Intervento Fortis - facolta` di economia

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Intervento Fortis - facolta` di economia
IL MADE IN ITALY TRA COMMERCIO LEALE E INNOVAZIONE INDUSTRIALE
Intervento di Marco Fortis
(Vicepresidente Fondazione Edison; docente di Economia industriale, Università
Cattolica)
IIa Conferenza Nazionale sul Commercio con l’Estero,
Roma, 26 febbraio 2005
Il sistema manifatturiero italiano è un pilastro dell’Europa. Per numero di addetti (4,8
milioni) si colloca subito dietro quello tedesco (7,5 milioni) e davanti a quelli di Francia (4,1
milioni) e Regno Unito (3,9 milioni).
Numerosi sono i primati detenuti dall’Italia nella produzione industriale e nell’export
mondiale. A livello di export siamo i primi al mondo, solo per citare alcuni casi, nelle pelli
conciate, nei tessuti di lana, nei foulard e nelle cravatte, nella gioielleria, nell’occhialeria,
nel mobilio, nelle pietre ornamentali, nelle piastrelle, nelle cappe aspiranti per cucine, nei
frigoriferi e nelle lavastoviglie, nei telai per tessitura, nelle macchine per calzature, nelle
macchine per lavorare i cereali, per produrre il vino, per lavorare i minerali non metalliferi e
per colare i metalli, nelle giostre e nelle attrezzature per luna park, negli yacht, nelle selle e
nei componenti per biciclette da corsa e in molti prodotti alimentari (pasta, conserve di
pomodoro, formaggi e insaccati tipici) e dell’agricoltura (uva, pesche). Siamo i secondi
esportatori mondiali nelle calzature, nei tessuti di lino e seta, nei vestiti completi, negli
apparecchi per riscaldamento, nella rubinetteria e valvolame, nelle macchine agricole per
la preparazione del suolo, nelle macchine per l’industria alimentare, per l’imballaggio, per il
finissaggio dei tessili, per lavorare le materie plastiche e il legno, nei laminatoi per metalli,
nel vino e nell’olio di oliva.
In particolare l’Italia possiede 4 macrosettori di eccellenza manifatturiera, le 4 “A”: Agroalimentare; Abbigliamento-moda; Arredo-casa; Automazione-meccanica. Accanto a questi
4 macrosettori di eccellenza si collocano alcune leadership di nicchia in alcuni comparti ad
alto contenuto tecnologico, tra cui: auto di lusso, navi da crociera, elicotteristica e
aerospazio, difesa, specialità chimiche e farmaceutiche, diagnostica, biomedicale. Il nostro
Paese possiede inoltre la preziosa risorsa del turismo (siamo tra i primi 4 Paesi al mondo
per introiti turistici), che va opportunamente rilanciata e che si basa anch’essa su 4 “A”:
Ambiente, Arte, Architettura, Accoglienza.
Le 4 “A” dell’eccellenza manifatturiera italiana occupano complessivamente 3 milioni e 167
mila addetti, pari al 65% del totale degli addetti manifatturieri rilevati dal Censimento 2001,
e hanno generato nel 2004 un saldo attivo con l’estero di 74 miliardi, fondamentale per
controbilanciare la pesante ”bolletta energetica” (-31 miliardi) e il passivo degli altri settori,
tra cui mezzi di trasporto, elettronica e chimica (-45 miliardi ).
L’industria alimentare e delle bevande italiana è tra le più importanti a livello mondiale e
pochi sanno che essa genera un valore aggiunto di 18 miliardi di euro, superiore a quello
prodotto dalle industrie tedesca e finlandese degli apparecchi telefonici, radio e TV
considerate assieme.
A loro volta i due macrosettori “tradizionali” dell’Abbigliamento-moda e dell’Arredo-casa
dell’Italia generano assieme un valore aggiunto di 42,4 miliardi di euro, superiore a quello
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dell’intera industria manifatturiera della Svezia (41,7 miliardi) o a quello dell’industria
tedesca degli autoveicoli finiti (38,2 miliardi di euro), che è la più grande del mondo.
Infine la meccanica italiana (considerando solo i prodotti in metallo e le macchine e gli
apparecchi, esclusa l’elettronica) è seconda in Europa solo a quella tedesca ed esprime
un valore aggiunto di 54,3 miliardi di euro, sostanzialmente uguale a quello generato da
tutta l’industria farmaceutica della UE-25 (54,7 miliardi) o a quello prodotto dall’intera
industria manifatturiera dell’Olanda (54,2 miliardi).
Notevole è il contributo fornito dalle Piccole e Medie Imprese (PMI) e dai Distretti
industriali al successo dell’industria manifatturiera italiana. Le PMI rappresentano l’84%
dell’occupazione manifatturiera. I 199 Distretti di PMI ufficialmente riconosciuti dall’Istat a
loro volta occupano oltre 2,2 milioni di addetti manifatturieri, generano il 27% del PIL
(senza considerare l’indotto), il 38% del valore aggiunto manifatturiero e il 46% dell’export
manifatturiero.
Grazie a questo modello produttivo diffuso sul territorio e al suo straordinario indotto,
l’Italia può contare, unico Paese assieme alla Germania, 9 regioni tra prime 40 più ricche
d’Europa per Pil pro capite a parità di potere d’acquisto, davanti al Regno Unito (4 regioni)
e alla Francia (solo una regione).
Nonostante questi elementi positivi, l’Italia presenta però un numero esiguo di grandi
gruppi, il che riduce le nostre possibilità di contrattazione nei riguardi della grande
distribuzione mondiale, limita la nostra presenza nei settori ad alta tecnologia e riduce ai
minimi termini le possibilità di spesa privata in ricerca e sviluppo. A questo riguardo va
ricordato che secondo dati della Commissione Europea nel 2003 in Italia solo 5 società
hanno speso singolarmente più di 100 milioni di euro in R&S per complessivi 3,6 miliardi,
mentre le imprese che hanno investito più di 100 milioni in ricerca in Germania sono state
37 per un ammontare globale di 35,3 miliardi di euro, in Francia sono state 28 per un
totale di 18,3 miliardi e nel Regno Unito sono state 22 per complessivi 13,5 miliardi. La
sola Siemens spende in R&S 5,5 miliardi di euro, cioè più dei primi 100 gruppi industriali
italiani.
E’ stato inoltre sottolineato che la specializzazione produttiva italiana è prevalentemente
concentrata in settori a debole crescita, mentre il nostro Paese occupa posizioni marginali
nei settori che stanno facendo registrare i più alti tassi di sviluppo come informatica,
elettronica di consumo, telefonia cellulare, ecc.
Con questi punti di forza e di debolezza l’Italia si trova a dover affrontare negli ultimi anni
una grande crisi di competitività. Tra il 1996 e il 2003 l’Italia è stato il Paese europeo che
ha perso maggiormente quote di mercato nell’export mondiale (-0,8%) per effetto della
concorrenza frontale portata dai Paesi emergenti dell’Asia ed in particolare dalla Cina (il
cui peso nell’export mondiale è salito dall’1,9% del 1990 al 6,5% del 2003): una
concorrenza che ha investito numerosi settori di specializzazione del made in Italy.
Dal 1993 il saldo della bilancia commerciale italiana è sempre stato positivo, ma nel 2004
si è chiuso in rosso (-1,5 miliardi di euro), dopo aver toccato nel 1996 un attivo record di
34,9 miliardi di euro allorché l’Italia fu il terzo Paese al mondo dopo Germania e Giappone
per surplus commerciale. Da allora, in soli otto anni, tale attivo commerciale si è
praticamente azzerato. Le cause principali di tale peggioramento sono da ricercarsi
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soprattutto in tre poderosi mutamenti dello scenario, che insieme hanno bruciato da soli la
ragguardevole cifra di 32 miliardi di euro:
1) il saldo attivo dell’Italia con la Germania, nostro principale mercato, da attivo per 4,4
miliardi di euro quale era nel 1996 si è trasformato in un enorme passivo di 12,5
miliardi nel 2004, con un peggioramento complessivo per l’Italia di quasi 17 miliardi.
I tedeschi, appesantiti da una crisi economica aggravata dalle pesanti
ristrutturazioni aziendali e dalle delocalizzazioni che hanno portato il livello dei
disoccupati a superare nel gennaio 2005 il tetto dei 5 milioni, comprano sempre
meno prodotti di qualità del made in Italy, acquistando beni meno cari provenienti
dall’Est Europeo e dall’Asia. Per contro, gli italiani hanno importato in misura
crescente negli ultimi anni telefonia, elettronica di consumo, PC e auto di lusso
provenienti dalla Germania;
2) tra il 1996 e il 2004 si è registrato uno straordinario aggravamento del passivo
bilaterale dell’Italia verso la Cina, che dai 930 milioni di euro del 1996 è salito nel
2004 fino alla cifra record di 7,4 miliardi di euro, con un peggioramento per l’Italia di
6,4 miliardi;
3) a seguito dei forti rialzi dei prezzi del petrolio e del gas naturale intervenuti dal 2000
in avanti il passivo dell’Italia verso l’aggregato OPEC-Russia è cresciuto dai 4
miliardi di euro del 1996 ai 12,9 miliardi di euro del 2004, con un peggioramento
complessivo di 8,9 miliardi di euro.
A fronte di questa evoluzione dello scenario mondiale e del peggioramento degli scambi
italiani con l’estero, nello studio della Fondazione Edison che abbiamo preparato per il
Ministero delle Attività Produttive, Area per l’internazionalizzazione, abbiamo cercato di
analizzare non solo i punti di forza e di debolezza del made in Italy, ma anche di valutare
criticamente le “ricette” per il suo rilancio.
Le “ricette” che sono state da più parti proposte negli ultimi mesi per sostenere la ripresa
del made in Italy, riorientarlo ed attrezzarlo per competere nel nuovo scenario della
globalizzazione sono state soprattutto 4:
1) cogliere le opportunità costituite dai nuovi mercati emergenti, in primo luogo la
Cina;
2) promuovere la crescita dimensionale delle nostre imprese;
3) promuovere anche una loro maggiore internazionalizzazione;
4) fare più ricerca e innovazione.
In linea teorica si tratta di 4 “ricette” giuste. Tuttavia siamo profondamente convinti che se
esse non saranno opportunamente accompagnate anche da un sano realismo e da
adeguati ingredienti, rischieranno di trasformarsi in inconcludenti slogan autoreferenziali.
Sul problema delle opportunità rappresentate dai Paesi emergenti, riteniamo che si sia
parlato fin troppo della Cina e poco di altre aree geografiche. La realtà è che la Cina, con
la sua concorrenza “asimmetrica”, la contraffazione dei prodotti e dei marchi del made in
Italy e la sua moneta svalutata del 35% in 3 anni rispetto all’euro, per molti anni a venire
rimarrà soprattutto una minaccia per gran parte dei nostri settori produttivi.
La crescente concorrenza della Cina non solo ha determinato un forte passivo
commerciale bilaterale italo-cinese ma anche una generalizzata perdita di quote di
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mercato da parte delle nostre imprese esportatrici su scala mondiale ed in particolare in
Europa.
A quest’ultimo riguardo osserviamo che la Cina è ormai il Paese con cui l’Unione Europea
presenta il più elevato passivo commerciale in assoluto. Secondo le statistiche
dell’Eurostat il passivo bilaterale UE-15/Cina (inclusa Hong Kong), che nel 1988 era di soli
1,7 miliardi di euro, nel 1992 era già salito a 10,3 miliardi, per poi balzare nel 2001 a 45,8
miliardi e a 55,5 miliardi nel 2003, con una prima stima di oltre 64 miliardi di euro nel
periodo gennaio-novembre 2004 (che salgono a 71 miliardi per la UE-25)1.
Chi ha fatto maggiormente le spese dell’aggressività cinese sul mercato europeo in termini
di perdita di quote di mercato è certamente l’Italia. Secondo i dati dell’Eurostat tra il 1996 e
il 2003 l’import complessivo della UE-15 dalla Cina si è più che triplicato, passando da 30
a 96 miliardi di euro, mentre l’import complessivo della UE dall’Italia è cresciuto soltanto
da 100 a 131 miliardi. In altri termini come fornitori dell’Europa otto anni fa eravamo oltre 3
volte più importanti della Cina, mentre nel 2003 il rapporto di forza a nostro vantaggio si è
ridotto a 1,4.
Si tratta di una evoluzione per noi negativa proseguita anche nel 2004: infatti, secondo
prime stime l’import della UE-15 dalla Cina è risultato nel periodo gennaio-ottobre 2004 di
95,3 miliardi di euro rispetto ad un import della UE-15 dall’Italia di 113,5 miliardi di euro.
Dunque il rapporto tra Italia/Cina come Paesi fornitori della UE-15 è ormai sceso solo a
1,19 a nostro vantaggio.
Più in dettaglio, osserviamo che dal 1996 al 2003 l’import della UE-15 di un paniere di 16
prodotti della moda, dell’arredo-casa e della meccanica particolarmente importanti per la
bilancia commerciale italiana2 è cresciuto, secondo stime della Fondazione Edison su dati
Eurostat, solo del 9% (da 17,3 a 18,9 miliardi di euro), mentre l’import europeo dalla Cina
degli stessi prodotti è aumentato del 147% (da 9 a 22,3 miliardi di euro). In 7 categorie
fondamentali di prodotti del sistema abbigliamento-moda la Cina è ormai nettamente il
primo fornitore della UE (con 16,1 miliardi di euro) davanti all’Italia (11,1 miliardi). La Cina
sta aumentando le sue esportazioni verso la UE anche in comparti come la gioielleriaoreficeria o l’occhialeria in cui era praticamente assente otto anni fa. Lo stesso sta
avvenendo in 9 categorie di prodotti meccanici e dell’arredo-casa presi in esame dalla
Fondazione Edison. In questo caso l’Italia era oltre 4 volte più importante della Cina come
fornitore della UE nel 1996, mentre nel 2003 il rapporto a nostro vantaggio è calato a 1,2.
Tra il 1996 e il 2003 le importazioni della UE-15 dalla Cina nelle 9 categorie di prodotti
della meccanica e dell’arredo-casa analizzate sono infatti cresciute del 322%, passando
da 1,5 a 6,2 miliardi di euro, mentre le vendite degli stessi prodotti dall’Italia alla UE sono
aumentate solo del 22%, da 6,4 a 7,8 miliardi. Gli incrementi più consistenti di importazioni
dell’Europa dalla Cina nell’ambito dei beni per la casa e della meccanica hanno riguardato
la rubinetteria, le lampade e l’illuminotecnica, il mobilio e le pietre ornamentali.
Oltre 1/3 dell’attuale passivo bilaterale della UE verso la Cina è in definitiva oggi generato
da prodotti che fino a pochi anni fa l’Europa importava prevalentemente dall’Italia.
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La prima stima preliminare dell’Eurostat sul deficit commerciale della UE-25 con la Cina per il 2004 ammonta a ben
78,7 miliardi di euro, contro i 64,2 miliardi del 2003. Il deficit è quindi cresciuto in un solo anno del 22,5% (Eurostat,
Euro-Indicators, news release 42/2005, 23 marzo 2005).
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Calzature; abbigliamento; maglie e calze; occhiali; montature per occhiali; gioielleria; articoli in pelle; rubinetteria e
valvolame; lampade e illuminotecnica; mobili e cucine; sedie e divani; casalinghi in metallo; coltelleria, posateria e
utensili; chiavi, serrature, lucchetti; ferramenta e cerniere per mobili, porte, finestre; pietre ornamentali lavorate.
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Occorre dunque prendere atto che la concorrenza asimmetrica e sleale cinese sta
producendo effetti assai negativi sulla bilancia commerciale e sul sistema produttivo
italiano, indebolendo alle sue radici lo stesso tessuto della nostra società civile, specie in
alcuni importanti distretti e regioni del Paese. Secondo la Cisl sarebbero oggi in Italia ben
430mila i posti di lavoro a rischio, tra cui quelli del tessile, del calzaturiero e di molti
comparti della meccanica sono la diretta conseguenza della crescente concorrenza
asiatica, di chiusure e delocalizzazioni.
Bisogna essere estremamente chiari a questo proposito: la ragione per cui l’economia
italiana fatica a crescere è soprattutto la concorrenza asimmetrica della Cina nei confronti
di circa la metà dei nostri prodotti di eccellenza per saldo commerciale attivo con l’estero.
Sicché slogan azzeccati come “fare squadra” o “fare sistema” per acquisire concretezza
devono tradursi anzitutto in azioni efficaci di difesa del made in Italy,
Le PMI e i Distretti italiani sono particolarmente esposti al dumping sociale ed ambientale
cinese. Il costo del lavoro in Cina è infatti tra i più bassi al mondo. Il salario minimo legale
di un operaio in diverse grandi città cinesi (Shangai, Shenzhen, Guangzhou) oscillava agli
inizi del 2004 tra i 570 e i 700 yuan, cioè tra 60 euro e 70 euro mensili. Si tratta di salari
che, seppure in leggero rialzo a causa di una certa carenza di manodopera nelle aree più
industrializzate della Cina, sono notevolmente inferiori a quelli italiani. Inoltre, le produzioni
industriali nelle “fabbriche-caserme” cinesi sono in gran parte effettuate senza alcun
rispetto per l’ambiente e le materie prime utilizzate sono spesso di bassa qualità o
pericolose per la salute dei consumatori: è il caso dell’ottone utilizzato nella produzione dei
rubinetti per l’acqua potabile, lega che frequentemente contiene piombo ed altri metalli
pericolosi in percentuali non ammesse in Europa e in altri Paesi occidentali o il caso dei
tessuti trattati con coloranti da tempo banditi in Europa, ecc. Per tutte queste ragioni si
parla sempre più frequentemente di dumping sociale, ambientale ed anche “tossicologico”
della Cina. Occorre inoltre sottolineare che spesso l’aggressività commerciale delle
imprese cinesi fa leva su un vero e proprio dumping commerciale, come quando i prezzi
dei beni finiti offerti sul mercato mondiale risultano inferiori ai prezzi internazionali delle
stesse materie prime impiegate. Esemplare è un caso segnalato dal Ministero delle Attività
Produttive. All’inizio del 2005 una impresa cinese registrata in Italia con un nome italiano
ha chiesto di poter importare 36 milioni di reggiseni, mutande e camicie al prezzo di mezzo
dollaro la dozzina, cioè circa 60 lire il pezzo!
Tuttavia, non si deve pensare che la competitività della Cina dipenda solo da un più basso
costo del lavoro, oltre che dai vantaggi derivanti da normative riguardanti l’ambiente meno
restrittive di quelle occidentali. Gran parte della competitività delle aziende cinesi, specie
nei riguardi del made in Italy, deriva infatti da un tasso di cambio estremamente
favorevole. Secondo molti il dumping valutario cinese è altrettanto rilevante di quello
sociale ed ambientale. Un euro meno forte rispetto al dollaro e quindi rispetto allo yuanrenminbi (che al dollaro è ancorato) potrebbe ridare slancio persino a settori del made in
Italy ad alta intensità di manodopera ma di elevato profilo qualitativo come le calzature. Lo
stesso potrebbe avvenire qualora lo yuan fosse rivalutato rispetto al dollaro (come
auspicato anche dal Fondo Monetario Internazionale), ipotesi però finora sempre rinviata
dalle autorità cinesi.
Vale la pena di ricordare che il cambio yuan-dollaro è praticamente bloccato in un rapporto
di 8,28 yuan per dollaro dalla prima metà degli anni ‘90. L’ancoraggio dello yuan al dollaro
ha certamente rappresentato un fattore di stabilità durante la crisi finanziaria asiatica di
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fine secolo. In seguito, tuttavia, ha costituito un elemento di crescente vantaggio per le
esportazioni cinesi tale da destabilizzare gli equilibri del commercio internazionale ed in
modo particolare la competitività dell’industria europea, soprattutto nel triennio 2002-2004
quando il dollaro si è particolarmente indebolito nei confronti dell’euro. Il cospicuo saldo
commerciale attivo della Cina con l’estero (che secondo prime stime dovrebbe aver
superato i 32 miliardi di dollari nel 2004) e il continuo afflusso di investimenti diretti esteri
nel grande Paese asiatico hanno prodotto un enorme aumento delle riserve valutarie
cinesi, passate dai 139,9 miliardi di dollari di fine 1997 a 514 miliardi di dollari a fine
settembre 2004 e, secondo prime stime, a 610 miliardi a fine 2004. Le riserve valutarie
cinesi sono ormai seconde solo a quelle giapponesi, che sono pari a 845 miliardi di dollari.
In una simile situazione in un regime di cambi fluttuanti la valuta di un Paese tenderebbe
ad apprezzarsi, mentre il cambio yuan-dollaro è rimasto sostanzialmente invariato, anche
perché gran parte del surplus valutario cinese è stato reinvestito in titoli di Stato americani,
generando tra le economie USA e cinese un intreccio assai complicato.
Sin tanto che il dollaro è rimasto forte nei confronti dell’euro, il legame tra yuan e dollaro
non ha comportato effetti particolarmente negativi per la competitività dell’industria italiana
(ed europea) nel confronto diretto con i concorrenti cinesi. Ma tra la fine del 2001 e la fine
del 2003 il cambio dollaro-euro si è notevolmente indebolito, passando da 0,88 dollari per
euro a 1,26 dollari per euro fino ai recenti record del dicembre 2004 oltre quota 1,35
dollari, con un apprezzamento della moneta europea nei confronti di dollaro e yuan
superiore al 53% rispetto alla fine del 2001. Ciò ha reso nettamente più competitive le
merci cinesi rispetto a quelle europee ed italiane. L’industria del nostro Paese si è dunque
trovata di fronte ad uno scenario eccezionalmente negativo caratterizzato da due
tendenze principali: a) minori ricavi in euro derivanti dalla vendita dei propri prodotti sul
mercato statunitense (che è quello nei confronti del quale l’Italia registra il più cospicuo
saldo commerciale positivo bilaterale) e in altri Paesi clienti dell’area del dollaro (Sud
America, Medio Oriente, Asia, ecc.); b) fortissima crescita della concorrenza della Cina nei
riguardi dei prodotti in cui l’Italia è più specializzata sul mercato europeo e mondiale.
In sostanza: dobbiamo concentrarci prioritariamente sulle azioni a tutela del made in Italy,
tra cui l’adozione del marchio d’origine sulle merci importate in Europa e, se necessario,
l’avvio di rapide azioni di salvaguardia e antidumping. Non si tratta di nostalgia di
protezionismo ma, come ha affermato il Presidente di Confindustria Luca Cordero di
Montezemolo, di “legittima protezione”. I dati sulla richiesta di licenze di importazione in
Europa di calzature e tessile-abbigliamento provenienti dalla Cina nei primi tre mesi del
2005 indicano crescite in quantità che vanno dal 500% ad oltre il 1.500%. E’ quindi tempo
che l’Europa tuteli la sua industria senza timori reverenziali verso il gigante asiatico e
sudditanze nei confronti delle lobbies dei traders del Nord Europa e che l’Italia faccia
sentire tutto il suo peso in Europa a tal scopo. Le recenti guidelines sulle misure di
salvaguardia tessili contro la Cina illustrate dal Commissario europeo Mandelson appaiono
assolutamente inadeguate e richiedono tempi troppo lunghi rispetto alle esigenze di tutela
dell’industria italiana ed europea. E non appaiono più accettabili i ritardi nell’adozione del
marchio obbligatorio sul Paese d’origine per i prodotti importati in Europa. I soli 4 settori
europei (tessile-abbigliamento, calzature, mobili, piastrelle ceramiche) che per primi ne
hanno fatto esplicita richiesta alla Commissione UE, su spinta dell’Italia, rappresentano un
valore aggiunto manifatturiero di 113 miliardi di euro, superiore a quello delle intere
industrie manifatturiere della Svezia, del Belgio e della Danimarca!
Quanto alle opportunità di sviluppo delle vendite italiane in Cina occorre essere franchi e
non cullare illusioni. E’ importante che le nostre imprese, specie quelle più grandi,
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investano maggiormente in Cina e sono positive missioni diplomatiche coordinate come
quella guidata nel dicembre 2004 dal Presidente della Repubblica Ciampi e da quello di
Confindustria Montezemolo. Tutte le possibilità di aumentare le nostre vendite in Cina e i
rapporti di collaborazione con il grande Paese asiatico vanno ovviamente colte e i ritardi
vanno colmati. Ma non è solo questione di ritardi. Bisogna prendere atto che le maggiori
opportunità di crescita in Cina nel breve termine sono a portata solo della Germania, che
grazie alle sue specializzazioni produttive e ai suoi grandi gruppi può vendere ai cinesi
Airbus, treni superveloci, centrali elettriche. Sfatiamo alcuni miti: la Francia e il Regno
Unito esportano oggi in Cina quanto l’Italia, se non di meno.
Sul tema della Cina come opportunità vorrei ricordare alcune cifre. L’export italiano verso
la Cina è oggi appena superiore a quello verso il Portogallo e se anche crescesse ad un
ritmo del 15% annuo, nel 2015 non avrebbe ancora raggiunto il nostro export odierno
verso la Spagna.
Illusoria è l’idea che le possibili vendite future di prodotti di lusso e di generi alimentari
“made in Italy” ai circa 120 milioni di cinesi “ricchi” possano compensare le perdite che la
Cina sta arrecando ai nostri produttori sui mercati mondiali. Basti considerare che le
vendite dell’Italia di queste categorie di beni (moda, arredo-casa, generi alimentari e vini)
al Giappone, Paese in cui vi sono già 120 milioni di abitanti “ricchi”, non raggiungono i 2,5
miliardi di euro, cioè una cifra che non è nemmeno 1/3 del nostro attuale passivo
commerciale bilaterale verso la Cina. Ed anche esportando in Cina nei prossimi dieci anni
3 volte i quantitativi attuali di beni di lusso ed alimentari che vendiamo ai giapponesi (il
che, se avvenisse, sarebbe un risultato straordinario), non riusciremmo comunque a
pareggiare il nostro odierno deficit commerciale bilaterale con il gigante asiatico.
Più interessante e abbordabile dal nostro sistema di PMI e Distretti appare il mercato
dell’Europa Centro Orientale (Russia inclusa) verso cui già oggi l’Italia esporta merci per
30 miliardi di euro. L’Europa Centro Orientale può essere realmente la nostra “nuova
Germania”. Non mi dilungo qui su questo tema, a cui ho dedicato analisi più dettagliate in
altri lavori. Vorrei però sottolineare che non deve certo mancare da parte dell’Italia uno
sforzo di maggiore apertura ed internazionalizzazione verso le aree emergenti del mondo.
Si tratta tuttavia di capire in quali aree effettivamente si presentano, stanti le caratteristiche
dimensionali delle nostre imprese e di specializzazione della nostra industria
manifatturiera, le reali maggiori opportunità di sviluppo dei commerci e di collaborazione
economica per il nostro Paese. Sotto questo profilo l’Europa Centro Orientale è oggi per
l’Italia 7 volte più importante della Cina e lo rimarrà probabilmente per altri 25-30 anni.
Anche sul tema della crescita dimensionale delle nostre imprese ritengo che occorra
essere realisti perché nel 2003 in totale sono stati poco più di 100 i gruppi o le imprese a
controllo italiano capaci di esprimere almeno 500 milioni di euro di fatturato. Non possiamo
illuderci che questo numero possa aumentare di molto in futuro. Né è la crescita delle
nostre microimprese che potrà risolvere i nostri problemi di competitività.
Dobbiamo invece favorire la crescita delle nostre Medie imprese di maggiori dimensioni e
dobbiamo inoltre conservare gelosamente i pochi “pilastri” industriali rimasti, tra cui Fiat, il
cui rilancio è essenziale, e “pilastri” ancora a controllo pubblico che detengono significative
leadership tecnologiche e di mercato mondiale come Finmeccanica e Fincantieri,
rafforzandoli. Sono queste le basi su cui lavorare, pur consapevoli che se anche l’export
delle 3.800 Medie imprese individuate da Mediobanca-Unioncamere aumentasse
improvvisamente del 20% (per effetto di un aumento del loro numero o delle loro
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dimensioni), si genererebbe un export incrementale per il nostro Paese di soli 8 miliardi di
euro, appena sufficiente a colmare il “buco” commerciale bilaterale che oggi l’Italia subisce
verso la Cina.
Accanto
a
quella
dimensionale
si
colloca
per
importanza
la
sfida
dell’internazionalizzazione delle aziende italiane. Per maggiore “internazionalizzazione” si
intende non tanto un aumento della capacità delle nostre imprese manifatturiere di
esportare sui mercati mondiali, capacità che certo non manca e che è sempre stata un
fattore vincente del made in Italy, quanto la necessità di una più diffusa localizzazione
all’estero delle aziende italiane con impianti produttivi e sedi commerciali.
Nuovamente, però, il problema dell’internazionalizzazione-delocalizzazione delle imprese
italiane va posto in termini razionali e realistici, tenendo conto sia della particolare
specializzazione manifatturiera dell’Italia sia della prevalente strutturazione della nostra
industria in Distretti e PMI. Una delocalizzazione massiccia non solo non è praticabile dalle
nostre PMI, ma non è nemmeno auspicabile perché stravolgerebbe le filiere integrate in
cui sono articolati i nostri Distretti. Occorre invece favorire la delocalizzazione “positiva”,
cioè quella delle imprese di maggiori dimensioni che sono in grado di aprire nuovi
stabilimenti all’estero senza chiudere gli impianti in Italia. In definitiva occorre soprattutto
favorire la crescita delle Medie imprese multinazionali che possono compensare la nostra
carenza di grandi gruppi.
C’è infine il problema cruciale della ricerca e dell’innovazione. Di innovazione in Italia se
ne fa tanta, più di quanto non dicano le statistiche della R&S. Secondo l’ultimo European
Innovation Scoreboard 2004 della Commissione Europea, ad esempio, per innovazione di
prodotto nell’industria manifatturiera siamo primi in Europa con la Finlandia, nettamente
davanti a Germania, Francia e Regno Unito.
Il nostro vero problema è che facciamo poca ricerca nei settori a più alta tecnologia e la
spiegazione è molto semplice. Siamo usciti in passato da questi settori, abbiamo perso la
Montedison e la Olivetti ed oggi disponiamo solo di pochi grandi “Pilastri” che fanno
ricerca, di cui solo due, Fiat e Finmeccanica, spendono singolarmente più di 1 miliardo di
euro all’anno in R&S. La Siemens da sola spende in R&S più dei primi 100 gruppi
industriali italiani.
Le imprese industriali tedesche spendono in R&S 37 miliardi di euro, quelle francesi 22
miliardi, quelle italiane solo 7 miliardi. Per ridurre anche solo del 25% il nostro divario con
la Germania occorrerebbero quattro nuove Fiat, o, in alternativa, circa 700 nuove Freni
Brembo, per citare una tipica multinazionale “tascabile” tecnologica del made in Italy.
Il realismo ci impone di seguire strade più percorribili. Rafforzare i “Pilastri” tecnologici
sopravvissuti (come Finmeccanica e Fincantieri), sostenere le nostre minimultinazionali
tecnologiche (come Bracco, Mapei, ecc.), favorire una più stretta collaborazione tra
Pilastri-Distretti-Laboratori.
Ma anche promuovere, tutelare e difendere il design, che è il nostro maggior patrimonio e
il nostro fattore vincente. Occorre quindi anche rafforzare la tutela dei diritti della proprietà
intellettuale e industriale, intensificare la lotta alla contraffazione, ridurre le tasse sui
brevetti ed eliminare l’IRAP non solo per i ricercatori della farmaceutica e dell’elettronica,
ma anche per i designer e gli addetti agli uffici stile e al rinnovo di campionari e collezioni.
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Siamo consapevoli che questi ingredienti possono sembrare poveri di fronte alla
ambizione di certe ricette. Ma sono i soli ingredienti di cui disponiamo. Pertanto è inutile
cullare illusioni che ci impediscano di intraprendere azioni realmente efficaci al fine di
affrontare i problemi del Paese. Tra queste ultime urgono, nel breve termine, misure
tempestive e concrete a livello UE per contrastare la concorrenza asimmetrica e sleale
cinese. Senza nostalgie di protezionismo, ma con una sana dose di realismo.
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