai, quello di cui ti
ho parlato, il regista che fa surf.» Chiusi gli occhi e
allungai le braccia per tenere lontano Wes.
«Il tuo ragazzo? Il regista che fa surf?» Wes
ridacchiò e mi attirò al suo fianco. «È così che parli
di me agli altri?» mi sussurrò all’orecchio,
facendomi correre un brivido lungo il corpo.
Nel frattempo il whiskey aveva fatto effetto e mi
aveva tolto i freni inibitori, quindi sbottai: «Avrei
dovuto parlare di te come di quello che mi scopa da
dio? L’avresti preferito?». Gli misi dolcemente le
mani intorno al collo, e gli andai vicino, molto. Lui
strofinò la fronte sulla mia.
«Sì, l’avrei preferito. Anzi, dirai così a tutti i tuoi
clienti, a tutti gli uomini con cui uscirai e a tutti i
tuoi fidanzati d’ora in poi.»
Sbuffai, in modo nient’affatto femminile. «Ti
piacerebbe, eh?»
«Sì, da morire. Cosa ne dici di presentarmi i tuoi
amici, ora che quello grosso non mi vuole più
prendere a cazzotti?»
«Ma certo.» Mi girai e Wes mi mise le mani
intorno alla vita. Entrambi guardavano la scena:
Hector faceva un bel sorriso, mentre Tony era
parecchio accigliato. «Ragazzi, lui è il mio amico
Wes. Wes, lui è Tony, e lui è il suo… ehm, lui è
Hector» tagliai corto.
«Hector è il mio compagno» dichiarò Tony, a voce
abbastanza alta da farsi sentire dalle persone
circostanti, anche se non c’era nessuno che gli
prestasse attenzione né che lo conoscesse.
Comunque era un enorme passo avanti nella
direzione giusta. Prima quel bacio al fiume e ora un
coming out in pubblico? Guardai Hector:
dall’espressione del suo viso si capiva quanto fosse
sorpreso, ma anche eccitato e pieno d’amore. E
comunque Hector guardava sempre Tony con lo
sguardo innamorato, e questo era uno dei motivi
per cui mi piaceva tanto. Era una persona
trasparente e si capiva sempre ciò che pensava e
provava. Una tale onestà era rarissima negli
ambienti che frequentavo.
«Wes, scusami per prima. Però, sai… uomini
ubriachi, una splendida donna: ci vuole poco a
venire alle mani. Stavo solo cercando di
proteggerla.» Tony diede una pacca sulla schiena di
Wes, e si strinsero la mano.
«Grazie. Sono contento di sapere che la mia
ragazza ha qualcuno che bada a lei» replicò Wes.
“La mia ragazza.” L’aveva detto quando stavo
con lui, e adesso lo diceva di nuovo. Ero davvero
nei guai.
«Be’, già che sei qui unisciti a noi e beviamo
qualcosa tutti insieme» disse Tony.
«Volentieri. Dove ci sediamo?» Wes fece segno a
Tony ed Hector di farci strada.
Ci accomodammo, e Wes avvicinò la sua sedia
alla mia per potermi abbracciare meglio. Era un
chiaro segnale di possesso, e non sapevo come
prenderlo né come comportarmi. Il whiskey che
avevo in corpo non mi aiutava e non reagii al suo
gesto.
«Quanto ti fermi a Chicago?» domandò Hector.
«Stasera e basta. Ho un volo per Los Angeles
domattina presto. Mentre ero qui, però, ho pensato
che avrei potuto vedere Mia. Spero che vada bene.»
Mi persi a guardare i suoi occhi verdi. Le sue
labbra erano lucide e i capelli gli ricadevano sulla
fronte. Glieli scostai delicatamente. Lui mi
accarezzò una guancia e io, senza pensarci, mi
abbandonai contro la sua mano. Stare senza di lui
per due mesi era stato come sopravvivere alla
siccità e poter bere solo adesso un piccolo sorso
d’acqua. Ne volevo di più. Molto di più.
«Va più che bene.»
9
Quando la porta si chiuse, mi ritrovai con la
schiena contro il muro. Le labbra di Wes e le sue
mani erano dappertutto, proprio dove più le
desideravo. Ormai ubriachi, tutti e quattro
avevamo preso la limousine per ritornare
nell’attico. Mentre Tony lo accompagnava nella loro
stanza, Hector mi aveva fatto un cenno d’intesa che
io avevo interpretato come un assenso a ospitare
un uomo in casa loro. Del resto, quella sera nulla
avrebbe potuto impedirmi di prendermi quel che
mi spettava. Il whiskey e il desiderio bruciante di
avere Wes erano troppo difficili da contrastare, e
così mi ritrovai incollata al muro dal suo corpo
muscoloso.
«Accidenti, mi sei mancata! Mi è mancato il tuo
corpo» disse accarezzandomi il seno. «Spogliati.
Adesso.» Mi strizzò entrambe le tette,
strappandomi un gemito roco.
Mi tolsi la maglietta e la buttai sul pavimento,
senza perdere tempo. Le sue mani armeggiavano
con il bottone dei miei jeans. Prima che potessi
allontanarle, erano già arrivate là, proprio là, e mi
accarezzavano, giocherellando dove ero bagnata.
Mi leccò dal seno fino al collo, poi si fermò
all’orecchio, e me lo morse. «Mi piace come reagisci
quando ti tocco. Mi dimostra che mi vuoi, di’ pure
quel che ti pare.»
Mi entrò dentro con un dito, poi con un altro:
che meraviglia! Buttai indietro la testa, urtando la
parete. «Non ho mai detto che non ti voglio»
ammisi, senza fiato.
«Ma ci provi sempre.» Premette più a fondo con
la mano: le sue dita sapevano dove toccarmi e il
pollice danzava abilmente intorno alla fonte del
mio piacere, regalandomi un’estasi deliziosa. Aveva
ragione. Cercavo davvero di negare quanto lo
amavo, dovevo farlo. Mi aiutava a mantenere le
distanze tra noi, ma non adesso. In questo
momento ero completamente presa.
«Ti voglio» sussurrai, mentre stavo per
raggiungere l’apice del piacere.
«Dopo di me sei stata con qualcun altro?»
«Wes» lo misi in guardia. Non era il genere di
conversazione che volevo fare mentre le sue dita
erano dentro di me fino in fondo e la sua mano era
bagnata del mio desiderio.
Mi baciò, affondando la lingua nella mia bocca
prima di scostarsi appena. «Sei stata con qualcuno
senza protezione?»
«Solo con te.» Ed ero sincera. Alec e io avevamo
sempre fatto sesso con il preservativo. Wes e io,
invece, a volte no, ma io mi fidavo di lui, ancora
adesso. I suoi occhi si incupirono, mentre mi
scrutavano. Poi lui allontanò le dita, e mi abbassò i
pantaloni e le mutandine. Me li tolsi, scalciandoli
via, mentre gli sbottonavo i pantaloni. Lui se li
abbassò quel tanto che bastava per farmi vedere il
pene: quanto mi era mancato, così lungo, grosso e
pronto per me.
Con una rapida mossa mi prese in braccio e si
avvolse le mie gambe intorno alla vita. «Aggrappati
alle mie spalle, tesoro.» Obbedii. Appena la presa
fu salda, mi spinse contro il muro, la cui superficie
ruvida mi sfregava la pelle nuda della schiena,
causandomi una punta di dolore che si aggiungeva
al piacere di quel momento inaspettato. Wes mi
penetrò: con una mano mi teneva la spalla, e con
l’altra i fianchi, impalandomi contro la parete.
«Oddio!» Sentirmi così riempita era il massimo.
«Ssh, tesoro, ti sentiranno.» Allora mi ricordai
dove ci trovavamo: in camera mia, nell’attico di
Hector e Tony, stavo scopando con il mio primo
cliente, mentre ancora lavoravo per il terzo. C’era
certamente qualcosa di malato in quella situazione,
ma non me ne importava. La sensazione di avere
Wes dentro di me era meravigliosa: mi riempiva
con ciò che più mi era mancato negli ultimi due
mesi, dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Si ritrasse e si spinse dentro di nuovo. Posò le
labbra sulle mie, e io gli succhiai la lingua
avidamente, come un’affamata dopo un lungo
digiuno.
«Te la ricorderai questa scopata.» E ancora una
volta si ritrasse per poi spingersi dentro di nuovo.
Ansimai e annuii, ero talmente annebbiata dal
desiderio che riuscivo a concentrarmi solo su ciò
che sentivo tra le gambe: l’intenso piacere che si
accumulava dentro di me, mentre lui si muoveva
dentro e fuori.
«Non ti permetterò di dimenticare quant’è
bello» disse, senza smettere di pompare.
«Voglio che continui a sentirmi vicino anche
quando me ne sarò andato.» Uscì e rientrò con
forza, stringendomi i fianchi. Mi morsi le labbra:
vedevo le stelle, sudavo e sentivo un piacevole
formicolio in tutto il corpo. Ancora un po’ e sarei
sicuramente venuta: mi sarei arresa a lui,
esattamente come desiderava.
«Ricordati di me» disse a denti stretti. Erano le
stesse parole che mi aveva detto l’ultima volta che
avevamo fatto l’amore. Adesso erano venate di
dolore e di piacere, in tutte le possibili sfumature.
Si ritrasse, tenendomi stretta, e mi cinse con le
braccia. Gli strinsi le gambe intorno alla vita, quasi
conficcandogli i talloni nella schiena. Ancora
dentro di me, mi spinse forte contro il muro e si
prese quel che era suo.
L’orgasmo mi esplose dentro: schegge di piacere
volarono in tutte le direzioni. Wes mi baciò con
forza, e continuò a baciarmi mentre, in preda al
godimento, veniva e mi inondava con il suo seme.
La sua bocca impedì alle mie lacrime di colare
lungo le guance. Gli morsi le labbra, mentre i
residui
della
nostra
passione
scemavano
lentamente.
Eravamo sudati, madidi della gioia di essere stati
insieme. Ansimavamo vicini, una fronte contro
l’altra, suggellando così il legame che ci aveva uniti
fin dall’inizio.
«Mi dimenticherai?» Il suo tono era gentile, ma
venato di preoccupazione.
«Mai» gli promisi.
«Dobbiamo darti una ripulita. Non ho ancora
finito con te, sai?» Mi abbracciò e mi accompagnò
in bagno, dall’altra parte della stanza.
«Per fortuna, perché anch’io ti voglio ancora»
annunciai, disseminandogli baci su tutto il viso,
leccandogli il sudore salato dal collo e godendomi
l’unico uomo di cui non ero mai sazia.
Mi appoggiò sul ripiano del lavandino e si tirò
indietro. Parte del suo seme gocciolò sulle
piastrelle. Lui fissò le mie cosce bagnate.
«Lì ci torno dopo» mi disse, con un sorriso
malizioso.
Gli diedi un buffetto sulla spalla. «Apri l’acqua
della doccia, pervertito.» Presi un asciugamano, lo
inumidii e mi diedi una ripulita, poi ne presi un
altro e pulii il ripiano e infine li buttai entrambi nel
cesto per la biancheria sporca.
Senza perdere tempo, Wes si era spogliato
completamente e aveva lasciato i jeans e le scarpe a
terra. La sua pelle baciata dal sole e i muscoli sodi
da surfista non erano mai stati così belli. Feci i due
passi che mi separavano da lui, e appoggiai le mani
sui suoi pettorali scolpiti. Chinai la fronte sul suo
petto e lo baciai, proprio in mezzo. Era caldo,
familiare e aveva tutto ciò che potevo desiderare
nella vita, ma che tuttavia non potevo ancora avere.
Mentre gli baciavo la pelle sopra al cuore, mi
vennero le lacrime agli occhi.
Mi prese il viso tra le mani, e accarezzò con il
pollice la lacrima che scendeva. «Ti capisco, per me
è lo stesso» disse dolcemente. «Godiamoci il tempo
che abbiamo, che ne dici?»
Annuii e lo seguii nella doccia. Mi lavò con cura i
capelli. «Sono cresciuti un bel po’.»
«Sì, crescono in fretta» dissi.
«Sono così belli.» Il suo sguardo seguì la
schiuma che gocciolava sulle piastrelle e veniva
portata via dall’acqua.
Mentre finivo di sciacquarmi, si insaponò le
mani. Non usava mai la spugnetta, nemmeno
quando facevamo la doccia insieme a Malibu. «Ti
piace usare le mani, eh?» dissi con un’espressione
leggermente maliziosa.
«Non lo sai?» Mi mise le mani insaponate sulle
spalle e mi massaggiò i muscoli contratti: una
sensazione paradisiaca. Le sue dita forti sciolsero
tutti i miei nodi, prima di muoversi in modo
seducente verso il petto e il seno. Mi fece girare e
appoggiare a lui con la schiena, poi mi afferrò i
seni, titillandomi i capezzoli con il pollice e
l’indice. Un brivido di piacere li attraversava ogni
volta che le sue dita li sfioravano, e alla fine erano
ritti e turgidi.
Gemetti e mi strusciai contro di lui, chiudendo
gli occhi. «Mi piacciono le tue tette. Sono grandi,
sode, e stanno perfettamente nelle mie mani. E
come reagiscono bene quando le accarezzo…» Le
sue parole e il vapore che ci circondava invadevano
la stanza: ero come ubriaca e mi sembrava di
sognare. Wes giocò con i miei seni finché non
iniziai ad ansimare e a gemere, dimenando i
fianchi in preda al desiderio.
«Che cosa vuoi?» Mi leccò il collo, scendendo
sempre di più, mentre continuava a torturarmi
dolcemente i seni, resi ipersensibili dal suo tocco.
«Ti voglio dentro, per favore» supplicai senza
ritegno.
«Chinati in avanti, tesoro. Afferra il
portasciugamani. Fammi vedere quel gran bel culo
che ti ritrovi.»
Afferrai il portasciugamani sopra la mia testa,
nella parte più lontana dalla doccia. Era come i
portasciugamani che si vedono nelle stanze degli
alberghi di lusso, dove le salviette sono lontane
dagli schizzi d’acqua, ma comunque a portata di
mano, in modo da evitare all’ospite di uscire nudo
dalla doccia. In questo caso era una maniglia
perfetta a cui aggrapparmi.
Wes mi abbracciò da dietro, facendomi
divaricare leggermente le gambe. Mi prese per i
fianchi, sollevandoli a suo piacimento. Rimasi in
attesa, con il cuore in gola. Ero eccitata, circondata
da uno sciame ronzante di sensazioni: mi
pregustavo ciò che sarebbe accaduto, sapevo che
sarei stata presa dalla sua erezione tentatrice e
proibita.
Wes mi strofinò i glutei e, con mani esperte, me
li divaricò leggermente, poi appoggiò la punta del
suo cazzo sul mio sesso, sfiorandolo appena.
«Lo vuoi, tesoro? Vuoi che ti scopi forte?»
«Sì, Wes, ti prego. Amami come sai fare.»
«Amarti?» mi domandò, entrando per qualche
centimetro. Strinsi le cosce, per indurlo ad
affondare ancora di più. Mi tenne ferma,
permettendomi di muovermi solo quando lo voleva
lui.
«Sì, fammi vedere come mi ami.»
Con un colpo di reni e le unghie conficcate nei
miei fianchi, mi penetrò, facendomi battere i denti.
Mi tenni forte al portasciugamani e, scossa dalla
sua spinta, mi ritrovai sulla punta dei piedi,
impalata, come piaceva a lui. Mi rimise a terra: non
riuscivo a respirare e nemmeno a muovermi. Non
mi ero mai sentita più completa con un uomo.
Quando si ritrasse, quasi piangevo, perché sentivo
il bisogno che rimanesse dentro di me, che
continuasse a starmi vicino.
«Non andartene» lo pregai con voce soffocata.
«Sono sempre qui.» Una delle sue mani afferrò
la mia e la strinse forte. Poi si tirò indietro e diede
un altro colpo di reni. «Sentimi, tesoro. Sono qui.
Con te, dentro di te, sono parte di te.»
Una piacevole sensazione, come un volo di
farfalle, si diffuse dal punto in cui eravamo uniti:
era stuzzicante come il solletico, e mi lasciava un
velo di piacere umido su tutto il corpo. Era insolito,
strano, diverso da tutte le altre esperienze sessuali
precedenti.
«Sto per venire» gli dissi, prima di perdere
definitivamente la capacità di parlare. Il piacere si
impossessò del mio corpo, della mente e del
subconscio, e iniziai un viaggio da cui non sarei
mai più voluta tornare.
«Sì» disse con un rapido movimento dei fianchi,
togliendomi il fiato per quanto era duro. «Verrai
finché lo decido io. Mi stringerai forte, dolce Mia, e
mi darai la prova che sono il padrone del tuo corpo.
Quando sono dentro di te, ci siamo solo noi, io e te,
ed è così che dovrebbe essere.» Si ritrasse, e poi
ricominciò a pompare. Gemetti, di nuovo avvolta in
una nebbia di godimento. Un lampo di piacere
caldo e bruciante lottava per uscire dal mio corpo,
per sfogare l’eccitazione repressa.
Fu in quel momento che iniziai a balbettare. Mi
scopava con lunghi affondi, facendomi perdere la
ragione. Iniziai a declamare una cantilena di parole
insensate.
«Ti prego…»
«Dentro di me…»
«Fa male…»
«Adesso…»
«Amore…»
«Ancora…»
«Wes…»
Proprio in quel momento mi mise una mano sul
seno e con l’altra si aggrappò al portasciugamani
sopra di noi, come se stesse facendo delle trazioni
alla sbarra. Si alzò sulla punta dei piedi e mi
penetrò più a fondo. Il suo membro durissimo mi
trafiggeva, spingendosi dentro di me fino a un
punto mai raggiunto da nessun uomo in
precedenza. Persi il controllo e fui travolta da un
orgasmo che mi lasciò tremante come se avessi
preso una scossa elettrica. Mi strinsi forte intorno a
lui che emise un verso animalesco, mentre veniva, e
mi morse la pelle tra il collo e la spalla. Il dolore
non fece altro che far divampare ulteriormente il
mio piacere, come un incendio incontrollato.
Mi fece venire più volte, finché persi il conto.
Quando smise di scoparmi, l’acqua era diventata
gelida, ed entrambi avevamo i brividi. Wes sciacquò
il mio corpo languido, poi mi coprì con un
asciugamano e io mi raddrizzai e mi appoggiai a
lui. Non riuscivo a fare nulla: aveva esaurito tutte le
mie forze, e avevo gli arti intorpiditi, come se
all’improvviso tutto si fosse spento e avesse
smesso di funzionare.
Dopo avermi asciugata quasi completamente, mi
aiutò a uscire dalla doccia, poi scostò le coperte, mi
mise a letto e si accoccolò al mio fianco, con il
corpo incollato al mio. L’umidità residua ci teneva
attaccati in un modo che mi piaceva più di quanto
avrei mai osato ammettere.
Mi sussurrò teneramente all’orecchio: «Non
voglio lasciarti domani». Chiusi gli occhi, presi il
suo braccio e lo tirai sopra il mio seno nudo. Mi
portai la sua mano alle labbra e gli baciai le dita.
«Devi andare» sussurrai, sapendo che avevo
bisogno che se ne andasse e al tempo stesso volevo
che rimanesse.
«Lo so.» Il suo tono era disperato, ma risoluto.
«Ma per me è fondamentale che tu non voglia.»
Desideravo che sapesse che questa volta era stata
importante, che ogni volta con lui era speciale.
«Oh, Mia, non ti permetterò di far morire ciò che
c’è tra noi.»
«E io non voglio che tu lo faccia. Spero che, nei
prossimi nove mesi, continuerai a ricordarmi come
potrebbero andare le cose tra noi.» Mi premetti la
sua mano sulla guancia, cercando di catturare
quella sensazione, di chiuderla a chiave nella
memoria per poterla ritrovare sempre.
«Non ti farò mai dimenticare che cosa potresti
avere, che cosa ti aspetta.»
Con queste parole, stretta nel calore del suo
abbraccio, scivolai nel mondo dei sogni.
Il sole che illuminava la stanza attraverso le
persiane aperte mi colpì negli occhi, ridestandomi
di soprassalto da un bellissimo sogno in cui Wes e
io facevamo surf. Ovviamente nel sogno ero
davvero brava, mentre nella realtà potevo definirmi
poco più che una principiante. Avrei dovuto
riprendere
ad
allenarmi
nell’oceano
per
avvicinarmi anche solo di poco alla surfista
provetta che ero nel sogno.
Allungai appena un piede dietro di me, ma
sentii solo le lenzuola fredde. Mi tirai su a sedere
un po’ sorpresa e guardai alla mia destra: Wes non
c’era più. Al suo posto rimanevano la sua traccia
sul cuscino vicino a me e un foglio di carta, con
ogni probabilità preso tra le mie cose sulla
scrivania.
Mia,
La scorsa notte è stata indimenticabile, anzi no, di più: unica.
Stare con te è come trovare l’onda perfetta, fare surf su un’onda
che non ha fine: è l’esaltazione, la paura, la vita che cambia
sotto i miei occhi.
Mi hai cambiato, Mia. Non credo più che la donna perfetta non
esista: esiste, e l’ho conosciuta, ho fatto l’amore con lei e l’ho
adorata nell’unico modo che conosco.
Poiché non mi hai dato altra scelta, rimarrò per sempre tuo
amico e continuerò a ricordarti come potrebbero essere le cose tra
noi: per i prossimi nove mesi, e oltre. Fino alla prossima volta,
penserò a te e ti chiamerò presto per sapere come stai.
Quando sarai pronta, hai la chiave.
Ricordati di me.
Il tuo amico regista che fa surf,
Wes
Strinsi la lettera al petto e piansi. Piansi per Wes,
per me, per ciò che avrebbe potuto essere tra noi.
Per ciò che speravo che avrebbe potuto essere
prima o poi. Se qualche altra donna bellissima non
me l’avesse portato via, nel frattempo. Ma non
importava: dovevo lasciargli vivere la sua vita,
mentre continuavo il mio viaggio. Sapere che a Wes
importava di me, che voleva che mi ricordassi di
lui, che sperava che sarei tornata da lui mi bastava
per vivere i nove mesi successivi. Ma, proprio come
avevo suggerito a Wes, adesso dovevo andare
avanti. Non potevo permettere al sentimento che
nutrivo per lui di intromettersi in ciò che stavo
facendo, o nelle esperienze che mi ero ripromessa
di fare.
Non avevo idea di dove mi avrebbe portata la
vita nei nove mesi successivi. Mi sarebbe piaciuto
spiegare le vele e andarmene via da tutto, far
pagare a Wes il mio debito e correre da lui, ma
dovevo farcela da sola. Sarebbe stato l’anno in cui
avrei deciso che cosa volevo fare della mia vita.
Forse passarla con Wes, forse no. Forse andare in
California, forse a Timbuctu. A prescindere da
quanto il mio cuore volesse correre da lui, la mia
testa aveva deciso: per i successivi nove mesi avrei
vissuto la vita che volevo, e avrei protetto mio
padre da se stesso.
E mi sarei ricordata di Wes, del tempo passato
l’uno accanto all’altra, della nostra amicizia, del
nostro stare fisicamente insieme. Alec mi aveva
insegnato quella lezione, e io lo amavo, proprio
come amavo Wes: a modo mio, e forse, se fosse
stato destino, nel giro di nove mesi avrei saputo se
quell’amore sarebbe durato per sempre.
Ma non oggi.
10
Era la sera in cui si celebrava l’ingresso trionfale
dei Fasano nel settore dei surgelati. Cuochi famosi,
giornalisti, ristoratori, potenziali investitori, la
famiglia al gran completo e un sacco di altra gente:
tutti a festeggiare nel ristorante dei Fasano. Sapevo
che ci sarebbero stati diversi editori di libri di
cucina e alcuni dirigenti della televisione per
parlare con Tony del progetto di una trasmissione e
per proporre a mamma Mona di realizzare un
ricettario con i piatti originali dei Fasano. Era tutto
molto eccitante e spaventoso allo stesso tempo.
L’idea era che nel corso dell’evento sarebbe stato
reso pubblico il mio fidanzamento con Tony. Io lo
avevo avvisato che di sicuro i media se ne
sarebbero usciti con qualche cattiveria, dal
momento che mi avevano visto al fianco di altre
due celebrità negli ultimi mesi, ma lui mi assicurò
che sarebbe andato tutto bene e che la situazione
era sotto controllo. Nella mia testa io tradussi così:
non sarebbe affatto andato tutto bene, sarebbe
scoppiato un casino di proporzioni epiche e io mi ci
sarei trovata proprio in mezzo.
Angelina mi aveva detto che tutto il ristorante
era stato trasformato in un open space, in
un’esibizione di lusso un po’ pacchiano. I tavoli
erano stati spostati nel magazzino adiacente e
sostituiti con tavolini da cocktail, e alcuni cartelli
informavano che il locale era chiuso e avrebbe
riaperto il giorno successivo. A prescindere da
quello che sarebbe successo, era la mia ultima sera
con i ragazzi e volevo godermela fino in fondo. Mi
auguravo che ci saremmo riusciti, visto che Tony si
era comportato in modo strano per tutta la
settimana. Ogni volta che entravo in una stanza in
cui c’era lui, trasaliva; si dimenticava in
continuazione di cosa stava parlando e passava
troppo tempo in ufficio. Era diverso anche con
Hector, davvero fuori di testa. In occasione della
festa di San Patrizio avevamo trascorso una
giornata meravigliosa, e ovviamente il giorno dopo
i ragazzi mi avevano fatto il terzo grado su Wes, ma
poi nei giorni successivi le cose si erano guastate.
Tony andava e veniva sempre più spesso, e passava
sempre meno tempo con Hector e con me. Si
comportava come se avesse un gigantesco segreto
da nascondere.
La faccenda del segreto era ciò che spaventava di
più Hector: diceva che per tutti gli anni in cui erano
stati insieme non avevano mai avuto segreti l’uno
per l’altro. Angie gli assicurò che sul lavoro andava
tutto bene e che Tony non era mai stato così
efficiente. Arrivava presto e se ne andava tardi, lei
poteva confermarlo. Non c’era nessun altro. Tony
sembrava solo preoccupato dei cambiamenti che si
prospettavano per l’azienda. Probabilmente
avrebbero trasformato Fasano da un semplice
posto in cui si mangia bene in un marchio di primo
piano. Quando un prodotto non è più venduto solo
in un migliaio di negozi ma viene distribuito in
tutti i negozi di alimentari della nazione, è ovvio
che ci sia un bel po’ di tensione.
Hector accettò di lasciare un po’ di spazio a Tony
e trascorse la settimana con me. Sul lavoro faceva il
normale orario dalle otto alle cinque, e non andava
in ufficio troppo presto né tornava a casa tardi,
come faceva Tony. Passavamo le serate andando al
cinema, giocando oppure bevendo un po’ troppo
vino. La loro storia era affascinante, e in breve io ed
Hector eravamo diventati amici. Sarebbe stato una
presenza costante per il resto della mia vita, come
Gin, Maddy, Alec o Wes, qualcuno su cui avrei
potuto sempre contare. Il numero dei miei amici
cresceva sempre di più, ed ero felice di potervi
aggiungere anche Hector, così come Tony e sua
sorella Angelina. Anche se da quando ero arrivata
Tony era sempre molto impegnato con il lavoro,
eravamo riusciti a trascorrere qualche momento
insieme e avevo imparato ad apprezzarlo. Era un
trentenne pieno di risorse, sia sul piano
professionale sia su quello personale. Ammiravo la
sua determinazione e il desiderio di rendere felici
le persone… tutte tranne se stesso e la più
importante di tutte: Hector.
Hector per lui c’era sempre. «Sacrificarsi in
periodi come questo» diceva «è normale quando
ami qualcuno, così come mettere i suoi bisogni
davanti ai propri. Un giorno lui farà lo stesso per
me.» Vedendoli insieme, anche in un periodo pieno
di tensione, si capiva che tra loro non mancavano
amore, partecipazione, fiducia reciproca: erano solo
prigionieri di una situazione particolare e stavano
facendo del loro meglio per superarla e ritrovare il
terreno comune di un tempo. Io speravo con tutto
il cuore che ci sarebbero riusciti, non volevo che
perdessero le cose meravigliose che, dall’esterno, si
potevano cogliere nel loro rapporto.
Mentre facevo i bagagli, suonò il telefono.
«Pronto?»
«Buongiorno, bambolina. Sei pronta ad
andartene dalla Città del Vento?» Era la voce
morbida e calda di mia zia Millie.
«Non particolarmente, sono stata molto bene
qui. Tony ed Hector sono due tipi fantastici.»
«Tony e… chi? Chi è Hector?» mi chiese.
«È il compagno di Tony.»
«Anthony Fasano è gay? Quello stallone con il
corpo di un dio greco?»
«Proprio lui.» Sorrisi: mia zia aveva un debole
per i ragazzi sexy.
«Troppo bello per essere vero: lo sapevo che
c’era qualcosa che non andava, sin da quando ho
visto il book con le sue foto. A quanto pare, questa
volta non riceverai alcun extra.»
Risi. «Pensi sempre ai soldi?»
«I soldi sono tutto, bambolina. Lo sai meglio di
chiunque altro, adesso. A proposito di soldi, ti ho
appena mandato per mail i dati del tuo prossimo
cliente. Prepara le valigie.»
«E perché?»
«Devi andare a Boston, nel Massachusetts.»
«Non ci sono mai stata. Che cos’ha di speciale
Boston, e perché dovrebbe piacermi?» Di Boston
sapevo soltanto che era la patria della miglior
squadra di baseball del mondo.
«Uomini, baseball e birra» disse ridendo lei.
«Tre delle mie cose preferite!» esclamai facendo
dei saltelli di gioia. Le partite di baseball mi
piacevano: erano una delle poche cose che avevo
condiviso con papà quand’ero piccola e poi
nell’adolescenza. Anche se era ubriaco fradicio, si
guardava tutti gli incontri. Tifavamo per i Red Sox,
all’inizio perché mi piacevano i calzini sul loro
logo, ma poi soprattutto per sentirmi unita a mio
padre, per rafforzare il nostro legame. A dieci anni
e senza una madre, cercavo di essere il più vicina
possibile all’unico genitore che avevo. Anche a
Maddy piaceva il baseball, e anche lei era una tifosa
dei Red Sox. Sarebbe stata contenta di sentire che
sarei andata a Boston.
«Sì, e c’è di più!»
«Sul serio?»
«Sei seduta?»
Andai a sedermi sul letto. «Adesso sì.»
«Sarai la escort del nuovo astro dei Red Sox,
Mason Murphy.»
«Non posso crederci! Ho sentito parlare di lui:
ha la media in battuta più alta del campionato e il
record di punti in questa stagione!»
Millie ridacchiò. «Ed è pure un gran figo! Un
irlandese della tua età, bello, alto e fatto apposta
per piacere alle donne.»
Ripensando all’ultima partita in cui l’avevo visto
giocare, non potevo non essere più d’accordo: avrei
riguardato volentieri quella registrazione per
rivedere il suo culo avvolto nei pantaloncini
bianchi stretti.
«Che meraviglia! Ma che cosa se ne fa di una
escort?»
«Avere una donna al suo fianco lo farebbe
sembrare, per così dire, più attento alla squadra e
alla sua immagine. Il suo addetto alla
comunicazione pensa che avere una fidanzata per il
primo mese di campionato gli toglierà molta
pressione di dosso e dimostrerà agli sponsor che è
una persona affidabile.»
Feci una smorfia e strinsi le labbra. «Sia come
sia, non vedo l’ora di iniziare, sarà fantastico!
Mandami i dettagli del volo, e tutto il resto.
Probabilmente arriverò in anticipo, per farmi bella
prima di incontrarlo.»
«Hai un albergo prenotato per i tre giorni
precedenti all’incontro con Murphy: nella struttura
ci sono un salone di bellezza e un centro benessere
con tutto ciò che ti serve. Hai bisogno di prenderti
un po’ di tempo per te stessa, così potrai prepararti
bene per la partita.»
«Ah-ah, divertente. Suona bene. Grazie, zia
Millie.»
«Figurati, che cosa non farei per mia nipote. Ci
sentiamo presto, bambolina.»
«A presto.»
«Sei splendida, Mia» disse Tony abbracciandomi
quando arrivai. Hector, al mio fianco, era elettrico e
irradiava nervosismo.
«Grazie. Ci sei mancato oggi» dissi, sperando
che capisse quanto.
Tony si passò la lingua sulle labbra e guardò
Hector, con lo sguardo che si riserva solo alle
persone amate. Hector abbassò gli occhi e scosse la
testa, con un gran sorriso. «Hector» disse Tony
dolcemente. «Sei perfetto, Papi» sussurrò,
abbastanza vicino da farsi sentire solo da noi due.
«Sei bello da star male» contraccambiò Hector,
mettendo una mano sulla schiena a Tony e
attirandolo in un abbraccio virile. Rimasero a
contatto un po’ troppo a lungo, ma non tanto da
destare sospetti nella folla che ci circondava.
Mona Fasano ci stava guardando dall’altro lato
della stanza. C’era qualcosa di diverso nel modo in
cui mi salutò, era più fredda del solito, non l’avevo
mai vista così da quando la conoscevo. Mi
abbracciò, ma sentii che da parte sua non c’era un
trasporto genuino. Abbracciò anche Hector, che mi
guardò con aria interrogativa. Mi strinsi nelle
spalle. Con Mona Fasano non si sapeva mai che
cosa bolliva in pentola: per me era un mistero.
«Figlio mio, ci sono persone importanti che devi
assolutamente salutare. Ho deciso che dovremmo
fare il libro di ricette, andiamo a parlare con chi
può darci una mano.»
Tony rise e sia Hector sia la sottoscritta ne
fummo felici. Era stato così stressato per tutta la
settimana e da quando eravamo usciti tutti insieme
era la prima volta che sembrava ritornato se stesso,
a suo agio nei suoi panni.
«Okay, mamma, vai avanti e io ti raggiungo tra
un attimo.» Mona guardò di nuovo me e poi
Hector, sospirando. Poi se ne andò, mormorando
qualcosa tra i denti.
«Cosa le è preso?» domandai.
«Non è contenta.»
«È ovvio. Ti dispiacerebbe dirci cos’è successo?»
«Non ancora. Saprete tutto a tempo debito. Che
ne dite di prendere da bere e fare due chiacchiere
con gli altri? Ci sono dei posti in prima fila dove
vorrei che vi sistemaste quando inizieremo, ok?
Promettetemi che sarete in prima fila con la
famiglia.»
Hector abbassò la voce e si chinò appena, in
modo che potessimo sentirlo solo noi. «Tesoro,
puoi contare su di me stasera, e lo sai. Sono qui per
aiutarti.»
«Sempre?» domandò Tony, in tono cospiratore.
Stava davvero iniziando a snervarmi. Era una serata
no, anche se Tony sembrava più a suo agio di
quanto fosse mai stato. Era perché stava per
annunciare al pubblico il suo matrimonio? Era per
il lancio dei nuovi prodotti? O per gli accordi per il
libro di cucina e il programma televisivo? In teoria
tutto ciò avrebbe dovuto stressarlo, non renderlo
rilassato come sembrava. Tony si stava
comportando come se quella sera nulla potesse
turbarlo. E poi c’era sua madre, che per qualche
motivo ignoto teneva il muso a Hector e a me.
«Sempre, e lo sai» promise Hector. «Saremo in
prima fila. Ora vai a fare quel che devi fare e sappi
che sono orgoglioso di te.»
Tony alzò un braccio e accarezzò la mano di
Hector. Un paio di persone colsero quel
movimento, ma lui si ritrasse prima che potessi
dire qualcosa.
«Tony è strano stasera, vero?» dissi a Hector
mentre il suo compagno raggiungeva un gruppo di
persone molto eleganti.
«Sì, dev’esserci sotto qualcosa. Non me ne ha
parlato, ma non mi stupisce. Di solito affronta da
solo i suoi problemi e poi me ne parla, subito
prima di agire. Di qualunque cosa si tratti, mi pare
che lui sia più sereno. Probabilmente ha preso
qualche decisione sull’azienda che lo mette in pace
con se stesso.»
«Toccarti in pubblico lo mette in pace con se
stesso? E sua madre che ci lancia occhiate di
fuoco?»
«Hai ragione. Nessuna di queste due cose è
normale, eppure non c’è molto che possiamo fare.
Possiamo prendere da bere, trovare Angie e vedere
che cosa bolle in pentola.»
Passammo la mezz’ora successiva a bere
champagne, a parlare con il resto della famiglia
Fasano e a divertirci. Si sentì una voce forte
provenire amplificata dalle casse. «E ora, signori,
vorrei fare un annuncio. Potete venire qui sotto il
palco per favore?» disse Tony da dietro il leggio.
«È arrivato il momento» disse Hector,
accompagnandomi fino al tavolo dov’era riunita
tutta la famiglia.
Tony indossava un impeccabile completo grigio
chiaro. Il palco piccolo faceva risaltare la sua
corporatura massiccia e le mani afferravano il
microfono facendolo quasi sparire. La folla tacque,
si radunò e si preparò ad ascoltarlo.
«Vorrei innanzitutto ringraziarvi per essere qui.
L’espansione del marchio Fasano nel settore dei
surgelati era un sogno di mio padre, Joseph
Anthony Fasano. Ha guidato l’azienda con onestà,
orgoglio e lealtà. Insieme a mia madre e alle mie
sorelle raccoglieremo la sua eredità in questa nuova
avventura, e realizzeremo un prodotto di qualità,
destinato alle famiglie e con un prezzo
conveniente: questo è da sempre il nostro impegno
come azienda.»
La folla lo applaudì, e si sentirono anche alcuni
fischi di approvazione. «Grazie. La nostra azienda
sta inoltre pensando di lanciarsi in diverse nuove
avventure. La prima è il libro di ricette di mamma
Fasano.» Seguì un applauso scrosciante. «La
seconda è il programma televisivo sul canale
dedicato alla cucina.» La folla impazzì. «Il
programma di cucina sarà un’avventura condivisa
con la famiglia Fasano. Mia madre, le mie sorelle e
l’amore della mia vita parteciperanno al nuovo
programma.»
Le grida della folla sovrastarono l’esclamazione
di stupore mia e di Hector. Che cosa aveva voluto
dire con quel “l’amore della mia vita”? Non poteva
in nessun modo costringermi a stare con lui e ad
aiutarlo a conquistare il pubblico americano.
«E qui arriviamo all’annuncio più importante. Vi
ho comunicato le ultime novità professionali, e ora
è il momento di un annuncio personale. Voglio
presentarvi la persona che amo di più al mondo,
che mi ha accompagnato nei momenti difficili fino
a ora ed è sempre stata al mio fianco. Il mio
compagno, il mio unico e vero amore, il mio
fidanzato, sempre che voglia esserlo.»
Fidanzato? Compagno? Oh, santo cielo!
Hector, che era vicino a me, aveva gli occhi
spalancati e le lacrime iniziarono a scorrere nel
momento in cui Tony gli porse la mano. «Hector
Chavez, ti amo, ti amerò per sempre. Voglio amarti
per tutta la vita. Quest’azienda e il mio cognome
non contano nulla se tu non vuoi condividerli con
me.»
In quel momento Tony si inginocchiò e aprì una
scatoletta foderata di velluto rosso, con all’interno
una sottile fede d’oro. «Sposami. Prendi il mio
cognome, costruiamo una famiglia insieme.»
Nella stanza calò un silenzio di tomba.
«Dài, alzati.» Hector aiutò Tony a rimettersi in
piedi. «Il mio uomo non si inginocchia di fronte a
nessuno. Rimane in piedi, orgoglioso, e io faccio lo
stesso per lui. Sarei felice di sposarti, di diventare
un Fasano.»
Tony fece un ampio sorriso, attirò Hector al suo
fianco e si rivolse al pubblico. I flash delle
macchine fotografiche scattavano impazziti. Il
rumore di fondo diventò una specie di boato sordo
quando la gente si rese conto di ciò che stava
succedendo. Anthony Fasano, pugile, uomo d’affari
tutto casa e famiglia, aveva appena fatto coming
out e chiesto al suo storico fidanzato di sposarlo, di
prendere il suo cognome e di costruire una
famiglia con lui.
Fu un momento epico. Dalla prima fila ne
approfittai per guardare bene i volti di tutti i
parenti di Tony, a partire da sinistra, dove c’erano
Giovanna e suo marito.
«Giovanna, accetti Hector come mio fidanzato e
tuo futuro cognato?»
Lei sorrise e annuì. «Sì» disse con la voce
strozzata, e si capiva quant’era emozionata.
«Isabella, accetti Hector come parte della tua
famiglia?»
«Sì, da sempre. E sono veramente felice per te.»
Si girò, e pianse sulla spalla di suo marito.
«Sophia…»
Non ebbe nemmeno il tempo di finire.
«Finalmente hai sputato il rospo» disse lei, e il
pubblico scoppiò a ridere. Tony strinse Hector a sé,
mentre le lacrime iniziavano a scorrergli sulla pelle
ambrata.
«Angie, accetti Hector come nuovo membro
della famiglia?»
Anziché rispondere, Angie saltò sul palco e li
abbracciò entrambi. «Ti voglio bene, vi voglio
bene» disse, e li baciò sulla bocca. Quant’erano
pazzi gli italiani con tutti quei baci sulla bocca! Poi
sussurrò qualcosa prima a uno e poi all’altro. Loro
spalancarono gli occhi e Tony fece un passo
indietro. Si inginocchiò, fece spostare sua sorella
davanti a sé e le baciò la pancia, e poi ci appoggiò
sopra una mano. Dal suo sorriso, tutti capirono.
Guardai Mona Fasano che osservava i suoi figli.
Piangeva a dirotto.
«Mia sorella avrà un figlio. Sono anni che ci
prova, e ora c’è riuscita!» gridò Tony. Tutti
applaudirono, e si sentì qualche fischio di
approvazione.
Angie scese dal palco, corse da suo marito Rocco
e lo abbracciò. Lui la tenne stretta e si persero in
un abbraccio festoso.
«Mamma» continuò Tony al microfono.
«Abbiamo la tua benedizione per far entrare
Hector ufficialmente nella nostra famiglia? So che
volevi che mi sistemassi con una ragazza cattolica
di buona famiglia e che ti dessi dei nipoti, ma
questo non mi renderebbe felice. Hector e io
avremo dei figli, con una madre surrogata. Ne
abbiamo già parlato.» Hector annuì con
entusiasmo. «So che per te è difficile da accettare.
Anche se te ne ho parlato qualche giorno fa sapevi
che sarebbe successo. Ho sempre amato Hector,
mamma.»
Mona annuì e si coprì la bocca con le mani: il suo
piccolo corpo era scosso dai singhiozzi. Tony scese
dal palco, seguito da Hector.
«Ti voglio bene, mamma. Ma amo anche Hector.
Lui è il mio futuro, e sono stanco di fingere. Non
posso vivere la mia vita secondo le regole dettate
da qualcun altro e sacrificare la mia felicità o quella
di Hector. Non sarebbe giusto.»
Mona abbracciò suo figlio. «Stupido, stupido che
non sei altro. Avrei capito, con il tempo. So bene
cos’è l’amore. So quando qualcuno è tutto il tuo
mondo: tuo padre era questo per me. Se Hector è
questo per te, allora nulla di ciò che gli altri
pensano o dicono dovrebbe impedirvi di stare
insieme. Vi voglio bene» disse sciogliendosi
dall’abbraccio. «Voglio bene a entrambi» aggiunse
accarezzando la guancia di Hector.
«Ora sarai sul serio il mio ragazzo, anche se in
realtà lo sei sempre stato, vero?»
Hector si asciugò le lacrime, che avevano preso a
scorrergli sulle guance. «Voglio che i miei ragazzi
siano felici» disse Mona abbracciandoli forte
entrambi.
E questo fu quanto. Il resto della serata fu una
festa: per Hector e Tony, e per Angelina e Rocco che
finalmente potevano avere il bambino che tanto
desideravano. Parlando con Angelina, più tardi,
scoprii che Tony la settimana precedente era
andato a casa delle sorelle e aveva detto a ciascuna
di loro che era gay, che amava Hector e che aveva
intenzione di chiedergli di sposarlo. A quanto
pareva, le sorelle lo sospettavano da tempo, ma
avevano rispettato la sua privacy mantenendo un
riserbo assoluto. Poi, quand’ero arrivata io, nessuna
di loro aveva saputo cosa pensare.
Angelina aveva passato la settimana con Tony a
lavorare sodo per trasformare la notizia in qualcosa
che non avrebbe macchiato il nome dei Fasano. Il
guru delle PR stava lanciando la campagna
“L’amore ha mille forme” per indebolire il fronte
dei benpensanti, e gli autori del programma
televisivo avevano accolto favorevolmente la
notizia. Dicevano che l’audience così si era allargata
a una nuova fascia di pubblico. I giorni della
settimana sarebbero stati dedicati a ciascuno dei
cinque figli e alla madre da sola. Erano entusiasti
del progetto e desideravano riservare un giorno a
Tony ed Hector perché cucinassero insieme,
offrendo qualcosa di nuovo alla comunità gay.
Alla fine l’amore aveva vinto nonostante tutto e
la famiglia sarebbe diventata più forte.
La mattina successiva, di buon’ora, trascinai le mie
cose in ascensore, ripensando alla sera precedente.
La festa era stata davvero bella, e alla fine tutti
erano felici ed elettrizzati per le novità, l’azienda
andava meglio che mai, la famiglia Fasano era
sempre più forte e tutti non facevano che parlare
delle nuove avventure che li attendevano. Tony
aveva persino chiarito il mio ruolo, ma aveva
tralasciato di dire che ero una escort, preferendo
usare il termine “amica”. Dopo aver condiviso la
loro vita per un mese, loro erano esattamente
questo per me: amici.
Lasciai il biglietto vicino a una bottiglia di
whiskey Jameson che avevo comprato il giorno
precedente. Mi chinai a baciare il punto vicino al
mio nome, e rilessi ciò che avevo scritto.
Tony ed Hector,
vi lascio, con la felicità nel cuore e le lacrime agli occhi. Voi due
mi avete aperto gli occhi su quanto possa diventare ricca e piena
la vita quando si ha il coraggio di rischiare. Tu hai rischiato,
Tony, e ora la tua vita sarà per sempre felice. Forse anch’io sarò
in grado in futuro di fare come te. Grazie per avermi dato un
esempio di coraggio.
Hector, mi mancheranno le nostre chiacchierate, le nostre serate
al cinema e i tuoi consigli per i vestiti. Quando sei tu a scegliere
il
mio guardaroba, sto sempre benissimo. ;) Parlando
seriamente, sai donare davvero tanto amore, e sono felice che tu
abbia voluto regalarmelo… come amico.
Grazie a entrambi per aver condiviso un tratto di vita con me.
Non potrei essere più felice per voi. Tenetemi al corrente delle
novità: mi aspetto un invito per il vostro matrimonio.
La vostra amica,
Mia
Era vero: avevo imparato molto da Tony ed
Hector. Avevo imparato a non avere paura, a non
lasciar decidere agli altri il mio destino, qual era il
tipo di felicità che volevo. Avrei portato
quell’insegnamento con me per il resto del mio
viaggio e sarebbe stato una guida per le mie scelte
future. Per ora, il mio cammino mi portava su un
aereo, verso un certo Mason Murphy in quel di
Boston, nel Massachusetts.
Ringraziamenti
A Sarah Saunders per aver dato a Mia il nome e per avermi aiutato a
renderla una tipa davvero tosta! C’è parecchio di te nella nostra
ragazza, e la cosa mi fa molto piacere!
Al mio editor Ekatarina Sayanova e alla Red Quill Editing: riesci a
capire me e le mie storie come mai nessuno prima di te. Ogni tuo
intervento sul testo mi rende una scrittrice migliore. Grazie di cuore.
A Heather White, una dea più che un semplice agente letterario.
Talvolta mi domando che cosa ho fatto per meritarmi una persona
tanto altruista. Sono davvero felice di condividere questo viaggio con
te. Trust the journey, baby!
Ginelle Blanch, sei stata con me fin dall’inizio, non ti sei mai
lamentata, mi hai sempre sostenuta fino in fondo, ti sei letta le bozze
con straordinaria efficienza, sorprendendomi ogni volta con i casini
pazzeschi che trovavi! Hai un occhio incredibile per i dettagli. Grazie
per aver condiviso il tuo dono con me.
Jeananna Goodall, la donna che legge tutto quello che scrivo ancora
prima che lo rilegga io. Ti adoro, perché mi fai venir voglia di scrivere
e perché credi nelle mie storie, a volte più di me. Grazie per tutta la
speranza che mi dai.
Anita Shofner, la regina del presente… e del passato remoto! Hai
evitato che i miei personaggi viaggiassero nel tempo e hai reso
brillante il mio manoscritto. Il tuo motto è “La soddisfazione prima di
tutto”. Stiamo a vedere dove l’anno porterà la nostra Mia.
Christine Benoit, grazie per aver letto le parti in francese e
verificato che fossero giuste. Mi sono molto divertita ad aggiungere al
libro qualche pezzo nella tua splendida lingua.
Alle Audrey’s Angels; insieme cambieremo il mondo, un libro alla
volta. Besos-4-Life, care ragazze.
Al mio gruppo di lettori, gli Audrey Carlan Wicked Hot Readers:
mi fate sorridere sempre, ogni giorno. Grazie per il vostro sostegno.
Infine un ringraziamento speciale va alla mia casa editrice, la
Waterhouse Press. Siete superstraordinari. Sono così felice che mi
abbiate trovata e mi abbiate fatto sentire a casa. Sono pazza di voi.
Que sto e book contie ne mate riale prote tto da copyright e
non può e sse re copiato, riprodotto, trasfe rito, distribuito,
nole ggiato, lice nziato o trasme sso in pubblico, o utilizzato in
alcun altro modo ad e cce zione di quanto è stato
spe cificame nte autorizzato dall’e ditore , ai te rmini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto
e splicitame nte pre visto dalla le gge applicabile . Qualsiasi
distribuzione o fruizione non autorizzata di que sto te sto così
come l’a lte razione de lle informazioni e le ttroniche sul re gime
de i diritti costituisce una violazione de i diritti de ll’e ditore e
de ll’a utore e sarà sanzionata civilme nte e pe nalme nte
se condo quanto pre visto dalla Le gge 633/1941 e succe ssive
modifiche .
Que sto e book non potrà in alcun modo e sse re ogge tto di
scambio, comme rcio, pre stito, rive ndita, acquisto rate ale o
altrime nti diffuso se nza il pre ve ntivo conse nso scritto
de ll’e ditore . In caso di conse nso, tale e book non potrà ave re
alcuna forma dive rsa da que lla in cui l’ope ra è stata
pubblicata e le condizioni incluse alla pre se nte dovranno
e sse re imposte anche al fruitore succe ssivo.
Que sto libro è un’ope ra di fantasia. Pe rsonaggi e luoghi citati
sono inve nzioni de ll’a utrice e hanno lo scopo di confe rire
ve ridicità alla narrazione . Qualsiasi analogia con fatti, luoghi
e pe rsone , vive o scomparse , è assolutame nte casuale .
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Calendar Girl. Gennaio, Febbraio, Marzo
di Audre y Carlan
Copyright © 2015 by Audre y Carlan
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Donze lli Age ncy
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Titolo de ll’ope ra originale : Calendar Girl - Volume One
Ebook I S BN 9788852074158
COPERTINA || ELABORAZIONE DA FOTO ©
SHUTTERSTOCK
«L’AUTRICE» || FOTO © MELISSA MCKINLEY
Indice
Il libro
L’autrice
Frontespizio
Calendar Girl. Gennaio, Febbraio, Marzo
Dedicato a…
Gennaio
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Febbraio
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Marzo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Ringraziamenti
Copyright