Uomini senza donne
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Uomini senza donne
MurakamiHaruki Uomini senzadonne Traduzionedi AntoniettaPastore Einaudi Drivemycar Nella sua vita Kafuku aveva visto molte donne alla guida di un’auto, e grossomodo le divideva in due categorie: quelle un po’ troppoaggressiveequelleun po’ troppo prudenti. Le seconde erano molto piú numerose delle prime – cosa della quale possiamo solo rallegrarci. In generale, le donne sono piú corrette e caute degli uomini: e di una guidacautaecorrettaèovvio chenessunosipuòlamentare. Anche se a volte, però, può essere esasperante per gli automobilistiintorno. Quanto alle donne appartenenti all’altro gruppo, le «aggressive», di solito si credevano degli assi del volante. Consideravano quelle troppo prudenti delle imbecilli e si vantavano di non essere come loro. Cambiavano corsia all’improvviso,senzarendersi conto che cosí costringevano gli altri automobilisti a frenare sospirando o ricoprendolediimproperi. Naturalmente, c’erano anche donne che non appartenevano né all’una né all’altracategoria.Donneche guidavano in maniera del tutto normale, né troppo aggressiva, né troppo cauta. Fra queste, alcune erano davverobrave.Ancheinloro, tuttavia, Kafuku percepiva segni di tensione. In cosa consistessero, questi segni, non sarebbe stato in grado di dirlo,masedutoallorofianco intuivaunacertaasperitàche si trasmetteva fino a lui, mettendolo a disagio. Provava uno sgradevole bisognodiinumidirsilagola, e per colmare il silenzio si lanciava in discorsi futili e superflui. È ovvio che anche fra gli uomini c’era chi guidava bene e chi no. Nella maggior parte dei casi, però, gli uomini al volante non gli davano l’impressione di essere tesi. Non che fossero particolarmente rilassati. Magari in realtà erano un fascio di nervi. Però riuscivano in maniera naturale–forseinconscia–a non lasciar trapelare la tensione nei loro gesti. Pur concentrandosi nella guida, conversavanoesimuovevano normalmente.Eranoduesfere d’azionediverse.Kafukunon sispiegavailperchédiquesta differenza di comportamento trauominiedonne. Nella vita quotidiana, gli capitavararamentedinotarne altre. Di percepire, cioè, una qualche differenza tra le capacità di maschi e femmine. Nella sua professione aveva occasione dilavoraresiacongliuniche con le altre, e, a essere sinceri, si sentiva piú a suo agio con le donne. Erano piú attenteaidettagli,esapevano ascoltare. Ma quando doveva salire su un’automobile, se a stringereilvolante,accantoa lui, erano mani femminili, Kafuku per tutto il tempo ne era sgradevolmente consapevole. Però non aveva mai parlato a nessuno di questasuavisionedellecose. Non gli sembrava un argomento di conversazione proponibile. Quindi non si mostrò particolarmente contento quandoilsuomeccanicoOba, a cui aveva chiesto di trovargli un autista, gli propose una giovane donna. Vedendolo perplesso, Oba sorriseconl’ariadichipensa: «Lacapiscobenissimo». – Guardi che questa ragazza guida davvero bene, sa, signor Kafuku. Glielo garantisco. Perché non la incontra, una volta? Perché non si fa portare un po’ in giro? –Semelaraccomandalei, non ho nulla da obiettare, – rispose Kafuku. Aveva bisogno di un autista al piú presto, e Oba era un uomo affidabile. Erano ormai quindici anni che lo conosceva. Aveva capelli comefildiferroel’ariadiun folletto, ma in materia di automobili era praticamente infallibile. – Per scrupolo, farei una revisionecompleta.Seperlei vabene,signorKafuku,gliela consegno rimessa a nuovo dopodomani alle due. Chiederò alla ragazza di cui lehoparlatodivenirequiper quell’ora, cosí potrà metterla alla prova, farsi scorrazzare unpocoperilquartiere.Cosa nepensa?Senonlaconvince, lo dica tranquillamente. Non ha bisogno di fare complimenti,conme. –Quantianniha? – Credo venticinque o ventisei. Ma non gliel’ho chiesto, – disse Oba. Poi proseguí, l’aria perplessa: – Comelehodetto,alvolanteè bravissima,però… –Però? – Mah, come spiegarle? Ha un lato… diciamo scomodo. –Inchesenso? – Be’, ecco, è un po’ scontrosa, di poche parole. E fuma ininterrottamente. Quando la vedrà, capirà cosa vogliodire.Nonèiltipodella bambolina, insomma. Non sorride mai. A dirla tutta, si potrebbe quasi definire… sí, unpo’rozza. – Non ha importanza. Anzi, meglio se non è una bellezza: non mi sentirei a mio agio, e poi darei adito a pettegolezzi. –Alloraèperfettaperlei. –Inognicaso,aguidareè brava,no?Mel’assicura? – Bravissima. E non «bravissima per essere una donna».Èdavveroingamba. Inassoluto. –Adessochelavorofa? – Questo con precisione non lo so. Cassiera in un minimarket, consegna pacchi a domicilio… lavoretti saltuari, insomma, giusto per sbarcare il lunario. Impieghi che può lasciare dall’oggi al domani, se le si presenta un’occasione migliore. È stato un mio conoscente a mandarcela, ma anche da noi la crisi si fa sentire, non possiamo permetterci di assumere un’altra impiegata. Tutto quel che possiamo fare è chiamarla quando ne abbiamo bisogno. Ma penso che sia una ragazza a posto, affidabile. Tanto per cominciare, non beve un gocciod’alcol. A sentir parlare di alcol, Kafuku si adombrò. Senza rendersene conto, portò la manodestraallabocca. – Allora la vedrò dopodomanialledue,–disse. Quella ragazza scontrosa e taciturna, poco affabile, lo interessava. Due giorni dopo, alle due in punto, la sua Saab 900 cabriolet era pronta. L’ammaccatura sulla parte anteriore destra era scomparsa, sulla carrozzeria ben verniciata adesso non se ne vedeva piú traccia. Oba aveva anche provveduto a controllare il motore, sostituirelepastigliedeifreni eiltergicristallo,farlavarela vettura,lucidareeingrassarei cerchioni delle ruote. Come sempre, un servizio impeccabile. Erano dodici annicheKafukuavevaquella Saab,conlaqualeavevafatto piú di centomila chilometri. Lateladellacapoteormaiera sgualcita e nei giorni di pioggia forte c’era il rischio chelasciassepassarel’acqua. Ma per il momento Kafuku non aveva intenzione di cambiare automobile. Di grossi problemi la Saab non gliene aveva mai dati, e soprattutto ci era affezionato. Gli piaceva lasciare il tettuccioaperto,inqualunque stagione fosse. D’inverno mettevauncappottopesantee una sciarpa intorno al collo, d’estate un berretto in testa e gliocchialidasole.Sedutoal volante, provava il sottile piacere di cambiare marcia mentreattraversavalacittà,e quandoerafermoaisemafori guardava le nuvole che si spostavano nel cielo e gli uccelli fermi sui fili della luce. Quell’abitudine era ormai diventata una parte imprescindibile del suo stile di vita. Kafuku fece un lento giro intorno all’automobile, controllando una cosa qui e unalí,comeilproprietariodi uncavalloprimadiunacorsa. L’aveva comprata quando sua moglie era ancora viva. Era stata lei a sceglierla gialla. Nei primi anni la usavano spesso insieme. Sua moglie non guidava, cosí al volantesimettevasemprelui. Avevano anche fatto lunghi viaggi. Izu, Hakone, Nasu… In seguito però, per quasi dieci anni, su quella Saab Kafuku non aveva portato nessuno.Dopolamortedella moglie, aveva avuto diverse storie,maperqualcheragione non gli si era mai presentata l’occasione di far sedere una donna in macchina accanto a sé. Né gli era piú capitato di spostarsi fuori città, se non permotividilavoro. – Be’, cosette da riparare quaelàcen’eranoparecchie, maèancorapiúchevalida,– disse Oba carezzandone amorevolmente il cruscotto, come se fosse il collo di un grosso cane. – È una vettura affidabile. Le automobili svedesi di quegli anni sono eccellenti. Hanno qualche difettuccio al circuito elettrico, va tenuto d’occhio, ma la meccanica di base non dà mai grossi problemi. Comunque l’ha trattata propriobene,lei. Kafuku aveva firmato i documentiperlariconsegnae stava ascoltando la spiegazione dettagliata della fattura, quando arrivò la ragazza. Era piuttosto alta, forse un metro e sessantacinque, e pur non essendograssaavevalespalle largheeunfisicorobusto.Sul collo, a destra, aveva una macchia ovale grande come un’oliva, violacea, alla quale non sembrava dare molta importanza visto che non si preoccupavadicoprirlaconi capelli, che aveva neri e spessi e per comodità teneva legati sulla nuca. No, Oba aveva ragione, nessuno avrebbepotutotrovarlabella, il suo viso aveva qualcosa di indisponente. Sulle guance le erano rimasti i segni di un’acne adolescenziale. Gli occhi dalle iridi scurissime avevano uno sguardo sospettoso, ma forse davano quell’impressione perché erano molto grandi. Le orecchie a sventola sembravano antenne paraboliche in piena campagna. Indossava una giacca da uomo a spina di pesce un po’ troppo pesante per la stagione – era maggio –, dei pantaloni di tela marroneeaipiediavevadelle sneakersneredellaConverse. Sotto la giacca e la maglietta bianca, il seno era voluminoso. Oba la presentò: si chiamavaWatariMisaki. – Misaki si scrive in hiragana. Se lo desidera, posso farle avere il mio curriculum,–disselaragazza in un tono che non aveva nulladideferente. Kafukuscosselatesta. – No, per il momento non ènecessario.Comeselacava colcambiomanuale? – Lo preferisco, – rispose freddamentelaragazza,come una convinta vegetariana a cui avessero chiesto se mangiaval’insalata. – È un modello vecchio, nonhailnavigatore. – Non ne ho bisogno. Per un certo periodo ho consegnato pacchi a domicilio. Ho bene in mente latopografiadellacittà. –Be’,alloravogliamofare un giro di prova qui intorno? È una bella giornata, possiamo lasciare il tettuccio aperto. –Dovevuoleandare? Kafuku ci pensò su un momento. Erano vicini a Shinohashi. –Potremmogirareadestra all’incrocio del tempio Tengenji, fermarci nel parcheggio sotterraneo dei grandi magazzini Meijiya, dove devo comprare una cosa, poi salire la collina verso il parco Arisugawa, superare l’ambasciata francese e tornare qui passandodaMeiji-dōri. – Perfetto, – disse la ragazza, senza preoccuparsi diverificareilpercorso.Prese da Oba le chiavi della macchina, regolò con gesti sveltilaposizionedelsedilee del retrovisore. Sembrava conoscere benissimo la funzione di ogni pulsante. Schiacciò sull’acceleratore, provò il cambio. Tirò fuori dal taschino della giacca dei Ray-ban verdi e se li mise. Poi si voltò verso Kafuku e gli fece un piccolo cenno col capo.Comeperdirglicheera pronta. –Cassette,–dissecomese parlasse da sola, dando un’occhiata all’impianto stereo. –Sí,preferiscolecassette, –risposeKafuku.–Sonopiú facilidausaredeicd.Eposso esercitarminellaparte. –Eradaunpo’chenonne vedevo. – Quando ho iniziato a guidare,siusavanoancoragli stereo8piste. Misaki non rispose. Dall’espressione, sembrava che non sapesse nemmeno cosa fossero, gli stereo 8 piste. Come aveva detto Oba, al volante era bravissima. Aveva una guida sicura e fluida, senza bruschi scatti. Malgrado il traffico fosse intenso e le soste ai semafori frequenti,badavaamantenere il motore a un numero costante di giri, lo si capiva dal modo in cui spostava lo sguardo dal cruscotto alla strada.EseKafukuchiudeva gliocchi,nonavvertivaquasi i cambiamenti di marcia. Per accorgersene, doveva tendere l’orecchio al ronzio del motore,sentirnelevariazioni. Ancheilmododiusarefreno e frizione era attento e leggero.Maquellochefaceva davveropiacereaKafukuera il fatto che quella ragazza mentre guidava fosse rilassata, per tutto il tempo. Anzi, sembrava quasi che ogni tensione l’abbandonasse appena metteva le mani sul volante di un’automobile. La suaespressionediventavapiú affabile, lo sguardo piú gentile. Ma restava taciturna. Apriva bocca solo per risponderealledomande. AKafukuperòquestonon dava fastidio. Nemmeno lui era molto portato per la conversazione. Parlare con le persone con cui era in confidenza non gli dispiaceva, ma con tutti gli altri preferiva stare zitto. Sprofondato nel sedile accantoaMisakicheguidava, guardava distrattamente le strade. Di solito stava seduto al volante, e vista da questa nuova posizione la città gli facevauneffettodiverso. SullatrafficataGaiennishidōri, Kafuku chiese piú volte a Misaki di parcheggiare lungo il marciapiede, per prova, e lei ogni volta eseguí la manovra con abilità e precisione. Aveva i riflessi pronti. E ottime funzioni senso-motorie. Durante le lunghe attese ai semafori, fumava. Fumava Marlboro. Ma appena il semaforo passava al verde spegneva la sigaretta,enonneaccendeva maiunamentreguidava.Non avevarossettosullelabbra,né smalto sulle unghie. Nemmeno l’ombra di fondotintasulviso. – Avrei alcune cose da chiederle, – disse Kafuku quando arrivarono al parco Arisugawa. – Prego, – lo incoraggiò Misaki. – Dove ha imparato a guidare? – Sono cresciuta fra le montagne dell’Hokkaidō. Guido da quando avevo quindicianni.Dallemieparti, senza automobile non si sopravvive.Èunacittadinain fondo a una valle, il sole ci arriva poco e per metà dell’anno le strade sono gelate.Chepiacciaomeno,si imparaaguidare. – Sí, ma a parcheggiare? Non credo si faccia molta praticadiparcheggi,suquelle stradedimontagna. La ragazza non rispose, non sembrava ritenerlo necessario. – Il signor Oba le ha spiegato perché ho avuto bisogno di un autista da un giornoall’altro? –Mihadettocheleièun attore, – rispose Misaki in tono neutro, guardando dritto davantiasé,–echeseigiorni alla settimana recita a teatro. Di solito ci va con la sua macchina, e guida lei. La preferisce ai mezzi pubblici. Perché in macchina può esercitarsi a ripetere la parte. Ma poco tempo fa ha avuto un piccolo incidente, in seguito al quale le è stata sospesa la patente. Era positivo all’alcoltest, inoltre haunproblemaagliocchi. Kafuku annuí. Aveva l’impressione di sentir raccontare un sogno fatto da un’altrapersona. – All’esame della vista presso la struttura che mi ha indicato la polizia, l’oculista ha riconosciuto i sintomi di un glaucoma. Ho un angolo cieco nel campo visivo. All’estremità destra. Io non men’eromaiaccorto. Riguardo alla guida in stato di ebbrezza, in realtà il tasso alcolico non era molto alto,cosíerariuscitoatenere segreta la notizia, evitando che giungesse fino ai media. Maperilproblemaallavista, nonavevapotutofareameno di informare il suo agente. C’era il rischio che quell’angolo morto gli impedisse di vedere un’automobile che arrivava da destra. Gli era stato detto di non guidare per nessuna ragione,finoaquandonuove analisi non avessero dato risultatirassicuranti. – Signor Kafuku? – gli chiese Misaki. – Va bene se lachiamocosí?Èilsuovero cognome? – Sí, è il mio vero cognome, – rispose lui. – Contiene la parola fortuna, ma alla mia famiglia non ha mai portato grandi benefici. Nessuno dei miei parenti è ricco. Scese un breve silenzio. Poi Kafuku le disse quanto l’avrebbe pagata al mese per il suo lavoro. Non era una grossa somma, ma era tutto quello che poteva offrire l’agenzia. Kafuku era un attore conosciuto, ma non aveva mai ruoli da protagonista al cinema o alla televisione, e a teatro non si guadagna granché. Per un attore del suo livello assumere un autista, anche solo per qualche mese, era moltooneroso. – L’orario di lavoro varia in funzione dei miei impegni professionali,maalmomento recito soprattutto a teatro, quindi la mattina di solito sarà libera. Potrà dormire anchefinoamezzogiorno.La sera, farò in modo di tenerla impegnata al massimo fino alle undici. Nel caso io finiscapiútardi,chiameròun taxi. E le darò un giorno di ferieallasettimana. – D’accordo, – rispose Misakisenzascomporsi. –Illavoroinsénonpenso sia faticoso. Può darsi che la parte piú seccante sia restare a disposizione senza fare niente. Aquestoproposito,Misaki non fece commenti. Tenne le labbra serrate, con l’aria di chineavevavistedipeggio. – Quando il tettuccio è aperto, può fumare, ma quandoèchiusovorreichese neastenesse,–disseKafuku. –D’accordo. –Leihaqualcherichiesta? –No,nienteinparticolare, – fece Misaki. Socchiuse un po’lepalpebreescalòmarcia facendo un lungo respiro. – Mipiace,questamacchina,– disse. Per il resto del tempo non parlarono. Tornarono all’officina meccanica, dove Kafuku chiamò Oba in un angolo per dirgli che aveva decisodiassumerelaragazza. Dal giorno dopo, Misaki divenne l’autista di Kafuku. Ogni pomeriggio, alle tre e mezza, tirava fuori la Saab gialla dal parcheggio sotterraneo del palazzo dove abitava lui, nel quartiere di Ebisu, e lo accompagnava al suo teatro a Ginza. Se non pioveva, lasciava il tettuccio aperto. All’andata Kafuku, seduto accanto a lei, infilava unacassettanellostereo–un dramma di Anton Čechov, ZioVania, in un adattamento ambientato nel Giappone dell’era Meiji – e recitava il testoadaltavoce,all’unisono con quello registrato. InterpretavalapartediVania. Ormai la sapeva a memoria dall’inizio alla fine, ma per sentirsi tranquillo aveva bisogno di ripeterla ogni giorno. Era un’abitudine che avevadaanni. Al ritorno, ascoltava spesso Beethoven nell’esecuzione di un quartetto d’archi. Gli piacevano, le opere di Beethoven per quartetto d’archi, era un genere di musica che non gli veniva mai a noia, e in piú gli permetteva di pensare agli affari suoi, o al contrario di non pensare a nulla. Quando aveva voglia di qualcosa di piú leggero, sentiva vecchio rock americano – i Beach Boys, i Rascals, i Creedence, i Temptations… –, roba di modaquandoluieragiovane. Misaki non faceva commenti sulla musica che sceglieva Kafuku, il quale non capiva se le piacesse, se le facesse schifo, o se non l’ascoltasse neanche. Non mostrava mai le sue emozioni, quella ragazza. Normalmente,Kafukunon riusciva a ripetere la parte davanti ad altre persone, si sentiva a disagio, ma la presenza di Misaki non lo disturbava. Al contrario, apprezzava l’atteggiamento distaccato, quasi scostante di lei. Anche quando parlava a voce molto alta, la ragazza, pur essendo seduta accanto a lui, manteneva un’aria indifferente, come se non lo sentisse nemmeno. Ma forse erapropriocosí,pensavasolo alla guida. O magari guidandoentravainunostato diconcentrazionezen. E di lui, che opinione aveva?Kafukunonriuscivaa immaginarlo. Lo trovava almeno un po’ simpatico, o non aveva per lui alcun interesse, alcuna curiosità? O addirittura lo trovava repellente, tanto da averne la pelled’oca,masopportavain silenzio per non perdere il lavoro? In ogni caso, di quel chepensavaMisaki,aKafuku non importava nulla. Gli piaceva il suo modo scorrevoleesicurodiguidare, e tanto gli bastava, anzi, apprezzava anche il fatto che leisitenesselesueemozioni persé. Appena finiva di recitare, Kafukusitoglievailtruccodi scena, si cambiava e lasciava in fretta il teatro. Non gli piaceva fermarsi a perdere tempo.Nonfrequentavaquasi i suoi colleghi. Chiamava Misaki col cellulare perché venisse con la macchina all’ingresso degli artisti, in modo che la Saab gialla cabrioletfosselíadattenderlo quando usciva. E verso le dieciemezzaeradiritornoal suo appartamento a Ebisu. Questa era la sua routine quotidiana. Gli capitava anche di lavorare in altri posti. Una volta alla settimana doveva andare in uno studio televisivoperregistrarelasua parte in un telefilm. Si trattava di una banalissima serie poliziesca, ma l’audience era alta e il compenso ottimo. Kafuku sosteneva il ruolo di un indovino che aiutava una poliziotta,laprotagonista.Per immedesimarsi nel personaggio, diverse volte si eratravestitodacartomantee per la strada si era messo a leggerelafortunaaipassanti. Tanto che si era fatto la reputazione di essere tagliato per la parte. Nel tardo pomeriggio,appenaterminata la registrazione, doveva correredirettamentealteatro. Era la parte piú rischiosa del programma settimanale. Nei weekend, dopo lo spettacolo inmatinée,tenevacorsiserali agli allievi di una scuola di recitazione. Insegnare ai giovani gli piaceva moltissimo. Il compito di Misaki consisteva nel portare Kafuku avanti e indietro da un posto all’altro. Lo accompagnava puntualmente di qua e di là, senza mai creare problemi, e lui si era abituato a sedere nella Saab di fianco alla ragazza che guidava. A volte finiva addiritturaperaddormentarsi. Con l’arrivo del caldo, Misakisostituílasuapesante giacca maschile con una estiva, piú leggera. In ogni caso, quando guidava indossavasempreunagiacca. Forse al posto della divisa. Nellastagionedellepioggeil tettucciorestavaquasisempre chiuso. Sul sedile di fianco, Kafuku pensava spesso alla moglie morta. Da quando Misaki gli faceva da autista, per qualche motivo gli tornavainmentedicontinuo. Di due anni piú giovane, un visostupendo,erastataattrice anche lei. Kafuku all’epoca era soprattutto un «caratterista», interpretava soventeilruolodelnevrotico pienodifissazioni.Conlasua faccia lunga e stretta, e la tendenza precoce a perdere i capelli,noneraadattoairuoli di protagonista. La moglie invece, con la sua bellezza, eralatipicaprimaattrice,cui venivano attribuiti ruoli e compensi adeguati. Col passare degli anni, tuttavia, era stato piuttosto lui, bravissimo nell’interpretare i suoi personaggi tipici, ad acquisire notorietà. Comunque i due coniugi riconoscevano i rispettivi meritiprofessionali,enonera mai successo che la differenza di popolarità e guadagnicreasseproblemifra loro. Kafuku amava la moglie. Se ne era profondamente innamorato poco dopo averla conosciuta – all’epoca lui aveva ventinove anni –, e da allora fino alla morte di lei – vent’anni dopo –, il suo sentimento era rimasto invariato. Per tutta la durata del suo matrimonio, non aveva mai avuto rapporti sessuali con altre donne. Le occasioni non gli erano certo mancate, ma non ne aveva maiprovatoildesiderio. La moglie invece era andata a letto con altri uomini.Conquattro,perquel che ne sapeva Kafuku. Quattro volte, per periodi limitati, lei aveva avuto un amante.Naturalmentenonne aveva fatto parola al marito, ma Kafuku percepiva immediatamente quando lei, in qualche luogo, stava fra le braccia di un altro. Per carattere era piuttosto intuitivo, ma c’è da dire che qualunquepersonaveramente innamorata è in grado di cogliere certi segnali, per quanto sgradevoli. Dal tono di voce di lei, capiva anche chi era l’uomo. Si trattava sempre di qualche attore col quale recitava nel film di turno. Di solito piú giovane. La relazione continuava per diversi mesi, finché veniva meno in modo naturale al termine delle riprese. Un copione che si era ripetuto benquattrovolte. Perché lei sentisse il bisogno di andare a letto con altri uomini, Kafuku non l’aveva mai capito. Ancora adesso non riusciva a spiegarselo. Da quando si eranosposatiillororapporto, siainquantomaritoemoglie, sia in quanto compagni di vita, era sempre stato ottimo. Quando se ne presentava l’occasione, parlavano con passione e sincerità di tante cose,ecercavanolareciproca fiducia. Fra loro c’era un’intesa magnifica, sia in senso fisico che spirituale, pensava Kafuku. Amici e conoscenti li consideravano unacoppiaunitaeideale. Ciononostante, perché sua moglie aveva avuto altri uomini?Avrebbedovutofarsi coraggio e domandarlo a lei finché era in vita. Kafuku se lo diceva spesso. Una volta era stato sul punto di chiederglielo. Che cosa cercaviinloro?Checosanon ti bastava, in me? Era successo pochi mesi prima che lei morisse. Ma davanti alla moglie che stava per andarsene fra terribili sofferenze non era riuscito a proferire quelle parole. Cosí lei aveva lasciato il mondo dei vivi senza dargli uno straccio di spiegazione. Una domanda inespressa, una risposta mancata. Al crematorio, mentre raccoglieva in silenzio le ceneri della moglie, Kafuku era immerso in questi pensieri. Al punto da non sentire nemmeno quello che le altre persone gli sussurravanoall’orecchio. Immaginare la moglie fra le braccia di un altro, per Kafuku era stato uno strazio. D’altronde, come avrebbe potuto non esserlo? Se chiudeva gli occhi, vivide immagini si formavano nella sua mente una dopo l’altra. Non che lui cercasse intenzionalmente quelle fantasie, ma non riusciva a reprimerle. Lo trafiggevano con lentezza, senza pietà, comelalamadiuncoltello.A volte si diceva che sarebbe stato preferibile se fosse rimasto all’oscuro di tutto. Ma era fondamentalmente convinto che – in qualunque circostanza–sapereèsempre meglio che ignorare. Doveva conoscere la verità, per quanto grande fosse il dolore che comportava. Solo la conoscenzadellaveritàrende gliesseriumanipiúforti. Ancora piú dolorosi di quelle immagini, tuttavia, erano gli sforzi che doveva fare per stare insieme alla moglie come se nulla fosse, senza farle capire che sapeva tutto. Mostrarsi sereno, mentredentrodisésisentiva lacerare il petto e ribollire il sangue. Portare avanti con noncuranza le solite attività quotidiane, conversare in modo naturale, fare l’amore conleinelloroletto.Nonera una cosa alla portata di chiunque. Ma Kafuku era un attore professionista. Distaccarsi da sé e immedesimarsi in un ruolo era il suo lavoro. E recitava mettendoci l’anima. Una recitasenzaspettatori. Però, a prescindere da questacircostanza–dalfatto, cioè, che lei a volte facesse l’amore di nascosto con altri –, marito e moglie conducevanoinsiemeunavita soddisfacenteetranquilla.Sia l’uno che l’altra erano contenti del loro lavoro e guadagnavano bene. In vent’anni di vita matrimoniale avevano fatto sesso innumerevoli volte, e almeno da parte di Kafuku, sempreconpiacere.Dopoche lei era morta – un tumore all’uterosel’eraportataviain pochi mesi –, lui aveva incontrato diverse donne e ci era andato a letto. Senza mai ritrovare con loro, però, l’intima gioia che aveva conosciuto con la moglie. Tutto quello che provava era un vago senso di déjà vu, il pallido ricordo di un’esperienzagiàvissuta. Per pagare Misaki l’agenzia aveva bisogno dei suoi dati, quindi Kafuku le chiese di annotare il suo indirizzo attuale, il domicilio legale, la data di nascita e il numero della patente. La ragazza viveva in un appartamento nel quartiere di Akabane, nella parte nord di Tōkyō. Era domiciliata nel comune di Kamijūnitaki, nell’Hokkaidō, e aveva appenacompiutoventiquattro anni. Kafuku non sapeva in che parte dell’Hokkaidō si trovasse quella città, quanto fossegrandeocosafacessero gli abitanti. Ma nell’apprendere l’età della ragazzaerarimastocolpito. Kafuku aveva avuto una figlia che era vissuta solo tre giorni. Era morta nel nido della clinica, durante la terza notte,senzanessunpreavviso. Il cuore si era fermato, cosí, dicolpo.Quandoeraspuntata l’alba, la neonata non respirava piú. I medici avevano ipotizzato che era nataconundifettocongenito allavalvolacardiaca.Manon c’era modo di provarlo. D’altronde,conoscerelavera causa della morte non avrebbe riportato in vita la bambina.Perfortuna,oforse per disgrazia, ancora non le avevano messo un nome. Se fosse vissuta, ora avrebbe avuto ventiquattro anni. Nell’anniversario della sua nascita, Kafuku calcolava sempre gli anni trascorsi, e diceva una preghiera, in solitudine. Per Kafuku e la moglie, perdere la figlia in modo tanto brusco era stato naturalmente un colpo terribile. Sentivano la sua assenza con dolore profondo. Impiegarono molto tempo a riprendersi. Passavano le giornate chiusi in casa, quasi senza parlarsi. Perché qualunque cosa dicessero, sembrava loro senza significato. Lei prese l’abitudine di bere grandi quantità di vino. Lui per un certo periodo si dedicò con singolare passione alla calligrafia. Tracciando ideogrammi sulla carta candida col pennello imbevuto di inchiostro nerissimo,gliparevadiveder sciogliersi a poco a poco il grovigliocheavevanelcuore. Tuttavia, col reciproco sostegno, gradualmente riuscironoaguariredaquella ferita e a superare quel periodo difficile. E a concentrarsi ancora piú intensamente di prima nelle rispettive carriere. Si dedicavano frenetici alla preparazione dei ruoli che venivano loro assegnati. «Scusami,manonvogliopiú averefigli»,disseaKafukula moglie. Lui era dello stesso avviso. «D’accordo, farò in modo che non succeda. Se è quellochedesideri,permeva bene»,rispose. Era stato a partire da quel momento che sua moglie aveva iniziato ad avere delle relazioni con altri uomini, rifletteva Kafuku ripensando a quel periodo. Poteva darsi che il fatto di aver perso una figlia avesse risvegliato dentrodileiquelbisogno.Ma erano soltanto supposizioni. Erasoltantounapossibilità. – Posso farle una domanda? – gli chiese Misaki. Kafuku, che stava pensando ai fatti suoi e guardava distrattamente fuori dal finestrino, si voltò sorpreso verso di lei. Erano due mesi che passavano molte ore insieme in macchina, ma Misaki non aveva quasi mai attaccato discorso. – Certamente, prego, – disse. – Perché è diventato attore,signorKafuku? –Quand’eroall’università, un’amicamihainvitatoafar parte del club di recitazione. In realtà non è che avessi un particolare interesse per il teatro. Avrei voluto entrare nella squadra di baseball. Al liceo me la cavavo abbastanza bene, ero un discreto interbase. Peccato che all’università la squadra fosse di livello ben superiore al mio. Allora mi sono detto che mi conveniva accettare l’invito di quella mia amica. Sono entrato nel gruppo teatrale cosí, tanto per provare, e anche per passare piútempoconlei.Maapoco apoco,fraun’interpretazione e l’altra, ho capito che recitare mi piaceva. Quando micalavoinunruolo,potevo diventare qualcuno di diverso. E quando finivo di recitare, ritrovare me stesso. Era una sensazione bellissima. – Cosa? Diventare qualcunodidiverso? –Sí.Masoloacondizione dipotertornareindietro. – Non ha mai provato il desideriodinontornare? Kafukucipensòunpo’su. Era la prima volta che qualcuno gli faceva una domanda del genere. Nel traffico intenso, avanzavano lentamentelungol’autostrada metropolitana verso l’uscita diTakebashi. – Be’, dove altro avrei potutoandare?–disse. Misaki non fece commenti. Seguí qualche minuto di silenzio. Kafuku si tolse il berretto da baseball, ne controllò la forma, se lo rimise in testa. La Saab cabriolet stava procedendo accanto a un tir e alla sua serie infinita di ruote. Al confronto, sembrava una fragile barchetta di fianco a uncargo. – Senta, so che non sono fatti miei, ma c’è una cosa che trovo strana, – proseguí Misaki dopo un po’. – Posso… –Prego,–feceKafuku. – Come mai lei non ha amici? Kafukusivoltòaguardare la ragazza, che vedeva di profilo, con una certa curiosità. – Cosa le fa pensare che nonneabbia? Misakifecespallucce. – Quando si porta una persona in macchina ogni giorno per due mesi, certe cosesicapiscono. Kafuku osservò le ruote deltir.Alungoecongrande concentrazione. –Vistochemelochiede,è datantochenonhodeiverie propriamici,–dissepoi. – Non ne aveva neanche dabambino? – Da bambino sí. Giocavamo insieme a baseball, andavamo a nuotare… Ma una volta diventato adulto, non ho piú sentitoilbisognodiamicizie. Soprattutto da quando mi sonosposato. –Vuoldirechelebastava suamoglie,chegliamicinon eranopiúnecessari? – Può darsi. Perché eravamo anche buoni amici, ioelei. –Acheetàsièsposato? – A trent’anni. Ci siamo conosciuti sul set, lavoravamonellostessofilm. Ma lei aveva una parte importante, io un ruolo secondario. La vettura avanzava a singhiozzo nel traffico. Il tettuccio era chiuso, come sempre quando prendevano l’autostrada. – Lei non tocca mai un gocciod’alcol,vero?–chiese Kafuku, tanto per cambiare argomento. – No, sembra che il mio fisico lo rifiuti, – disse Misaki.–Miamadrebeveva, abitudinechehacausatotanti guai. Può darsi che c’entri anchequesto. –Beveancora? Misaki scosse piú volte la testa. – È morta. Guidava ubriaca, ha perso il controllo della vettura, è uscita di strada ed è andata a schiantarsi contro un albero. È morta praticamente sul colpo. Io avevo diciassette anni. – Mi dispiace, – disse Kafuku. – Se l’è cercata, – fece Misaki freddamente. – Prima o poi doveva capitare, era soloquestioneditempo. Cifuunaltrosilenzio. –Esuopadre? – Non so dove sia. Se n’è andato di casa quando avevo ottoanni,edaalloranonl’ho piú visto. Né sentito. Mia madredavasemprelacolpaa me. –Perché? – Ero figlia unica, e lei diceva che se fossi stata una bella bambina, lui non mi avrebbe mai abbandonata. Non faceva che ripetermelo. Chemiavevalasciataperché erobrutta. – Ma lei non è affatto brutta, – disse Kafuku senza incertezze. – Semplicemente a sua madre piaceva pensare chefosseandatacosí. Misaki si strinse di nuovo nellespalle. – Normalmente non lo faceva, ma quando era ubriaca, mia madre era capace di dirmi qualsiasi schifezza.Ripetevasemprele stesse cose, all’infinito. E mi feriva.Sochenonèunabella cosa, ma quando è morta, a esseresincera,permeèstato unsollievo. Questa volta, il silenzio cheseguífumoltopiúlungo. –Eleineha,diamici? Misakiscosselatesta. –No,nonneho. –Comemai? La ragazza non rispose. Strinse leggermente le palpebre continuando a guardaredavantiasé. Kafuku chiuse gli occhi pensando di dormire un po’, ma non ci riuscí. Anche se Misaki ogni volta inseriva la marcia con delicatezza, la macchina si fermava e ripartiva tutti i momenti. Nella corsia di fianco, il tir era sempre lí, un po’ piú avanti o un po’ piú indietro, come l’ombra gigantesca del destino. Kafuku rinunciò a dormire. – L’ultima volta che mi sono fatto un amico è stata quasi dieci anni fa, – disse riaprendo gli occhi. – Ma forse sarebbe piú esatto dire «qualcosa di simile a un amico». Aveva sei o sette anni meno di me, ed era una brava persona. Bere gli piaceva, per tenergli compagnia bevevo anch’io, e intanto parlavamo di tante cose. Misaki annuí lievemente. Aspettava il seguito della storia. Dopo qualche esitazione,Kafukusidecisea raccontare. – Le dirò la verità, quell’uomo per un certo periodoeraandatoalettocon miamoglie.Maignoravache iolosapessi. Qualchesecondo,iltempo di mandare giú quell’informazione, poi Misakichiese: – Vuole dire che quell’uomo faceva sesso con suamoglie? – Esattamente. Ha fatto sesso con lei diverse volte, pertreoquattromesi,credo. – E come è venuto a saperlo? – Be’, non è stata lei a dirmelo, naturalmente, ma io l’ho capito. Ora spiegarle sarebbe troppo lungo. Ma è una cosa di cui sono certo. Nonmelasonoimmaginata. Mentre erano fermi a un semaforo, Misaki regolò la posizione del retrovisore con entrambelemani. –Eilfattochequell’uomo andasse a letto con sua moglie non le ha impedito di diventare suo amico? – chiese. – Al contrario, – rispose Kafuku. – Ho voluto farmelo amico proprio perché andava alettoconlei. Misaki non aprí bocca, in attesacheluicontinuasse. – Come spiegarle, volevo… volevo capire. Capirecosaavessespintomia moglie a tradirmi con quell’uomo, quale ragione avesse di farlo. Perlomeno all’inizio,lamiamotivazione eraquesta. Misaki fece un respiro profondo. Sotto la giacca il suo petto si sollevò e scese lentamente. – Non era una sofferenza, per lei? Starsene a bere e chiacchierare con un uomo che si portava a letto sua moglie? –Certocheloera,èovvio, – disse Kafuku. – Il mio pensiero, anche non volendo, andava sempre lí. Mi tornavano in mente cose che avrei preferito non ricordare. Ma recitavo. Dopotutto era il miomestiere. – Diventare un altro personaggio,–disseMisaki. –Appunto. – Per ritornare poi nei propripanni. – Appunto, – ripeté Kafuku. – Ritornare nei miei panni,anchesenonneavevo alcuna voglia. Ma il fatto è cheunavoltatornatiindietro, non si è piú esattamente quelli di prima, non è possibile.Èunaregola. Ora cadeva una pioggerella fine fine, Misaki azionò piú volte il tergicristallo. –Edèriuscitoacapirlo?Il motivo per cui sua moglie andava a letto con quell’uomo? Kafukuscosselatesta. – No, non l’ho capito. C’eranoalcunequalitàchelui aveva, e io no. Cioè… in realtà penso che fossero molte.Macosainparticolare avesse attratto mia moglie, non avevo modo di saperlo. Non è che noi agiamo spinti da motivazioni precise. Quando due persone si frequentano, soprattutto un uomo e una donna, come dire…? È una questione piú globale. Piú ambigua, piú arbitraria,piú…piúsofferta. Misaki rifletté qualche secondosuquelleparole. – Non è riuscito a capire, però ha continuato a essere amicodiquell’uomo,vero? DinuovoKafukusitolseil berrettoequestavoltaloposò sulle ginocchia. Si strofinò il craniocolpalmodellamano. – Vede… il fatto è che quandosiiniziaarecitareuna parte, è difficile trovare il momentogiustopersmettere. Per quanto stressante sia, finché la recita non trova il suo senso, un senso compiuto, non la si può interrompere. È come nella musica, una melodia non è completa se non si conclude con la nota dominante… Capisce quello che voglio dire? MisakipreseunaMarlboro dalpacchettoeselamisefra le labbra, ma non l’accese. Non succedeva mai che fumasse quando il tettuccio dellamacchinaerachiuso.Si contentava di tenere la sigarettafralelabbra. – E nel frattempo, quell’uomo continuava ad andare a letto con sua moglie? – No, questo no, – disse Kafuku.–Noncel’avreifatta a sostenere un ruolo cosí difficile! Sono diventato amico di quell’uomo poco dopolamortedilei. – Ma gli era veramente amico? Oppure era soltanto unarecita,nulladipiú? Kafukurifletté. – Entrambe le cose, – disse.–Iostessononriuscivo piú a distinguere il confine. Marecitaresulseriosignifica proprioquesto. A Kafuku quell’uomo era rimasto simpatico fin dal primo incontro. Si chiamava Takatsuki. Alto, un bel viso, interpretava spesso la parte del seduttore. Aveva da poco superato la quarantina e nel suo mestiere non si poteva dire eccellesse. Non avendo una forte personalità, poteva sostenere una varietà limitata di ruoli. Di solito gli affibbiavano quello dell’affascinante uomo di mezzaetà.Sempresorridente, un’ombra di malinconia a offuscargliognitantoilvolto. Caratteristiche che conquistavano le spettatrici anziane. Kafuku lo aveva incontrato per caso nella sala d’attesa degli studi televisivi. Takatsuki, sapendo che sua moglie era morta sei mesi prima,sieraavvicinato,siera presentatoegliavevafattole sue condoglianze. Gli aveva dettoconariacontritacheuna voltaavevalavoratoconleiin un film, e che lei era stata molto affabile. Kafuku aveva ringraziato. Per quel che ne sapeva, cronologicamente Takatsuki era l’ultimo degli uominiconcuisuamoglieera andata a letto. Poco dopo la fine di quella relazione, lei aveva fatto delle analisi all’ospedale e aveva scoperto diavereuntumoreall’uteroa unostadiogiàavanzato. – Avrei una richiesta da farle, – disse Kafuku una voltaterminatiiconvenevoli. –Dicosasitratta? –Seleièd’accordo,vorrei rubarleunpo’delsuotempo. Potremmo bere qualcosa insieme,eleimagaripotrebbe raccontarmi cosa ricorda di mia moglie… Mia moglie parlavaspessodilei. Aquellapropostainattesa, Takatsukiparvestupito.Anzi, inquieto. Sollevò un poco le sopracciglia dalla forma elegante e posò su Kafuku uno sguardo circospetto. Come se si chiedesse se non ci fosse qualcosa sotto. Ma non riuscí a leggere sul suo viso nessun secondo fine. Kafuku aveva assunto l’espressione pacata che ci si aspetta da un uomo che ha persodapocolamoglie,dopo averpassatoconleitantianni dellasuavita.Lasuperficiedi un lago che ritrova la quiete quandosiplacanoleonde. – Vorrei solo parlare di miamoglieconqualcunoche l’ha conosciuta, – insistette Kafuku. – Sono sempre in casadasolo,eadirelaverità, a volte è dura. Ma se sono importuno, signor Takatsuki… Takatsuki si tranquillizzò: Kafuku non sembrava essere al corrente della sua relazione. – No, non è affatto importuno! Le dedico tutto il tempo che vuole, – disse. – Se si accontenta di un interlocutore sprovveduto come me… – Sorrise, rughe gentili apparvero agli angoli degli occhi. Un sorriso davvero affascinante. Se Kafukufossestatounadonna di mezza età, sarebbe di sicuroarrossito. Takatsuki ripassò mentalmentelasuaagenda. – Potremmo vederci domani sera, parlare con calma.Perleiandrebbebene? Kafuku rispose di sí, era libero anche lui. Questo Takatsuki è una persona piuttostotrasparente,pensava intanto con stupore. Il suo sguardo rispecchiava senza ambiguità il suo pensiero. Sembrava non avere né tortuosità né malizia. Insomma, non era il tipo da scavare nottetempo una buca profonda, e aspettare zitto zitto che qualcuno passando ci cadesse dentro. Decisamente, non sarebbe maistatounbravoattore. – Dove vuole che ci incontriamo? – chiese Takatsuki. – Decida lei. Qualsiasi posto per me va bene, – risposeKafuku. Takatsuki fece il nome di un noto bar di Ginza. Riservando un séparé, avrebbero potuto parlare in santa pace, senza timore di essereascoltati,disse.Kafuku sapeva dove si trovava quel locale. I due uomini si salutarono con una stretta di mano. La mano di Takatsuki era morbida, le sue dita lunghe e affusolate. Il palmo eraleggermenteumido,come se avesse sudato. Forse a causadellatensione. Rimasto solo, Kafuku sedette su una poltrona della sala d’attesa, aprí la mano destra e la osservò. La sensazione lasciata dalla mano di Takatsuki, da quel palmo e quelle dita che avevano accarezzato il corpo nudo di sua moglie – accarezzato lentamente, dalla testaaipiedi–,eraancoralí, vivida. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Cosa cercava, con quella manovra, cosa voleva ottenere? Comunque fosse, ormai non poteva tirarsi indietro. Nella quiete del séparé, mentre sorseggiava il suo whiskydimalto,Kafukucapí una cosa: Takatsuki era ancora innamorato di sua moglie. E non era ancora riuscitoadaccettarelarealtà: lei era morta e il suo corpo era ridotto in cenere e ossa. Era un sentimento che Kafuku conosceva bene. Mentre parlavano di lei, notavacheatrattigliocchidi Takatsuki si velavano di lacrime. Tanto che, vedendolo in quello stato, provava quasi l’impulso di confortarlo battendogli sulla spalla. Quest’uomo non riesce a nascondere i suoi sentimenti,pensò.Basterebbe che gli dessi l’abbrivio, e finirebbe col confessare ogni cosa. Dai discorsi di Takatsuki, Kafuku comprese che a metter fine alla loro relazioneerastatalei.«Forse è meglio che non ci vediamo piú»,gliavevaprobabilmente detto, e non l’aveva mai piú cercato. Per quel che ne sapeva Kafuku, le storie d’amore di sua moglie – ammesso che si potessero chiamare cosí – seguivano tutte lo stesso schema: incontri che si susseguivano per alcuni mesi e poi cessavano in modo netto e definitivo. Peccato che Takatsuki, impreparato all’idea di separarsi da lei tanto bruscamente, a quanto pareva avesse sperato in un legamepiúduraturo. Quando il tumore era giuntoall’ultimostadioesua moglieerastataricoveratafra i malati terminali, Takatsuki aveva chiesto di farle visita, ma anche quella volta lei gli aveva opposto un netto rifiuto. Lí, all’ospedale, non voleva vedere quasi nessuno. A parte il personale medico, nella sua stanza ammetteva solo la madre, la sorella e Kafuku. Takatsuki sembrava rimpiangerechenonglifosse stato concesso di incontrarla almeno un’ultima volta. Aveva saputo della sua malattiasolopochesettimane primachemorisse.Lanotizia era stata uno shock, e ancora adesso non riusciva a rassegnarsi. Kafuku capiva benequellocheprovava.Però non si poteva dire che i loro sentimenti fossero gli stessi. Kafuku aveva visto sua moglie consumarsi giorno dopo giorno, al crematorio avevaraccoltociòcherestava dilei.Avevasuperatolafase dell’accettare o meno la realtà. Ed era una differenza importante. Sembra quasi che sia io a consolare lui, si diceva KafukumentreconTakatsuki si scambiavano tanti ricordi. Se mia moglie potesse vederci, che effetto le farebbe? A quell’idea provava una strana sensazione. Ma i morti con ogni probabilità non avevano piú né pensieri né sensazioni…Dalsuopuntodi vista, era uno dei vantaggi dellamorte. Quella sera Kafuku capí un’altra cosa di Takatsuki: beveva troppo. Nel suo ambiente professionale, di etilisti ne incontrava tanti – perché mai gli attori erano quasituttideglialcolizzati?–, e pensava che si dividessero in due categorie: quelli che bevevano per acquisire qualcosa, e quelli che bevevano per liberarsi di qualcosa. Takatsuki apparteneva chiaramente al secondo gruppo, ed era una reazione naturale e tutto sommatopositiva. Di cosa cercasse di liberarsi, Kafuku non lo sapeva. Forse della propria debolezza, forse della ferita ricevutainpassato.Oppuredi problemi presenti che lo assillavano. O tutte queste cose insieme. In ogni caso, dentro di lui c’era qualcosa che«potendo,avrebbevoluto dimenticare», e per dimenticarlo,opersfuggireal dolore che gli procurava, doveva bere. Nel tempo che Kafuku ci metteva a vuotare un bicchiere, lui ne scolava due o tre. Un ritmo impressionante. Amenocheilmotivonon fosse la tensione. In fin dei conti, Takatsuki si trovava di frontealmaritodiunadonna concuiuntempoavevaavuto una relazione clandestina. Sarebbe stato strano che non fosse teso. Ma non doveva essere la sola ragione. Fondamentalmente, quell’uomo non riusciva a moderarsi nel bere, pensò Kafuku(cheinveceseguivail proprio ritmo, mentre lo teneva d’occhio). Vedendo che man mano che beveva Takatsukisembravarilassarsi, gli chiese se avesse famiglia. Luirisposecheerasposatoda dieci anni, e aveva un figlio di sette. Ma che per diverse ragioni l’anno precedente si era separato dalla moglie. Probabilmenteintempimolto brevi avrebbe divorziato, e si preparava ad affrontare il problema dell’affidamento del bambino. Voleva a tutti i costi ottenere di poter vedere suo figlio quando gli pareva. Aveva bisogno di lui. Ne mostrò la foto a Kafuku: era un bambino molto carino, dall’ariagiudiziosa. Come la maggior parte degli alcolizzati, Takatsuki diventava piú loquace a ogni bicchiere che beveva. Raccontava quello che non avrebbe dovuto, e che nessuno desiderava sentire. Ormai Kafuku, che aveva assunto il ruolo dell’ascoltatore, lo incoraggiava, e se riteneva il caso di consolarlo, gli diceva qualche parola per rincuorarlo.Eintantocercava di raccogliere quante piú informazioni poteva. Si comportavacomeseprovasse per Takatsuki una gran simpatia. Cosa che, essendo una persona che sapeva ascoltare, non gli riusciva affatto difficile, lo trovava davvero simpatico. Inoltre i dueuominiavevanoqualcosa di molto importante in comune: sia l’uno che l’altro continuavano a essere innamorati di una donna affascinante ormai scomparsa. Nessuno dei due era riuscito a superare quella perdita, quindi, malgrado avesseroavutoconladefunta dei rapporti di natura molto diversa, avevano tante cose dadirsi. – Se è d’accordo, signor Takatsuki, potremmo vederci di nuovo. Mi ha fatto veramentepiacereparlarecon lei.Sa,eradatantotempoche non provavo qualcosa di simile, – disse Kafuku al momento di separarsi. Aveva già provveduto a pagare le consumazioni. Perché il pensiero che in quel bar qualcuno dovesse regolare il conto non sembrava sfiorare Takatsuki. Evidentemente l’alcol gli faceva dimenticare tante cose. Anche cose importanti,forse. – Certamente, – disse Takatsuki sollevando il viso dalbicchiere.–Speroproprio di vederla ancora, ci tengo. Ora che ho parlato con lei, anch’io mi sento molto piú sollevato. –Inquestonostroincontro vedo la mano del destino, – disse Kafuku. – Chissà che non sia stata mia moglie a farciavvicinare. E in un certo senso era vero. Si scambiarono il numero dicellulare,sisalutaronocon unastrettadimano. Fu cosí che divennero amici. Compagni di bevute benaffiatati.Sitelefonavano, si davano appuntamento in qualche bar della città, e fra un sorso e l’altro discorrevano tranquillamente. Ma non succedeva mai che cenassero insieme, andavano sempreesoloalbar.Nonuna sola volta Kafuku vide Takatsuki servirsi degli stuzzichini che accompagnavano le ordinazioni. Al punto che si chiedeva se quell’uomo mangiasse, ogni tanto. E a parte qualche birra occasionale, ordinava solo whisky,whiskydimalto. I due uomini parlavano di tanti argomenti, ma gira e rigira il discorso finiva sempresulladefunta.Kafuku raccontava episodi della giovinezza di lei, Takatsuki ascoltava con espressione compunta, quasi raccogliesse materiale per un libro di memorie. Kafuku si rese conto di gustare quelle conversazioni. Una sera si trovavano in un piccolo bar di Aoyama. Un locale che non dava nell’occhio,inunaviuzzasul retro del museo Nezu. Il baristaeraunuomotaciturno sulla quarantina. Su uno scaffale, acciambellato in un angolo, dormiva sempre un gatto grigio, piuttosto magro. Un gatto randagio approdato in quel bar per caso. Vecchi dischi di jazz giravano sul piatto dello stereo. Sia a Kafuku che a Takatsuki quell’atmosfera piaceva, erano già stati in quel locale diverse volte. Per qualche ragione misteriosa, quasi sempre pioveva, quando si vedevano,eanchequellasera cadeva una pioggerella leggera. – Era veramente una donna straordinaria, – disse Takatsuki guardando le proprie mani, che teneva posate sul ripiano del tavolino. Mani belle, per un uomo che aveva superato la mezza età. Poche rughe, unghie ben curate. – È stato molto fortunato, signor Kafuku, a sposare una donna cosí, a vivere con lei. Di sicuroeraunuomofelice. – Sí, ha ragione, – disse Kafuku. – Probabilmente ero felice.Maèpropriolafelicità a portare la sofferenza, a volte. – Cioè? Che genere di sofferenza? Kafukufecegirareigrossi pezzi di ghiaccio nel suo bicchiere di whisky con acqua. – Il timore di perderla un giorno. Solo a immaginare quest’eventualità,provavoun doloreinpetto. – Sí, so bene cosa vuol dire,–feceTakatsuki. –Losa? – Be’… – Takatsuki esitava, cercava le parole giuste. – Perdere una donna meravigliosacomelei… –Parlandoingenerale? – Sí, certo, – disse Takatsuki, poi annuí diverse volte,comeperconvincerese stesso. – È una cosa che possosoltantoimmaginare. Kafuku taceva. Prolungò almassimo,allimiteestremo, quelsilenzio. – In conclusione, però, l’ho persa, – disse infine. – L’ho persa poco per volta mentre era ancora in vita, e poideltutto.Comesevenisse lentamente erosa, finché è stata trascinata via, con tutte leradici,daunagrandeonda. Capiscecosavogliodire? –Credodisí. No, questo non lo puoi sapere,pensòKafuku. –Lacosapiúdolorosa,per me, – proseguí, – è che non sono riuscito a capirla, o perlomeno a capire una parte importante di lei. E adesso che è morta, so che probabilmente non la capirò mai, e me ne andrò cosí. Lasciando un piccolo scrigno sepolto in fondo al mare. A questopensiero,misistringe ilcuore. Takatsuki rifletté sulle parole che aveva appena sentito. – Sí, signor Kafuku, – dissepoi,–machièchepuò capire del tutto un’altra persona? Anche amandola profondamente. – Abbiamo vissuto insieme per vent’anni, eravamo una coppia molto unita, e al tempo stesso eravamo amici, avevamo fiducia uno nell’altra. Ci dicevamo apertamente qualsiasicosa.Perlomeno,era quellochepensavo.Maforse non era cosí. Come spiegarle…èpossibilecheci fosseinmeunangolociecoa cuinonpotevosfuggire. – Un angolo cieco… – ripetéTakatsuki. – Non sono riuscito a vedere qualcosa di molto importante nella sua personalità. O forse l’ho visto, senza darvi il giusto peso. Takatsuki si morse le labbra,poivuotòd’unfiatoil bicchiere e chiese al barista unaltrowhisky. –Sobenecosavuoldire,– feceTakatsuki. Kafukuloguardòdrittoin faccia. Takatsuki per un po’ sostenne il suo sguardo, poi distolsegliocchi. – Come fa a saperlo? – chieseintonopacatoKafuku. Il barista portò un altro whisky con ghiaccio, sostituí il sottobicchiere bagnato con uno nuovo. In sua presenza i due uomini rimasero in silenzio. – Come fa a saperlo? – ripeté Kafuku quando il baristasifuallontanato. Takatsuki rifletté a lungo. Nei suoi occhi qualcosa vacillava. Quest’uomo sta esitando, pensò Kafuku. Sta combattendo strenuamente contro il desiderio di confessare. Alla fine però Takatsukinoncedette. – Il fatto è che noi non possiamocapirefinoinfondo cosa pensa una donna, non crede?–finícolrispondere.– Volevo dire solo questo. Mi riferivo alle donne in genere. Quindi non è solo in lei che esiste un angolo cieco, non mi sembra, perlomeno. Se la sensazione di cui mi ha parlato la consideriamo un angolo cieco, l’abbiamo tutti, ci accompagna per tutta la vita.Quindifarebbemeglioa non sentirsi in colpa, signor Kafuku. – Sí, ma lei sta generalizzando, – disse Kafuku dopo averci pensato unpo’su. – Ha ragione, – ammise Takatsuki. – Io sto parlando di mia moglie e di me. Preferirei evitare le facili generalizzazioni. Takatsukitacquealungo. – A mio parere, – disse poi,–suamoglieeradavvero una donna straordinaria. Naturalmentequellocheioso disuamoglienonènemmeno uncentesimodiquellochesa lei,signorKafuku,peròsono convinto di quello che le sto dicendo. Comunque stiano le cose, lei deve essere grato di aver passato vent’anni della sua vita con una donna cosí. Lo penso sinceramente. Per quanto ci sia comprensione reciproca con una persona, per quanto la si ami, non si può leggere nel cuore di qualcunaltrocomeinunlibro aperto. Se ci proviamo, andiamo incontro solo a sofferenza. Ma se cerchiamo di guardare nel nostro cuore, se ci sforziamo davvero di farlo, alla fine ci riusciremo, questo sí. Quindi, in conclusione, quello che dobbiamofareèvenireapatti col nostro cuore. Se desideriamo davvero capire qualcuno, possiamo soltanto guardare dentro noi stessi. Questoèciòchepenso. Quelle parole sembravano emergere da qualche luogo situato nel profondo dell’uomo che si chiamava Takatsuki. Solo per qualche istante, una porta nascosta si era socchiusa per lasciar uscire la voce della sua anima. Era chiaro che non stava recitando. Non ne sarebbe stato capace, non era tantobravo.Kafukuloguardò in silenzio negli occhi. Lui questa volta non distolse lo sguardo. Si scrutarono a lungo. E negli occhi l’uno dell’altro videro una luce. Unalucecomelosfavilliodi unastelladistante. Quando si salutarono, si strinsero la mano. Fuori piovigginava. Takatsuki, che indossava un impermeabile beige, aprí l’ombrello e si allontanò nella pioggia, mentre Kafuku, come faceva sempre,rimaseaosservarela propria mano. Pensando, come faceva sempre, che quella di Takatsuki aveva carezzatoilcorponudodisua moglie. Quella considerazione, tuttavia, non gli procurò l’usualesensodioppressione. Sono cose che possono succedere,silimitòapensare. In fin dei conti, si trattava soltanto del suo corpo, ormai tutto quel che ne restava era qualche osso e un po’ di cenere, si ripeteva Kafuku comeperfarseneunaragione. C’eranosicuramentecoseche contavano di piú. Quello era forse il suo angolo cieco, doveva ammetterlo, ma lo avevano tutti, un angolo cieco. Le parole di Takatsuki gli restarono a lungo nelle orecchie. – Siete rimasti amici per moltotempo?–chieseMisaki guardandolafiladimacchine davantialoro. – Circa sei mesi, fra una cosa e l’altra… Piú o meno ogniduesettimanecidavamo appuntamento in qualche bar e bevevamo insieme, – rispose Kafuku. – Poi ho smesso di vederlo. Lui mi ha chiamato, ma io ho preferito ignorarlo. Né da parte mia l’ho piú cercato. Cosí anche lui ha finito col non telefonarmipiú. – Gli sarà parso molto strano. –Forse. – Può anche darsi che ne siarimastoferito. –Sí,puòdarsi. –Comemaitutt’auntratto nonhapiúvolutovederlo? – Perché non era piú necessariorecitare. – E non essendo piú necessariorecitare,nonaveva piú bisogno di essergli amico? – C’era anche questa ragione,–disseKafuku.–Ma nonètutto. –Cioè? Kafuku rimase a lungo in silenzio. Misaki, la sigaretta sempre fra le labbra, ogni tantoglilanciavaun’occhiata. – Se ha voglia di fumare, fumipure,–ledisseKafuku. –Come? –Puòaccenderla. – Anche se il tettuccio è chiuso? –Nonimporta. Misaki abbassò il vetro e con l’accendisigari della macchina si accese la Marlboro. Aspirò profondamente il fumo, gli occhisocchiusi.Lotenneper un po’ nei polmoni, poi lo soffiò lentamente fuori dal finestrino. – Potrebbe esserle fatale, losa?–ledisseKafuku. – Be’, se è per questo, la vitastessaèunrischiofatale. Kafukurise. – È un modo di vedere le cose,–ammise. – Non l’avevo mai vista ridere,signorKafuku,–disse Misaki. – Già, ora che mi ci fa pensare,forseèvero.Aparte quando recito, mi succede raramentediridere,–rispose lui. – Senta, è da un bel po’ che voglio dirglielo: a guardarlabene,leièpiuttosto carina.Nonèaffattobrutta. – La ringrazio. Neanch’io penso di essere brutta. Semplicemente non sono bella. Come Sonia, – disse Misaki. Sorpreso, Kafuku si voltò aguardarla. –HalettoZioVania?–le chiese. –Leinerecitaognigiorno deibranipresiacasoquaelà, cosí mi è venuta voglia di conoscere la storia intera. Sono una persona curiosa, – disse Misaki. – «Ah, che brutta cosa non essere bella! È terribile! E io lo so di non esserebella,loso,loso…»È un’operamoltotriste. – Una storia senza speranza, – disse Kafuku. – «Oh Dio mio… Ho quarantasette anni; se, putacaso, arrivo ai sessanta, menerestanoancoratredici. È lunga! Come li vivo questi tredici anni? Che cosa ci faccio, come li riempio?» 1. All’epoca la gente viveva in media una sessantina d’anni. LozioVaniapotevaritenersi fortunato di non essere nato oggi… – Ho fatto una piccola verifica.Leihalastessaetàdi miopadre. Kafuku non rispose. Prese in silenzio alcune cassette e passò in rassegna i titoli scritti sull’etichetta. Ma non neinfilònessunanellostereo. Misaki teneva la sigaretta accesafuoridalfinestrino.La metteva per un momento fra lelabbrasoloquandodoveva cambiaremarcia,peraverela manolibera.Intantolafiladi vettureavanzavalentamente. – Per dirle tutta la verità, avevo pensato di punire quell’uomo. Quell’uomo che era andato a letto con mia moglie, – riprese Kafuku col tono di chi fa una confessione,mentrerimetteva alloropostolecassette. –Dipunirlo? – Di farlo soffrire in qualche modo, soffrire terribilmente.Conquistarnela fiducia fingendomi amico, trovareilsuopuntodebole,e colpirlopropriolí. Misaki corrugò la fronte, pensando al significato di quelleparole. –Unpuntodebole?Quale, adesempio? – Non sono riuscito a scovarlo. Ad ogni modo era uno che quando beveva abbassavalaguardia,equesto mi avrebbe permesso di inventare qualcosa. Me ne sareiservitoperfarscoppiare uno scandalo – non è molto difficile imbastire una storia chescreditiunapersona–,in conseguenza del quale gli avrebbero tolto l’affidamento del figlio nella causa di divorzio.Uncolpocuiluinon avrebberetto.Nonsisarebbe piúripreso. –Chebruttoprogramma. –Sí,bruttissimo. – Voleva vendicarsi di lui perché era andato a letto con suamoglie? – Vendicarmi? No, non è esatto, – disse Kafuku. – Ma non riuscivo a dimenticare. Mi sforzavo, mi sforzavo davvero, di non pensarci piú. Non serviva a nulla! Vedevo sempre mia moglie nelle braccia di lui. Una visione chetornavadicontinuo,come un fantasma che non trova pace e resta attaccato a un angolo del soffitto, a controllare quello che succedeinbasso…Dopoche mia moglie è morta, mi dicevo che col tempo questa sensazione mi avrebbe finalmente abbandonato. Invece no, era sempre presente.Anzi,erapiúfortee vivida di prima. Avevo bisogno di liberarmene. E a questo scopo dovevo sciogliere qualcosa dentro di me, qualcosa che somigliava tantoallacollera. Chissà perché, si chiese Kafuku,storaccontandotutte queste cose a questa ragazza che viene da Kamijūnitaki nell’Hokkaidō, e che ha l’età che avrebbe mia figlia. Eppure, una volta iniziato, nonriuscivapiúafermarsi. – Cosí ha pensato di punire quell’uomo, – disse Misaki. –Esatto. – Però in pratica non ha fattonulla. – No. Nulla, – disse Kafuku. A quelle parole Misaki sembrò tranquillizzarsi. Tirò una boccata di fumo, poi gettò la sigaretta ancora accesa dal finestrino. Forse è una cosa che a Kamijūnitaki fannotutti,pensòKafuku. – Non saprei spiegarle il perché, ma tutto a un tratto quella storia perse importanza. Come se una maledizionesifossesciolta,– disse. – Non provavo piú collera. O forse non si trattava veramente di collera, madiqualcos’altro. –Be’,tantodiguadagnato perlei,suquestononcisono dubbi. Cioè, il fatto che non abbiaferitonessuno,inalcun modo. –Sí,lopensoanch’io. – Però non ha mai capito perchésuamoglieabbiafatto sesso con quell’uomo, e perchéproprioconlui. –No,nonl’hocapito.Èun dubbio che mi porto ancora dentro. Era un uomo simpatico, e anche franco. E amava davvero mia moglie. Non se l’era portata a letto solo per divertirsi. La sua morte gli ha causato uno shockprofondo.Eilrifiutodi lei di farlo entrare nella stanza, quando era andato all’ospedale per vederla un’ultima volta, lo faceva ancora soffrire. Non potevo impedirmi di pensare che fosse una cara persona, tanto che avrei anche potuto esserglidavveroamico. Kafukufeceunapausaper seguire il corso delle sue emozioni. Cercava le parole peravvicinarsiilpiúpossibile allaverità. – Però, a dire il vero, non era un individuo di grande valore. Probabilmente aveva un buon carattere. Era un bell’uomo e aveva un sorriso affascinante. E perlomeno non era un superficiale. Ma non era il genere di persona che infonde rispetto. Era sincero, ma mancava di spessore. Aveva molte debolezze, e come attore non valeva granché. Mia moglie al contrario era una donna forte, e di grande profondità spirituale. Poteva passare molto del suo tempo a riflettere. Allora perché si è innamorata di quell’uomo da poco,perchéèfinitanellesue braccia? Questa domanda mi tormentaancoraadesso,èuna spinanelfianco. – Vuole dire che la sente come un insulto nei suoi confronti? Kafukucipensòsu. –Sí,puòdarsi,–ammise. – Ma sa, forse sua moglie non era affatto innamorata di lui, – disse Misaki con molta semplicità. – Per questo ci è andataaletto. Kafukusivoltòaguardare Misaki, come se osservasse un paesaggio lontano. Lei azionò piú volte il tergicristallo per pulire il parabrezza. Le lame nuove facevano contro il vetro un rumore stridente, come strilli dibambinicapricciosi. –Sonocosecheavoltele donne fanno, – aggiunse Misaki. Kafuku non sapeva cosa rispondere. – È un tipo di comportamento per cosí dire patologico, signor Kafuku. Non è qualcosa che si possa controllare razionalmente. Anche mio padre che ci ha lasciate, e mia madre che mi trattava male, lo hanno fatto perché erano squilibrati. Arrovellarsi su cose del genere non serve a niente. Tutto quel che possiamo fare è cercare di sopravvivere, mandaregiúeandareavanti. – Allora tutti dobbiamo recitare? –Sí,piúomenoècosí. Kafukusisistemòbenesul sedile e chiuse gli occhi per concentrarsisuunacosasola, cogliere il momento in cui Misaki cambiava marcia, ma non ci riuscí. Tutto avveniva in modo troppo morbido e sicurodisé.Allesueorecchie arrivava solo una leggera variazione nel ronzio del motore, come se sentisse un insettoandareevenire. Pensòdidormireunpoco. Farsi un sonnellino breve ma profondo. Dieci o quindici minuti. Poi sarebbe di nuovo salito sul palco. Avrebbe recitato la sua parte sotto i riflettori. Il pubblico avrebbe applaudito,esarebbecalatoil sipario. Per un determinato lasso di tempo sarebbe diventato un’altra persona, per tornare poi a essere se stesso. Non esattamente quellodiprima,tuttavia. – Faccio un sonnellino, – disse. Misaki non rispose. Continuò a guidare senza parlare.Kafukulefugratodi quelsilenzio. 1 Anton Čechov, Zio Vania, traduzionediLuigiLunari,Rizzoli, Milano2008[N.d.T.]. Yesterday Per quel che ne so io, la sola persona che abbia mai provato a tradurre Yesterday dei Beatles in giapponese – anzi,neldialettodelKansai– è stato un ragazzo chiamato Kitaru.Lacantavaspessonel bagnodicasasua. Ierièl’altroierididomani ildomanidell’altroieri… Ricordo che l’incipit era qualcosa del genere, ma è passato tanto di quel tempo chenonsonosicurissimoche facesse proprio cosí. In ogni caso erano parole sconclusionate, dall’inizio alla fine. Erano… come dire… una roba davvero assurdachefacevailversoal testo originale senza assomigliarcineancheunpo’. La familiare melodia originale, cosí bella e malinconica, associata alla cadenza un po’ indolente – priva di pathos, si potrebbe dire–deldialettodelKansai, formavano un abbinamento strano, un’accoppiata talmente priva di senso da risultare quasi ardita. Perlomeno, alle mie orecchie produceva quest’effetto. Mi faceva ridere, la trovavo sciocca,maaltempostessovi percepivo un messaggio segreto. In ogni caso mi limitavo ad ascoltarla sconcertato. Kitaru,puressendonatoe cresciuto nel quartiere di Dennenchōfu a Ōta, nella cintura di Tōkyō, parlava il dialetto del Kansai in modo praticamente perfetto. Io invece, che ero nato e cresciuto nel Kansai, mi esprimevo in un giapponese standard quasi impeccabile – quello che si parla a Tōkyō, insomma. Ora che ci penso, eravamo un’accoppiata davverosingolare. L’avevo conosciuto quando lavoravo part-time in un caffè vicino all’ingresso principale del campus di Waseda. Io stavo in cucina, Kitaru serviva ai tavoli. Nei momenti di calma chiacchieravamo volentieri. Entrambi ventenni, eravamo nati a una settimana di distanzal’unodall’altro. – È un nome insolito, Kitaru,–glidissi. – Sí, è vero. Non ce ne sonomolti,–fecelui,colsuo forteaccentodelKansai. – C’era un lanciatore dei Lottechesichiamavacosí. –Sí,manonc’entraniente conlamiafamiglia.Anchese una qualche relazione probabilmente ci sarà, visto cheèunnomepiuttostoraro. All’epoca frequentavo il secondo anno di Lettere dell’Università di Waseda. Lui era rōnin 1 e seguiva un corso preparatorio all’esame diammissione,perilsecondo anno di fila, ma non dava certo l’impressione di impegnarsi sul serio. Nel tempo libero leggeva cose che non avevano il minimo rapporto con lo studio. La biografia di Jimi Hendrix, manualidishōgi,Originedel cosmo… roba del genere. Mi disse che veniva ogni giorno al lavoro da casa dei suoi a Ōta. –Casadeituoi?–chiesi.– E io che ero sicuro che fossi delKansai! – Figurati! Sono nato e cresciutoaDennenchōfu. A quelle parole rimasi disorientato. – Scusa, ma allora perché parlineldialettodelKansai? – Be’, mi sono messo d’impegno e l’ho imparato. Cel’homessadavverotutta. –Tiseimessod’impegno? –Sí,davvero,l’hostudiato seriamente. I verbi, i sostantivi… insomma, è come studiare l’inglese o il francese.Sonoancheandatoa farpraticasulluogo. Impressionante. Era la prima volta che sentivo di qualcuno che «si metteva d’impegno» per imparare il dialetto del Kansai, come fosse una lingua straniera. A Tōkyō c’era veramente di tutto, mi dissi. Mi sentivo come Sanshirō, l’ingenuo protagonista dell’omonimo romanzo di Sōseki che dalla provincia va a studiare nella capitale. – Sono sempre stato un tifoso degli Hanshin Tigers, findabambino.Nonmisono mai perso una loro partita, quando giocavano a Tōkyō. Mettevo l’uniforme bianca a righe nere e andavo a piazzarmi nella sezione dello stadioriservataaitifosiospiti. Ma non c’era niente da fare, col mio accento di Tōkyō, appena aprivo bocca nessuno mi degnava piú di uno sguardo. Non c’era verso di farsiaccettarenellacomunità. Devo imparare il dialetto del Kansai, ho pensato a quel punto.Misonorimboccatole maniche e ho studiato tanto dasudaresangue. – E l’hai imparato cosí bene solo a questo scopo? – chiesistupefatto. – Certo. Gli Hanshin Tigerspermeeranotutto.Da allora ho sempre parlato nel dialettodelKansai,siaacasa che a scuola. Persino quando parlo nel sonno, parlo nel dialetto del Kansai, – disse Kitaru.–Comelotroviilmio accento,nonèperfetto? – Assolutamente. Sembri proprio uno del Kansai, – gli risposi. – Solo che non è veramente l’accento dell’area Hanshin, ma piuttosto quello di Ōsaka. La parlata dell’entroterra,insomma. – Questo lo so. Quando ero al liceo, durante le vacanze estive ho fatto una vacanza studio a Ōsaka, nel quartierediTennōji.Misono divertito un casino. Ho persinofattoungiroallozoo. – Una vacanza studio? – domandai.Danoncrederci! – Già, se mettessi nella preparazione del concorso lo stesso ardore che ho messo nello studio del dialetto del Kansai, adesso non sarei rōnin per il secondo anno consecutivo…–feceKitaru. Proprio cosí, pensai. Anche il vizio di fare un’idiozia e poi darsi del cretinoeratipicodelKansai. –Etu?Didovesei? –DellazonadiKōbe. –Dove,dipreciso? –Ashiya. – Accidenti! I quartieri alti! Avresti dovuto dirlo subito, invece di girarci intorno. Cercai di spiegargli. Quando mi chiedevano da dove venivo, se rispondevo «daAshiya»lagentepensava subito che la mia famiglia fosse ricca. Ma ad Ashiya c’erano famiglie di ogni classe sociale. I miei non erano ricchi. Mio padre era impiegato in una ditta farmaceutica, mia madre segretaria in una biblioteca. Abitavamo in una casa piuttosto piccola, la nostra macchina era una Toyota Corolla beige. Quindi, se qualcuno mi chiedeva da dove venivo, per evitare che si facesse idee sbagliate, avevo deciso di rispondere sempre«dallazonadiKōbe». – Be’, per me è uguale! – disse Kitaru. – Abito a Dennenchōfu, ma nella parte piúsquallidadelquartiere,se devo essere sincero. Vieni a vedere, una volta. Non ci crederai. «Come è possibile? Questo sarebbe Dennenchōfu?» Ma perché preoccuparsidicertecazzate? È solo un indirizzo. Al contrariodite,ioglielasparo infaccia:«Allora?Sononato e cresciuto a Dennenchōfu, io!» Lo ammirai. E diventammoamici. Cisonodiverseragioniper le quali, dopo essermi trasferito nella capitale, ho smessodiparlareneldialetto diŌsaka.Pertuttigliannidel liceo, fino all’esame di maturità, non mi ero mai espressoinaltromodo.Dopo aver passato un mese a Tōkyō, però, mi resi conto, con un certo stupore, che ne avevo adottato la parlata con facilità e naturalezza. Chissà, forse ho la natura di un camaleonte. Oppure ho orecchio per le lingue. Comunque sia, quando dicevochevenivodalKansai, nessunomicredeva. Unaltromotivochemiha indottoadabbandonareilmio dialetto era il desiderio di diventareun’altrapersona. Quando sono venuto a Tōkyō per iniziare l’università, nel treno che mi portava nella capitale non ho fatto altro che riflettere e ripercorrere mentalmente i miei diciotto anni di vita: dellamaggiorpartedellecose chemieranosuccesse,potevo solo vergognarmi. No, non sto esagerando. La mia esistenza era stata un susseguirsi di idiozie che preferivo dimenticare. Piú ci pensavo, piú mi trovavo detestabile. Naturalmente c’era anche qualche ricordo bellissimo.Alcuneesperienze pulite,alcunipensierielevati, li avevo avuti. Lo riconosco. Ma le cose di cui arrossire, per le quali potevo solo prendermilatestafralemani, erano in numero molto maggiore.Ancheilmiomodo di vedere la vita, ripensandoci, era talmente banale,talmentelimitato,che nonvalenemmenolapenadi parlarne. Un cumulo di idee privedifantasia,ciarpameda borghesucci. Roba che avrei voluto impacchettare e cacciare in fondo a un cassetto. Oppure darvi fuoco e ridurla in cenere – quale fumo ne sarebbe uscito? In ogni caso, desideravo solo sbarazzarmi di tutto quanto e iniziare a Tōkyō una vita nuova, da persona nuova. Sperimentare nuove possibilità. Quindi per me abbandonare il dialetto del Kansai e adottare un altro modo di esprimermi era un mezzo pratico – e al tempo stesso simbolico – per arrivarealloscopo.Perchéin conclusione il linguaggio che parliamo ci presenta come persone. Perlomeno, è quello che pensavo quando avevo diciottoanni. – Vergognarti? Di che cosativergognavitanto?–mi chieseKitaru. –Oh,unpo’ditutto… – Avevi problemi con i tuoi? – No, non si può dire che avessi dei problemi. Comunque mi vergognavo. Anche solo a stare in loro compagnia. – Sai che sei davvero strano? Perché mai uno dovrebbe vergognarsi a stare con i propri famigliari? Io ci stobenissimo,conimiei. Non risposi. Non riuscivo a spiegarmi bene. Né avrei saputo dire cosa ci fosse di sbagliato in una Toyota Corolla beige. In fondo rivelavasemplicementechela strada davanti a casa era stretta,echemiopadreemia madre non erano persone da buttaresoldiperleapparenze. –Tuttiisantigiorniimiei me ne dicono di tutti i colori perché non studio, una bella rottura, credimi, ma che ci possofare?Èillorocompito. Non bisogna prendersela troppoperquestecose. – Beato te, che te ne freghi! – dissi sinceramente ammirato. –Laragazzacel’hai?–mi chieseKitaru. –Almomentono. –Eprima? –Sí,finoapocotempofa. –Visietelasciati? –Esatto,–risposi. –Comemai? – È una lunga storia, in questo momento non ho vogliadiparlarne. – Era una ragazza di Ashiya?–insistetteKitaru. – No, non di Ashiya. Era di Shukugawa. Lí vicino, insomma. – Hai fatto tutto, con lei? C’èstata? Scossilatesta. –No,nonhavoluto. –Èperquestochevisiete lasciati? – Anche per questo, – risposi dopo averci pensato unpo’. – Cioè, avete fatto tutto, trannequello? –Praticamentequasitutto. – Sí, ma fin dove siete arrivati?Concretamente,cioè. – Non ho voglia di parlarne. –Anchequestaèunadelle cose di cui dici di vergognarti? – Esatto, – risposi. Anche quella era una delle cose che preferivononricordare. – Certo che sei ben complicato, tu! – fece Kitaru perplesso. La prima volta che avevo sentito Kitaru cantare Yesterday nella sua strana versioneerodavantialbagno di casa sua a Dennenchōfu. Né la casa né la zona erano squallide come pretendeva lui. Erano normalissime. La casa era vecchia, ma piú grande della mia. Semplicemente non si poteva dire che fosse bella. Per inciso, l’automobile parcheggiata davanti era una Golf blu penultimo modello. Appena entrato, lui aveva voluto farsi il bagno. E non usciva piú dalla vasca. Cosí avevo portato nello spogliatoio uno sgabello rotondo, mi ci ero seduto, e parlavo con lui attraverso la portasocchiusa.Erocostretto arifugiarmilípersfuggireai discorsi interminabili della madre,discorsicheandavano sempre a parare sul fatto che quel suo figlio strampalato non studiava. Nella vasca, Kitarucantavaadaltavoce– probabilmente per farsi sentire da me, ma non ne sono sicuro – quella canzone cuiavevamessoquelleparole assurde. – Ma non significano niente! – dissi. – A me sembra soltanto che tu stia facendoilversoaYesterday. – Non dire cazzate! Non sto facendo il verso a niente. E poi, anche se fosse, a John dopotutto le cose assurde piacciono,no?Dicobene? – Guarda che le parole di Yesterday le ha composte Paul. –Veramente? – Ne sono sicuro, – sentenziai. – La musica e le parolediquellacanzoneleha composte Paul, è andato da solo nello studio di registrazione e l’ha cantata accompagnandosi alla chitarra.Ilquartettod’archiè stato aggiunto dopo. Gli altri membridellabandnonhanno voluto saperne. Perché trovavano la canzone un po’ troppo«tenera»,periBeatles. Anchesepoièstataattribuita alla coppia LennonMcCartney. – Ah. Be’, non sono eruditocomete. – Non è che sono erudito io.Sonocosechesannotutti. –Senti,chisenefrega,di questi dettagli… – disse Kitaru, immerso nell’acqua calda, in tono noncurante. – Nel bagno di casa mia canto quel cavolo che mi pare. Mica sto pubblicando un disco… Non violo il diritto d’autore, non do fastidio a nessuno. Piantala di criticarmisututto. Esirimiseacantareconla sua voce robusta, distrattamente come si fa nella vasca. Era intonato anche nelle note alte. «E dir chefinoaieri|leieraquicon me…» e avanti cosí. Col palmo delle mani batteva sull’acqua per fare l’accompagnamento. Forse avreifattobeneaunirmialui, manonneavevovoglia.Fare discorsi sconclusionati per un’ora,attraversounaportaa vetri, con uno che se ne sta immerso nell’acqua del bagno, non è che sia proprio unagoduria. –Senti,sonosecolichesei nellavasca.Ormaisaraitutto raggrinzito!–dissi. Al contrario di lui, io il bagno l’ho sempre fatto in fretta, fin da bambino. Restare a mollo nell’acqua calda mi viene subito a noia. Non si può leggere né ascoltarelamusica.Epassare iltemposenzamusicaesenza librimiriescedifficile. – Stando nella vasca il cervello si rilassa, e vengono buoneidee… – Buone idee? Tipo le parole che hai messo a Yesterday? – Ecco, tanto per dirne una,–feceKitaru. – Saranno anche delle buone idee, ma se hai tutto questo tempo, non faresti meglioastudiaredipiú? – Ehi! Che rompipalle! Sembri mia madre. Alla tua tenera età, non dovresti mettertiafareprediche. –Sí,maseigiàalsecondo annodarōnin,nonseistufo? – È ovvio che è una rottura. Figurati se non mi piacerebbe entrare all’università e starmene in pace, prendermela comoda, finalmente! E uscire con la miaragazzaquantomipare. – Be’, basterebbe che studiassi con un po’ piú di impegno. – Sí, ma vedi… – disse Kitaru svogliatamente. – Se potessi,l’avreigiàfattodaun pezzo. – L’università è un posto del cavolo, – feci. – Quando ci entrerai, rimarrai deluso. Suquestononcisonodubbi. Ma se uno non passa da lí, è moltopeggio. – È un ragionamento piú che valido. Nessuna obiezione. – E allora perché non studi? – Perché non sono motivato. – Non sei motivato? – ripetei.–Ildesideriodiuscire con la tua ragazza non è una motivazionesufficiente? –Sí,mavedi…–dissedi nuovo Kitaru. Poi, dal fondo della gola, emise un suono a metàtrailsospiroeilgemito. – Se mi metto a raccontare, rischiamo di andare per le lunghe. Dentro di me c’è qualcosa, qualcosa come una scissione… Kitaru stava con una ragazza fin dai tempi delle elementari. Era sempre stata la sua amica del cuore, per cosí dire. Avevano la stessa età, ma lei aveva superato l’esame di ammissione alla Sophia University e frequentava il corso di letteratura francese. Era membro del club di tennis. Kitaru mi mostrò la sua fotografia: era cosí bella che senza volerlo mi lasciai sfuggire un fischio. Aveva anche un bel fisico, e l’espressione vivace. Adesso però loro due non si vedevano. Dopo averne parlato a lungo, avevano decisocheerameglioevitare di incontrarsi finché Kitaru non fosse entrato all’università, in modo che potesse studiare senza distrazioni. Era stato lui a suggerirlo. «Be’, se lo dici tu…», aveva risposto lei, dando il suo consenso. Si sentivano spesso al telefono, ma si vedevano a malapena una volta alla settimana, e i loro incontri non si potevano veramente definire tali. Prendevano insieme un tè, si raccontavano quello che era successo nel frattempo all’unoeall’altra.Sitenevano per mano. Si davano baci leggeri. Ma evitavano di andare oltre. Una cosa molto all’antica,insomma. Kitaru non era particolarmente un bel ragazzo,maavevalineamenti fini.Purnonessendoalto,era snello,vestivaconsemplicità ebuongusto,avevaunottimo tagliodicapelli.Acondizione che stesse zitto, sembrava un ragazzo sensibile, di buona famiglia, nato e cresciuto in una grande città. Accanto a lei faceva la sua figura. Se proprio bisognava trovargli una pecca, con il suo viso delicato dava l’idea di essere un debole, un tipo poco determinato. Ma appena apriva bocca, quella prima impressionecrollavacomeun castello di sabbia sotto le zampe di un golden retriever scalmanato. Il suo forte accento del Kansai e la sua voce robusta, stentorea, coglievano tutti di sorpresa. Stonavano terribilmente col suo aspetto. Anch’io, all’inizio, davanti a quello squilibrio ero rimasto confuso. – Ma senza una ragazza, nontisentisolo?–michiese ungiornoKitaru. –No,nonmisentosolo,– risposi. – Ascolta, Tanimura, non avrestivogliadiuscireconla miaragazza,percaso? Non capivo bene cosa stessecercandodidirmi. –Uscire?Inchesenso? – È una ragazza eccezionale, sai? È bella, ha un bel carattere, ed è anche intelligente. Non faresti un cattivoaffare,auscireconlei, telogarantisco. –Nonmiinteressa,chesia un buon affare o meno, – dissi, anche se continuavo a noncogliereilsignificatodel discorso. – Ma vorrei sapere perché dovrei uscire con la tua ragazza. Mi sfugge lo scopo. – Perché sei una brava persona, – disse Kitaru. – Altrimenti non ti proporrei unacosadelgenere. Non era una spiegazione. Tra il fatto che io fossi una brava persona, ammesso che fossevero,elapossibilitàche uscissi con la ragazza di Kitaru, non c’era alcuna relazionedicausaedeffetto. – Erika (lei si chiama Erika)eioabbiamofattotutte le scuole insieme, dalle elementariallemediealliceo, – proseguí Kitaru. – Praticamente, è come se avessimo passato insieme la vita intera. Ci è venuto naturale fidanzarci, e tutti approvavano. Gli amici, i nostri genitori, gli insegnanti… Eravamo una coppia legatissima, unitissima, eravamo cosí, noi due… – Kitaru appoggiò le mani palmo contro palmo. – Se avessimo continuato d’amoreed’accordofinoalla laurea,saremmovissutifelici e contenti, ma io ho fatto un fiascoclamorosoall’esamedi ammissione, e ora eccomi ridotto come mi vedi. Cosa diavolo sia successo non lo so, ma a poco a poco tante cose hanno cominciato a non funzionare. Evidentemente nonècolpadinessuno,mala responsabilitàèsolomia. Ioascoltavoinsilenzio. –Diconseguenzailmioio si è per cosí dire spaccato in due, – proseguí Kitaru, separandoipalmidellemani. Ilsuoiosieraspaccatoin due? –Inchesenso?–chiesi. Kitarurimaseunmomento in silenzio a osservarsi il palmodellemani. – Cioè, una parte di me è terribilmente in ansia, – riprese poi. – Mentre io frequento quel corso preparatorio del cavolo e preparo quell’esame del cavolo, Erika si gode la vita universitaria. Va a giocare a tennis,fadituttoedipiú.Siè fatta dei nuovi amici, e magari esce anche con un altro. Quando mi nascono questi pensieri, all’idea che solo io vengo lasciato indietro, mi sento andare il cervello in fumo. Capisci quellocheprovo? –Sí,certo,–risposi. – Un’altra parte di me, però, al contrario si sente sollevata. Insomma, se noi due avessimo continuato ad avanzareinsiemenellanostra facile vita, senza problemi, senza fare sbagli, dove ci avrebbe portato tutto questo? Non è meglio provare per un certo periodo a percorrere strade separate? Se poi ci accorgiamo che abbiamo bisogno l’uno dell’altra, a quel punto possiamo tornare insieme. Non faccio che pensare che dovremmo avere questapossibilitàdiscelta.Lo capisciquesto? –Sí,misembradicapirlo, ma non ne sono sicuro, – risposi. – Insomma: prendere la laurea, trovare un lavoro, sposare Erika, diventare con la benedizione di tutti una coppia ben assortita, fare un paiodibambini,mandarlialla scuola elementare di Dennenchōfucheconosciamo come le nostre tasche, la domenicaandaretuttiinsieme a divertirci sulle rive del fiume Tama, e obladí obladà… certo, non si può direchesarebbeunoschifodi esistenza. Eppure non so, ho ildubbiochepassareunavita cosí – una vita facile, piacevole, senza intoppi – nonsiaproprioilmassimo. – Cioè, il problema sarebbe questo? Passare una vita facile e senza intoppi? È questochevuoidire? –Sí,piúomeno. Di nuovo non capivo: quali problemi avrebbe comportato una vita del genere?Maperevitarecheil discorso andasse per le lunghe, evitai di approfondire. – D’accordo, ammettiamo purechesiacosí.Maiocosa c’entro?Perchélatuaragazza dovrebbe uscire con me? – domandai. –Be’,sedevemettersicon un altro, meglio che sia tu. Perché ti conosco bene. E ti potrei chiedere di lei, sapere cosadice,cosafa… Il discorso non stava in piedi, ma l’idea di incontrare la sua fidanzata era molto allettante. A giudicare dalla foto era di una bellezza mozzafiato, e mi interessava sapere perché una ragazza cosí si fosse messa con uno squinternato come Kitaru, cosamaitrovasseinlui.Sono semprestatopiuttostotimido, mamoltocurioso. – E con lei, fino a che puntoseiarrivato?–chiesi. –Nelsesso,vuoidire? – Sí, ovvio. Avete fatto tutto? Kitaruscosselatesta. – No, escluso. Ci conosciamo fin da bambini, quindi toglierle i vestiti, toccarla,carezzarla…nonso, sono cose che mi mettono in imbarazzo. Con un’altra ragazza sarebbe diverso, credo, ma con lei, già solo immaginare di infilarle una mano nelle mutande o roba del genere mi sembra brutto. Locapisci,no? No,noncapivoaffatto. – Naturalmente ci baciamo, ci teniamo per mano. Le carezzo il seno da sopraivestiti.Masempreun po’ per scherzo, quasi per ridere… Ci eccitiamo, ma la cosa finisce lí, nessuno dei due sembra voler andare oltre. –Be’,sietevoicheinuna certa misura dovete sforzarvi di alimentare una corrente, – dissi. Quella che di solito si chiamadesideriosessuale. –No,tisbagli.Nelnostro caso è diverso. Cioè… Non so spiegarmi bene, – fece Kitaru, – ma ad esempio, quandounosimasturba,deve pensare concretamente a una ragazza,no? –Be’,sí…–dissi. – Ecco, io non riesco assolutamente a pensare a Erika. Se lo facessi, ho l’impressione che non funzionerebbe. Quindi penso aqualchealtra.Magariauna chenonmipiacepiúditanto. Secondoteperché? Ci pensai un po’ su, ma nonriusciiatrovarenullache assomigliasse a una spiegazione. Cosa ne sapevo iodelmododimasturbarsidi un altro? Ci capivo poco persinodelmio. – Senti, perché non ci vediamo tutti e tre insieme, unavolta?Tantoperprovare, – propose Kitaru. – Poi ci potrairiflettereconcalma. Kitaru,lasuaragazza(che sichiamavaKuritaniErika)e io ci incontrammo il pomeriggio della domenica seguente, in un caffè vicino allastazionediDennenchōfu. Erika era alta piú o meno come Kitaru, abbronzata, indossava una camicetta biancaamanichecortestirata alla perfezione e una minigonna blu. La tipica ragazza di buona famiglia nata e cresciuta nei quartieri alti, e iscritta a un’università femminile. Era bellissima, come sulla fotografia, ma a vederla di persona, piú che l’avvenenza del viso, quello che attirava in lei era una sorta di franca energia vitale che emanava da tutta la sua persona. L’esatto opposto di Kitaru, insomma, che invece dava un’impressione di evanescenza. Kitaru fece le presentazioni. –SonocontentacheAkisi sia fatto un amico, – disse Erika. Il nome proprio di KitarueraAkiyoshi. –Cheesagerazione!Neho un sacco, di amici, – obiettò lui. – Non è vero, – disse freddamente Erika. – Come potresti farti degli amici? Basta guardarti! Ti esprimi nel dialetto del Kansai nonostante tu sia di Tōkyō, e apri bocca solo per parlare degli Hanshin Tigers e di shōgi,sembrachetulofaccia apposta. Uno fuori di testa come te non può andare d’accordo con le persone normali! – Guarda che a proposito di gente fuori di testa, anche luinonscherza,sai?–ribatté Kitaru indicandomi. – Pensa che viene da Ashiya, e parla comequellidiTōkyō. – Be’, a me sembra una cosa piuttosto normale. Piú normale che non il contrario, perlomeno. – Ehi, questa si chiama discriminazione culturale! – disse Kitaru. – Tutte le culture si equivalgono. Non puoidirecheillinguaggiodi Tōkyō sia meglio di quello delKansai. – Senti, si equivarranno pure, ma dalla Restaurazione Meiji in poi, il linguaggio di Tōkyō è diventato grossomodo il giapponese standard, – disse Erika. – Se vuoi una prova, non esiste una traduzione nel dialetto del Kansai di… di Franny and Zooey di Salinger, ad esempio. – Se la pubblicano, la comprosubito,–feceKitaru. Anch’io l’avrei comprata, probabilmente, ma non lo dissi. Meglio evitare interventiestemporanei. – Ad ogni modo, quello che ti sto dicendo è solo comune buonsenso. Nel tuo cervello c’è una strana distorsione. – Una strana distorsione? Cosasignifica?Amesembra che la discriminazione culturale sia una distorsione ben piú pericolosa, – ribatté Kitaru. Evitandoprudentementedi avanzare su quel terreno, Erika decise di cambiare argomento. – Nel mio club di tennis c’è una ragazza di Ashiya, sai?–disserivoltaame.–Si chiama Sakurai Eiko. La conosci? –Sí,laconosco,–risposi. SakuraiEiko.Eraunaragazza alta e allampanata, con un naso dalla forma strana, i cui genitori gestivano un vasto campodagolf.Selatiravaed era poco simpatica. Piatta comeun’assedastiro.Soloa tennis era brava, fin da bambina, tanto che partecipava a tornei importanti. Possibilmente, avrei fatto volentieri a meno dirivederla. – Senti, lui è un tipo a posto, solo che in questo momentononhalaragazza,– disse Kitaru a Erika. Si riferiva a me. – Certo fisicamente non è granché, ma è beneducato e al contrario di me non ha idee strampalate. Conosce un sacco di cose e legge libri impegnati. Non sembra un contaballe e non mi pare che abbia brutte malattie. È quel che si dice un giovane di bellesperanze,insomma. –Okay,–risposeErika.– Nel mio club ci sono diverse nuoveiscrittemoltocarine,te nepossopresentarequalcuna. –No,no.Nonèquestoche ti chiedo, – fece Kitaru. – Perchénonciescitu,conlui? Io sono ancora rōnin, come faccioastareconte?Diciamo che potrebbe prendere il mio posto. Sono sicura che ti troveresti bene, a uscire con lui. E io mi sentirei piú tranquillo. – Piú tranquillo? Cosa vuoidire?–chieseErika. – Be’, vi conosco tutti e due,quindisareipiúcontento di saperti con lui, piuttosto che con uno che non ho mai visto. Erika strinse un po’ gli occhi e guardò in faccia Kitaru come se osservasse il quadrodiunpaesaggioincui il senso della prospettiva fossesbagliato.Poipronunciò lentamentequesteparole: – Mi stai dicendo che dovrei mettermi con lui, con Tanimura? Mi stai esortando a stare con lui, come una donna sta con un uomo cioè, perché «è un tipo a posto»? Staiparlandosulserio? – Be’, non è poi una cattiva idea, no? Perché, stai già con qualcun altro, per caso? – No. Non sto con nessuno,–disseErikaintono pacato. – Allora faresti bene a metterti con lui! Sarebbe una specie di scambio culturale, diciamocosí. –Unoscambioculturale,– ripeté Erika. Poi si voltò a guardarmi. Consapevole che qualunque cosa avessi detto avrei solo peggiorato la situazione,preferiistarezitto. Finsi di osservare con interesse il cucchiaino da caffè che tenevo in mano. Neanche fossi un archeologo allo studio di un reperto trovato in un’antica tomba egizia. – Cosa intendi con «scambioculturale»?–chiese ErikarivolgendosiaKitaru. – Be’, considerare le cose da una prospettiva un po’ diversa, accettare punti di vistanuovi…Pernoiduenon sarebbe affatto una cosa negativa,noncredi? – Questa sarebbe la tua ideadiscambioculturale? – Sí, ma quello che vorrei dire… – Benissimo! – decise Erika. Se avesse avuto a portata di mano una matita, l’avrebbe di sicuro spezzata in due. – Visto che lo suggerisci, diamoci pure a questo scambio culturale –. Poibevveunsorsoditè,posò latazzasulpiattino,esivoltò versodime.Sorrise. – Allora, Tanimura. Visto che Aki, qui, si è tanto impegnato per combinare questacosa,laprossimavolta usciamo solo in due, tu e io. Saràbellissimo!Quandotiva bene? Non sapevo cosa rispondere. Non trovare le parole adatte nei momenti critici è uno dei miei problemi. Avevo cambiato città e modo di parlare, ma noneroriuscitoaliberarmidi queldifettodibase. Erika prese dalla borsa un’agendina di pelle rossa e la sfogliò per controllare i suoiimpegni. –Questosabatoseilibero? –michiese. – Sí, per sabato non ho programmi,–dissi. – Perfetto, allora è deciso. Sabato. Dove potremmo andare,noidueinsieme? – A lui piace il cinema, – intervenneKitaru.–Sognadi scrivere sceneggiature di film, in futuro. Si è pure iscrittoaungruppochestudia sceneggiatura. – Ottimo, allora andiamo al cinema. Che cosa potremmo vedere? Be’, deciditu.Amenonpiacciono i film horror, ma a parte quelli,mivatuttobene. – Figurati che lei si spaventapernulla,–midisse a quel punto Kitaru. – Una volta, da bambini, al luna park, nella casa dei fantasmi per tutto il tempo mi ha tenutolamano… – E dopo il film, – lo interruppe Erika, – possiamo cenare insieme tranquilli da qualche parte –. Proferite lentamente quelle parole, scrisse il suo numero di telefono su un notes, strappò il foglietto e me lo porse. – Questo è il mio numero. Quando hai deciso il posto e l’ora dell’appuntamento, mi chiami? Io all’epoca non avevo il telefono (vorrei che comprendeste che tutto questo accadeva quando i cellulari non esistevano nemmeno nella fantasia), quindi le diedi il numero del caffè dove lavoravo. Poi gettai un’occhiata al mio orologio. – Scusatemi, ma ora devo andare, – dissi, cercando di assumere il tono piú disinvolto. – Devo terminare unarelazioneentrodomani. – Ma cosa te ne frega, di quella roba? – fece Kitaru. – Vistochesiamoquituttietre, stiamoancoraunpo’insieme a parlare. Qui vicino c’è un postodovefannodegliottimi soba… Erikanonsipronunciò.Io posai sul tavolino quel che dovevo per il mio caffè e mi alzai. – Scusate, ma è una relazionemoltoimportante,– farfugliai. Anche se in realtà nonloeraaffatto.–Domanio dopodomanitichiamo,–dissi aErika. –Aspettolatuatelefonata, – rispose lei, facendomi un bellissimosorriso.Fintroppo affabile per essere sincero, pensai. Dopoaverlasciatoglialtri due nel caffè, mentre camminavoversolastazione, continuavo a chiedermi cosa diavolo ci facessi in quel posto.Ancherimuginaresulle decisioni prese era uno dei mieiproblemi. Il sabato succesivo, con Erika ci incontrammo a Shibuya e andammo insieme a vedere un film di Woody Allen ambientato a New York. Perché dopo aver parlato un poco con lei, mi ero fatto l’idea che Woody Allen le sarebbe piaciuto. Inoltre pensavo che Kitaru non era il tipo da portarla a vedere quel genere di film. Per fortuna ci avevo azzeccato, uscimmo dal cinema tutti e due soddisfatti e di buonumore. Ormai era sera. Dopo una breve passeggiata nel quartiere di Sakuragaoka,entrammoinun ristorantinodovemangiammo una pizza e bevemmo del Chianti.Unpostoallabuona, nonmoltocaro.Lelucierano basse, su ogni tavolo c’era unacandelaaccesa(all’epoca, nella maggior parte dei ristoranti italiani si cenava a lumedicandela,eletovaglie eranoaquadri).Parlammodi tante cose, del film appena visto,dellenostregiornateda studenti, dei nostri interessi. Il genere di conversazione chepossonoavereunragazzo e una ragazza al secondo anno di università la prima voltacheesconoinsieme(per cosídire).Ilnostrodialogofu piú vivace di quanto avessi previsto, lei rise di gusto diverse volte. So che non spetta a me dirlo, ma ho un vero talento per far ridere le ragazze. – Ho saputo da Aki che ti seiseparatodapocodallatua ragazza,conlaqualestavifin daitempidelliceo,–midisse Erika. – Sí, – risposi. – Siamo stati insieme quasi tre anni, ma alla fine non ha funzionato.Peccato,però. – Aki mi ha detto che vi siete lasciati per problemi di sesso. Cioè… Insomma, lei non ti dava quello che tu volevi? – È stata una delle cause. Ma non l’unica. Se l’avessi amata davvero, profondamente, avrei portato pazienza. Se avessi avuto la certezza di esserne innamorato, insomma. Ma nonloero. Erikaannuí. –Ancheseavessimofatto tutto, sarebbe finita allo stesso modo. Quando sono venuto a Tōkyō, con la distanza,apocoapocomene sono reso conto. Certo è un peccato che sia andata cosí, maerainevitabile,credo. – Ed è stato difficile, per te? –Inchesenso? – Cioè, ritrovarti solo, tutt’auntratto. – In certi momenti sí, – risposisinceramente. –Forse,però,dagiovaniè necessario fare qualche esperienza dolorosa, passare qualchemomentodifficile.In una certa misura. È un modo percrescere,no? –Èquellochepensi? –Sí.Ècomeperglialberi. Per diventare alti e robusti, hanno bisogno di resistere a un inverno lungo e rigido. In un clima mite, mai troppo freddo,iltroncononpotrebbe formare un anello dopo l’altro. Provai a figurarmi gli anelli che si erano formati dentro di me. L’unica immagine che mi apparve fu quella di una fetta di Baumkuchen vecchio di tre giorni. Quando glielo dissi, leirise. – È vero, forse le persone hanno anche bisogno di attraversare un periodo duro, –aggiunsi.–Acondizionedi saperecheprimaopoifinirà. Dinuovoleirise. –Tranquillo,–midisse.– Ora che ti conosco un po’, sono sicura che presto troveraiunabravaragazza. – Magari, – risposi. Già, magari. Per qualche minuto Erika rimase in silenzio, stava riflettendo. Nel frattempo io mangiavolamiapizza. – Senti, vorrei parlarti di una cosa. Hai voglia di ascoltarmi?–michiesepoi. –Naturalmente,–dissi.Ci risiamo, pensavo intanto, si sta mettendo male. Sentirmi chiedereconsigliosuqualche questione grave da gente appena conosciuta era un altro dei miei problemi. Inoltre qualcosa mi diceva – leprobabilitàeranoalte–che Erika stava per tirar fuori un argomento non particolarmentepiacevoleper me. – In questo momento ho moltidubbi,–esordílei. I suoi occhi si mossero lentamente da destra a sinistra, come quelli di un gatto che stia cercando qualcosa. – Di sicuro ti sarai reso conto anche tu che Aki, nonostante sia già al suo secondo anno da rōnin, non sta affatto studiando per l’esame di ammissione. Al corso preparatorio ci va quando ne ha voglia. Di conseguenza non lo passerà nemmeno questa volta, ci puoi scommettere. Naturalmente, se mirasse a un’università di livello piú basso, da qualche parte riuscirebbe a entrare, ma non so perché, lui ha in mente solo Waseda. È convinto che Waseda sia l’unica opzione. A me pare un’idea del tutto senza senso, ma qualsiasi cosa gli dica, qualsiasi cosa glidicanoisuoigenitoriegli insegnanti, da quell’orecchio noncisente.Maalloraperché non si mette a studiare sul serio,perchénonsiimpegna? Invecenonfaunbelniente. – Secondo te perché non studia? – Perché è convinto che per passare un esame di ammissione basta avere fortuna, – disse Erika. – Per lui preparare un concorso equivaleasprecareilproprio tempo, a dissipare la propria vita.Nonriescoacapiredove sia andato a pescare un’idea tanto assurda, c’è da non crederci. Anchequelloeraunpunto di vista, pensai, ma naturalmente me lo tenni per me. Erikafeceunsospiro. – Alle elementari, – proseguí, – studiava, era bravissimo. Era sempre fra i primi della classe. Ma dalle medieinpoihacominciatoa prendere voti sempre peggiori, era come se scivolasse giú per una china. Ha un lato geniale, ed è intelligente,manonèportato perlostudiometodico,nonè nel suo carattere. Non è adatto al sistema-scuola, fa solo quello che gli pare, fa sempre di testa sua. È l’opposto di me. Io non sono tanto intelligente, ma studio con diligenza, con perseveranza. Per quel che mi riguardava, non avevo passatomoltotemposuilibri, ma ero entrato all’università senza problemi. Probabilmente avevo solo avutofortuna. – Io ad Aki voglio bene. Ha tanti lati bellissimi, come persona. Ma a volte trovo le sueideeeccessive,nonriesco aseguirlo.Prendiquestacosa deldialetto.Perchéqualcuno, nato e cresciuto a Tōkyō, deve sforzarsi di parlare nel dialetto del Kansai? Non ha senso.All’iniziopensavoche lofacessepergioco,manonè cosí. Fa sul serio, e lo proclama. – Può darsi che volesse cambiare, che volesse diventare una persona nuova, –dissi.Insomma,chefacesse il mio stesso percorso, in sensoinverso. – E a questo scopo deve parlare sempre e solo nel dialettodelKansai? –Già,èverocheèun’idea unpo’eccessiva. Erika prese in mano una fettadipizzaeneaddentòun pezzo delle dimensioni di un francobollo. Lo masticò a lungoconconsiderazione,poi disse: – Senti, Tanimura, se ne parloate,diquestacosache sto per dirti, è perché non saprei a chi altri parlarne. Ti secca? – No, affatto, – risposi. Chesceltaavevo? – In genere, quando due ragazzi stanno insieme da tanto tempo, di solito lui desiderafisicamentelei,no? – Be’, sí, in genere credo chesiacosí. – Dopo averla baciata, dovrebbe cercare di spingersi oltre,no? – Sí… cioè, normalmente èquellochesuccede. –Succedevaancheate? –Certo. – Ad Aki invece no. Lui noncercamaidiandareoltre i baci, nemmeno quando siamosoli. Ci misi un po’ di tempo per trovare una risposta sensata,leparoleadatte. – Ma è una cosa che cambia da individuo a individuo, ognuno di noi desidera cose diverse. Kitaru ti ama, è ovvio, ma forse la tua presenza per lui è troppo familiare, troppo ovvia, ed è per questo che il suo sentimento non si sviluppa nella direzione che ci si aspetterebbe. –Lopensiveramente? – Non è che ne sia sicuro al cento per cento, – dissi scuotendo la testa. – Perché non ho mai avuto un’esperienza simile. Dico soloche«magarièquelloche stasuccedendo». –Avoltemichiedoselui midesideridavvero. – Figurati se non ti desidera! Semplicemente si vergognaadammetterlo. – Ma abbiamo tutti e due vent’anni!Noncisidovrebbe piú vergognare, alla nostra età. – Forse il tempo trascorre in modo diverso per ognuno dinoi,–dissi. Erikacipensòsu.Quando rifletteva su qualcosa, lo faceva con concentrazione, senzadistrarsi. – Forse lui, nel suo modo particolare, unico, sta seriamente cercando qualcosa, – proseguii. – In maniera pulita, onesta, con i suoi tempi. Però ancora non sabenecosa.Diconseguenza non riesce a progredire in armonia con tutto quello che lo circonda. Quando non si hanno le idee chiare, la ricerca diventa qualcosa di estremamentedifficile. Erika alzò il viso e per qualche secondo mi guardò dritto negli occhi, senza parlare.Nellesueiridinerela fiamma della candela accendeva due punti luminosi. Non riuscii a sostenereilsuosguardo,tanto erabello. – Naturalmente tu lo conosci molto meglio di me, – dissi con l’aria di giustificarmi. Leifeceunaltrosospiro. – Senti, – disse poi, – voglio dirti la verità: oltre ad Aki, ho un altro. Un ragazzo del mio stesso club di tennis, unodelterzoanno. Questa volta fui io a restareinsilenzio. – Ad Aki voglio molto bene. Non credo che potrei nutrire per un altro il sentimento profondo e istintivo che ho per lui. Stare lontana da Aki mi addolora, fisicamente,miprovocadelle fitte nel petto. Come quando si ha un dente cariato. Sul serio. Una parte del mio cuore gli appartiene. Al tempo stesso, però… al tempostessoc’èinmeilforte desiderio di conoscere altro, di provare altro. Chiamala curiosità,ovogliadimettermi allaprova…Eanchequestoè qualcosa di molto naturale, che non potrei reprimere nemmenovolendo. Come una pianta robusta che non si riesce a contenere inunvaso,pensai. – Quando dico che sono confusa, intendo proprio questo. –Intalcaso,èmeglioche neparliapertamenteaKitaru, – risposi scegliendo attentamente le parole. – Se gli nascondi che ti vedi con un altro, e per qualche ragione lui lo viene a sapere… be’, gli farai veramenteunabruttacosa,ne resteràferito. – Ma credi che lui possa accettarlo?Ilfattocheiostia conunaltro,cioè? –Sí,credochesiaingrado dicapirequellocheprovi… –Lopensidavvero? –Be’,sí,però… Kitaru probabilmente poteva comprendere i vacillamenti e le esitazioni che turbavano il cuore di Erika. Perché li conosceva anchelui.Inquelsenso,quei due avevano senza dubbio molto in comune. Tuttavia non ero affatto sicuro che riuscisse a digerire senza problemi quello che lei stava – forse – facendo. Da quel che potevo giudicare, Kitaru non era una persona molto forte. Ma probabilmente avrebbe sopportato ancora meno che lei gli nascondesse qualcosa,ocheglimentisse. Erikaosservòinsilenziola fiamma della candela che tremolava al soffio d’aria proveniente dal condizionatore. – Faccio spesso un sogno, – disse a un certo punto. – Sono con Aki su una nave. Una grande nave che fa una lunga traversata. È notte fonda, noi siamo nella nostra piccola cabina, e dall’oblò vediamo in cielo la luna piena. Ma è una luna fatta di ghiacciotrasparente.Lametà inferioreèimmersanelmare. «Quellasembralaluna,main realtà è un pezzo di ghiaccio spesso forse venti centimetri, – mi spiega lui. – Domani mattina, quando si leverà il sole, si scioglierà. Quindi guardala bene adesso, finché la puoi vedere». È un sogno che ho fatto e rifatto non so quantevolte.Unsognomolto bello. La luna è sempre la stessa. Lo spessore pure, venti centimetri. La metà inferioreèimmersanelmare. Io sono appoggiata contro Aki e la luna splende, stupenda.Siamonoiduesoli, il rumore delle onde è piacevolissimo. Eppure quando mi sveglio provo sempre una gran tristezza. Perchélalunadighiaccionon èpiúvisibile. Erikafeceunapausa. – Se Aki e io potessimo restare indefinitamente cosí, noi due soli su quella nave, sarebbe meraviglioso. Ogni sera ci stringeremmo l’uno all’altra e guarderemmo la luna di ghiaccio dall’oblò. Il mattino la luna si scioglierebbe, ma la sera apparirebbedinuovo.Oppure no. Forse una sera non la si vedrebbe piú. Questo pensiero mi spaventa. Mi chiedo che sogno farò domani, e provo una paura tale che sento il mio corpo contrarsitutto. Il giorno dopo, quando incontrai Kitaru nel caffè dove lavoravo, lui mi chiese subito com’era andata con Erika. –L’haibaciata? – No, figurati! Perché avreidovutofarlo?–risposi. –Micamelaprendo,sai? – Comunque sia, non l’ho baciata. –Malehaitenutolamano fraletue… –No,neanchequello. –Alloracos’avetefatto? – Siamo andati al cinema, abbiamo passeggiato, abbiamo cenato insieme, parlato. –Tuttoqui? – Di solito, la prima volta chesiesceinsieme,micasifa niente. – Ah, davvero? – fece Kitaru. – Sai, non ho molta esperienza in questo campo. Nonnesogranché. –Peròsonostatobenecon lei. Se fosse la mia ragazza, non mi staccherei mai da lei, mai,innessuncaso. Kitaruriflettéunmomento sulle mie parole. Stava per dire qualcosa, poi cambiò ideaeselotennepersé. –Ecos’avetemangiato?– chiesepoi. Gli raccontai della pizza e delChianti. –PizzaeChianti?–Kitaru pareva sorpreso. – Non sapevo che le piacesse la pizza. Con lei andiamo sempre a mangiare soba o roba del genere. In posti a menu fisso. Ah, cosí le piace il vino? Non sapevo nemmeno che reggesse l’alcol. Kitarueraastemio. –Cisonotantecosedilei chenonconosci,–dissi. SurichiestadiKitaru,feci un resoconto dettagliato dell’incontro. Voleva sapere tutto: com’era il film di Woody Allen che avevamo visto (dovetti raccontare per filo e per segno persino la trama),ilristorante(aquanto era il menu fisso? Avevamo pagato metà per uno?), com’era vestita lei (aveva un abito di cotone bianco, e i capelli tirati su), che biancheria intima aveva addosso (come potevo saperlo?), di cosa avevamo parlato… Naturalmente non glidissichesieramessacon uno un po’ piú grande di lei. E nemmeno del sogno in cui apparivaunalunadighiaccio. – Vi siete accordati per incontrarvidinuovo? –No. –Perché?Leinontipiace? –Anzi,latrovofantastica. Manonèunacosachepossa continuare. È la tua ragazza, no? Di baciarla proprio non melasento.Anchesenonhai nullaincontrario,comedici. Di nuovo Kitaru ci pensò unpo’su. – Sai, verso la fine della scuola media, ho cominciato ad andare periodicamente dallo psicologo. Sono stati i miei genitori a volerlo, e anchegliinsegnanti.Perchéa scuola creavo problemi. Insomma, dicevano che non ero«normale».Manonèche andaredallopsicologomisia servito a qualcosa, non mi pare proprio. Quelli se la tirano tanto, ma sono una manica di cialtroni. Se basta ascoltarelagentedicendo«sí, sí…»efacendofintadicapire tutto,sonobuonoanch’io. – Ci vai ancora, dallo psicologo? – Sí, circa due volte al mese. Tanto varrebbe buttare i soldi nel cesso. Non te l’ha detto,Erika? Scossilatesta. – Sinceramente, non capisco perché tutti trovino che nel mio cervello c’è qualcosa che non va. A me sembra di fare cose normalissime in modo normalissimo. Invece mi sento sempre ripetere che sonostrano. – Be’, è vero che ci sono aspetti un po’ insoliti, nella tuapersonalità,–dissi. –Adesempio?Quali? –Adesempio,’stacosadi parlare nel dialetto del Kansai. Fin troppo bene, per esserediTōkyō. Kitaru riconobbe che su questoavevoragione. – Lo ammetto, è un po’ fuoridell’ordinario. – È una cosa che può anchedarefastidio. –Sarebbeadire? –Be’,lagentenormaledi solitononarrivaatanto. –Sí,puòessere… – Però, da quel che posso vedere io, per quel che ne so io, in realtà non rompi le scatole a nessuno, anche se faicosestrampalate. –Peradesso. – E allora dov’è il problema? – sbottai. In quel momento ero forse un po’ irritato (ma non so bene con chicel’avessi),emirendevo conto di parlare in tono brusco. – Cosa c’è che non va? Se «per adesso» non dai fastidio a nessuno, non è sufficiente? O pensi che possiamo capire qualcos’altro, al di là di quanto succede ora? Se vuoi parlare nel dialetto del Kansai, fallo! Fallo quanto vuoi,finoacreparne!Senon vuoi studiare per l’esame di ammissione, non studiare. Se non vuoi infilare la mano nelle mutande di Erika, nessuno ti obbliga. È la tua vita. Fai quel cavolo che ti pare! Cosa te ne frega di dar fastidioaglialtri! Impressionato, Kitaru mi guardavaaboccaaperta. – Sei davvero un tipo a posto, tu, Tanimura, – mi disse.–Ancheseognitantoti comporti in modo un po’ tropponormale. –Noncipossofareniente, – risposi. – Non posso cambiarmiilcarattere. – Hai ragione. Il carattere non lo si può cambiare. È esattamentequellochevoglio dire. – Sí, però Erika è una ragazzafantastica.Econtefa sul serio. Cerca di non lasciartela scappare, qualunque cosa accada. Perché una cosí non la trovi piú. – Lo so. Lo so bene. Ma saperlo non mi basta, non mi serveaniente. –Be’,tutelacantietela suoni! Due settimane dopo, Kitaru lasciò il lavoro al caffè. Tutt’a un tratto non si fece piú vedere, senza dare alcun preavviso. In quel periodoc’eramoltodafare,e il padrone del locale era furibondo. «Un bell’incosciente, quello lí!», sbraitava. Kitaru non tornò neancheperfarsidarelapaga dell’ultima settimana. Il padrone mi chiese se sapessi dove abitava, ma io dissi di no. Era la verità, non conoscevo né il suo numero ditelefono,néilsuoindirizzo esatto. Avrei saputo ritrovare la sua casa a Dennenchōfu, e avevoilnumerodiErika,ma eratutto. Kitaru non mi aveva messo al corrente della sua intenzione di lasciare il lavoro, e anche dopo non si fece sentire. Scomparve completamentedallamiavita. E io ci rimasi molto male. Credevo che mi fosse veramente amico, e il fatto chemiavessepiantatoinasso con tanta facilità era duro da mandargiú.All’infuoridilui, aTōkyōnonavevofattoaltre amicizie. Unacosaperòmidavada pensare: negli ultimi due giorni Kitaru era diventato stranamente taciturno. Anche quando ero io a parlargli, spesso non rispondeva. Poi era sparito cosí, di punto in bianco. Avrei potuto telefonareaErikaechiederle dilui,maperqualcheragione non mi andava di farlo. Che se la vedessero tra di loro, quei due, non erano affari miei. Questo pensavo. Non volevo essere coinvolto oltre nella loro complessa relazione, non mi pareva una cosa sana. Bene o male, dovevo continuare a vivere nel piccolo mondo insignificante appartenevo. cui Capii subito che era lei, Kuritani Erika. L’avevo vista solo due volte in vita mia, e dall’ultima erano passati sedicianni.Eppureerosicuro di non sbagliarmi. Aveva ancora un viso espressivo e vivace,eraancorabellissima. Indossava un vestito di pizzo nero, scarpe nere dai tacchi alti,ealcolloflessuosoaveva duefilidiperle.Ancheleimi riconobbesubito.Laincontrai aunadegustazionediviniche aveva luogo in un albergo di Akasaka. Trattandosi di un party formale, anch’io indossavo un abito scuro e avevo messo la cravatta. Se dovessi spiegare perché mi trovassi in un posto del genere, andrei per le lunghe. Lei faceva parte dell’agenzia pubblicitaria che aveva sponsorizzato l’evento, della cui realizzazione era la responsabile. E a quanto pareva, aveva lavorato molto bene. –Perchédopoquellavolta non mi hai piú chiamata, Tanimura? – mi chiese. – Avrei voluto parlarti ancora ditantecose. –Perchéeriunpo’troppo bellaperme. Leisorrise. – Fa piacere sentirselo dire,ancheseèunalusinga. – Non ho mai fatto lusingheinvitamia. Il suo sorriso si accentuò. Però io avevo detto la verità, non era mia intenzione lusingarla. Erika era troppo bella perché io potessi pensare seriamente a mettermi con lei. Sia all’epoca, sia ora. Inoltre il suo sorriso era troppo soave peresseresincero. – Poco tempo dopo ho chiamato il caffè dove lavoravi, ma mi hanno detto cheten’eriandato. Dopo la scomparsa di Kitaru, il lavoro mi era venuto terribilmente a noia, cosí, passate due settimane, mierolicenziato. Erikaeiociraccontammo a grandi linee cos’avevamo fatto dall’ultima volta che ci eravamovisti.Dopolalaurea, ioavevotrovatopostoinuna piccola casa editrice dove avevo lavorato per tre anni, poiavevodatoledimissionie daalloramidedicavosoltanto alla scrittura, per conto mio. A ventisette anni mi ero sposato. Per il momento non avevo figli. Erika invece era ancora single. Lavorava molto–lafacevanosgobbare dal mattino alla sera – e non aveva certo il tempo di pensare al matrimonio, disse scherzando. Ma qualcosa in lei faceva supporre che in quei sedici anni avesse avuto molti fidanzati. Fu lei a parlarmiperprimadiKitaru. –AdessoAkifailcuocoa Denver.Fasushi,–disse. –ADenver? – Sí, in Colorado. Perlomeno, è quello che ha scrittoinunacartolinachemi hamandatoduemesifa. –EperchéaDenver? – Non lo so! La cartolina precedente, che risale a circa unannofa,venivadaSeattle: anche lí lui faceva sushi. Ogni tanto sembra ricordarsi di me e mi scrive. Sempre cartoline illustrate demenziali, sulle quali butta giú due righe. Non mette neancheilsuoindirizzo. –Cosísièmessoafareil cuocodimestiere…–dissi.– Quindi in conclusione all’universitànoncièandato? Erikafececennodino. –Quell’anno,versolafine dell’estate, improvvisamente ha dichiarato che rinunciava all’esame d’ammissione. Che continuare a prepararsi era solo una perdita di tempo. E si è iscritto a un corso di cucina a Ōsaka. Diceva che voleva studiare seriamente la cucina del Kansai, e avere la possibilità di andare allo stadio Kōshien quando gli pareva. Naturalmente gli ho chiesto che cosa avesse in mente: prendere da solo una decisione cosí importante e trasferirsi a Ōsaka… e con me, cos’aveva intenzione di fare? –Eluicos’hadetto? Erika taceva, le labbra serrate. Come se volesse dire qualcosa, ma temesse di non riuscire a frenare le lacrime appena avesse aperto bocca. Con il rischio di rovinare il trucco accurato degli occhi. Cambiaisubitoargomento. – L’ultima volta che ci siamo visti, abbiamo bevuto Chianti in un ristorante italianodiShibuya.Eoggici incontriamo a una degustazione di vini californiani della Napa Valley. Se ci pensi, è una stranacoincidenza. –Ricordobene,–disselei, che si era ripresa. – Quel giornoabbiamovistounfilm di Woody Allen. Che film era? Ledissiiltitolo. –Unbelfilm,divertente. Concordavo con lei. Era una delle prime opere del regista. – E con quel tuo compagno del club di tennis, com’èpoiandata?–chiesi. Erikascosselatesta. – Non bene, purtroppo. Perché…Nonso,cimancava qualcosa per essere veramente in sintonia. Siamo stati insieme sei mesi, poi ci siamolasciati. – Posso farti una domanda? Una domanda un po’indiscreta. – Certo. Ammesso che possarispondere. – Non ti offendere, per favore. –Ciprovo. –Ciseiandataaletto,con quelragazzo? Erika mi guardò con aria sbalordita. E arrossí leggermente. – Scusa, Tanimura, ma perché a questo punto te ne vieniconquestacosa? – Già, perché? Il fatto è che questo dubbio mi ha sempre intrigato un po’. Ma ho detto un’idiozia, ti chiedo perdono. Erikafececennodino. –No,nonimporta,–disse. – Non sono offesa. Semplicemente stupita, non mi aspettavo una domanda del genere, di punto in bianco. Su qualcosa che è accadutotantotempofa. Mi guardai lentamente attorno. Gente vestita in abiti formali assaggiava vini da bicchierichetenevainclinati. Bottiglie di pregio venivano stappate una dopo l’altra. La giovanepianistasuonavaLike SomeoneinLove. –Larispostaèyes,–disse Erika.–Conquelragazzoho fatto sesso non so quante volte. – Per curiosità, desiderio dimettertiallaprova… Erikaaccennòunsorriso. – Esatto. Ero curiosa, e volevomettermiallaprova. –Ècosícheformiamogli anellidelnostrotronco. –Selodicitu… –Emagarihaiavutoperla prima volta un rapporto completoconluipocodopoil nostroincontroaShibuya… Erika sfogliò le pagine dellamemoria. –Èvero.Èsuccessocirca una settimana dopo, credo. Mi ricordo bene di quel periodo. Perché per me «quella» era un’esperienza nuova. – Quindi Kitaru aveva visto giusto, – dissi guardandolanegliocchi. Lei distolse lo sguardo, presefraleditaleperledella collana, una dopo l’altra, come se volesse controllare che ci fossero tutte. Poi fece un lieve sospiro, quasi le fosse tornato in mente qualcosa. –Già,èpropriocomedici tu.Akiavevavistogiusto. – Ma in conclusione con quel ragazzo non ha funzionato. Erikafececennodino. – Purtroppo sono un po’ imbranata, io, – disse. – Ho semprebisognodiprenderele cose alla larga, di fare delle diversioni. Probabilmente è quello che continuo a fare ancoraadesso. Tutti noi facciamo sempre delle diversioni, avrei voluto dirle, ma rimasi in silenzio. Tirar fuori frasi fatte tutti i momenti è un altro dei miei problemi. – Credi che Kitaru si sia sposato?–chiesi. – Per quel che ne so io, è ancorasingle,–risposeErika. – Perlomeno, non mi ha mai mandato una partecipazione dinozze.Èpossibilechenon siamofattiperilmatrimonio, néluinéio,dopotutto. – Oppure ognuno di voi sta semplicemente facendo unalungadiversione. –Puòdarsi. – Non è ipotizzabile che prima o poi vi incontriate di nuovo, e vi rimettiate insieme? Erika abbassò lo sguardo ridendo,conunpiccolocenno di diniego. Un gesto di cui non compresi bene il significato. Forse voleva dire che escludeva quella possibilità. Oppure che immaginare una cosa del generenonservivaanulla. – Sogni ancora la luna di ghiaccio?–lechiesi. Lei sollevò il viso di scatto,sorpresa,emiguardò. Finalmente un vero sorriso apparve sul suo volto. Lentamente, mettendoci tutto il tempo necessario. Un sorrisosinceroespontaneo. –Tiricordiancoradiquel sogno? –Sí,nonsoperché. – Anche se non l’hai sognatotu? – I sogni all’occorrenza si possono prendere in prestito, ne sono sicuro –. Decisamente non sapevo evitarelefrasifatte. –Èunpensierobellissimo, – disse Erika. Il sorriso le aleggiavaancorasullabocca. Qualcunoallesuespallela chiamò. Era ora di tornare al lavoro. – No, ormai quel sogno non lo faccio piú, – mi disse allafine.–Maancoraadesso lo ricordo perfettamente. La scena,l’atmosfera,quelloche provavo… non è qualcosa chepossadimenticare.Nonlo dimenticheròmai,credo. Dette queste parole, Erika guardò un punto lontano, oltre le mie spalle. Come se cercasseunalunadighiaccio nel cielo notturno. Poi si voltò bruscamente e si allontanò a passo veloce. Forse andava alla toilette a rifarsiiltruccoagliocchi. Se per caso, quando sto guidando, alla radio sento Yesterday dei Beatles, il mio pensiero va subito a quei versi assurdi che Kitaru cantavanellavascadabagno. E rimpiango sempre di non averli annotati da qualche parte. Erano talmente strani cheperuncertoperiodoliho tenuti a mente, poi ho cominciato a confonderli, finchélihoscordatiquasidel tutto. Ne ricordo solo alcuni passaggi,manonsonosicuro che siano proprio identici a quelli che cantava Kitaru. I ricordicambianodicontinuo, èinevitabile. Quandoavevopiúomeno vent’anni, diverse volte mi sono sforzato di tenere un diario, ma non ci sono mai riuscito veramente. Intorno a me accadevano una dopo l’altratantediquellecoseche riuscivo a malapena a starci dietro, e non avevo certo il tempo o la possibilità di fermarmiperprenderenotadi ogni singolo evento. In piú, gran parte di questi eventi non erano di natura tale da farmi ritenere indispensabile segnarlidaqualcheparte.Per quel che mi riguardava, era già tanto se riuscivo a tenere gli occhi aperti, respirare regolarmente e avanzare di qualchepassonelfortevento di prua che mi investiva in pieno. Stranamente, però, conservounvividoricordodi Kitaru.Siamostatiamicisolo per qualche mese, ma ogni volta che dalla radio mi arrivanolenotediYesterday, mi rivedo insieme a lui, rammento le sciocchezze di cui parlavamo per ore nel bagnodicasasua:lecarenze della line up degli Hanshin Tigers, i vari problemi che comportava il sesso, l’inutilità di studiare per l’esamediammissione…ela cronistoria della scuola elementare di Dennenchōfu, la differenza concettuale tra l’oden 2elacucinadelKantō, la ricchezza emotiva del dialetto del Kansai… E ricordolavolta–l’unica–in cui, indotto da Kitaru, uscii conErika.Tuttoquellocheci dicemmo in quel ristorante italiano, seduti uno di fronte all’altra con una candela accesa tra noi. Sono cose ancora fresche nella mia memoria, come se fossero accaduteieri.Lamusicahail potere di resuscitare i ricordi con tale fedeltà, con tale intensità, che a volte fanno male. Ma quando cerco di rievocare i miei vent’anni, l’unica cosa che mi torni in mente è la mia sconfinata solitudine. Non avevo un amore che mi scaldasse il corpoeilcuore,néunamico cui poter confidare senza remoreimieisentimenti.Non sapevo cosa fare delle mie giornate, non riuscivo a immaginareilmiofuturo.Me nestavoquasisemprechiuso inmestesso,alpuntodanon parlareconnessunoancheper una settimana intera. Ho vissuto cosí per un anno. Un anno lunghissimo. Quel periodo è stato per me un duro inverno, ma non saprei giudicare se abbia formato dentrodimeanellipreziosi. Eracomeseaquell’epoca anch’io ogni sera vedessi, al di là di un oblò, una luna di ghiaccio. Una luna dura, gelida e trasparente, dello spessore di venti centimetri. Accanto a me però non c’era nessuno. La guardavo da solo, senza condividere con altri l’impressione di fredda bellezzachemitrasmetteva. Ierièl’altroierididomani ildomanidell’altroieri… Spero davvero che a Denver, o in qualche altra cittàincapoalmondo,Kitaru conduca una vita felice. O se nonpropriounavitafelice,se è chiedere troppo, gli auguro perlomeno di passare questa giornata bene, senza problemi. Nessuno può sapere cosa sogneremo domani. 1 Inorigine,samuraichenonha piú un signore. Attualmente il termine indica uno studente che, non avendo superato l’esame d’ammissione all’università, trascorre l’anno scolastico a preparare il concorso per l’anno seguente[N.d.T.]. 2 Piatto della regione del Kansai. Sorta di stufato brodoso che contiene diversi ingredienti: uova sode, polpo, patate, uova di quagliafritte,alga,pesceocarnee altroancora[N.d.T.]. Organoindipendente Ci sono persone che, pur essendo prive di particolari tortuosità e inquietudini, riesconoacomplicarsilavita inmanierasorprendente.Non sono moltissime, ma a volte se ne incontrano. Il dottor Tokaieraunadiqueste. Gli individui di tal fatta, per poter adattare la propria personalità, per cosí dire rettilinea, al tortuoso mondo circostante,inqualchemisura sono obbligati a effettuare degli aggiustamenti, senza rendersi conto che finiscono col guastarsi le giornate con fastidiosi stratagemmi. Sono fermamente convinti di condurre una vita semplice e onesta, priva di zone d’ombra, esente da espedienti. Cosí, quando per qualche episodio fortuito una luce nuova viene tutt’a un trattoamostrarel’artificiosità e l’innaturalezza del loro operato,finisconocoltrovarsi in situazioni a volte amare, a volte comiche. Ovviamente molte di queste persone sono tantofortunate(nonlesipuò definirediversamente)danon avere mai, per tutta la vita, questailluminazione. Vorrei raccontare qui brevemente quanto sono venuto a sapere riguardo al dottor Tokai. La metà di queste informazioni le ho avute direttamente da lui, ma in parte mi sono state raccontate da persone affidabili che lo conoscevano bene. Altre sono mie congetture personali, basate sull’osservazione diretta del suocomportamentoabituale– di ciò che faceva e diceva. Come una pasta stesa a riempirelefessuretraunfatto e l’altro. Insomma, non è un ritrattobasatosudatiobiettivi e autentici quello che vi propongo. Di conseguenza, signori lettori, in quanto autorepossosoloconsigliarvi di considerare le cose qui narrate alla stregua di una prova processuale, o di una documentazione a conferma di una transazione (di che genere di transazione potrebbe trattarsi, non riesco nemmenoaimmaginarlo). Tuttavia, vi prego di indietreggiare di qualche passo (prima dovreste controllare che alle vostre spalle non ci sia un precipizio) e contemplare questo ritratto da una certa distanza: vi renderete conto che sapere se i dettagli siano veri o falsi è irrilevante. Avrete un’immagine tridimensionale e vivida del personaggio del dottor Tokai – perlomeno è quello che l’autore spera. Lui… come dire? Lui era un uomo che non lasciava spazio a fraintendimenti. Con questo, non sto cercando di farlo passare per una persona semplice e trasparente. Almeno in parte, era un uomo complesso, difficile da comprendere. Quali tenebre celasse in fondo alla propria coscienza, quale peccato originale si portasse sulla schiena come un fardello, io naturalmente nonlopossosapere.Tuttavia, vistocheilsuooperatoaveva una coerenza formale, mi sento di dire che la sua immagine globale è relativamente facile da presentare.Forsevisembrerà un giudizio arbitrario, ma in qualità di scrittore professionista, questa è l’impressione che ebbi di lui all’epoca. IldottorTokaiavevaquasi cinquantadueanni,manonsi era mai sposato. Né aveva mai convissuto con una donna. Da molti anni viveva solo in un appartamento di due camere e cucina al sesto piano di un palazzo signorile del quartiere di Azabu. Era insomma uno scapolo di ferro. Delle faccende di casa – cucinare, lavare, stirare, spolverare – si occupava lui stesso senza lamentarsi, solo due volte al mese ricorreva a unadonnadiservizio.Amava la pulizia, quindi rimboccarsi le maniche non gli pesava. All’occorrenza sapeva anche preparare dei buoni cocktail, e in cucina se la cavava piuttosto bene, le sue specialità andavano dal polpettone al branzino al cartoccio (come la maggior parte dei cuochi per hobby, non badava a spese nel procurarsi ingredienti di qualità, di conseguenza preparava piatti ottimi). Non aveva mai sentito la mancanza di una donna in casa, non si annoiava a stare solo, dormire solo non gli metteva tristezza. Perlomeno, questaeralasituazionefinoa uncertomomento. Era un chirurgo estetico. Dirigeva la Clinica estetica Tokai a Roppongi. L’aveva ereditata dal padre, che faceva lo stesso lavoro. Le occasioni di incontrare delle donne, va da sé, non gli mancavano.Nonsipuòcerto dire che fosse un bell’uomo, ma aveva un viso dai tratti piú o meno regolari (curiosamente non aveva mai pensato di sottoporsi lui stesso a un’operazione di chirurgia estetica), nella gestione della clinica era molto in gamba, e i suoi introitieranoelevati.Persona beneducata, dai modi eleganti, possedeva una buona cultura e sapeva conversare. Sulla testa aveva ancora tutti i suoi capelli (cominciavano a notarsi quelli bianchi, però), e con l’assiduafrequentazionedella palestrariuscivaaeliminarei chili di troppo che tendeva a metter su, conservando cosí un fisico giovanile. Di conseguenza – questo modo franco di esprimermi mi attirerà forse l’antipatia di molti – non gli erano mai mancate donne con cui andarealetto. Perqualcheragione,Tokai non aveva mai avuto il desiderio di sposarsi e farsi una famiglia. Convinto, chissà perché, di non esser tagliato per la vita matrimoniale, aveva sempre evitato di frequentare le donne, anche le piú affascinanti, che vedevano in luiunpossibilefuturomarito. Risultato:simettevasempree solo o con la moglie di un altro, o con qualcuna che aveva già un fidanzato, diciamo cosí, «prioritario». Se restava all’interno di questi confini era al sicuro, dato che cosí di certo non avrebbe corso il rischio di ritrovarsi sposato con qualcuna. In parole povere, Tokai per loro era o uno spensierato «fidanzato di riserva»,ouncomodopartner per una relazione adulterina. E a dire la verità, Tokai era un maestro nell’arte di mantenere questo genere di rapporto e mettere le signore a loro agio. Una relazione di tipodiverso,unlegameincui gli venisse chiesto, ad esempio, di prendersi la sua parte di responsabilità, lo avrebbe reso nervoso e di cattivoumore. Ilfattodinonessereilsolo a tenere le sue amanti fra le braccia,dicondividerequesto privilegio con altri uomini, non gli creava alcun problema. Un corpo, in fondo, è solo un corpo. Ne era convinto lui (soprattutto dal suo punto di vista di medico), e ne erano convinte le donne (soprattutto dal loro punto di vista di donne). A Tokai bastava che non avessero in mente un altro quando stavano in sua compagnia. Quello che pensavano o facevano prima odopo,eranoaffariloro.Non spettavaaluipreoccuparsene. Némettercibecco,questoera addiritturaimpensabile. Per Tokai, già solo pranzare o cenare con queste signore, bere e conversare con loro, era un sincero e genuino piacere. Il sesso era soltanto un modo di prolungarlo: un appagamento supplementare, diciamo cosí. Non era quello il suo obiettivo ultimo. A lui interessava soprattutto il rapporto confidenziale e intelligente con donne seducenti. Il resto veniva dopo. Motivo per cui queste ne rimanevano facilmente affascinate e apprezzavano senza ripensamenti il tempo passato con lui. Col risultato cheloaccoglievanocongioia nella loro intimità. Secondo me la maggior parte delle donne (tanto piú quelle che hanno fascino) considerano gli uomini che pensano solo al sesso dei molesti e superficiali egocentrici. Ma questa è soltanto una mia opinionepersonale. A volte Tokai si diceva che avrebbe dovuto contarle, le donne con le quali aveva avuto, in un arco di quasi trent’anni, questo tipo di relazione. Ma non nutriva alcun interesse per la quantità. Gli interessava soltanto la qualità. E non dava molto peso nemmeno all’aspetto delle sue amanti. Gli bastava che non avessero difetti tali da attirare il suo interesseprofessionale,enon fossero banali al punto da annoiarlo. L’aspetto, se lo si vuole veramente, e si spende ildenaronecessario,losipuò cambiare (in quanto esperto in materia, conosceva un numero sorprendente di casi delgenere).No,ledonneche Tokai apprezzava veramente erano quelle provviste di un cervello brillante, senso dell’umorismo, e spessore intellettuale.Quelleacortodi argomenti invece, quelle incapaci di formarsi un’opinione personale, piú erano belle, piú lo demoralizzavano. Non c’è operazione estetica che possa alzare le capacità intellettive di una persona. Conversare piacevolmente, durante una cena, con una donna in gamba dotata di presenza di spirito, o scherzare e dire mille sciocchezze con lei nel letto, pelle contro pelle: per Tokaieranoquelliimomenti piúpreziosi. Non gli era mai successo ditrovarsineiguaiacausadi un’amante.Nonavevaalcuna propensione per i torbidi viluppi emotivi. Se per qualche motivo vedeva addensarsi all’orizzonte infauste nubi foriere di complicazioni,erabravissimo auscirediscenasenzacreare scompiglioe,nellamisuradel possibile, senza ferire la signorainquestione.Inmodo rapido e naturale, cosí come l’ombradellecosesidisperde all’approssimarsi della sera. Da scapolo inveterato qual era, eccelleva in questa tecnica. Separarsi dalle sue amanti era un evento periodico. La maggior parte delle donne fidanzate,auncertopuntogli dicevano:«Sonodesolata,ma non mi sarà piú possibile vederti. Fra poco mi sposo». Di solito erano ben determinateaconvolarepoco prima dei trent’anni, altre volte dei quaranta. Forse per lo stesso motivo per cui si fa caso ai calendari soprattutto verso la fine dell’anno. Di solitoTokaiaccoglievaquegli annunci con un sorriso tranquillo in cui metteva una giustadoseditristezza.Come a dire che era davvero desolato, ma si doveva rassegnare. L’istituzione del matrimonio non faceva per lui, però era sacra. Andava rispettata. In quelle occasioni comprava un regalo di nozze divalore,eloaccompagnava con parole d’augurio: «Tutte le mie congratulazioni, spero davvero che tu sia felice. Te lo meriti, sei intelligente, bella e affascinante». Parole cheesprimevanoconsincerità i suoi sentimenti: quelle ragazze gli avevano dato dei momenti meravigliosi, gli avevano dedicato, per genuina simpatia (probabilmente), un periodo prezioso della loro vita. Era un motivo sufficiente per esser loro grato. Cos’altro potevadesiderare,lui? Tuttavia, circa un terzo delle sue amanti che convolavano a giuste e liete nozze,passatialcunianni,un bel giorno gli telefonavano. «Senti, perché non ci vediamo, non facciamo qualcosa?», gli dicevano. E tornavano a stringere con lui un piacevole legame che non aveva nulla di sacro. Da un facile rapporto tra single, passavano a un rapporto un po’ piú complicato tra una donna sposata e un single (cosa che aveva il suo fascino). Ma quello che facevanoconTokai–aparte un notevole miglioramento tecnico – in pratica era lo stesso. I restanti due terzi delle donne che lo avevano lasciato per sposarsi, non lo cercavanopiú.Probabilmente conducevano una vita matrimoniale serena e soddisfacente. Erano diventate ottime padrone di casa, e avevano messo al mondo dei bambini. I loro splendidi seni che un tempo lui aveva accarezzato con dolcezza, adesso forse allattavano dei neonati. Contenteloro,contentitutti. Gli amici di Tokai erano quasituttisposati.Eavevano deifigli.Tokaiandavaspesso a trovarli, ma non aveva mai provato invidia per loro. I bambini finché erano piccoli erano abbastanza carini, ma quando diventavano adolescenti, tutti, senza eccezioni, cominciavano a odiareedisprezzaregliadulti, acercareunaqualcherivalsa, combinando guai e provocando ulcere ed esaurimenti ai loro genitori. Che, del resto, pensavano solo a far entrare i propri rampolliinscuoleprestigiose e discutevano fra loro di continuo, addossandosi reciprocamente la responsabilità dei risultati deludenti e degli insuccessi scolastici dei figli, motivo perennediirritazione.Quanto ai figli, a casa non aprivano quasi bocca, si chiudevano nelle loro stanze dove chattavanoall’infinitocongli amici, oppure passavano le ore assorti in qualche videogioco porno di natura non identificabile. Tokai non sentiva proprio la mancanza di siffatta prole. Gli amici avevano un bel dirgli, tutti quanti, che i figli, comunque lasimetta,sonopreziosi,non era il tipo da credere a frasi fatte. Forse cercavano semplicementedicondividere con lui il fardello che portavano sulla schiena. Tante persone sono convinte, chissà perché, che tutti abbiano il dovere di patire le lorostessedisgrazie. Per quel che mi riguarda, misonosposatogiovaneeda quelgiornohosemprevissuto con mia moglie, ma, non avendo figli, in una certa misura posso capirlo, Tokai. La sua convinzione può essere un po’ parziale, esagerata,unfiloretorica,ma tutto sommato penso che abbia ragione. Certo, lo so anche io che non esistono solo i casi disperati. Fortunatamente in questo vasto mondo esistono anche le belle famiglie felici in cui genitoriefiglivannod’amore e d’accordo dall’inizio alla fine (esistono sí, ma con la frequenza di una tripletta a calcio). Ma dubito che sarei potuto entrare nell’esiguo numero di questi genitori fortunati, né penso (anzi, sono convinto del contrario) checisarebberiuscitoTokai. Capitemi bene: Tokai era, per sintetizzare, una persona socievole. Privo (almeno in apparenza)diqueidifettiche inevitabilmente guastano l’equilibrio di una persona – testardaggine, complesso d’inferiorità, invidia, eccessivo orgoglio, suscettibilità –, non si arroccavasupregiudizieidee politiche irremovibili. Tutti quellicheglistavanointorno amavanoilsuoatteggiamento franco e aperto, la sua correttezza e la sua buona educazione, la sua allegra positività.Abeneficiaredelle sostanziali qualità di Tokai, era soprattutto il gentil sesso – circa la metà del genere umano, cioè. La capacità di mostrarsiattentoepremuroso versoledonneèuntalentodi cui le persone che lavorano nel suo campo non possono essereprivi;nelcasodiTokai tuttavianonsitrattavadiuna tecnica acquisita a posteriori, ma di una dote naturale e congenita. Come una bella voce o delle dita affusolate. Di conseguenza (naturalmente a questa virtú si sommava la professionalità, questo è sicuro),laclinicachedirigeva aveva un successo strepitoso. Anche se non faceva pubblicità sulle riviste specializzate, le prenotazioni eranosemprealcompleto. Comesicuramenteilettori sapranno, le persone «socievoli» a volte mancano unpo’dispessore,nonèraro che siano mediocri e poco interessanti. Non era il caso di Tokai. A me faceva davvero piacere, ogni fine settimana, passare un’oretta con lui bevendo una birra. Sapeva conversare e non era mai a corto di argomenti. Il suo senso dell’umorismo non era complicato, andava dritto al punto. Mi ha raccontato diversi episodi divertenti connessi alla chirurgia estetica (senza mai rivelare segreti professionali, s’intende) e mi ha dato informazioni molto interessanti sulle abitudini femminili. Questi discorsi però non sono mai scesi a livellodimaldicenza.Parlava delle donne con rispetto e affetto,efacevasempremolta attenzione a non dare informazionidacuisipotesse risalireallapersona. –Ungentiluomononparla delle tasse che ha pagato, e delle donne con cui è andato aletto,–dichiaròunavolta. –Chièchel’hadetto? – L’ho detto io, – rispose imperturbabile Tokai. – Anche se ogni tanto, col mio commercialista,ditassedevo parlare. Per Tokai, avere contemporaneamente due o tre fidanzate era una cosa normale.Laprecedenzanello stabilire gli orari spettava a loro, che avevano ognuna un marito o un fidanzato, lui doveva accontentarsi del tempo che avanzava. Motivo per cui non giudicava scorretto mantenere piú di una relazione, ma alle sue amanti, ovviamente, questo non lo diceva. Nella misura del possibile cercava di non mentire, ma le informazioni che non era necessario dare non le dava. Ecco, a grandi linee era questa la sua politica. Nella clinica di Tokai lavorava, da molti anni, un segretario di eccezionale bravura, che gestiva per lui, con la perizia di un esperto controllore di volo, il programma densissimo delle sue giornate. Oltre a occuparsidell’organizzazione dell’attività professionale, a poco a poco aveva preso l’abitudine di sovraintendere anche all’impiego del tempo cheTokaidedicavaaquestao quella signora. Conosceva la vita privata del dottore nei minimi dettagli, non diceva maiunaparoladitroppo,non si lamentava mai per l’eccessodilavoroesvolgeva i suoi compiti con distaccata competenza. Regolava abilmente il traffico in modo che gli appuntamenti con le diverse amanti non interferissero l’uno con l’altro. So che è difficile crederlo, ma teneva a mente perfino il ciclo di ognuna delle donne che Tokai frequentavainundeterminato periodo. Se Tokai faceva un viaggio con una di loro, procuravaibigliettideltreno e prenotava la camera d’albergo. Senza quel segretario di straordinaria efficienza, di sicuro la vita privata di Tokai non sarebbe stata altrettanto brillante. Lui gliene era estremamente grato, e quando se ne presentaval’occasionefaceva a quel giovane attraente (ovviamente gay) dei bei regali. Noneramaisuccesso,per fortuna, che qualcuno scoprisse la relazione della moglie o della fidanzata con Tokai, che gli creasse delle grane o montasse uno scandalo. Tokai, da uomo prudente qual era, le aveva avvisatedimuoversiconogni cautela.Dinonfarelecosein modo precipitoso o innaturale, di non seguire semprelostessoschema,e,se proprio era necessario dire unabugia,ditrovarelascusa piú semplice. Questi erano i tre consigli essenziali che dava loro (piú o meno era come insegnare a volare ai gabbiani, ma per scrupolo nonmancavamaidifarlo). Il che non significa che riuscisse sempre a evitare i guai. Non sarebbe stato possibile portare avanti per tanti anni relazioni tanto complicate con diverse amanti, senza che si verificasse a volte qualche problema. Arriva il giorno in cui anche una scimmia cade dall’albero. C’erano donne che non prestavano abbastanza attenzione, fidanzati sospettosi che telefonavano in ufficio e facevanomilledomandesulla suavitapersonaleesullasua moralità (ci pensava il suo bravissimo segretario a intortarli con la sua parlantina), e c’erano donne sposate che, troppo coinvolte nella relazione con lui, finivano col perdere la lucidità. Una di loro era addirittura sposata con un notocampionedilottalibera. Questifattiperònonavevano mai portato a gravi conseguenze. Tokai non aveva mai trovato nessuno cheglispaccasselafaccia. –Nonèsolounaquestione difortuna?–dissi. – Forse, – rispose lui ridendo. – Forse sono stato fortunato. Ma non si tratta solo di questo. Non posso certo dire di essere particolarmente astuto, ma in questecosehouncertotatto. –Tatto… – Diciamo che… quando intuisco che le cose stanno prendendounbruttapiega,di colpoilmiocervellosimette al lavoro, – mormorò Tokai. Come se avesse qualche scrupolo a dirlo ad alta voce, ocercasseinvanounesempio cheillustrasselesueparole. –Sa,inunvecchiofilmdi Truffaut 1c’èunascenaincui una donna dice a un uomo: «Al mondo ci sono persone educate,epersonechehanno tatto. Naturalmente educazione e tatto sono entrambe delle belle qualità, madisolitolasecondavince sulla prima». Lo ha visto, quelfilm?–chiesi. – No, non mi pare, – risposeTokai. – La donna si spiega facendounesempioconcreto: unuomoaprelaportadiuna stanza e vede una donna che si sta cambiando, è nuda. L’uomo educato prima di richiudere subito la porta dirà: «Mi scusi, signora». L’uomo che ha tatto invece dirà:«Miscusi,signore». – Ah, in effetti… – fece Tokai, impressionato. – Un esempio divertente. A essere sincero, lo trovo molto sensato,essendomitrovatoio stesso diverse volte in situazionidelgenere. – E con il suo tatto se l’è cavatabene? Tokaisembròcorrucciarsi. – Non vorrei sopravvalutare le mie capacità. Fondamentalmente, ho sempre avuto molta fortuna. Sono un uomo beneducato, che è sempre statoassistitodallasuabuona stella. Forse è piú prudente pensarecosí. Inognicaso,lafortunadel signor Tokai durò una trentina d’anni. Un lungo periodo. Finché un giorno accadde qualcosa che non si sarebbe mai aspettato: si innamorò perdutamente. Anche la volpe piú astuta prima o poi finisce nella tagliola. La donna di cui si innamorò era sposata da sedici anni, con un uomo di poco piú vecchio di lei che lavorava presso la It, un’impresa finanziata da capitali stranieri. Aveva una figliapiccolachenonandava ancoraascuola. –Aleinonèmaicapitato di decidere che si sta innamorando troppo, e cercaredisperatamentedifare marcia indietro, signor Tanimura? – mi chiese un giorno Tokai. La relazione con quella donna durava da circa diciotto mesi. Eravamo all’inizio dell’estate, e da quando l’avevo conosciuto era passato poco piú di un anno. Risposi di no, non ricordavonulladisimile. – Nemmeno a me era mai successo. E invece eccomi qui preso al laccio, – disse Tokai. – Si sta sforzando di non innamorarsi troppo di qualcuno? – Esattamente. È l’obiettivo su cui sto concentrando le mie energie inquestomomento. –Perqualeragione? – Una ragione semplicissima. Perché altrimentisoffrirò.Soffriròin modo atroce. E dato che il mio cuore non sembra poter reggere a una tale prova, faccio tutto il possibile per non innamorarmi troppo di unacertadonna. Sembravaparlaresulserio. Non aveva la sua solita espressionedivertita. – In pratica, cosa fa? – chiesi.–Pernoninnamorarsi, intendo… – Oh, provo di tutto! Fondamentalmente, però, cerco di pensare solo ai suoi difetti. Faccio la lista del maggior numero possibile di cose che in lei «non vanno tantobene».Emelaripetodi continuo, come un mantra, dicendomi al tempo stesso «questa donna non mi deve piacere piú di quanto sia necessario». –Efunziona? – No, poco, – rispose Tokai scuotendo la testa. – Tanto per cominciare, non riescoatrovarlemoltidifetti. Ma la cosa grave è che a sedurmi sono proprio quelli. Inoltre,noncapiscobenecosa sia necessario per il mio cuore e cosa non lo sia. Non vedo la linea di demarcazione. È la prima voltainvitamiacheprovoun trasporto cosí irrefrenabile, cosíincondizionato. Gli chiesi se davvero non avesse mai nutrito un sentimento tanto sconvolgente per una donna, malgrado ne avesse conosciutetante. – No, assolutamente, – rispose il dottore senza esitare. Poi andò a ripescare nella memoria un ricordo lontano.–Cioè,quandoeroal liceohoprovatoqualcosadel genere, anche se è durato poco. Sentire una fitta in petto quando si pensa a qualcuno,enonpensarequasi a nient’altro… Ma era un amore non ricambiato, senza speranza. Ora la situazione è diversa. Ora sono un adulto chehafattomoltastrada,eha con le donne dei rapporti fisici.Edeccomiinpredaalla confusione. Quando penso a lei, ho l’impressione che persino i miei organi interni siano scombussolati. Soprattuttoquellicheservono arespirareeadigerire. Tokai rimase qualche minuto in silenzio, come se stesse auscultando i propri polmonieilpropriostomaco. –Dallesueparole,sembra cheleifacciadituttopernon innamorarsi troppo di quella donna, ma al tempo stesso speridinonperderla,–dissi. –Appunto,èpropriocosí. Evidentemente è una contraddizione.Unascissione delmioio.Desiderounacosa e il suo contrario. Per quanti sforzi faccia, non è possibile che funzioni. Eppure non riesco a rassegnarmi. Non posso accettare di perderla. Se questo dovesse mai accadere, mi perderei io stesso. –Sí,maleièsposataeha unafiglia. –Perl’appunto. – Ma questa signora cosa pensadellasuarelazionecon lei,dottore? Tokai assunse un’espressione perplessa, cercòleparolegiuste. – Su quello che lei pensa della nostra relazione, posso solo fare delle congetture, e queste congetture riescono soloaconfondermiancoradi piú. L’unica cosa certa è che al momento sostiene di non voler divorziare dal marito. Perché ha una figlia, e non vuole distruggere la sua famiglia. –Peròvuolecontinuarela storiaconlei. – Per adesso cerchiamo di vederciquandopossiamo.Ma cosaciriserviilfuturononlo so.Leihapauracheilmarito venga a sapere di me, quindi puòdarsicheprimaopoimi lasci. A meno che non siamo costretti ad allontanarci perché il marito scopre tutto. O semplicemente a un certo puntoleverròanoia.Nonho la minima idea di quello che puòaccaderedomani. –Equestolaspaventapiú diognialtracosa. – Sí. Quando comincio a figurarmi tutte le eventualità possibili, non riesco piú a pensare ad altro. Anche il cibomisifermaingola. Il dottor Tokai e io ci eravamo conosciuti nella palestra vicino a casa mia. Lui arrivava nei fine settimana,ilmattino,conuna racchetta da squash sotto il braccio.Dopoqualchetempo avevamo cominciato a fare qualche partita insieme. Tokai era un uomo molto corretto, fisicamente robusto, e non gli interessava vincere o perdere. Era il partner perfetto per godersi una partitainsantapace.Ioavevo qualche anno in piú, ma appartenevamo alla stessa generazione (sto parlando di cose avvenute molto tempo fa) e anche nello squash eravamo piú o meno di pari livello. Dopo aver sudato abbondantemente correndo dietroallapalla,andavamoin unlocalelívicinoaberciuna birra alla spina. Come la maggior parte delle persone di buona famiglia che hanno ricevuto un’ottima educazione e non hanno mai conosciuto difficoltà economiche, il dottor Tokai fondamentalmente pensava solo a se stesso. Tuttavia – l’hogiàdetto–,eracapacedi conversareinmodogradevole mostrandointeresseperilsuo interlocutore. Quando seppe che di professione facevo lo scrittore, a poco a poco dai soliti argomenti generici passò a raccontarmi le sue faccende personali. Probabilmente riteneva che gli scrittori, come gli psicologieipreti,avesseroil diritto (o forse il dovere) di ascoltarechivolevaparlaredi séedeipropriproblemi.Non erailsoloapensarlo,lastessa cosa mi era successa in precedenza con tante altre persone. Detto ciò, a me ascoltare gli altri non dispiace,esoprattuttononmi stancavo mai di ascoltare lui. Era onesto e sincero, e riusciva a vedersi in maniera relativamente imparziale. Né temeva di mostrare i suoi punti deboli. Poca gente al mondohatuttequestequalità. – Mi è capitato non so quante volte di stare con donne piú avvenenti di lei, donne che avevano un fisico moltopiúbello,cheeranopiú intelligenti e avevano un gusto piú raffinato. Ma è un confronto che non ha senso. Per qualche motivo, lei per me è un essere speciale. La amonellasuatotalità.Tuttele sue qualità hanno come un nucleo comune, un nocciolo, qualcosa di suo e solo suo… non ha senso estrapolare una sola caratteristica e fare paragoni con un’altra persona. È qualcosa in quel nucleo che mi seduce irresistibilmente. Come un magnete potentissimo. Al di làdiogniragione. Bevevamo Black and Tan in grandi bicchieri, piluccandosottacetiepatatine fritte. – C’è un tanka che fa: Dopo averti incontrato | in confronto a ciò che provo | ora per te nel mio cuore | è come se mai prima | avessi amato,–disseTokai. – Sí. Di Gonchūnagon Atsutada, – continuai, chiedendomi perché mai ricordassi una cosa del genere. – Dopo averti incontrato sta a indicare la relazione fisica tra l’uomo e la donna, mi hanno spiegato all’università. All’epoca ho soltanto pensato «ah, davvero?», ma da quando mi trovoinquestacondizione,ho finalmente capito, in pratica, che sentimento provava l’autorediqueltanka.Èquel profondosensodiperditache tiassalequandodevisepararti dalla donna amata, dopo averla incontrata ed esserti unito a lei. Quella fatica che fai a respirare. Se ci pensa, è un sentimento che è rimasto ugualedapiúdimilleanni.E io che fino a oggi non avevo mai provato personalmente questa emozione, in quanto essere umano non ero completo.Menerendoconto soltantoora,econdolore.Un po’troppotardi,però. Dissicheinquestogenere di cose non ha senso parlare di troppo tardi o troppo presto. Meglio tardi che mai, no? – Sí, ma è un’esperienza che forse è meglio fare da giovani, – rispose Tokai. – Cosísipossonoformaredegli anticorpi. A me non sembrava un problema che si potesse risolvere tanto facilmente. Conosco un certo numero di personecheportanodentrodi sé i germi latenti di brutte malattie, senza mai essersi formati degli anticorpi. Ma non lo dissi, il discorso si sarebbefattotroppolungo. – Ormai è un anno e mezzochemivedoconlei.Il marito va spesso all’estero per lavoro, e in quelle occasioni io e lei pranziamo insieme, poi andiamo a casa mia e facciamo l’amore. Si è messa con me dopo aver saputo che il marito la tradiva.Ilmaritolehachiesto scusa e ha promesso di lasciare l’amante e non fare mai piú una cosa del genere. Ma questo non è bastato a calmarla. Ha iniziato questa relazioneconmeperritrovare l’equilibrio. Parlare di vendetta è forse un po’ esagerato,maledonnehanno bisognodifarequestotipodi percorso.Succedesovente. Non ero del tutto sicuro che quel genere di cose «succedesse sovente», ma ad ogni buon conto ascoltavo in silenzio. – Finora è andato tutto bene, siamo sempre stati d’incanto, insieme. Conversazioni stimolanti, segreti intimi di cui siamo al corrente solo noi due, sesso fattoconperizia,senzafretta. Pensocheabbiamocondiviso delle ore stupende. Mi capitava spesso di farla ridere. Ridere di cuore. Man mano che la relazione è andata avanti, però, mi sono innamorato sempre piú, tanto danonpotertornareindietro. Cosí ho cominciato a riflettere seriamente, negli ultimitempi.Achiedermiche cosasonoio. Avendo l’impressione di nonaversentitolesueultime parole (o piuttosto di averle sentite male), lo pregai di ripetere. – Che cosa sono io. Di questi tempi me lo domando spesso. –Arduaquestione,–dissi. – Infatti. Molto ardua, – ripeté Tokai. E fece cenno di sípiúvolteconlatesta,come a confermarne la difficoltà. Non sembrava aver colto la leggera ironia delle mie parole. –Infindeiconti,checosa sono io? – proseguí. – Come chirurgo estetico, finora ho svolto il mio lavoro senza farmitantedomande.Misono specializzato in chirurgia pressolafacoltàdiMedicina. All’inizio aiutavo mio padre facendogli da assistente, poi, quando lui si è ritirato per problemi alla vista, ho preso il suo posto alla direzione dellaclinica.Nondovreidirlo io, ma nella mia professione penso di essere bravo. Il mondodellachirurgiaestetica in realtà è un miscuglio di pietre preziose e di sassi, la facciata è splendida, ma la sostanza assai meno, ci sono molti dilettanti. Nella mia clinica, invece, si fa tutto in modo scrupoloso, dall’inizio alla fine, non abbiamo mai avuto problemi seri con i pazienti,nemmenounavolta. Per me è una questione di orgoglio professionale. Non hoparticolarifrustrazioni.Ho moltiamici,eperilmomento sono in buona salute. Mi godo la vita a modo mio. Eppuredirecentemisuccede spessodichiedermi«checosa sono io?» Di chiedermelo seriamente.Seperdessilamia carriera e il mio talento di chirurgo estetico, se venissi privatodellemieconfortevoli condizioni di vita e venissi lasciatonelmondocosícome sono, un individuo nudo, senza che mi venisse fornita nessuna spiegazione, cosa sarei?Cosadiventerei? Tokai mi guardò dritto in faccia. Come se sperasse in unarisposta. –Perchétutt’auntrattole vengonoinmentecerteidee? –chiesi. – Ho cominciato a farmi questa domanda poco tempo fa,dopoaverlettounlibrosui campi di concentramento nazisti. Credo sia questa la ragione.Unmedicoebreoche esercitava a Berlino, un giorno è stato preso insieme allafamigliaemandatoinun campo di concentramento. Fino a quel momento quell’uomo era amato dai famigliari e rispettato dalla gente, godeva della fiducia dei pazienti e conduceva una vita piena di soddisfazioni in unabellacasa.Avevaquattro cani e la passione del violoncello, suonava insieme agli amici musica da camera di Schubert e Mendelssohn. Un’esistenza piacevole, tranquilla e agiata, insomma. Poi tutto è cambiato e lui è finito in un vero e proprio inferno, un inferno in terra. Unpostodovenonerapiúun cittadino abbiente di Berlino e un medico rispettato, dove non era quasi piú un essere umano. Separato dalla sua famiglia, veniva trattato alla streguadiuncanerandagioe non riceveva quasi cibo. Provvisoriamenteglierastata risparmiata la camera a gas perché il comandante del campo, sapendo che era un medico di fama, si era detto che poteva tornare utile, ma la situazione poteva mutare da un giorno all’altro. Bastava il malumore di una guardiaperchévenisseucciso a bastonate. Tutti gli altri membri della sua famiglia erano probabilmente già morti. Tokaifeceunapausa. – A quel punto mi è venuto un dubbio. La sorte terribile di quel medico, in luoghietempidiversi,poteva benissimo capitare a me. Se io per qualche ragione – anche se non so immaginare quale – un giorno venissi all’improvvisospogliatodella vita che conduco adesso, privato di ogni privilegio, e degradato a un semplice numero… cosa rimarrebbe di me,checosasarei?Hochiuso il libro e mi sono messo a riflettere. A prescindere dalla mia abilità e dalla fiducia di cui godo in quanto chirurgo estetico,nonhoalcunmerito, alcuna capacità particolare, sono soltanto un uomo di cinquantadue anni. Anche se sono nel complesso in buona salute, non ho piú le stesse energie di quando ero giovane. Non sono piú in grado di fare pesanti lavori manuali a lungo. Sono bravo soltanto a scegliere un buon Pinot nero, a tenermi informato sui ristoranti, i posti dove si mangia il miglior sushi e i bar alla moda, a trovare accessori eleganti da regalare alle donne…soanchesuonareun po’ il piano, uno spartito facile lo leggo a prima vista. Piú o meno è tutto. Ma se venissi mandato ad Auschwitz, a cosa mi servirebbero queste mie capacità? Ero d’accordo. Conoscere i vini, saper suonare o raccontare, in un posto del genere probabilmente non sarebbestatodigrandeutilità. – Mi scusi, signor Tanimura, ma a lei non vengono mai questi pensieri? Se perdesse la capacità di scrivere, a cosa si ridurrebbe insostanzalasuapersona? Cercaidispiegargli.Ioera partito da zero, all’inizio non ero nessuno. Mi ero lanciato nella vita praticamente nudo. Avevo cominciato a scrivere percaso,avevoavutofortuna, e bene o male riuscivo a mantenermi con la mia scrittura.Diconseguenza,per riconoscere di essere un sempliceessereumano,senza meriti né capacità particolari, non avevo bisogno di postulare un’ipotesi su vasta scala come il campo di concentramento di Auschwitz. Sentendo le mie parole, Tokai si mise a riflettere seriamente. Il mio modo di pensare sembrava essere per luiun’assolutanovità. –Ah,ecco!–disse.–Può darsichelavitasiapiúfacile, perlepersonecomelei. Gli feci timidamente notare che la vita non è proprio una passeggiata, per una persona che parte da zero. – Naturalmente, – disse lui. – Naturalmente, lei ha ragione.Partiredazero,nella vita,dev’essereun’esperienza dura. Da questo punto di vista, penso di essere stato fortunato. Quando si arriva a unacertaetà,però,quandosi è acquisito un certo stile di vitaesièraggiuntaunacerta posizione sociale, può essere molto penoso mettersi a dubitare, a quel punto, del proprio valore in quanto persona. Si finisce col pensarechel’esistenzachesi è condotta fino a quel momentononhaalcunsenso, alcuna utilità. Da giovani c’è ancora la possibilità di cambiare, di sperare. Ma alla miaetà,ilpesantefardellodel passato ci schiaccia. Non è qualcosa che si possa cambiare. – E ha iniziato a porsi queste domande dopo aver letto un libro sui campi di concentramento nazisti? Vuole dire che è stata questa lacausascatenante?–chiesi. – Sí. Quella lettura è stata per me uno shock che ha coinvolto direttamente la mia persona, chissà perché. Inoltre non so come andrà a finire la storia con la mia amante,edaunpo’soffrodi quella leggera depressione tipica della mezza età. «Che cosa sono io?»: non faccio altro che pormi questa domanda. Ma per quanto ci rimugini su, non riesco a trovare una via d’uscita. Continuo a girare in tondo. Tante cose che ho sempre fatto con piacere, non mi divertono piú. Non ho voglia di comprare vestiti, di fare sport, persino aprire il pianoforte mi annoia. Ho perso l’appetito. E a stare fermo senza agire, mi viene in mente soltanto lei. Penso sempre a lei, anche sul lavoro, davanti alle pazienti. Finisco quasi col fare il suo nomecosí,senzarendermene conto. – Con quale frequenza la vede,quellasignora? – Dipende dalle volte. Daglispostamentidelmarito. Anche questo per me è un tormento. Quando lui sta via per molto tempo, ci vediamo di continuo. In quelle occasioni lei lascia la figlia dai suoi genitori, o fa venire una baby-sitter. Quando il marito è in Giappone, però, possono passare settimane senza che ci incontriamo. E per me è dura. Finisco col pensarechenonlavedròmai piú. Scusi il luogo comune, mamisentospezzareilcuore indue. Ascoltavo in silenzio quanto mi stava raccontando. Non si esprimeva in maniera particolarmente originale, ma noneraneanchebanale.Anzi, le sue parole erano molto efficaciarenderel’idea. Prese un lungo, lento respiro. – Ho avuto molte amanti. Forse le sembrerà sconcertante, ma a volte anche quattro o cinque alla volta. Se non potevo vedere l’una,vedevol’altra,ol’altra ancora. E la cosa non presentava nessun problema. Ma da quando mi sono innamorato di quella donna, lealtrenonmiattiranopiú.È strano,loso.Quandostocon un’altra, in testa ho sempre lei. Non riesco a togliermela dallamente.Èunasituazione disperata,glieloassicuro. Una situazione disperata, pensai. Mi apparve l’immagine di Tokai che telefonava per chiamare l’ambulanza: «Pronto? Un’ambulanza, presto, è urgente! È una situazione disperata! Mi manca il respiro, il cuore mi si può spezzare in due da un momentoall’altro…» – Sí, è grave, – proseguí Tokai. – Piú la conosco, piú mi innamoro. Sto con lei da un anno e mezzo, ma adesso sono molto piú preso che all’inizio. Ormai ho l’impressione che il mio cuore e il suo siano profondamente legati. Quando il suo si muove, trascina anche il mio. Come due barche attaccate l’una all’altra da una corda. Anche volessitagliarla,quellacorda, non ho strumenti abbastanza affilati per farlo. È un sentimento che non avevo mai provato in vita mia. Mi mette ansia. A cosa porterà tuttoquesto?Comefinirà? – Capisco, – dissi. Ma Tokaivolevaunarispostapiú sostanziosa. – Cosa devo fare, signor Tanimura? – Be’, come lei possa affrontare concretamente la situazione,iononloso.Maa giudicaredaquellochemiha detto,pensocheilsentimento che prova sia qualcosa di normale, di coerente. Amare significa proprio questo. Si perde il controllo del proprio cuore, si ha l’impressione di venire travolti da una forza irragionevole. Non sta facendo un’esperienza assurda, lontana da ogni buonsenso,dottorTokai.Siè semplicemente innamorato di una donna, innamorato sul serio. E non vuole perderla. Vorrebbe stare sempre con lei. Se non potesse piú vederla, il suo mondo andrebbe in pezzi. È un’emozione naturale, frequente.Nonènéstranané speciale. È uno degli eventi piú comuni, nella vita di una persona. Il dottor Tokai si mise a braccia conserte per considerare quello che gli avevoappenadetto.Comese ci fosse qualcosa che non lo convinceva. Era probabile chenonriuscisseadaccettare l’idea che la sua esperienza fosse del tutto banale. Forse laconsideravaqualcosadipiú diunsemplice«amore». Finimmo di bere le nostre birre, e al momento di andarcene,luimidisse,come semifacesseunaconfidenza: – Sa, signor Tanimura, la cosacheioalmomentotemo di piú, che mi confonde di piú, è la collera che sento dentrodime. – La collera? – gli chiesi unpo’sorpreso.Misembrava un sentimento poco in sintonia col personaggio di Tokai.–Colleraneiconfronti dicosa? Luiscosselatesta. –Nonloso.Disicuronon ce l’ho con la mia amante. Ma quando non la vedo, quando non ci possiamo incontrare, sento montare dentro di me questa gran rabbia. Non so contro cosa, nonriescoacapirlo.Maèuna rabbia tremenda, quale non ho mai provato in vita mia. Mi viene voglia di gettare dallafinestratuttoquelloche trovo a portata di mano. Le sedie, il televisore, i libri, i piatti, i quadri, tutto quanto. Tanto peggio se rischio di colpire in testa dei passanti, che crepino pure, chi se ne frega!Socheèun’idiozia,ma inqueimomentilopensosul serio.Peroralamiacollerala tengo a bada, naturalmente. Non farei mai una cosa del genere. Ma può darsi che venga un giorno in cui non riescapiúacontrollarmi.Che finiscacolfareveramentedel maleaqualcuno.Equestomi fa paura. Perché piuttosto preferirei far del male a me stesso. Nonricordocosarisposial riguardo. Probabilmente mi limitai a dire qualche vaga parola d’incoraggiamento. Non capivo bene che significato avesse quella sua collera, cosa suggerisse. Avrei fatto meglio a dargli qualche consiglio concreto. Maanchesel’avessifatto,ho l’impressione che non avrei cambiatoilsuodestino. Pagammo il conto, ci salutammoecenetornammo ognunoallapropriacasa.Lui salí su un taxi, la racchetta sottoilbraccio,edall’interno dellavetturamifeceuncenno con la mano. E quella fu l’ultima volta che lo vidi. Settembrestavaperfinireela temperaturaeraancoraestiva. Da quel giorno Tokai non sifecepiúvedereinpalestra. Nei fine settimana io ci andavospesso,nellasperanza di incontrarlo, ma non lo trovavo mai. Nessuno ne sapeva nulla. Sono cose che succedono, nelle palestre. Qualcuno che veniva considerato un frequentatore assiduo, un bel giorno scompare.Unapalestranonè unluogodilavoro.Andarcio meno è una scelta personale. Di conseguenza non attribuii molta importanza alla sua assenza. Passarono cosí due mesi. Un venerdí pomeriggio, verso la fine di novembre, ricevetti una telefonata dal segretario di Tokai. Si chiamava Gotō. Parlava con untonobassoesuadenteche mi ricordava la musica di Barry White. Il genere di musica che si sente spesso allaradionellenottid’estate. – È triste per me darle questa notizia per telefono, e cosí all’improvviso, signor Tanimura,mamercoledídella settimana scorsa il dottor Tokai è mancato. Le esequie hanno avuto luogo lunedí, alla sola presenza delle personeintime. – È mancato? – chiesi sbalordito.–Masel’hovisto l’ultima volta due mesi fa, e sembrava in ottima salute! Cosaèsuccesso? Dall’altra parte del filo, Gotōesitavaarispondere. –Senta,c’èunoggettoche il dottore, quando era ancora in vita, mi ha incaricato di consegnarle, signor Tanimura,–dissepoi.–Sodi chiederle molto, ma non potremmo vederci un momento? Penso che in quell’occasione potrò spiegarle tutto. Mi dica dove equando,eiocisarò. – Potremmo vederci oggi, questopomeriggio,–proposi. Gotō rispose che per lui andava bene. Gli indicai un caffè in una via laterale di Aoyama-dōri.Allesei.Eraun posto dove avremmo potuto parlare tranquilli, senza timore di venir disturbati. Gotōnonloconosceva,malo avrebbetrovatofacilmente. Quando arrivai, alle sei meno cinque, Gotō era già seduto,evedendomiavanzare verso di lui si alzò immediatamente. Dal timbro basso della sua voce al telefono, mi ero immaginato unuomodalfisicomassiccio, invece era alto e magro. Avevaunbelviso–comemi aveva detto Tokai –, indossava un abito di lana marrone, una camicia bianca coi bottoni al colletto, e una cravatta color mostarda. Un abbigliamento impeccabile. Anche i capelli, piuttosto lunghi, erano molto curati e gliscendevanomorbidamente a coprirgli la fronte. Doveva essere sui trentacinque o trentaseianni,esenonavessi saputo da Tokai che era gay, non lo avrei mai indovinato: avevasemplicementel’ariadi un bravo ragazzo vestito in maniera del tutto normale (c’era ancora in lui qualcosa di adolescenziale). La barba era ben rasata ma si intuiva che doveva essere stata folta, cosa rara per un giapponese. Stava bevendo un doppio espresso. Dopo aver scambiato con luiunbrevesaluto,ordinaila stessacosa. – Quindi è morto all’improvviso, vero? – chiesi. Gotō socchiuse le palpebre, come se venisse colpitodaunaforteluce. – Sí. Una morte che ci ha veramente colti di sorpresa. Ma al tempo stesso, una morte terribilmente lenta e dolorosa. In silenzio, aspettavo il seguito. Ma Gotō per un po’ non aggiunse nulla, probabilmente attendeva che mi portassero quello che avevoordinato. – Io avevo un rispetto sincero per il dottor Tokai, – disseilgiovanepercambiare argomento. – Era straordinario, sia come persona, sia come medico. Con infinita pazienza mi ha insegnatounmucchiodicose. Perquasidieciannihoavuto l’onore di lavorare nella sua clinica, e se non fosse stato per lui, adesso non sarei quellochesono.Eraunuomo franco e sincero, sempre di buonumore, mai arrogante, attentoinegualmisuraatutte lepersonecheavevaintorno, e tutte infatti gli volevano bene. Non l’ho mai sentito parlare male di qualcuno, neancheunavolta. Dovevo convenire che anche in mia presenza non avevamaicriticatonessuno. – Il dottor Tokai parlava spesso di lei, – dissi. – Era convinto che senza di lei gestire la clinica gli sarebbe stato impossibile, e nella vita privata avrebbe avuto mille complicazioni. Alle mie parole, sulle labbra di Gotō apparve un vagoetristesorriso. – No, non ero tanto prezioso. In quanto segretario,cercavosoltantodi essergli utile, facevo del mio meglio.Amodomio,credodi avercela messa proprio tutta. Permeeraunagioia. Quandolacameriera,dopo avermi portato il caffè, si allontanò, finalmente Gotō riprese a parlare della morte diTokai. – La prima cosa di cui mi sono accorto è che il dottore non pranzava piú. Fino ad allora, nella pausa di mezzogiorno aveva sempre mangiato qualcosa, anche solo un boccone. In questo era piuttosto metodico, pur essendo spesso oberato di lavoro.Edeccocheauncerto puntohacominciatoasaltare ilpranzo.«Perchénonprende qualcosa?», gli chiedevo, ma lui mi diceva di non preoccuparmi,semplicemente non aveva appetito. Questo succedeva all’inizio di ottobre. A me quel cambiamento inquietava. Perché il dottore non amava cambiare abitudini, non era quel genere di persona. Dava un’estrema importanza alla regolarità delle sue giornate. E non c’era soltanto il problema del pranzo. Ben prestoavevasmessoanchedi frequentarelapalestra.Prima ci andava regolarmente tre volteallasettimana.Nuotava, giocava a squash e faceva ginnastica senza risparmiare le energie. Ma aveva perso ogni interesse nell’attività fisica. E aveva iniziato a trascurare il suo aspetto. Lui sempre cosí pulito ed elegante, a poco a poco… come dire? Si era lasciato andare, era sciatto. Gli capitava di mettere gli stessi vestiti anche per tre giorni di fila. Ed era diventato sempre piú taciturno, sembrava assorto tutto il tempo in qualche profonda riflessione, finché non ha piú detto nemmenounaparola.Cadeva sempre piú spesso in uno stato di intontimento. Gli parlavo, ma lui pareva non sentire. E non incontrava piú le sue amanti dopo le ore di lavoro. –Leierabenpiazzatoper esserealcorrentediquelche faceva, visto che si occupava diorganizzareilsuotempo. –Infatti,ècosí.Tantopiú cheperildottoreincontrarele sue amanti era l’evento crucialedellagiornata.Erala fonte della sua energia. Il fatto che a un certo punto questi incontri si fossero ridottiazero,comunquelasi rigiri, era molto strano. Cinquantadue anni non è un’età in cui si comincia a invecchiare.Probabilmentesa anche lei, signor Tanimura, che il dottor Tokai, per quel che riguardava le donne, aveva sempre condotto una vitapiuttostoattiva. –Già,nonnefacevaalcun mistero. Ma neppure se ne vantava, era semplicemente molto franco, a questo proposito. Gotōannuí. – Sí, su questo argomento eramoltofranco.Ancheame raccontava un sacco di cose. Quindi il suo cambiamento improvvisoèstatounoshock. Non mi diceva piú niente. Qualunquecosaglicapitasse, se la teneva per sé, non ne parlava. Naturalmente cercavo di fargli delle domande. Le è successo qualcosa di sgradevole? C’è qualcosa che la preoccupa? Ma il dottore si limitava a piegare la testa di lato, senza rivelare quello che aveva nel cuore. Non mi rivolgeva quasi piú la parola. E dimagrivaavistad’occhio,si era ridotto pelle e ossa. Era evidente che non si nutriva a sufficienza. Ma non potevo mettere il naso negli affari suoi piú di tanto. Il dottore eraunapersonaschietta,però nonammettevaquasinessuno nella sua sfera privata. Per molti anni sono stato il suo segretario personale, ma non sonoquasimaientratoincasa sua. Soltanto quando mi chiedeva di andargli a prendere qualcosa che aveva dimenticato. Le uniche personecheviavevanolibero accesso,forse,eranoledonne a cui il dottore era piú intimamentelegato.Iopotevo soltantoguardaredalontanoe farecongettureansiose. Dette queste parole, Gotō sospirò. Come se si arrendesse di fronte alle «donneacuiildottoreerapiú intimamentelegato». – Dimagriva a vista d’occhio? – chiesi ripetendo lesueparole. – Esatto. Aveva gli occhi incavatieilvisopallidocome carta.Camminandovacillava, non riusciva piú a tenere in mano nemmeno il bisturi. È ovvio che non era piú in grado di fare operazioni chirurgiche. Per fortuna avevaunbravoassistenteche temporaneamente operava al posto suo. Ma la situazione non poteva protrarsi a lungo. Iononfacevochetelefonarea destra e a manca per disdire gli appuntamenti, la clinica stava rischiando di chiudere. Finchéungiornoildottoreha smessodeltuttodivenire.Sí, non si è piú fatto vedere. Questo verso la fine di ottobre. L’abbiamo chiamato a casa, ma non rispondeva. Per due giorni non abbiamo avuto sue notizie. Dato che avevo le chiavi del suo appartamento – me le aveva datelui–,ilmattinodelterzo giornosonoandatoacasasua e sono entrato. Sapevo che noneraunacosacorretta,ma l’apprensioneeratalechenon horesistito. Quandohoapertolaporta, hosentitounodoretremendo. Perterrac’eraditutto,sparso ovunque. Giacche, pantaloni, cravatte, biancheria intima… vestitichesieratoltoeaveva gettato sul pavimento. Probabilmenteeranomesiche non metteva ordine lí dentro. Le finestre erano chiuse e l’aria stagnava. Il dottore era sdraiato nel letto, l’aria tranquilla –. Gotō doveva rivedere la scena, perché chiuse gli occhi e scosse lievementelatesta.–Appena l’ho visto, ho pensato che fosse morto. Stava per venirmi un colpo. Invece era vivo. Ha voltato verso di me il viso scarno e livido, ha aperto gli occhi e mi ha guardato. Ogni tanto batteva le palpebre. Respirava, anche semoltodebolmente.Manon si muoveva, le coperte tirate fino al collo. Ho provato a parlargli: nessuna reazione. Lesuelabbraseccheeserrate sembravano cucite. La barba gli era cresciuta parecchio. Primadituttoandaiadaprire lafinestra,percambiarel’aria nella stanza. Visto che non c’erano misure urgenti da prendere, e il dottore non sembrava soffrire, mi sono messo a fare un po’ d’ordine nell’appartamento.Perchéera inunostatodavveroterribile. Ho raccolto i vestiti sparsi ovunque, ho messo in lavatrice le cose che si potevano lavare, infilato in unasaccaquelledaportarein tintoria.Hosvuotatolavasca cheerapienad’acquasporca, e l’ho pulita. Dalle incrostazioni che vi si erano formate, ho dedotto che non veniva svuotata da molto tempo.Unacosaimpensabile perildottore,unuomocheè sempre stato attento all’igiene. A quanto pareva anche la donna delle pulizie aveva smesso di venire, perché su ogni mobile c’era un velo di polvere. Soltanto una cosa faceva eccezione, il lavello della cucina, che era immacolato. Il che significava che la cucina non veniva piú usata. Alcune bottiglie di acqua minerale erano rotolate a terra, ma di cibononc’eratraccia.Apriiil frigo: ne uscí un odore nauseabondo, indescrivibile. Le cose all’interno – nattō 2, verdura, frutta, latte, sandwich, prosciutto… – eranomarcite.Homessotutto inunagrossabustadiplastica e l’ho portata nello sgabuzzino della spazzatura nelseminterratodelpalazzo. Ilgiovanepreseinmanola tazza ormai vuota e la osservò, tenendola inclinata. Poi sollevò di nuovo lo sguardo. – Per riportare l’appartamento a uno stato decente mi ci sono volute tre ore. Per tutto il tempo ho tenuto le finestre aperte, e il cattivo odore alla fine non si sentiva quasi piú. Ma il dottore non aveva ancora dettounaparola.Silimitavaa seguirmicongliocchimentre mi davo da fare nella stanza. Nel suo volto smagrito, gli occhi apparivano molto piú grandi e lucenti del solito. Perònonesprimevanoalcuna emozione. Mi guardavano, ma non mi vedevano. Mi… mi seguivano soltanto, come lenti di telecamere fisse regolate in modo da sorvegliare tutto ciò che si muove nel campo visivo. Ma sefossiioomeno,cosastessi facendo, al dottore non sembrava importare nulla. Erano occhi tristissimi. Finché vivrò, non li dimenticheròmai. Poisonoandatoaprendere il rasoio elettrico e gli ho rasatolabarba.Glihopassato un asciugamano bagnato sul viso. Lui non opponeva nessuna resistenza. Subiva passivamente qualsiasi cosa. A quel punto ho chiamato il medico di famiglia. Quando gli ho spiegato la situazione, èvenutosubito.L’havisitato eauscultato.EildottorTokai restava sempre zitto, nemmeno una parola. Ci guardavaconqueisuoiocchi assenti,prividiognicalore. Non so se mi esprimo nel modo giusto, ma non sembrava piú un essere vivente. Sembrava… ecco, qualcunochehadigiunatoper diventare una mummia, ma non ci è riuscito, incapace di liberarsi delle passioni terrene…unsepoltovivoche viene fuori strisciando dalla terra. So che è un’immagine spaventosa, ma è l’impressione che mi fece in quel momento. La sua anima ormai se n’era andata. E non c’eradasperarechetornasse. Semplicemente il suo corpo non aveva ancora ceduto e continuava a muoversi in modo indipendente dalla sua volontà. Pronunciando queste ultime parole, il giovane annuivaconvinto. – Chiedo scusa, – proseguí,–mistodilungando troppo.Cercheròdiesserepiú breve. In sintesi, il dottor Tokaisoffrivadiunaformadi anoressia. Non mangiava piú nulla, si teneva in vita solo con un po’ d’acqua. Cioè, parlaredianoressiaforsenon è esatto. Come lei saprà, è una patologia che di solito colpisce le giovani donne. Vogliono dimagrire per essere piú belle e cercano di mangiare il meno possibile, finchéilfattoinsédiperdere peso diventa l’obiettivo principale e non riescono piú a ingoiare nulla. Nei casi estremi, il loro ideale è ridurreilpropriopesoazero. Di conseguenza non è pensabile che un uomo di mezza età diventi anoressico. Nel caso del dottor Tokai però si trattava di un fenomeno simile. Naturalmente lui non lo faceva per un problema estetico. Se aveva smesso di nutrirsi, a mio parere era perchéilcibononglipassava piúperlagola,allalettera. – Era quel che si dice «consumarsiperamore»… – Forse, qualcosa del genere, – rispose il giovane Gotō.–Chissà,magariilsuo desiderio profondo era di ridursi a zero. Annullarsi. Altrimenti non avrebbe potuto sopportare le sofferenzechedàlamorteper fame,lepersonenormalinon ce la fanno. La gioia di vedere il proprio corpo consumarsi era piú forte del dolore. La stessa cosa che provano le ragazze che soffrono di anoressia man mano che perdono peso, insomma. Cercai di immaginare Tokaidistesosulletto,chein preda a un amore cieco dimagriva fino a diventare fragile come una mummia. Ma quella che mi veniva in mente era soltanto l’immagine solare di lui, allegro, sano, elegante e amantedellabuonatavola. – Il medico gli ha fatto un’iniezione di sostanze nutritive, poi ha chiamato un’infermiera e ha preparato l’occorrente per la flebo. Ma le iniezioni nutritive sappiamo quanto valgono, e riguardo alla flebo, volendo poteva staccare il tubo da solo. Né io potevo restare giorno e notte accanto a lui. Se l’avessimo forzato a mangiare qualcosa, avrebbe di sicuro vomitato. Per il ricovero in ospedale era necessario il suo consenso, non potevamo farlo portare via contro la sua volontà. Ormai il dottor Tokai aveva perso il desiderio di vivere, era determinato a ridursi a zero. Non c’erano cure o iniezioni nutritive che tenessero, non saremmo mai riusciti a invertire la corrente diquelfiume.Potevamosolo incrociare le braccia e guardare i morsi della fame divorare il corpo del dottor Tokai. Sono stati giorni penosissimi. Bisognava fare qualcosa, ma in pratica eravamo impotenti. Ci consolava solo il fatto che il dottore non sembrava soffrire. Perlomeno, io non gli ho mai visto un’espressione sofferente sul viso.Andavoacasasuaogni giorno, prendevo la posta nella cassetta delle lettere, facevo le pulizie, poi mi sedevo accanto a lui sul letto e gli parlavo di tante cose. Informazionicheerotenutoa dargli in quanto segretario, discorsi piú frivoli… ma lui non ha mai detto una parola. Non ha mai avuto una reazione. Non sapevo nemmenosefossecoscienteo meno.Stavafermoinsilenzio e mi guardava con i suoi grandi occhi inespressivi. Occhi stranamente trasparenti. Avevo l’impressione di poter vedere dall’altraparte. –Èsuccessoqualcosacon una donna? – chiesi. – Lui stesso mi ha raccontato di avere un’intensa relazione con una donna sposata e madredifamiglia. – Sí, è vero. Il dottore da qualche mese si era legato a quelladonnainmodosincero, profondo. Cioè, non era la solita relazione occasionale e pocoimpegnativa.Dev’essere successo qualcosa di grave con lei. Qualcosa che gli ha tolto la voglia di vivere. Ho provatoatelefonareacasadi quella signora. Ma non ha rispostolei,èstatoilmaritoa venire al telefono. Gli ho dettochevolevoparlareasua moglie riguardo all’appuntamento che aveva preso alla clinica. Mi ha risposto che la moglie non abitava piú lí. Allora gli ho chiesto dove avrei potuto trovarla,maluimihadettoin tono gelido che non lo sapeva,ehariattaccato. Gotō rimase qualche secondo in silenzio, quindi riprese: –Perfarlabreve,poisono riuscitoarintracciarla.Aveva lasciato il marito e la figlia per andare a vivere con un altrouomo. Per un attimo restai senza parole. Non ci capivo piú nulla. – Mi sta dicendo che alla fine ha piantato sia il marito cheildottorTokai? – Esatto, in parole povere ècosí,–disseilgiovanecon una certa riluttanza, e contrasse un poco il viso. – Aveva un terzo uomo. Non conosco la storia nei particolari, ma pare sia uno piú giovane di lei. Questa è solo la mia opinione personale, ma qualcosa mi dice che deve trattarsi di un poco di buono. Pare che la donnaabbiapresoilvolocon lui, servendosi del dottor Tokaicomediunapedanaper il salto. L’ha usato come le faceva comodo, insomma. Tutto lascia pensare che il dottore abbia dilapidato una fortuna per lei. Controllando il suo conto in banca e la carta di credito, ho trovato strani movimenti di denaro, grosse somme. Credo che abbia speso un patrimonio in regali costosi. O che le abbia fatto dei prestiti. Di queste elargizioni non sono rimaste prove e i dettagli non sono chiari,mainognicasoisoldi che sono stati prelevati in quel periodo ammontano a unacifraimportante. Feciunbrevesospiro. – Dev’essere stato un colpoterribile,perlui,–dissi. Gotōannuí. – Sí. Se lei lo avesse lasciato dicendogli: «Senti, non posso abbandonare mio marito e mia figlia. Di conseguenza la nostra relazione finisce qui», penso che lui avrebbe potuto accettarlo. Di sicuro sarebbe piombato nello sconforto, perché l’amava veramente, come non aveva mai amato nessunadonnainvitasua,ma non sarebbe giunto a cercare la morte di propria volontà. Insomma, quello che voglio direècheunavoltatoccatoil fondo, prima o poi sarebbe tornato a galla. Ma scoprire che c’era un terzo uomo, rendersi conto di essere stato cinicamente usato, per il dottore è stata una pugnalata alcuore. Non feci commenti, limitandomiadascoltare. –Quandoèmorto,pesava trentacinquechili.Lametàdi prima, visto che di solito era un poco sopra i settanta. Le ossa del torace erano cosí sporgenti che sembrava una costa rocciosa con la bassa marea. Si faceva fatica a guardarlo. Mi ricordava le immaginidiundocumentario che ho visto tanto tempo fa, sui prigionieri ebrei appena liberati da un campo di concentramento nazista, ridottipelleeossa. I campi di concentramento. Già. In un certo senso, Tokai aveva avuto una premonizione. «Che cosa sono io? Di recentemelochiedospesso». – Dal punto di vista medico, – proseguí il giovane, – è morto per insufficienza cardiaca. Il suo cuore non aveva piú la forza di pompare il sangue. Se possoesprimereilmioparere, però, è stato l’amore a ucciderlo. È morto d’amore, alla lettera. Piú volte ho telefonato a quella donna e l’ho pregata di venire a trovarlo, spiegandole la gravità della situazione. L’ho supplicata in ginocchio. «Venga almeno una volta, anche solo per qualche minuto. È in pericolo di vita, secontinuacosínoncelafa». Ma lei niente. Naturalmente non penso che al dottore sarebbe bastato vederla per riprendersi. Lui aveva già deciso di morire. Ma chissà, forse sarebbe potuto succedere un miracolo… O perlomeno sarebbe morto in condizioni di spirito diverse… A meno che lo stupore di trovarsela davanti non finisse per aggravare la sua confusione mentale, e causargliun’ulterioreeinutile sofferenza. Come posso saperlo? A essere sincero, di questa storia non ci capisco granché. Tranne una cosa, una sola: nessun altro al mondo è mai morto d’inedia per una delusione d’amore. Nonlocredeanchelei? Ero d’accordo. In effetti non avevo mai sentito nulla delgenere.Inquestosenso,il dottor Tokai era stato veramente un uomo eccezionale. Quando glielo dissi,ilgiovaneGotōsicoprí lafacciaconlemani,eperun po’ tacque. Di sicuro aveva voluto molto bene a Tokai. Avrei voluto consolarlo, ma non c’era nulla che potessi fare. Poco dopo smise di piangere,presedallatascadei pantaloniunfazzolettobianco pulitoesiasciugòlelacrime. – Scusi la debolezza, mostrarmiinquestostato… – Piangere per qualcuno non è una debolezza, – dissi. –Soprattuttoperunapersona cara che ci è venuta a mancare. Gotōmiringraziò. –Lesonoriconoscente.Le sueparolemisonod’aiuto,– disse. Poi prese da sotto il tavolo una racchetta da squash nella sua custodia e me la porse: era una magnificaBlackNightnuova dizecca. – Questa me l’ha affidata il dottor Tokai. L’aveva ordinataonline,maquandoè arrivata, non aveva piú la forza di usarla. Cosí mi ha incaricato di regalarla a lei, signor Tanimura. Poco prima di morire, all’improvviso ha ripresocoscienzaperqualche minuto e mi ha dato diverse disposizioni importanti. Una riguardava questa racchetta. Se le fa piacere, la usi, per favore. La presi ringraziando. Poi gli chiesi cosa ne sarebbe statodellaclinica. –Perilmomentoabbiamo sospesol’attività,maprimao poi verrà chiusa. Oppure verràvendutacontuttiimuri, – rispose lui. – Naturalmente ci sono da organizzare le varie pratiche, quindi credo che potrò dare una mano ancora per qualche tempo. Dopo non so. Anch’io ho bisogno di fare ordine nella mia anima. Non sono ancora in condizioni di pensare seriamentealfuturo. Auguravo sinceramente a quel giovane di riprendersi dallo shock e vivere una vita felice. – Signor Tanimura, – mi dissequandocisalutammo,– so di chiederle molto, ma vorrei pregarla di una cosa: non dimentichi mai il dottor Tokai.Perchéeraunapersona dal cuore infinitamente puro. Inoltrepensochelasolacosa chepossiamofareperimorti siacercarediricordarliilpiú a lungo possibile. Ma è piú difficilefarlochedirlo.Nonè qualcosa che ci si possa aspettaredachiunque. Risposicheavevaragione. Conservare il ricordo delle persone scomparse non è semplice come tutti pensano. Promisi che avrei fatto ogni sforzo per non scordare il dottor Tokai. Non ero in grado di giudicare fino a che puntoilsuocuorefossepuro, ma sapevo per certo che non era una persona banale, e valeva la pena riservargli un posto nella memoria. Ci separammoconunastrettadi mano. Di conseguenza, per non dimenticare il dottor Tokai, sto scrivendo questo testo. Per me, mettere le cose per iscrittoèilmezzopiúefficace per non lasciarle cadere nell’oblio. Al fine di non recar danno a nessuno ho cambiatoinomidipersonee luoghi, ma i fatti sono autentici, e sono avvenuti esattamente come li ho raccontati. E spero tanto che il giovane Gotō, dovunque sia,leggaquestepagine. C’è un’altra cosa che ricordo bene, riguardo al dottor Tokai. Ora non rammento perché fossimo venuti a parlare di quest’argomento, ma una volta lui mi espose la sua opinione sulle donne in genere. Era sua convinzione personale che ogni donna nascesse dotata di un organo speciale, un organo per cosí dire indipendente, che le permetteva di dire bugie. Quali bugie, in quali circostanze e in quale modo, dipendeva da una donna all’altra, con piccole variazioni.Matutteauncerto punto mentivano, senza esitazioni. Sia su dettagli di pococonto,siasucosegravi. In quei momenti la loro espressione, il loro tono di voce, non si alteravano. Perché non erano loro, le donne in questione, ad agire, ma l’organo indipendente di cui erano provviste. Ragion per cui non succedeva mai che la consapevolezza di mentire turbasse la loro coscienzaoimpedisselorodi dormire serenamente – a partealcunicasieccezionali. Parlavaintonocosísicuro quella volta, il dottor Tokai, che lo ricordo ancora benissimo. Quanto a me, fondamentalmente non posso che essere d’accordo con lui, ma su alcuni punti dissento. Forseluieio,arrampicandoci per sentieri diversi, siamo arrivati sulla stessa malagevolevetta. È certo che prima di morire ha avuto modo di verificare,senzatrarnealcuna gioia, quanto la sua teoria fosseesatta.Nonènecessario dire che mi fa molta pena, rimpiango dal profondo del cuore che se ne sia andato cosí. Ci vuole molta determinazioneperrifiutareil cibo e lasciarsi morire resistendo ai morsi della fame.Lasofferenza,siafisica chespirituale,dev’esseretale che solo chi l’ha provata la puòcomprendere.Tuttavia,il fattocheluiabbiaamatouna donna – a prescindere dal valore di lei – al punto da desiderare l’annullamento della propria persona, in un certo senso lo ritengo invidiabile, non posso fare a meno di pensarlo. Volendo, avrebbe potuto continuare a condurre la sua vita brillante egodereditantepiacevolezze nel suo angolo della città. A frequentare diverse donne contemporaneamente, a bere ottimo Pinot nero, a suonare MyWaysulpianoacodadel suo appartamento. Invece era caduto in preda a un amore tanto profondo da non riuscire piú a ingoiare nulla, da inoltrarsi in un territorio deltuttosconosciutoevedere paesaggi mai visti prima, infine cercare intenzionalmente la morte. Per usare le parole del giovaneGotō,ildottorTokai si era ridotto a zero. Quale delle due esistenze fosse per lui piú autenticamente felice, oqualefossepiúvera,nonsta a me giudicarlo. Al pari di Gotō, non so quale via predestinata lui abbia seguito quell’anno da settembre a novembre, non ci capisco niente. Giocoancoraasquash,ma dopolamortediTokai,anche perché nel frattempo ho traslocato, ho cambiato palestra. In quella che frequento adesso, di solito gioco con un allenatore professionista. Costa, ma è molto piú semplice cosí. La racchetta che mi ha lasciato Tokai non la uso quasi. È un po’ troppo leggera per me. E quando la tengo in mano, quandolasoppeso,nonposso fareamenodipensarealsuo corporidottopelleeossa. «Quando il suo cuore si muove,trascinaancheilmio. Come due barche attaccate l’una all’altra da una corda. Anche volessi tagliarla, quella corda, non ho strumenti abbastanza affilati perfarlo». Colsennodipoi,vieneda pensare che si fosse legato alla barca sbagliata. Ma possiamodareungiudiziodel genere con tanta facilità? A mio avviso, come quella donna (forse) ha mentito in balia di un organo indipendente, allo stesso modo per il dottor Tokai innamorarsi è stato un atto subordinato, qualcosa che la sua volontà non era in grado di impedire in alcun modo. Ancheseleimplicazionisono diverse. È troppo facile dall’esterno, a posteriori, mettere in discussione con supponenzailcomportamento diqualcunooscuoterelatesta con commiserazione. Se nel nostro operato non intervenisseunorganocheci spinge ad altezze vertiginose o ci fa precipitare storditi in fondo al baratro, un organo che a volte ci mostra splendide visioni, a volte ci induce a cercare la morte, la nostra vita sarebbe una cosa bensquallida.Siridurrebbea unaseriediabitudini. Cos’abbia pensato o provatoTokaidifronteauna mortecheavevasceltodisua volontà, naturalmente non possiamosaperlo.Manelsuo profondo dolore, nella sua profonda angoscia, tornò in sé, seppure per un momento, perdirediconsegnarmilasua racchettadasquash.Puòdarsi cheabbiaaffidatoaqueldono un qualche messaggio. Che volessefarmisaperediessere riuscito a trovare, arrivato vicino alla fine, una risposta alla domanda: «Che cosa sono io?» È questa la mia impressione. 1Bacirubati,del1968[N.d.T.]. 2 Fagioli di soia bolliti e fatti fermentare[N.d.T.]. Shahrazād Ogni volta che facevano sesso, la donna gli narrava una storia bellissima, appassionante. Come la Shahrazād delle Mille e una notte. È ovvio che Habara, contrariamente al sultano della leggenda, non aveva alcuna intenzione di tagliarle la testa al sorgere del sole (tantopercominciare,leinon era mai rimasta fino al mattino). La donna semplicemente amava raccontare. O forse desiderava anche portare qualche conforto a lui, obbligato a stare tutto il tempo solo e chiuso in casa. Manondovevaesserel’unico motivo, supponeva Habara, probabilmente apprezzava il piacere di parlare con un uomo,accantoaluinelletto, nel languore e nell’intimità che seguono a un rapporto sessuale. Habara la chiamava Shahrazād. Era il nome che segnava nella sua agenda nei giorni in cui la donna veniva da lui. Poi riassumeva brevemente la trama dell’ultima storia, ma in modo che nessuno, leggendo quelle note, ci capisse qualcosa. Habara non sapeva nemmeno se le storie che lei raccontava fossero realmente accadute o frutto della sua fantasia,sefosseroinparteo del tutto inventate. Verità e immaginazione, osservazione e sogno erano confusi in modo inestricabile, e orientarsi in questo groviglio non gli era possibile. Di conseguenza si limitava ad ascoltare senza porsi domande.Tantoperlui,nelle sue condizioni, che le storie fosserovereono,chefossero complicatimosaicidirealtàe fantasia, che importanza potevaavere? In ogni caso, Shahrazād aveva la capacità di catturare la sua attenzione. Di qualunque genere di vicenda si trattasse, raccontata da lei diventava qualcosa di straordinario.Iltono,ilmodo di ritmare le pause, di procedere nella narrazione, tutto era perfetto. Shahrazād sapevasuscitarel’interessedi una persona, tenerla perfidamente sulla corda, farla riflettere e ipotizzare, e alla fine darle esattamente quello che cercava. La sua abilità, tanto perfetta da essere addirittura detestabile, faceva scordare all’ascoltatorelarealtà,anche solo per un’ora. Come uno straccioumidopassatosuuna lavagna, faceva scomparire ricordi sgradevoli che non se ne volevano andare, preoccupazioni cui si preferivanonpensare.Etanto bastava, si diceva Habara. Anzi, dimenticare, in quel momento, era la sua aspirazionepiúgrande,quello che desiderava piú di ogni altracosa. Shahrazād aveva trentacinque anni – quattro piú di Habara –, essenzialmente era una casalinga (benché avesse il diploma d’infermiera e ogni tanto, all’occorrenza, venisse chiamataperqualchelavoro), aveva due figli in età scolare e un marito impiegato in una ditta.Abitavaaunaventinadi minuti in macchina da Habara, e questo era piú o meno tutto quello che gli aveva detto di se stessa. Naturalmente lui non aveva modo di controllare se fosse vero o falso. Né vedeva qualche ragione particolare permetterloindubbio.Ilsuo nome non gliel’aveva detto. «Che bisogno hai di saperlo?», gli aveva chiesto. E aveva perfettamente ragione. Per lui era soltanto Shahrazād, e per il momento era sufficiente. Nemmeno lei lo chiamava mai «Habara»; evitava con prudenti giri di frasididireilsuonome–che dovevaperforzaconoscere–, quasi che pronunciarlo fosse qualcosa di infausto o disdicevole. Anche a essere molto generosi, non si poteva paragonare Shahrazād a una delle incantevoli principesse che comparivano nelle Mille eunanotte.Eraunacasalinga di provincia che aveva iniziato a metter su grasso superfluo in varie parti del corpoesiavviavaseriamente a entrare nel territorio della mezza età. Il mento le si era ispessito, agli angoli degli occhi le si erano formate piccole rughe. Anche nel tagliodeicapelli,nelmododi vestirsi e di truccarsi, benché nonfossetrascurata,nonlasi potevacertodefinireelegante. Il suo viso non era affatto brutto,maerainsignificantee passava inosservato. Incrociandola per la strada, salendo con lei nello stesso ascensore, la maggior parte della gente non l’avrebbe degnatadiun’occhiata.Forse una decina di anni prima era stata anche lei una ragazza carinaepienadivita,epiúdi un uomo si era voltato a guardarla. Ma anche ammettendo che fosse cosí, su quei giorni a un certo punto era calato il sipario. E perilmomentonullalasciava pensare che si sarebbe alzato dinuovo. Shahrazād veniva alla «house» due volte alla settimana. Non a giorni fissi, però non capitava mai che si presentasse nel weekend. Probabilmente il sabato e la domenicalitrascorrevaconla famiglia. Circa un’ora prima diarrivare,telefonava.Strada facendo passava da un supermercato a comprare dei prodotti alimentari e li caricava in macchina – una Mazda azzurra di piccola cilindrata, un vecchio modello con un’appariscente ammaccatura sul paraurti posteriore e i cerchioni delle ruote neri di sporcizia. Parcheggiava nello spazio riservato alla «house», sollevava il portellone, prendevalabustadellaspesa, etenendolacontutteeduele bracciasuonavailcampanello della porta d’ingresso. Habara,dopoavercontrollato dallo spioncino che fosse Shahrazād, girava la chiave, toglieva la catena e apriva. Lei andava direttamente in cucina, suddivideva le vettovaglie acquistate e le metteva nel frigo. Poi faceva lalistadellecosedaportarela volta dopo. Doveva essere una padrona di casa efficiente, perché lavorava congestiesperti,senzaspreco dienergia.Mentresbrigavale sue faccende, non parlava quasi.Conservavapertuttoil tempo un’espressione seria e concentrata. Una volta terminata quell’operazione,idue,senza che l’iniziativa venisse dall’uno o dall’altra, si spostavano con naturalezza verso la camera da letto, come portati da una corrente invisibile. Lí si toglievano in fretta e in silenzio i vestiti, e si infilavano tra le lenzuola. Si abbracciavano quasi senza scambiarsi una parola e facevano sesso attenendosi grossomodo alle fasi usuali, quasi unissero le forze per assolvere insieme un compito.Quandoleiavevale mestruazioni, per ottenere lo scopo usava le mani. Il suo tocco esperto e professionale ricordava sempre a Habara che era un’infermiera diplomata. Terminato il rapporto sessuale, restavano distesi uno accanto all’altra a parlare. Cioè era lei che parlava, lui si limitava a fare ogni tanto un cenno, o una breve domanda. E quando le lancette dell’orologio segnavanolequattroemezza, Shahrazād si interrompeva, anche se era nel bel mezzo della storia (stranamente, succedeva sempre sul piú bello), usciva dal letto, raccoglievagliindumentiche erano rimasti sparsi sul pavimento, si rivestiva e si preparava ad andarsene. Perché doveva andare a cucinarelacena,diceva. Habaralariaccompagnava fino all’ingresso, richiudeva laportacontantodicatena,e da uno spiraglio nelle tende guardava la malconcia automobile azzurra allontanarsi. Verso le sei si preparava una semplice cena con gli ingredienti che trovavanelfrigo,emangiava da solo. Per un certo periodo era stato cuoco, quindi cucinare per lui non era un problema. Durante i pasti beveva acqua minerale (non toccava alcol), poi si faceva uncaffè,guardavadeifilmin dvd, oppure leggeva (poteva leggereperore,dipreferenza libri che meritavano piú di una lettura). Cosí passava le sue giornate. Non aveva nessuno con cui parlare. Nessunocuitelefonare.Privo anche di un computer, non poteva accedere a internet. Non riceveva i giornali, né guardavalatelevisione(c’era un valido motivo). E naturalmente non poteva uscire.Seperqualcheragione Shahrazād non si fosse piú fatta vedere, avrebbe perso ogni contatto col mondo esternoesarebberimastosolo comeunnaufragosuun’isola deserta,letteralmente. Questa possibilità però non lo metteva in ansia. Habara sapeva di essere in una situazione che doveva sistemare con le sue forze. Unasituazionedifficile,dalla quale tuttavia sarebbe venuto fuori. Non si trovava su un’isola deserta, lui «era» un’isola deserta, si diceva. Alla solitudine era abituato e non lasciava che agisse sui suoi nervi. Quello che lo preoccupava, piuttosto, era il fattochesefosserimastodel tutto solo, non avrebbe piú potuto parlare con Shahrazād nel letto. O, piú esattamente, non avrebbe potuto sentire il seguitodellastoriacheleigli stavaraccontando. Poco dopo essersi assuefatto alla «house», Habarainiziòafarsicrescere la barba, che aveva piuttosto folta. Naturalmente voleva cambiare l’aspetto del suo viso, ma non era l’unica ragione. Il motivo principale era l’ozio forzato. Con la barba lunga, tutti i momenti poteva portare la mano al mento, alle basette, ai baffi e godere di quella sensazione. Poteva passare parecchio tempo a modellarne la forma con forbici e rasoio. Fino ad allora non ci aveva mai fatto caso, ma farsi crescere la barba era un ottimo antidoto allanoia. – Nella mia vita precedenteerounalampreda, – gli disse una volta Shahrazād a letto. Senza scomporsi, come se gli spiegasseunacosaovvia,tipo che il Polo Nord si trova a settentrione. Che aspetto aveva una lampreda? Come viveva? Habara non ne aveva la minimaidea.Diconseguenza nonfececommenti. – Sai come fa una lampreda a mangiare una trota?–glichieseShahrazād. – No, non lo so, – rispose Habara. Era la prima volta che sentiva che le lamprede mangiavanoletrote. – Le lamprede non hanno mento.Èlagrossadifferenza conleanguille. – Perché? Le anguille ce l’hanno? –L’haimaiguardatabene, un’anguilla? – fece lei meravigliata. – Qualche volta l’ho mangiata, ma non ho mai avuto occasione di vederne unaintera. – Be’, una volta prova a osservarne una. Magari vai all’acquario. L’anguilla ha il mento e ha i denti. La lampreda invece non ha la mascella inferiore. In compenso la bocca è una speciediventosa,unaventosa con la quale si attacca alle rocce in fondo ai canali e ai laghi. Poi si capovolge e si mette a fluttuare. Come un’alga,insomma. Habara provò a immaginaretantelampredein fondo all’acqua che fluttuavano come alghe. Era una scena distaccata dalla realtà.Masapevabenechela realtàavoltesidistaccadase stessa. – In pratica le lamprede vivono grazie alle alghe, fra le quali si nascondono. E quando una trota passa sopra di loro, vanno su veloci e si attaccanoallasuapancia.Con la ventosa. Aderiscono alla trota come sanguisughe e vivono a spese sue. All’interno della ventosa c’è unaspeciedilinguafornitadi denti, che usano come una lima per aprire un buco nel corpodelpesceemangiarnea pocoapocolacarne. – Be’, non vorrei essere unatrota,–disseHabara. – Si dice che nell’antica Roma avessero delle vasche dove le allevavano, le lamprede, gli schiavi disobbedienti e ribelli venivanogettativivilídentro edatiloroinpasto. Non avrei nemmeno voluto essere uno schiavo nell’antica Roma, pensò Habara. Né nell’antica Roma né in nessun’altra epoca, a direilvero. – Ho visto per la prima volta una lampreda quando ero alle elementari, all’acquario, e quando ho letto le spiegazioni sul loro modo di vita, tutt’a un tratto misonoresacontochequello era stato il mio mondo precedente, – disse Shahrazād. – Ne ho dei ricordi molto vividi. Stavo attaccata alle rocce in fondo all’acqua,fluttuavocamuffata tralealgheeguardavoinalto le grasse trote che passavano sopradime. – Ricordi di averne mangiatauna? –No,questono. – Meno male… – fece Habara.–Nonricordialtrodi quando eri una lampreda? Solocheondeggiaviinfondo all’acqua? – Non è che si possa ricordare tutto in modo chiaro,delmondoprecedente, –disselei.–Sesièfortunati, a volte ce ne torna in mente un frammento per associazionediidee.Comese all’improvviso si guardasse dall’altra parte di un muro attraverso un forellino. Di quello che c’è al di là, se ne vedesoltantounpezzetto.Tu ti ricordi qualcosa, della tua vitaprecedente? – No, nulla, – rispose Habara.Eadirelaveritànon aveva nemmeno voglia di ricordarla. Quella presente bastavaeavanzava. – Non era male però vivereinfondoall’acqua,sai? Con la bocca saldamente attaccata a una roccia, a guardare i pesci che passavano sopra di me. C’erano anche tartarughe enormi. Viste dal basso sembravano scure e gigantesche, come le astronavi dell’Impero in Guerre stellari. Grandi uccelli bianchi dal becco lungo e affilato attaccavano i pescicomefosserodeisicari. Vistidalfondodell’acqua,gli uccelli sembravano nuvole che vagavano nel cielo azzurro. Ma a noi, che vivevamo giú, camuffate in mezzo alle alghe, non potevanofareniente. –Èunoscenariocheriesci ancoraavedere? – In modo chiarissimo, – disse Shahrazād. – La luce che c’era, la sensazione dell’acqua che scorreva… Ricordo anche le cose che pensavo all’epoca. E a volte riesco persino a entrarci, in quelloscenario. –Lecosechepensavi? –Sí. – Perché? Pensavi a qualcosa,làsotto? –Èovvio. – E a cosa pensa, una lampreda? –Pensacosedalampreda. Argomenti da lampreda, contesti da lampreda… ma non si possono tradurre nel nostro linguaggio. Perché sono idee appartenenti alle creature che vivono nell’acqua. È come per i bambini che sono ancora nell’utero. Sappiamo che hanno delle idee, ma non le possono esprimere con le parole che usiamo noi che siamoalmondo.Noncredi? – Non dirmi che ricordi anche quello che pensavi quandoerinellapanciaditua madre,–feceHabarastupito. – Certo che lo ricordo, – disse Shahrazād in tono noncurante.Einclinòunpoco la testa che teneva posata sul pettodilui.–Tuno? No,risposeHabara. – Be’, prima o poi te ne parlerò. Del tempo in cui ero ancoraunfeto. Quella sera Habara segnò sulla sua agenda Shahrazād, lampreda,mondoprecedente. Sequalcunoavesseletto,non avrebbecapitonulla. Aveva incontrato Shahrazād quattro mesi prima. Era stato mandato in quella«house»chesitrovava in una piccola città nel Nord del Kantō, e si era visto assegnare come «addetta al collegamento»unadonnache viveva nelle vicinanze. Il compito di questa donna era comprare per lui, che non poteva uscire, generi alimentarietantialtriprodotti d’uso quotidiano, e portargli il tutto a casa. Gli procurava anche i libri, le riviste e i cd cheluileindicava.Succedeva anche che arrivasse con qualche film in dvd (con quale criterio li scegliesse, Habara non l’aveva mai capito).QuandoHabarasiera abituato alla sua nuova condizione, dalla settimana seguente Shahrazād l’aveva portato a letto, quasi fosse uno sviluppo ovvio del loro rapporto.Sieraanchemunita di profilattici. Poteva darsi che fosse una delle «attività di supporto» che le erano state assegnate. In ogni caso, la proposta era venuta da lei senza imbarazzo o esitazioni, inserendosi in modo naturale nel corso degli eventi, quindi Habara non aveva osato opporsi. Si era docilmente infilato con lei nel letto e l’aveva presa tra le braccia, senza capire bene la logica dellasituazione. IlsessoconShahrazādnon sipotevacertodirechefosse appassionato, ma nemmeno una cosa soltanto tecnica. Anche supponendo che all’inizio lei lo considerasse solo uno dei suoi compiti (o doveri), da un certo punto in poiavevainiziatoatrovarvi– almeno in parte – un certo piacere.Habaralosentivadai sottili cambiamenti che percepivanelsuocorpo,ene era piuttosto contento. Comunque la si mettesse, lui non era un animale selvatico messo in gabbia, ma una personadotatadiunadelicata emotività. Un atto sessuale finalizzato solo a soddisfare la sua libido, benché in una certa misura gli fosse necessario, non lo appagava piú di tanto. Detto ciò, non riusciva a distinguere fino a che punto Shahrazād lo facesse per dovere, e quanto inveceattenesseallasuasfera personale. E non si trattava soltanto del sesso. Tutte le mansioni cheladonnasvolgevaperlui rientravano nei suoi compiti oppure erano qualcosa che faceva di sua iniziativa, per un suo desiderio (ammesso che si potesse parlare di desiderio in questo caso)? Anche questo Habara non lo sapeva. Shahrazād era una donna di cui era difficile capiresialeemozionichegli intenti. Ad esempio, di solito indossava semplice biancheriadicotone,privadi fronzoli.Ilgeneredicoseche mette una casalinga fra i trenta e i quarant’anni (una congettura di Habara, che da parte sua non aveva mai avutorapporticoncasalinghe diquell’età).Robacheaveva probabilmente comprato in saldo in qualche grande magazzino. In certi giorni però sfoggiava completi intimi provocanti, concepiti per sedurre. Dove se li procurassenonerachiaro,ma si trattava di capi di eccellente qualità. Capi delicati di colore intenso, di splendida seta e pizzo raffinato. Da dove nascevano quelle differenze estreme, in quali circostanze e con quale scopo? Per Habara non era possibilevenirneacapo. Un’altra cosa che lo impensieriva era che l’atto sessuale con Shahrazād e le storie che lei gli raccontava formavano una cosa sola: sesso e storie erano legati al punto che non riusciva piú a separarli. Isolare l’uno o l’altro elemento gli era semplicemente impossibile. Esserecoinvoltoinmodocosí profondo, diciamo pure essere legato mani e piedi, a una donna di cui non era innamorato, per la quale non nutriva una particolare passione, era una condizione perluideltuttonuovachelo confondevaunpo’. –Quandoeroadolescente, –attaccòunavoltaShahrazād mentre erano a letto, – ogni tanto mi intrufolavo di nascostonellacasadeivicini. Habara – come succedeva riguardo alla maggior parte delle storie che lei gli raccontava–nonriuscíafare uncommentopertinente. – A te è mai capitato, di intrufolartidinascostoincasa diqualcuno? – No, mai, credo, – si limitòarispondereHabara. – Sono cose che se le fai unavolta,poiprendiilvizio. –Maèillegale. – Infatti. Se ti beccano, finisci in galera. La violazione di domicilio con furto, o tentativo di furto, è un crimine piuttosto grave. Eppure, anche se sapevo che eramale,nonriuscivoafarne ameno. Habaraascoltavailseguito senzafiatare. – La cosa piú bella, quando si entra in casa di qualcuno in sua assenza, è il silenzio. Non so perché, ma c’era sempre una pace assoluta.Avevol’impressione diesserenelpostopiúquieto del mondo. In quell’atmosfera,semisedevo sul pavimento e non mi muovevo, potevo tornare facilmentealtempoincuiero una lampreda, – disse Shahrazād. – Era una sensazione fantastica. Ti ho raccontato, vero, che nella vita precedente ero una lampreda? –Sí,mel’hairaccontato. –Be’,provavodinuovole stesse cose: attaccata con la ventosa a una roccia sul fondo,portavolacodainalto e fluttuavo dolcemente nell’acqua. Come le alghe intorno a me. Il silenzio era profondo, non si sentiva il minimo suono. E del resto, forse, non avevo neppure le orecchie.Neigiornidisolela luce arrivava dalla superficie dell’acqua dritta come una freccia. A volte si scomponeva in un prisma luccicante. Pesci di forme e colori diversi mi passavano sopralatesta.Nonpensavoa nulla. O diciamo che avevo solo idee da lampreda. Idee confuse,eppurelimpide.Non trasparenti, cioè, ma prive di impurità. E io ero me stessa, ma contemporaneamente non lo ero. Provare questa sensazione era qualcosa di meraviglioso. La prima volta che Shahrazādsieraintrufolatain casa d’altri, frequentava il secondo anno di liceo – il liceopubblicodelquartiere– esierainnamoratadiunsuo compagno di classe. Un ragazzo alto che giocava a calcio e aveva ottimi voti in tuttelematerie.Nonsipoteva dire che fosse bello, ma era molto simpatico e sempre in ordine. Peccato che non ricambiasse la passione di Shahrazād, come spesso succede negli amori fra liceali.Nonladegnavadiuno sguardo, probabilmente innamoratoasuavoltadiuna ragazza di un’altra classe. Non le aveva mai rivolto la parola e forse non si era nemmeno accorto della sua esistenza. Eppure Shahrazād non riusciva a mettersi il cuoreinpace.Ognivoltache lo vedeva, per l’agitazione le veniva l’affanno, a volte addirittura la nausea. Doveva fare qualcosa, se non voleva impazzire. Ma dichiarargli il suo amore non sarebbe stata lamossagiusta.Alcontrario: sarebbestatapurafollia. UngiornoShahrazādsaltò lascuolaeandòacasadiquel ragazzo. Dalla propria abitazione, ci mise una quindicina di minuti a piedi. In quella famiglia non c’era piú il padre – un uomo che aveva lavorato in un cementificio ed era morto alcuni anni prima in un incidente stradale. La madre insegnava giapponese in una scuola media del comune vicino. Anche la sorella minore frequentava le medie, quindi all’ora di pranzo in casa non doveva esserci nessuno.Leilosapevaperché prima aveva raccolto le informazioninecessarie. La porta naturalmente era chiusa a chiave. Shahrazād provò a guardare sotto lo zerbino davanti all’ingresso. La chiave era lí. In quel tranquillo quartiere residenziale di quella cittadina di provincia non c’eranocriminaliingiro,ela gente non si preoccupava molto della sicurezza. Succedeva spesso che si lasciasse la chiave sotto lo zerbino o sotto un vaso, nel caso qualcuno della famiglia restassechiusofuori. Ad ogni buon conto, Shahrazād suonò il campanelloeaspettòunpoco, ma non successe nulla. Dopo essersi guardata intorno per controllarechenonlavedesse nessunodeivicini,aprí.Entrò echiuseachiavedall’interno. Si tolse le scarpe, le infilò in unabustadiplasticaelemise nellozainettocheavevasulle spalle.Inpuntadipiedisalíla scala. Come aveva previsto, la stanza di lui si trovava al primo piano. Il letto dalla struttura in legno era rifatto alla perfezione. C’erano scaffali carichi di libri, un armadio,unascrivania.Suun cassettone vide un ministereoealcunicd.Allepareti colorcremaeranoappesisolo uncalendariodellasquadradi calcio del Barcellona e una specie di gagliardetto, nient’altro, né poster né quadri. Alla finestra c’erano tendine bianche. Tutto era pulitoeordinato.Nientelibri ovestitilasciatiingiro.Sulla scrivania ogni cosa – penne, matite,gomme…–eraalsuo posto. La stanza rivelava chiaramente il carattere scrupoloso del suo proprietario. Ma forse era la madre a rimettere tutto perfettamente in ordine. O magari entrambi. Shahrazād eratesa.Perchéinunacamera trasandataesottosopra,selei inavvertitamente avesse spostatoqualcosa,nessunose ne sarebbe accorto. Sarebbe stato preferibile, pensò. Invece cosí doveva muoversi con molta attenzione. Al tempo stesso era contenta di aver trovato una stanza semplice e pulita, tenuta con cura. Rifletteva bene la personalitàdilui. Si sedette sulla sedia davantiallascrivaniaeperun po’ rimase lí senza fare niente. Al pensiero che lui, ogni giorno, studiava seduto dov’era lei adesso, sentí accelerare i battiti del cuore. Preseinmanoaunoaunogli oggetti che erano sul ripiano, dal primo all’ultimo – le matite, le forbici, il righello, la spillatrice, il calendario da tavola… – e li carezzò, li annusò, li baciò. Appartenevano a lui, e tanto bastava perché quelle cose banali brillassero per lei di lucepropria. Poiapríunodopol’altroi cassetti della scrivania e ne ispezionò attentamente il contenuto.Nelprimoc’erano fogli e quaderni e, in un angolo, un souvenir di qualcheviaggio.Nelsecondo cassetto c’erano i quaderni che lui usava a scuola, nel terzo(ilpiúbasso)altrifogli, vecchi fascicoli e verifiche corrette. Solo materiale che avevaachefareconlostudio o con la squadra di calcio. Nessun oggetto importante. Nontrovònulladiquelloche sperava, un diario o delle lettere… Nemmeno una fotografia. Le sembrò un po’ strano. Possibile che quel ragazzo,apartelascuolaeil calcio, non avesse alcun interesse personale? Oppure quel genere di cose le teneva nascoste da un’altra parte, in un posto dove non rischiavano di finire sotto occhiindiscreti? Tuttavia, già solo a stare seduta sulla sua sedia, a guardare i fogli dove aveva scritto lui, Shahrazād si sentiva colma di felicità. Di quel passo, forse sarebbe uscitadisenno.Percalmarsi, si alzò e si sedette sul pavimento. Alzò gli occhi al soffitto. Tutt’intorno regnava sempre un silenzio assoluto. E fu cosí che si trasformò in una lampreda in fondo all’acqua. – Tutto qui? Sei entrata nella sua stanza, hai preso in mano vari oggetti, e sei rimasta cosí, senza fare niente? – No, non è tutto, – disse Shahrazād. – Volevo avere qualcosa di suo. Volevo portarmi a casa qualcosa che lui usava ogni giorno, che si metteva addosso. Ma non poteva essere un oggetto cui teneva. Altrimenti si sarebbe accorto subito della sua mancanza. Quindi gli ho soltantorubatounamatita. –Unamatita? – Sí, una matita già usata. Ma non penso di aver commesso un banale furto. Sarei stata una ladruncola da quattro soldi. Avrei perso la miadignitàdipersona.Invece erouna«ladrad’amore». «Ladra d’amore», pensò Habara. Sembrava il titolo di unfilmmuto. – In compenso, ho voluto lasciare un segno, prima di andarmene. Una prova che ero stata lí. Per dimostrare che non si era trattato di un furto, ma di uno scambio. Però cosa potevo lasciare? Nonmivenivainmentenulla diadeguato.Hofrugatonello zainetto e nelle tasche, alla ricerca di qualcosa che potesse assumere il significato di un segno, ma non ho trovato niente. Avrei dovutopensarciprima,ormai eratardi…nonmirestavache lasciare lí un tampax. Un tampax non ancora usato, naturalmente, che ho preso dal pacchetto. Li avevo con meperchéerovicinaalciclo. Ne misi uno nell’ultimo cassettodellasuascrivania,in fondo, non l’avrebbe trovato facilmente. Forse a causa dell’agitazione,quellavoltale mestruazioni mi sono venute subitodopo. Una matita e un tampax, pensò Habara. Doveva scriverlo nella sua agenda. Ladra d’amore, matita, tampax. Sfidava chiunque a capirciqualcosa. – Quella volta, credo di essere rimasta lí al massimo unaquindicinadiminuti.Era la prima volta che entravo di nascosto in casa d’altri, quindipertuttoiltemposono stata in ansia, temevo che qualcuno tornasse all’improvviso e avevo fretta di andarmene. Dopo aver gettato uno sguardo per la stradasonoscivolatafuori,ho di nuovo chiuso a chiave la porta, e ho rimesso la chiave al suo posto sotto lo zerbino. Poisonoandataascuola.Con la preziosa matita che aveva usatolui. Arrivata a questo punto, Shahrazādperunpo’nonaprí bocca. Sembrava che stesse rivedendo mentalmente queglieventipassati. – Per tutta la settimana successiva, ogni giorno mi sentivo soddisfatta come non lo ero mai stata prima, – proseguí Shahrazād. – Tutti i momenti scrivevo sul quadernoconlamatitadilui, anche se non era necessario. La annusavo, la baciavo, me l’appoggiavosullaguancia,la strofinavoconledita.Avolte la leccavo persino. Col risultato che diventava semprepiúcorta,cosachemi rattristava molto. Ma non ci potevo fare nulla. Quando si sarebbe consumata del tutto, bastavacheandassiarubarne un’altra. Ecco cos’avevo in mente. Nel contenitore delle penne sulla sua scrivania, di matite usate ce n’erano parecchie. Se ne mancavano una o due, non l’avrebbe notato. Forse non s’era nemmeno accorto che in fondo a un cassetto c’era il mio tampax. A quel pensiero mi sentivo molto eccitata. Provavo uno strano prurito alla schiena. Per sopportarlo dovevo sfregare forte le ginocchiasottoilbanco.Non aveva importanza se nella vitarealequelragazzononmi vedeva neanche, non si accorgeva nemmeno che esistessi. Perché a sua insaputa mi ero procurata qualcosacheerapartedilui. –Eraunaspeciedirituale magico, insomma, – disse Habara. –Esatto.Inuncertosenso, forseeraunattodimagia.In seguito, quando ho letto dei libri sull’argomento, mi sono venute in mente alcune cose. Ma all’epoca ero ancora al liceoeilmiopensierononsi spingeva fin lí. Ero semplicemente trascinata dal mio desiderio di lui. Quando siprendonocertirischi,prima o poi può essere fatale. Se venivo colta in flagrante mentreentravoincasad’altri in assenza dei proprietari, sarei stata espulsa da scuola, la cosa si sarebbe saputa e nonavreipiúpotutoviverein questa città, probabilmente. Non facevo che ripetermelo. Ma non serviva a nulla. Non ero piú in condizioni di ragionarelucidamente. Trascorsi dieci giorni, di nuovo Shahrazād saltò la scuola e andò a casa del ragazzo. Erano le undici del mattino.Comelaprimavolta, prese la chiave da sotto lo zerbino davanti all’ingresso ed entrò. Salí direttamente al primopiano.Trovòlacamera di lui in ordine perfetto, il letto rifatto con cura. Tanto percominciare,preseinmano una lunga matita già usata e la mise con devozione nel proprio portapenne. Poi, con molta titubanza, si sdraiò sul letto. Tirò giú bene l’orlo della gonna, incrociò le mani sul petto e guardò il soffitto. Era lí che lui dormiva ogni notte. A quel pensiero il cuore le si mise a battere all’impazzata, in affanno. L’aria non le arrivava ai polmoni. La gola troppo secca le faceva male ogni voltacheinspirava. Si rassegnò ad alzarsi, stirò bene con le mani il copriletto, poi si sedette sul pavimento, come la volta precedente. Alzò lo sguardo al soffitto. Era troppo presto per sdraiarsi sul suo letto, si disse. Era un’emozione troppoforte. Quella volta rimase nella cameraunamezzoretta.Prese da un cassetto uno dei quaderni e lo sfogliò. Lesse un commento fatto dal ragazzo su un libro di Natsume Sōseki, Il cuore delle cose. Era stato uno dei compiti delle vacanze estive. Da quell’allievo eccellente cheera,avevariempitoifogli di bei caratteri precisi, senza errori né omissioni. La valutazione era «ottimo». Nulla di strano. A un testo scritto in ideogrammi cosí belli, qualunque insegnante avrebbe dato il massimo dei votianchesenzaleggerlo. Poi Shahrazād aprí l’armadioepassòinrassegna ivestiti.Labiancheriaintima e le calze. Le camicie, i pantaloni. L’uniforme della squadra di calcio. Tutto era piegato metodicamente. Non c’era nemmeno un capo sporcoorovinato. Tutto in ordine, tutto pulito. Era il ragazzo che piegava la roba? O sua madre? Probabilmente quest’ultima. Provò una forte invidia per quella donna che ogni giorno poteva occuparsi dilui. Mise il naso nei cassetti e aspirò l’odore degli indumenti,aunoauno.Erail profumodicoselavatebenee asciugate al sole. Tirò fuori una maglietta grigia in tinta unita, la dispiegò, se la posò sulviso.Speravachesottole ascelle restasse l’odore del sudore di lui. Invece niente. Ciononostante, se la tenne sulla faccia per molto tempo, respirandodalnasoattraverso la stoffa. Le venne voglia di prendersi quella maglietta. Ma era troppo pericoloso. Quei vestiti erano tenuti con tanta cura che di sicuro il proprietario(esenonlui,sua madre) ricordava esattamente quante magliette c’erano nei cassetti. Se ne fosse mancata una, sarebbe successo un putiferio. Alla fine rinunciò a quell’idea. Piegò di nuovo la maglietta come l’aveva trovata e la rimise al suo posto. Doveva fare molta attenzione.Nonerailcasodi correre rischi. Quella volta, oltre alla matita, decise di prendereunpiccolodistintivo a forma di pallone da calcio che trovò in fondo a un cassetto. Era una cianfrusaglia cui lui non doveva tenere molto, probabilmente l’aveva da quandogiocavanellasquadra della scuola elementare. Mai piú si sarebbe accorto della suascomparsa.Operlomeno, prima che se ne accorgesse sarebbe passato un sacco di tempo. Già che c’era, Shahrazādvollecontrollarese il tampax che aveva messo nell’ultimo cassetto della scrivania la volta precedente c’era ancora. Sí, era sempre lí. Chissà cos’avrebbe pensato la madre, se avesse trovatountampaxnascostoin uno dei cassetti del figlio… Ne avrebbe parlato direttamentealui?«Acosati serve questa roba? Vorrei proprio saperlo!» Oppure avrebbe taciuto, facendo in cuor suo mille congetture? Shahrazād non riusciva a immaginare quale reazione potesseavereunamadreinun caso del genere. Ad ogni buon conto il tampax non lo toccò.Erailprimosegnoche avevalasciato,dopotutto. Questa volta, lasciò in cambio tre suoi capelli. La seraprimasierastrappatatre capelli, li aveva avvolti nella pellicola trasparente, poi li aveva chiusi in una piccola busta sigillata. Prese dallo zainetto la busta che aveva preparato e la mise in un cassetto, infilata fra due vecchi quaderni di matematica. Erano tre capelli neri, né troppo lunghi né troppo corti. A meno di non analizzarne il Dna, non era possibile sapere a chi appartenessero. Ma bastava un’occhiata per capire che eranoicapellidiunagiovane donna. Shahrazād uscí da quella casaeandòascuola,seguíle lezionidelpomeriggio.Eper i dieci giorni seguenti si ritenne soddisfatta. Aveva la sensazionediessereentratain possesso di altre parti di lui. Ma il discorso non finiva certamente lí. Entrare di nascostoincasad’altri,come aveva detto lei stessa, era diventatounvizio. Arrivata a quel punto, Shahrazād guardò l’orologio sulcomodino. –Ah,adessodevoandare, – disse come parlando a se stessa. Scese dal letto e cominciò a vestirsi. Le lancette dell’orologio segnavano le quattro e trentadue. Rimise le semplici mutandine bianche, si allacciò il reggiseno sulla schiena,infilòinfrettaijeans elamagliettablucolmarchio dellaNike.Nelbagnosilavò bene le mani col sapone, diede qualche colpo di spazzola ai capelli. Poi salí sulla Mazda azzurra e se ne andò. Rimasto solo, Habara, che non aveva granché da fare, ripercorse col pensiero tutte le cose che Shahrazād gli aveva raccontato a letto, una dopo l’altra, come le mucche quando ruminano il cibo appena mangiato. Come sarebbe finita, quella storia? Non riusciva proprio a immaginarlo, come sempre contuttelesuestorie.Gliera difficile anche figurarsi lei al secondoannodiliceo:chissà seeracarina,aqueltempo,se erasnella…Avevaletrecce? Portava l’uniforme del liceo conicalzinibianchi? Non avendo ancora appetito, prima di mettersi a preparare la cena cercò di andareavantinellaletturadel libro che aveva iniziato, ma non riuscí assolutamente a concentrarsi. La scena di Shahrazād che entrava di nascosto in quella villetta di due piani, che si metteva sul viso la maglia del suo compagno di classe, che ne aspiraval’odore,continuavaa tornargli in mente. Voleva conoscere il seguito il piú prestopossibile. Shahrazād tornò tre giorni dopo, passato il fine settimana. Come sempre, estrasse da una grossa busta di carta una serie di vettovaglie che sistemò in vari posti, cambiò l’ordine di disposizione del cibo nel frigorifero, controllò che non ci fossero prodotti scaduti, verificò la provvista di conserveinvetroeinlattina, quelladeicondimenti,fecela lista delle cose da comprare. Mise in frigo altre bottiglie d’acqua minerale. Per finire posòsultavoloilibrieidvd nuovicheavevaportato. –C’èqualcosachemanca, o che desideri in particolare? –chiese. – No, non mi viene in mente nulla, – rispose Habara. Come al solito, i due andarono a letto e fecero sesso.Dopobrevipreliminari, Habara mise un preservativo e la penetrò (lei gli aveva chiesto di usare un profilattico dall’inizio alla fine) e dopo una durata di tempo adeguata eiaculò. Un rapportoforsenonpuramente meccanico, ma nemmeno coinvolgente. Lei stava sempreattentaaevitarechesi mettesse in quell’atto un eccessodipassionalità.Come un istruttore di scuola guida che preferisce non avere allievi troppo emotivi. Shahrazād controllò con occhio professionale che Habara avesse versato senza sbagliare nel preservativo un’adeguata quantità di sperma, poi iniziò a raccontare. Dopo essere entrata per la seconda volta in casa del ragazzo, aveva passato una decina di giorni felice e contenta. Ogni tanto, durante le lezioni, accarezzava il distintivo col pallone, riposto al sicuro nel portapenne. Mordicchiava la matita, ne leccavalamina.Pensavaalla stanza di lui. Alla sua scrivania, al letto dove dormiva, al suo armadio pieno di vestiti, ai suoi semplici boxer bianchi, e al tampax e ai tre capelli che aveva nascosto nel cassetto dellasuascrivania. Daquandoavevainiziatoa intrufolarsi in quella casa, aveva perso ogni voglia di studiare. In classe o sognava a occhi aperti, o si concentrava nel gesto di carezzare la matita e il distintivo di lui. A casa faceva fatica ad applicarsi ai compiti che le erano stati assegnati. Prima era stata un’allieva discreta. Pur senza distinguersi, aveva sempre studiato seriamente – era nel suocarattere–eottenutovoti al di sopra della media. Di conseguenza, quando non riusciva a rispondere alle domande degli insegnanti, questi, piú che arrabbiarsi, si stupivano. L’avevano anche convocata in sala professori durante l’intervallo, per chiederlesecifossequalcosa chenonandava,seavessedei problemi.Maleinonerastata in grado di dare una risposta soddisfacente. «Negli ultimi tempi non sono tanto in forma…», era solo riuscita a balbettare. Naturalmente non poteva dire la verità: che si era innamorata di un ragazzo e durante la giornata entrava di nascosto in casa sua, che gliavevarubatodellematitee un distintivo, che giocherellava trasognata con queste cose e non riusciva a pensareadaltrochealui.Era un suo segreto, oscuro e pesante, di cui nessuno era a conoscenza. – Il bisogno di entrare periodicamente in casa sua era diventato impellente, – disse Shahrazād. – Capirai anche tu che la cosa era rischiosissima. Non potevo continuare indefinitamente a camminare sulla fune. Lo sapevo benissimo anch’io. Prima o poi sarei stata scoperta,eaquelpuntosarei di sicuro finita al commissariato di polizia. A quel pensiero provavo un’ansia insopportabile. Ma una volta iniziato a rotolare giúperlachina,nonriuscivo piú a fermarmi. Passati di nuovodiecigiorni,ipiedimi hanno portato da soli davanti a casa sua. Altrimenti sarei uscita di senno. Ma a ripensarciadesso,midicoche probabilmente ero già un po’ fuoriditesta. – Saltare spesso le lezioni non ti ha creato problemi, a scuola?–chieseHabara. – I miei genitori erano commercianti, sempre sovraccarichidilavoro,enon badavano molto a me. Non avevo mai dato preoccupazioni, né disobbedito apertamente ai loro ordini. Di conseguenza erano convinti di poter allentare la presa sul guinzaglio. Le giustificazioni per la scuola riuscivo a falsificarle facilmente, adducevo qualche motivo banaleimitandolascritturadi mia madre e firmavo. All’insegnante responsabile della classe avevo detto che in quel periodo non stavo bene e ogni tanto dovevo assentarmi qualche ora per andaredalmedico.Nellamia classe c’erano diversi allievi che non si presentavano a scuola per lunghi periodi, quindi i professori avevano già problemi a sufficienza, nessuno dava molta importanza al fatto che io saltassi qualche volta le lezionidelmattino. A quel punto Shahrazād gettòun’occhiataall’orologio sulcomodino,poiriprese: – Di nuovo tolsi la chiave da sotto lo zerbino, aprii la porta ed entrai. La casa era silenziosa come sempre, anzi no, piú del solito. Il rumore del termostato del frigo in cucina stranamente mi fece sobbalzare, sembrava il sospirodiungrossoanimale. Poi tutt’a un tratto squillò il telefono.Aquelsuonofortee sgradevole, il cuore mi si fermò quasi nel petto. Mi inondai di sudore dalla testa ai piedi. Ma ovviamente nessuno rispose a quella chiamata, e dopo una decina di volte gli squilli cessarono. Quando il telefono tacque, scese un silenzio piú profondochemai. Quel giorno era rimasta a lungo distesa sul letto. Il cuore non le batteva piú all’impazzata come la volta precedente, il suo respiro era regolare. Percepiva la presenza del ragazzo che dormiva tranquillo accanto a lei, le bastava protendere un braccio per toccare il suo braccio robusto. Era una sensazionecuisieraabituata. Ma in realtà di fianco a lei non c’era nessuno, naturalmente. Un sogno a occhiapertil’avvolgevacome unafittanebbia. Le venne una voglia irresistibile di sentire l’odore dilui.Sialzòdalletto,eandò afrugaretralemaglietteinun cassetto dell’armadio. Erano tutte perfettamente pulite, asciugate al sole e arrotolate con precisione come tanti salsicciotti. Nessuna traccia disporciziaodiodore.Come lavoltaprecedente. A quel punto le venne un’idea. Magari avrebbe funzionato. Scese in fretta al pianterreno.Nellospogliatoio delbagnotrovòlacestadella roba sporca e ne sollevò il coperchio.C’eranoindumenti di lui, della madre e della sorella. Probabilmente quelli usati il giorno prima. Nel mucchio, Shahrazād trovò una maglietta da uomo. Una maglietta bianca girocollo della Bvd. La annusò. Era impregnata del sudore di un giovane maschio, senza possibilità di dubbio. Un odore un po’ soffocante – lo stesso che sentiva quando stavavicinoaisuoicompagni di scuola. Non si poteva dire che le allargasse il cuore, eppure, venendo da lui, la rendeva felice. Si portò al visoilpezzosottoleascellee aspirò a fondo: provò la sensazione che lui l’avvolgesse,chelastringesse fortetralebraccia. Con la maglietta in mano, Shahrazādsalíalprimopiano edinuovosidistesesulletto. Selamisesulvisoerespiròa lungo quell’odore, senza stufarsi.Intantocominciavaa provare uno strano torpore all’altezza delle reni. Sentí che i capezzoli le si indurivano. Stavano per venirle le mestruazioni? No, non era possibile. Era troppo presto. Capí che erano sensazioni provocate dal desiderio sessuale, ma non sapeva come gestirlo e controllarlo. In ogni caso, in quel posto non poteva fare proprio nulla. Dopotutto era nellastanzadilui,sullettodi lui. Decise di portarsi via quella maglietta impregnata di sudore. Naturalmente era pericoloso. Sua madre si sarebbeaccortachemancava. Anche senza andare a immaginare che qualcuno l’avesse rubata, si sarebbe chiesta dove fosse finita. Vista la cura e la pulizia meticolosa con cui teneva la casa, quella donna doveva amare l’ordine in modo ossessivo. Notando che c’era una maglietta in meno, avrebbe messo le stanze sottosopra, decisa a non arrendersifinchénonl’avesse scovata. Un vero cane da guardia severamente addestrato. A quel punto, nella camera da letto del suo prezioso figlio avrebbe trovato le tracce lasciate da Shahrazād.Maleinonvoleva separarsi da quella maglietta, pur rendendosi conto di fare una cosa rischiosa. Il suo cuore non voleva sentir ragioni. In cambio, cosa mai poteva lasciare?, si chiese. Magariuncapodibiancheria intima… Le mutandine banali, semplici, relativamente nuove, che aveva messo quel mattino. Poteva nasconderle in fondo all’armadioamurodov’erano riposti futon e coperte. Le sembrava un oggetto di scambio assolutamente appropriato. Quando se le tolse, tuttavia, si rese conto che erano umide. Colpa del desideriocheprovavaperlui, si disse. Provò ad annusarle: non avevano nessun odore. Ma considerando per quale motivo le aveva sporcate, si disse che non poteva nasconderle in quella stanza. Se avesse fatto una cosa del genere, avrebbe finito col disprezzarsi. Si rimise le mutandine, e decise di lasciare qualcos’altro. Ma cosa? Arrivataaquelpuntodella storia, Shahrazād tacque. Per lunghi minuti non disse una parola. A occhi chiusi, respirava quietamente dal naso. Anche Habara, sdraiato accantoalei,tacevainattesa cheriprendesseaparlare. –Senti,Habara,–fecelei alla fine riaprendo gli occhi. Era la prima volta che lo chiamavapernome. Luilaguardò. – Senti, Habara, ti va di prendermiancoraunavolta? –Be’,direipropriodisí,– risposeHabara. Dinuovosiabbracciarono. Lei adesso era molto diversa da prima. Il suo corpo era caldo, umido fino in profondità. La sua pelle splendeva, molto piú soda ed elastica. Habara immaginò che stesse rivivendo ciò che aveva provato da ragazza, quando si era intrufolata in casa del suo compagno di classe. O forse aveva veramenterisalitoilfiumedel tempoederatornataadavere diciassette anni. Come quando tornava alla sua vita anteriore. Shahrazād era in grado di farlo. Riusciva a esercitaresusestessalaforza straordinaria della sua arte di narratrice. Allo stesso modo incuiipiúbraviipnotizzatori possono ipnotizzare se stessi servendosidiunospecchio. Fecero l’amore con un trasporto diverso. A lungo e con passione. E alla fine lei raggiunse chiaramente l’orgasmo. Il suo corpo si contrasse piú volte. In quei momenti, anche i lineamenti del suo viso sembrarono stravolgersi. Vedendola cosí, Habarariuscíaimmaginarela ragazza che doveva essere a diciassetteanni,quasipotesse scorgere un paesaggio guardando da uno spiraglio. Quella che teneva ora fra le braccia era un’adolescente assillata da un pensiero, e imprigionata per caso nel corpo di una casalinga di trentacinque anni. Habara si rese conto che lei, a occhi chiusi, trasognata, tremando leggermente, stava aspirando l’odoredellamagliettasudata diungiovaneuomo. Quando finirono, Shahrazād non ricominciò a raccontare. Né controllò scrupolosamente il preservativousatodaHabara. I due rimasero cosí, in silenziounoaccantoall’altra. Lei teneva gli occhi aperti e fissava il soffitto. Come le lamprede, quando dal fondo di un lago guardano in su la superficie luminosa dell’acqua. Che felicità, pensava Habara, se fosse diventato anche lui una lampreda in un mondo diverso,inuntempodiverso! Nonundeterminatoindividuo che si chiamava Habara Nobuyuki, ma una semplice lampreda senza nome… Sarebbero stati entrambi due lamprede, lui e Shahrazād, uno di fianco all’altra si sarebbero attaccati con le rispettiveventoseaunapietra e avrebbero guardato verso l’alto fluttuando dolcemente, inattesachepassassequalche grossatrotaaltezzosa. – E alla fine cos’hai lasciato, in cambio della maglietta?–chieserompendo ilsilenzio. Lei tacque ancora per qualchemomento,poidisse: – Niente, alla fine non ho lasciato niente. Perché non avevo nulla con me che valesse quanto quella maglietta impregnata del suo odore. L’ho presa e sono andata via. E in quell’istante sonodiventataunaveraladra. Dodici giorni dopo, quandoShahrazādandòperla quarta volta a casa di lui, trovò la serratura cambiata: illuminata dai raggi del sole quasiallozenit,brillavacome l’oro, solida, orgogliosa. E la chiave non era sotto lo zerbino. Probabilmente la madresieraaccortachedalla cesta della roba sporca era sparita una maglietta del figlio.Avevaispezionatocon occhio attento tutta la casa, e si era resa conto che accadevano cose strane. Che qualcuno forse entrava quando non c’era nessuno. E subitoavevafattosostituirela serratura. Una conclusione ben fondata, e una reazione tempestiva. Davanti a quella serratura nuova, Shahrazād si era scoraggiata, ma al tempo stessoavevaprovatounsenso disollievo.Comesequalcuno da dietro fosse venuto a toglierleunpesodallespalle. Ormainonavevapiúbisogno di intrufolarsi in casa altrui, pensò. Se la serratura non fosse stata cambiata, avrebbe di sicuro continuato, lasciandosi trascinare in una spirale sempre piú rischiosa. Eprimaopoisarebbeandata incontro a una catastrofe. Qualcuno della famiglia sarebbe rientrato all’improvviso mentre lei era su al primo piano. E in tal caso non avrebbe avuto scampo. Sarebbe successo, fatalmente. Ora invece non correva piú il pericolo di cacciarsi in quella disastrosa situazione! Doveva essere riconoscenteallamadredilui, ai suoi occhi di falco, anche senonl’avevamaiincontrata. Ogni sera Shahrazād, primadidormire,annusavala maglietta che si era portata via. Se la teneva accanto. Quando andava a scuola la avvolgeva in un pezzo di carta e la nascondeva in un posto sicuro. Dopo cena, quandorestavasolanellasua stanza, la prendeva, la accarezzava, ne sentiva l’odore. Temeva che col passare dei giorni andasse affievolendosi, ma non era successo. Come un ricordo prezioso,quell’odoreavrebbe impregnato quella maglietta persempre. Sapendocheormaidoveva rinunciare a intrufolarsi in casa del ragazzo (meglio cosí!), a poco a poco Shahrazād ritrovò la sua normalecondizionedispirito. La sua mente riprese a funzionare come prima. In classe,gradualmentesmisedi sognare a occhi aperti, tanto che le succedeva persino di sentire quello che diceva l’insegnante. Ma piú che prestare attenzione alle lezioni, osservava lui. Lo teneva d’occhio di continuo: nonc’erapercasoqualcosadi cambiato nel suo atteggiamento? Non dava segni di nervosismo? No, era sempre lo stesso ragazzo che rideva spensierato a bocca aperta, rispondeva con prontezza quando veniva interrogato, e dopo le lezioni siallenavaconpassionenella squadra di calcio. Gridava molto, sudava molto. Nulla lasciavapensarecheintornoa luifossesuccessoqualcosadi strano. Era un ragazzo terribilmenteaposto,pensava lei con ammirazione. Non avevaunsolodifetto. Lei però conosceva il suo punto debole, pensò Shahrazād.Oqualcosacheci andava vicino. Con ogni probabilità era l’unica personaaessernealcorrente, a parte forse la madre. La terza volta che era entrata in casasua,infondoall’armadio amuroavevatrovatounapila di riviste pornografiche. Rivistepienedifotodidonne nude. Donne con le gambe aperte che mostravano generosamente i genitali. C’erano anche foto di coppie che facevano sesso in posizioni estremamente innaturali. Membri grossi comebastonichepenetravano la vagina della donna. Era la prima volta in vita sua che vedevafotodelgenere.Siera seduta alla scrivania e aveva guardatocongrandeinteresse quelle riviste, pagina dopo pagina. Aveva immaginato chedavantiaquelleimmagini lui si masturbasse. La cosa però non le dava fastidio. Non si sentiva delusa nello scoprire quella sua condotta, la trovava del tutto naturale. Doveva pur liberarsi da qualche parte dello sperma che produceva. Il fisico dei maschi era fatto cosí (un po’ come le donne avevano il ciclomensile).Inquelsenso, lui era come tutti i ragazzi della sua età. Né un eroe, né unsanto.Conoscerequelsuo lato le dava un senso di sollievo. – Dopo che ho smesso di intrufolarmi in casa sua, il sentimento fortissimo che provavo per lui lentamente è andato attenuandosi. Come l’acquaconlabassamareasi ritiraapocoapocodallariva delmare.Nonsoperché,non provavo piú la stessa esaltazione nell’annusare la sua maglietta, e mi capitava sempre meno sovente di accarezzare trasognata le sue matiteoildistintivo.L’ardore sistavaspegnendo,cosícome cala la febbre. Non si era trattatodi«qualcosadisimile a una malattia», ma di una malattia vera e propria. Una sorta di forte febbre che per un certo periodo mi aveva sconvolto il cervello. Può darsi che tutti, nella vita, attraversino un periodo di incoerenza cosí. O forse è un’esperienza che ho fatto solo io, un’esperienza molto speciale. A te non è mai successo? Habara ci pensò su, ma non gli venne in mente nulla delgenere. – No, niente di altrettanto straordinario,–rispose. Aquelleparole,Shahrazād parveunpo’delusa. – In ogni caso, quando ho finitoilliceoauncertopunto l’hodimenticato.Talmentein fretta che ne ero stupita io stessa. Non riuscivo nemmeno a ricordarmi cosa miavesseattrattotantoinlui, quando avevo diciassette anni.Lavitaèpropriostrana. Qualcosa che in un certo momento ti sembrava splendidoeperfetto,qualcosa percuieriprontaabuttarevia tutto quello che avevi, basta che passi un po’ di tempo, o che lo guardi da un angolo diverso, e lo trovi sorprendentemente scialbo. Finisci col chiederti cosa vedevano davvero i tuoi occhi. Questa è la storia del periodo in cui entravo di nascostoincasaaltrui. A Habara venne in mente il «periodo blu» di Picasso. Macomprendevabenequello cheleivolevadire. La donna diede un’occhiata all’orologio digitale sul comodino: era quasi ora di andare via. Lasciò passare qualche secondo,poiriprese: – In verità, però, la storia non finisce qui. Quattro anni dopo, quando ero al secondo anno del corso per diventare infermiera, per una strana combinazionel’hoincontrato. In quell’occasione anche sua madre ha fatto una sensazionaleentratainscena, erainvischiatainunavicenda cheassomigliavaaunastoria di fantasmi. Non sono sicura che mi crederai. Vuoi sentire com’èandata? – Assolutamente, – disse Habara. – Allora te lo racconto la prossima volta, – concluse Shahrazād. – Perché è una storia piuttosto lunga, e ora devo tornare a casa per prepararelacena. Si alzò, si rimise slip e reggiseno, infilò le calze, la sottoveste, la gonna e la camicetta.Habara,ancoranel letto, la osservava compiere quellaseriedigesti.Preferiva quasi vederla vestirsi che spogliarsi. – C’è qualche libro che vuoichetiporti?–glichiese Shahrazād prima di uscire. Lui rispose di no, nessun libro in particolare. Perché voleva soltanto conoscere il seguito di quella storia, pensò, ma non lo disse. Aveva l’impressione che esprimere quel desiderio avrebbe allontanato indefinitamente il momento atteso. QuellaseraHabaraandòa lettopiúprestodelsolitoesi mise a pensare a Shahrazād. Potevaanchedarsichenonsi facesse piú vedere. Un’eventualità che non era esclusa e che lo metteva in ansia. Tra lui e Shahrazād non c’era alcun patto personale. Il loro era un legame creato da qualcuno che poteva interromperlo quando gli pareva, a suo capriccio. Insomma, erano uniti in modo precario da un filo sottilissimo. Probabilmente un giorno, anzi, «sicuramente un giorno» sarebbe arrivato l’annuncio che tutto era finito. Che il filo era stato spezzato.Primaopoisarebbe successo, non c’era da dubitarne. E quando lei fosse andata via, Habara non avrebbe piú potuto sentirla raccontare. La narrazione si sarebbeinterrottaetantealtre storie nuove sarebbero rimaste per sempre inascoltate. Oppure gli sarebbe stata toltaognilibertà,colrisultato che avrebbe perso non solo Shahrazād ma tutte le donne. La probabilità che accadesse era alta. In tal caso, non avrebbe mai piú potuto penetrare in fondo al loro corpo umido. Mai piú avrebbe potuto sentirle vibrare leggermente. Ma la prospettiva davvero insopportabileperlui,piúche la preclusione dell’atto sessuale in sé, era di non poter piú passare insieme a loro momenti di intimità. Perdere le donne in conclusione significava proprio questo. Perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse. Era qualcosa che Shahrazād gli aveva regalato in quantità generosa, eppure inestinguibile. Per Habara, dover rinunciare un giorno a tutto questo era forse la piú penosadelleprospettive. Chiusegliocchiesmisedi pensare a lei. Pensò alle lamprede. Alle lamprede che non avevano mento, e fluttuavano dolcemente attaccate a una roccia, dissimulate fra le alghe. Si trasformò in una di loro e attese che passasse una trota. Ma per quanto aspettasse, di trote non ne vide arrivare nemmeno una. Né grassa, né magra,nénulla.Poiilgiorno finí e tutto venne avvolto da tenebreprofonde. Kino L’uomo sedeva sempre allo stesso posto. L’ultimo sgabelloinfondoalbancone, che di solito era libero, a meno che il bar fosse affollato. Ma tanto per cominciare, succedeva di radochecifossemoltagente in quel locale, e poi gli avventori non apprezzavano particolarmente quella posizione defilata. A causa dellascalasulretroilsoffitto in quel punto scendeva in diagonale, e alzandosi si rischiava di battere la testa. Mal’uomo,puressendoalto, sembrava prediligere quel postoscomodo. Kino ricordava bene la prima volta che l’uomo era venuto. Prima di tutto aveva il cranio perfettamente rasato (dalla sfumatura azzurrognola, sembrava fresco di tonsura), inoltre, nonostante fosse magro, aveva le spalle larghe e una luce vigile negli occhi. Gli zigomi sporgenti e il mento forte. Età: fra i trenta e i trentacinque anni. Indossava un lungo impermeabile grigio, anche se non pioveva né minacciava di piovere. Motivo per cui Kino si era chiesto se non fosse uno yakuza. Si era subito sentito un po’ teso, già in allarme. Era una sera piuttosto fresca verso la metà di aprile, appena passate le sette e mezza, e non c’erano altri clienti. L’uomo andò a sedersi sull’ultimosgabelloinfondo, si tolse l’impermeabile, l’appeseaunattaccapannisul muro, ordinò una birra con voce tranquilla, poi si mise a leggereinsilenziounospesso volume. Dall’espressione del viso, sembrava totalmente assorto nella lettura. Circa una mezzora dopo, quando terminò la birra, alzò una mano per chiamare Kino e ordinò un whisky. Alla domanda se avesse delle preferenze riguardo alla marca,risposedino. – Possibilmente un normale scotch, doppio. Con la stessa quantità d’acqua, e pocoghiaccio,perfavore. Possibilmente uno scotch? Kinoversòinunbicchieredel White Label, vi aggiunse altrettanta acqua, spezzò del ghiaccio con il punteruolo e scelse due pezzi piccoli ben riusciti. L’uomo bevve un sorso e disse che andava benissimo. Lesse per un’altra mezzora,poisialzò,chieseil conto e pagò in contanti. Per non cambiare banconote, diede giusti anche gli spiccioli.Quandoseneandò, Kino tirò un sospiro di sollievo. L’ombra della presenza di quell’uomo, tuttavia, continuò ad aleggiare nel bar. Mentre preparava degli stuzzichini per accompagnare le bevande, Kino ogni tanto alzava la testa e gettava un’occhiata allo sgabello dov’era seduto fino a poco prima. Come se si aspettasse di vederlo lí, a sollevare una manoperchiedergliqualcosa. L’uomo prese l’abitudine di frequentare il bar di Kino. Venivaunaoancheduevolte alla settimana. Ordinava prima una birra, poi un whisky (White Label, la stessa quantità d’acqua, poco ghiaccio). Succedeva che ne chiedesse un secondo, ma di solito si limitava a un bicchiere. Certe sere sceglieva di mangiare qualcosa di leggero fra le proposte del menu scritto sullalavagna. Era un uomo taciturno. Anche dopo essere diventato un avventore abituale, non apriva mai bocca, se non per ordinare. Quando incontrava losguardodiKinofacevaun breve cenno con la testa, quasi dicesse: «Mi ricordo bene di te, sai?» Arrivava relativamente presto con un libro sotto il braccio, lo posava sul bancone e si metteva a leggere. Uno spesso volume rilegato. Kino nonl’avevamaivistoconun libro in edizione tascabile. Quandosistancavadileggere (c’era da supporre che si stancasse), alzava gli occhi dalla pagina e guardava le bottiglie sullo scaffale di fronte a lui, una per una. Come se esaminasse animali rariimpagliati,provenientida paesilontani. Una volta abituatosi alla sua presenza, però, Kino smise di sentirsi a disagio trovandosi solo con quel cliente. Kino stesso era taciturno, e stare in compagniadiqualcunosenza parlare non gli dava alcun fastidio. Mentre l’uomo era assorto nella lettura, lui lavava i bicchieri, preparava una salsa, sceglieva i dischi da mettere sullo stereo, oppure si sedeva a leggere il giornale,comesefossesolo. Non conosceva il nome di quell’uomo. Mentre l’uomo, invece, sapeva che lui si chiamava Kino. Come il suo bar. L’uomo non si presentò mai, e Kino non gli chiese mai nulla. Era soltanto un cliente abituale che veniva, beveva una birra e poi un whisky, leggeva in silenzio, pagava in contanti e se ne andava. Non disturbava nessuno. Cos’altro c’era da sapere? Kino aveva lavorato per diciassetteanniinunadittadi articoli sportivi. Quando frequentava la facoltà di Educazione fisica eccelleva nella corsa su media lunghezza. Ma al terzo anno, a causa di un’infiammazione del tendine di Achille, aveva dovutorinunciareallacarriera professionistica, e dopo la laurea, su raccomandazione del suo allenatore, era stato assunto in quella ditta, dove si occupava soprattutto del settore delle scarpe da corsa. Il suo lavoro consisteva nel cercare di aumentarne la distribuzione nei negozi di articoli sportivi in tutto il paese, e di far crescere, almeno di uno, il numero degli atleti importanti che sponsorizzavano le scarpe di quella marca. Quell’impresa di media grandezza con sede a Okayama non aveva il prestigio della Mizuno o dell’Asics. Né poteva investire grosse somme di denaro per assicurarsi contratti esclusivi con campioni mondiali, come facevano la Nike o l’Adidas. Non dava a Kino nemmeno i soldi necessari per invitare qualche atleta famoso. Se volevaoffrireunacenaauno di loro, doveva tagliare sulle spese di viaggio, o pagare di tascapropria. Eppure la sua ditta produceva onestamente scarpe da corsa di prima qualità fatte a mano, e non erano pochi gli sportivi che apprezzavano quel modo di lavorare preciso e coscienzioso. «Quando si lavora bene, i risultati si vedono», era l’opinione del presidente, che era anche il fondatore. Probabilmente quellapoliticaimprenditoriale sobria,controcorrenterispetto ai tempi, era nelle corde di Kino. Pur essendo un uomo schivo e di poche parole, riusciva infatti a svolgere decorosamenteilsuoruolodi rappresentante. Proprio perchénoneraunimbonitore, sapeva conquistare la fiducia di molti allenatori e la simpatia di alcuni atleti. Si faceva spiegare da ognuna di queste persone quale tipo di scarpa gli servisse, e una volta tornato in sede trasmetteva le richieste agli incaricati della fabbricazione. Era un lavoro tutto sommato interessante,eKinolofaceva volentieri.Lostipendiononsi poteva dire buono, ma c’era la soddisfazione di occuparsi di qualcosa che sembrava fattosumisuraperlui.Ormai non poteva piú correre, ma guardare gli atleti in piena crescita che si allenavano in pista con stile ed energia era unveropiacere. Se Kino aveva lasciato la ditta, quindi, non era certo perchénefossescontento.Vi era stato spinto da un problema scoppiato come un fulmine a ciel sereno, un problema di coppia: aveva scoperto che un suo collega, quello con cui era piú in confidenza, aveva una relazione con sua moglie. Kino passava piú tempo in viaggidilavorocheaTōkyō. Girava per tutto il paese con una sacca piena zeppa di scarpedacorsa,andavadaun negozio di articoli sportivi all’altro, si presentava nelle università e nelle ditte che avessero una squadra di atletica.Einsuaassenzaquei due si vedevano. Lui non era il tipo da fare attenzione a certi indizi. Era convinto di andare d’amore e d’accordo con la moglie e non aveva mai dubitato di lei. Se una volta, per puro caso, non fosse rientrato con un giorno di anticipo, forse non si sarebbemaiaccortodiniente. Dalla città dov’era stato per lavoro, era tornato direttamente al suo appartamento nel quartiere di Kasai, e aveva trovato la moglie e quell’uomo nudi, una sopra l’altro, nella camera di casa sua; nel letto matrimoniale dove aveva sempre dormito con lei. La situazionenonlasciavaspazio a fraintendimenti: sua moglie era accovacciata su quell’uomo, in una posizione tale che, quando Kino aprí la porta, se la trovò davanti, di faccia. Vide i suoi bei seni andare avanti e indietro. All’epoca lui aveva trentanove anni, lei trentacinque. Non avevano figli. Kino si voltò, si chiuse alle spalle la porta della stanza,ripreselasaccaconla robasporcadiunasettimana, uscí di casa e non fece piú ritorno. Il giorno dopo diede ledimissioni. Kinoavevaunazianubile, la sorella maggiore di sua madre.Eraunadonnaconun bel viso che aveva sempre voluto molto bene a quel nipote.Dadiversianniaveva un fidanzato piú vecchio di lei(forsesarebbemegliodire un amante) che con grande generosità le aveva offerto una villetta nel quartiere di Aoyama. Una storia degna dei bei tempi antichi. Lei viveva al primo piano, e al pianterreno aveva aperto un caffè.C’eraancheunpiccolo giardino, con un magnifico salicedallafrondarigogliosa. Si trovava in una stradina dietro il museo Nezu, una posizione poco favorevole a un’attività commerciale di quelgenere,masuaziaaveva il talento di calamitare la gente,egliaffarileandavano piuttostobene. Purtroppo però la zia, che aveva piú di sessant’anni, soffrivadidoloriallaschiena e a poco a poco trovava sempre piú faticoso gestire il locale. Cosí aveva deciso di chiudere e trasferirsi in un residencecontermeannessea Izukōgen, nella penisola di Izu. Il posto era anche equipaggiato per la fisioterapia. Di conseguenza, tre mesi prima che Kino scoprisse che la moglie lo tradiva,gliavevapropostodi prendere il suo posto quando lei si fosse ritirata. Lui le aveva risposto che apprezzava molto quell’offerta, ma per il momento non era sua intenzioneaccettare. Subito dopo essersi licenziato in ufficio, Kino telefonòallaziaperchiederle seavessegiàcedutoillocale. No, la vendita era stata affidata a un’agenzia immobiliare, ma non si era ancora presentato un acquirente affidabile, gli risposelei. –Mipiacerebbemetteresu unbar,lí.Prenderloinaffitto, se possibile, pagandoti un tanto al mese… – propose Kino. –Ecomefaicollavoroin ditta? – Mi sono appena licenziato. –Tuamoglieèd’accordo? – Da mia moglie divorzierò molto presto, credo. Kino non disse il motivo, la zia non fece domande. Dall’altra parte del filo ci fu un breve silenzio. Poi la zia gli disse quanto gli avrebbe chiestoalmeseperaffittargli eventualmente il locale, una somma molto inferiore a quella che lui aveva immaginato. Se le cose stannocosí,pensòKino,forse celafarò. – Riceverò anche una piccola liquidazione, quindi non ho intenzione di crearti problemi,zia,–disse. – Di questo non mi preoccupo affatto, – tagliò cortolei. Non è che Kino e sua zia si fossero parlati molto negli anni (sua madre non vedeva di buon occhio troppa confidenza fra loro), eppure stranamente si erano sempre capiti.Laziasapevabeneche tipo d’uomo fosse il nipote: se faceva una promessa, la manteneva. Usando la metà dei suoi risparmi, Kino ristrutturò l’interno del locale trasformandolo in un bar. Lo ammobiliò nel modo piú semplice possibile, con un’asse di legno lunga e spessa si fece costruire un bancone, comprò delle sedie nuove. Tinteggiò le pareti in colori tranquilli, cambiò le luci con altre piú adatte a un luogo dove si beveva alcol. Portò da casa i dischi della sua modesta collezione e li dispose su uno scaffale. Installò un buon sistema stereo – della Thorens, gli amplificatori invece erano della Luxman, e le casse Jbl 2ways–cheavevacomprato, con molto sforzo, prima di sposarsi. Gli era sempre piaciuto ascoltare vecchio jazz registrato in analogico. Era il suo solo hobby, un hobby che non condivideva con nessuno dei suoi amici. Inoltre da studente aveva lavorato part-time in un pub di Roppongi, e con i cocktail selacavava. Il bar lo chiamò «Kino». Non gli venne in mente un nome migliore. La prima settimana non vide nemmeno un cliente. Ma era una cosa chesiaspettava,quindinonsi lasciòscoraggiare.Nonaveva detto a nessuno dei suoi conoscenticheavrebbeaperto un locale. Non aveva fatto pubblicità né appeso all’esterno un’insegna appariscente. Semplicemente attendeva che qualcuno scoprisse quel bar aperto da poco in fondo a una stradina laterale, e lo trovasse di suo gusto. Gli restavano ancora un po’ dei soldi della liquidazione, e la moglie, dallaqualesistavaseparando legalmente, non pretendeva gli alimenti. Lei ormai convivevaconl’excollegadi Kino, quindi l’appartamento diKasaidoveavevanoabitato insieme non serviva piú. L’avevano venduto, avevano estinto il mutuo, e diviso a metà fra loro la somma restante. Kino decise di sistemarsi nell’alloggio sopra il bar. Per qualche tempo potevatirareavanti. Nellocaledeserto,Kinosi gustava finalmente il piacere di ascoltare la musica o di leggere quanto voleva. Accolse la solitudine e il silenzio con molta naturalezza, come il terreno arido assorbe la pioggia. Metteva spesso sul giradischi un assolo al piano di Art Tatum. Si addiceva perfettamente alle sue condizioni di spirito in quel momento. Per qualche ragione, non provavanécolleranérancore verso la moglie e il suo ex collega che se l’era portata a letto. Naturalmente all’inizio lo shock era stato forte, ma bene o male era riuscito a rimuovere quel pensiero, e dopo un po’ di tempo era arrivato alla conclusione che «tanto non ci poteva fare niente». Era una fine annunciata. In vita sua non aveva mai ottenuto nulla, prodotto nulla. Non era capace di rendere felice nessuno, e ovviamente neppure se stesso. E poi cos’era la felicità? A quel puntoKinononlosapevapiú. Dolore e collera, delusione e rassegnazione… erano emozionichenonriuscivapiú a provare veramente. Quello cheriuscivaamalapenaafare era crearsi un luogo a cui ancorarsi,perimpedirealsuo cuore, che delle emozioni avevapersolaprofonditàeil peso, di andare alla deriva. «Kino», quel piccolo locale nascosto in fondo a una stradina, era la manifestazione concreta di quel luogo. Col risultato che eradiventatounpostodoveci si sentiva stranamente a proprioagio. Prima ancora degli esseri umani, a scoprire quanto si stava bene da «Kino» era stato un gatto randagio dal pelo grigio. Era un giovane maschio con una bella coda lunghissima. Sembrava che gli piacesse particolarmente uno scaffale incavato in un angolo del locale, perché si metteva sempre a dormire raggomitolato lí. Kino cercava di non occuparsene troppo.Probabilmentevoleva solo essere lasciato in pace. Una volta al giorno gli dava da mangiare e gli cambiava l’acqua. Altre cose per lui non ne faceva. Gli aveva soltanto aperto una gattaiola inmodochepotesseentraree uscire liberamente. Ma il gatto,chissàperché,preferiva passare dalla porta come le persone. Poteva anche darsi che quel gatto avesse portato con sé un flusso positivo. Perché gli avventori, seppur gradualmente, cominciarono ad arrivare. Ad attirarli era l’atmosfera di quella villetta in fondo alla strada – l’insegnapocoappariscentee ilmagnificosalicevecchiodi anni, il giovane titolare taciturno… e gli lp che giravano sul piatto dello stereo, il menu che contava pochi piatti leggeri ma semprediversi,ilgattogrigio acciambellatoinunangolo… Alcuni clienti venivano con regolaritàeavolteportavano con sé altra gente. Kino era ancora lontano dal guadagnarebene,mariusciva almeno a rientrare del costo dell’affitto.Perluierapiúche sufficiente. L’uomo dalla testa rasata eraentratoperlaprimavolta nel locale circa due mesi dopo l’apertura. E ne passaronoaltridueprimache Kino venisse a sapere il suo nome. Si chiamava Kamita. «Siscrivecongliideogrammi che significano “divinità” e “risaia” 1, ma non si legge Kanda, si legge Kamita», aveva detto. Non stava parlandoconKino,però. Quella sera pioveva. Non tanto, quel che bastava per chiedersi se convenisse prenderel’ombrelloono.Nel locale,oltreaKamita,c’erano due uomini vestiti di scuro che erano venuti insieme. Erano circa la sette e mezza. Kamita, come sempre, aveva occupato lo sgabello tutt’in fondo al bancone e leggeva bevendo White Label. I due uomini invece erano seduti a un tavolo e bevevano vino. Quandoeranoentratiavevano tirato fuori una bottiglia di Médoc da un sacchetto di carta e avevano chiesto se potevano berla lí, pagando cinquemila yen per il disturbo. Dato che non c’era la fila, Kino, non avendo motivodirifiutare,dissedisí. Aveva stappato la bottiglia e portato loro due bicchieri da vino.Insiemeaunpiattinodi snack. Non era un gran disturbo.Ilproblemaerachei due fumavano in continuazione, e Kino, cui il fumo dava fastidio, non era molto contento della loro presenza. Visto che non c’eranoaltriclienti,sisedette su uno sgabello ad ascoltare unlpdiColemanHawkinsin cuierainclusaJoshuaFitthe BattleofJericho.L’assolodel contrabbassista Major Holley erastraordinario. I due uomini all’inizio bevevano chiacchierando amichevolmente, ma a un certo punto qualcosa scatenò una discussione. Di cosa parlassero, Kino non riusciva a capirlo, ma sembravano avere opinioni opposte su un determinato argomento perché a poco a poco, fallito ogni tentativo di trovare un compromesso, si infiammaronoaunpuntotale che trasformarono quella che era stata una discussione educata in un vero e proprio litigio. A un certo punto uno dei due si alzò, e nella foga sollevò da un lato il tavolino facendo cadere a terra il posacenere pieno di sigarette e uno dei bicchieri, che si ruppe in mille pezzi. Kino andòaprenderelascopa,pulí il pavimento, portò un altro posacenere e un altro bicchiere. Kamita–inquelmomento Kino non sapeva ancora che si chiamasse cosí – non faceva niente per nascondere quantotrovasseriprovevoleil comportamento arrogante dei due uomini. Benché non avesse cambiato espressione, conleditadellamanosinistra continuavaatamburellaresul bancone, come un pianista che provi una chiave interessante. È necessario metter fine a questa lite, pensò Kino. Era uno di quei casi in qui doveva assumersi lui la responsabilità della situazione. Tornò al tavolino dei due uomini, si scusò, e chiese loro gentilmente di abbassareiltonodivoce. Uno dei due sollevò lo sguardo su di lui. Nei suoi occhic’erairritazione.Sialzò inpiedi.Finoaquelmomento Kinononciavevafattocaso, ma era grande e grosso. Non eccessivamente alto, ma con un torace ampio e braccia spesse. Avrebbe potuto facilmente essere un lottatore sumo. Probabilmente non avevamaipersounazuffafin da quando era bambino. E noneraabituatoasentirsidire quel che doveva fare. Kino, quandofrequentavalafacoltà di Educazione fisica, ne aveva visti parecchi, di tipi cosí. Non erano il genere di persona con cui si può discuteretranquillamente. L’uomo che lo accompagnava era molto meno grosso. Mingherlino, il coloritolivido,avevaunviso astuto. Dava l’impressione di essere bravissimo a manipolareglialtri.Anchelui sialzò.OraKinoerainpiedi di fronte ai due. Sembrava avesserodecisodisospendere momentaneamente la discussioneeoccuparsidilui. Comeperincantosembròche il loro respiro si fosse sincronizzato. Quasi che entrambi sapessero quale piega avrebbero preso gli avvenimenti. – Come ti permetti di interrompere la gente quando parla, tu? – chiese quello grosso. Entrambi indossavano vestiti in apparenza costosi, cheaunesamepiúattentosi sarebbero probabilmente rivelati di qualità mediocre. Forse non erano dei veri e propri yakuza, ma ci andavano vicino. In ogni caso, né l’uno né l’altro sembravano il genere di persona che svolge un mestiereonesto.Ilpiúgrosso aveva i capelli a spazzola, il piú basso – che li aveva tinti castani – li portava legati in una specie di coda di cavallo che ricordava la pettinatura deisamurai.Kinosapevache si stava mettendo nei guai. Il sudore gli colava a rivoli sottoleascelle. –Scusate,–feceunavoce allesuespalle. Voltandosi, vide che Kamita era sceso dal suo sgabelloesieraavvicinato. – Fatemi il favore di non prendervela con il gestore, – disseKamitaindicandoKino. –Sonoiochel’hopregatodi chiedervidiabbassareiltono di voce, eravate molto rumorosi.Stoleggendoenon riescoaconcentrarmi. Kamita aveva parlato a voce meno alta di quanto faccia di solito la gente, e prolungandolepause.Eppure si aveva l’impressione che qualcosa, da qualche parte, avesse lentamente iniziato a muoversi. – Sta leggendo e non riesce a concentrarsi nella lettura, – ripeté parola per parola il mingherlino. Come severificassechenoncifosse qualche errore di sintassi nellafrase. – Non ce l’ha una casa, lei?–chieseilgrosso. –Síchecel’ho,–rispose Kamita.–Abitoquivicino. – Allora perché non se ne tornaaleggereacasasua? – Perché mi piace leggere qui,–disseKamita. I due compari si scambiaronoun’occhiata. –Melopresti,ilsuolibro, – fece il mingherlino. – Glieloleggoio. – A me piace leggere in pacedasolo,–disseKamita. – Perché non sopporto quando la gente confonde gli ideogrammi. –Divertente,questoqui,– disse il grosso. – Che ridere… – Come si chiama, lei? – chiesel’altro. –Kamita.Siscrivecongli ideogrammi che significano «divinità» e «risaia», ma non si legge Kanda, si legge Kamita –. Fu cosí che Kino venne a sapere il nome di quell’uomo. –Loterròamente,–disse ilgrosso. – Buona idea. I ricordi in qualche modo danno forza, – fuilcommentodiKamita. – Senta, perché non andiamo a parlare fuori? Credo che ci potremo spiegare meglio, – propose il mingherlino. – D’accordo. Andiamo pure dove vuole. Prima però dobbiamo pagare il conto, altrimenti è il gestore che ci perde. – Certamente, – disse il mingherlino. Kamita chiese il conto a Kino e lasciò la somma precisachedoveva,inclusigli spiccioli, sul bancone. Codadicavallo tirò fuori dal portafoglio una banconota da diecimila yen e la gettò sul tavolino. – Con questo siamo a posto anche per il bicchiere rotto,no? – È piú che sufficiente, – risposeKino. – Un bar da poveracci, – feceilgrosso. –Ilrestononlovogliamo, usalo per comprare dei bicchieri da vino decenti, – disseaKinoCoda-di-cavallo. – In quelli che ci hai dato, anche il vino di qualità fa schifo. – Sí, proprio un bar da poveracci,–ripetéilgrosso. – Infatti, questo è un bar da poveracci dove vengono dei poveracci, – gli disse Kamita.–Nonèadattoavoi. Cenesonoaltri,dibaradatti a voi. Non chiedetemi dove, però… – Ma dice cose divertenti, questo qui, – fece il tipo grosso.–Cheridere… – Rida piú tardi, per favore, quando ci ripenserà con calma, – gli rispose Kamita. –Inognicaso,nontoccaa lei dirci dove dobbiamo andare e dove no, – fece Coda-di-cavallo. Poi tirò fuori la lingua per leccarsi lentamente le labbra. Sembravaunserpentedavanti aunapreda. L’uomo grosso aprí la portaeuscí,seguitodaCodadicavallo. Il gatto dovette percepire l’atmosfera minacciosa, perché scappò fuorimalgradolapioggia. – Tutto a posto? – chiese KinoaKamita. – Non c’è motivo di preoccuparsi, – rispose lui con un accenno di sorriso sulle labbra. – Lei resti qui, signorKino,nonfaccianiente e attenda che io ritorni. Non cimetteròmolto–.Poiuscíe chiuselaporta. Pioveva ancora, piú forte diprima.Kinoandòasedersi suunosgabelloeaspettòche il tempo passasse, come gli era stato detto di fare. Non c’era pericolo che entrassero altri clienti. Fuori c’era un silenzio sinistro, non si sentiva il minimo rumore. Il libro che Kamita stava leggendo, come un cane ben addestrato,erarimastoaperto sul bancone in attesa del suo padrone. Trascorsi dieci minuti, la porta si aprí e Kamitaentrò,solo. – Potrebbe prestarmi un asciugamano, per favore? – chiese. Kino gliene porse uno pulito. Kamita lo usò per strofinarsi la testa bagnata, poilanuca,lafaccia,einfine lemani. –Laringrazio.Oraètutto a posto. Quei due non si faranno rivedere. E non le darannopiúalcunfastidio. – Ma… che cosa è successo? Kamita scosse piano la testa.Comeperdire:«Meglio chenonlosappia».Poitornò a sedersi al suo posto, bevve quel che restava del suo whisky e riprese a leggere comesenullafosse.Primadi andareviachieseilconto,ma Kino gli ricordò che aveva giàpagato. – Ah, è vero, – fece lui quasiconl’ariadiscusarsi;si tirò su il colletto dell’impermeabile, mise in testailcappelloalargatesa,e uscí. Quando se ne fu andato, Kino uscí a sua volta e fece ungironeidintorni.Tuttoera tranquillo. Non passava anima viva. Non c’erano tracce di rissa, non si vedeva sangue. Cosa poteva mai essere successo? Tornò nel bar e rimase in attesa di clienti. Ma non venne nessuno fino all’ora di chiusura. Non tornò neppure il gatto. Kino si versò in un bicchiere un doppio White Label, ci mise la stessa quantità d’acqua, due piccoli pezzi di ghiaccio e lo assaggiò.Nonavevaungusto speciale. Era quello che era. Ma quella sera Kino aveva bisognodibere. Da studente, una volta, in una via laterale di Shinjuku avevaassistitoaunlitigiofra untipochedovevaessereuno yakuza e due giovani impiegati. Lo yakuza era un uomo di mezza età dall’aspetto malandato, mentre i due giovani sembravano molto piú in forma. Erano un po’ brilli, motivo per cui avevano sottovalutato l’avversario. Probabilmente conoscevano qualche rudimento di boxe. Ma a un certo punto lo yakuza aveva stretto una mano a pugno e senza dire una parola, con uno scatto repentino, li aveva colpiti senza che quelli nemmeno lo vedessero arrivare. E quando erano a terra li aveva presi furiosamente a calci con la suola delle scarpe di cuoio. Dalrumore,c’eradasupporre che avesse spezzato loro diverse ossa. Poi l’uomo si era allontanato a piedi come se nulla fosse. Questo è un professionista, aveva pensato Kino quella volta. Uno che non diceva una parola di troppo, decideva in anticipo le mosse, e colpiva velocissimo, prima che l’avversario avesse il tempo di prepararsi. Lo stendeva, poi infieriva su di lui senza pietà. E se ne andava. Un dilettante non aveva nessuna chancedibatterlo. Kinoimmaginòlascenain cui Kamita in pochi secondi metteva fuori combattimento quei due uomini. A pensarci bene,dalsuoaspettofisicosi poteva immaginare che fosse unpugile.Inognicaso,Kino non aveva modo di sapere cosa fosse successo in quella sera di pioggia. Né di chiederespiegazionialui.Piú si lambiccava il cervello, piú ilmisterosiinfittiva. Una settimana dopo quell’episodio, Kino andò a letto con una cliente. Era la prima donna con la quale aveva un rapporto da quando si era separato dalla moglie. Doveva avere una trentina d’anni o poco piú. Non la si poteva definire veramente bella,maavevalunghicapelli lisci,ilnasocorto,equalcosa che attirava gli sguardi. Nel mododiparlareedimuoversi aveva un ineffabile languore e sul viso un’espressione indecifrabile. Era già venuta diverse voltenelbardiKino.Sempre insieme a un uomo piú o meno della sua età. L’uomo aveva degli occhiali dalla montatura di tartaruga e il mentoornatodaunabarbetta in stile beatnik. Capelli lunghi, niente cravatta… dall’aspetto non sembrava un normale impiegato. Lei indossava sempre tubini attillati che mettevano in risaltoilsuobelcorposnello. Sedevano ogni volta al bancone e scambiavano qualche parola di tanto in tanto mentre bevevano un cocktail.Nonrestavanomaia lungo. Kino aveva immaginato che venissero a berequalcosaprimadiandare a letto. Oppure il contrario, dopo aver fatto l’amore. Difficile dirlo. Comunque fosse, nel loro modo di bere c’era qualcosa che per associazione di idee faceva venire in mente un rapporto sessuale.Unrapportolungoe intenso. Entrambi erano stranamente inespressivi, soprattutto lei, che Kino non avevamaivistoridere. La donna ogni tanto gli parlava. Sempre a proposito della musica che in quel momento usciva dalle casse. Il nome dei musicisti, la selezione dei pezzi, cose del genere… Amava il jazz, e possedeva anche lei una piccolacollezionedidischiin vinile,disse. – Mio padre a casa ascoltava spesso questo tipo di musica. Io preferisco cose piú moderne, ma anche questa non mi dispiace, mi mettenostalgia. Dalle sue parole era difficile capire se a darle nostalgia fosse la musica o il ricordo del padre. Ma Kino nonchiesespiegazioni. Adirelaverità,cercavadi limitare le chiacchiere con quella donna. Perché l’uomo che l’accompagnava non sembrava gradire troppa confidenza. L’unica volta in cui aveva avuto con lei una vera conversazione sulla musica (avevano scambiato informazioni sui negozi di lp disecondamanoeparlatodel mododimaneggiareidischi), l’uomo gli aveva lanciato occhiate fredde e sospettose. E Kino desiderava tenersi possibilmentelontanodaquel genere di grane. Tra tutte le emozioni umane, non ce ne sonodipeggioridellagelosia e dell’orgoglio. Kino aveva soffertoacausaditutteedue. Ognitantosichiedevasenon avesse in lui qualcosa che faceva emergere di continuo quel lato oscuro delle persone. Tuttavia, quella volta lei venne sola. Non c’erano altri avventori.Eraunaseraincui pioveva senza sosta. Quando aprílaporta,l’ariadellanotte siingolfònellocaleportando l’odore della pioggia. La donna si sedette al bancone, ordinò un brandy e chiese di metterle un disco di Billie Holiday. – Uno dei primi, se possibile, – disse. Kino posò sul piatto dello stereo un vecchio lp della Columbia checomprendevaGeorgiaon My Mind. Lo ascoltarono insieme, in silenzio. Poi lei chiesedigirarlosullatoB,e Kinoeseguí. La donna bevve tre bicchieri di brandy, mettendoci parecchio tempo, e nel frattempo ascoltò diversi vecchi dischi. Erroll Garner in Moonglow, Buddy DeFranco in I Can’t Get Started. All’inizio Kino era convinto che avesse appuntamento con il solito tipo, ma l’ora di chiusura si avvicinava, e dell’uomo non si vedeva l’ombra. Quanto a lei, non dava veramente l’impressione di aspettarlo. La prova: non guardava mai l’orologio. Ascoltava la musica, seguiva i suoi pensieri,ognitantobevevaun sorso di brandy. Sembrava cheilsilenziononlamettesse a disagio. E il brandy è un genere d’alcol cui il silenzio si addice. Lo si fa oscillare leggermente, se ne osserva il colore, se ne annusa l’aroma… e intanto si fa passare il tempo. Lei indossava un leggero cardiganblusuunabitonero a mezze maniche. Alle orecchie aveva dei piccoli orecchinidiperle. –Oggiilsuoamicononè venuto? – si decise a chiederle Kino poco prima dellachiusura. – No, oggi non viene. Perché sta in un posto molto lontano, – rispose lei; poi si alzò dal suo sgabello, si avvicinò al gatto addormentato e con la punta delle dita cominciò ad accarezzarlo con dolcezza sulla schiena. Il gatto seguitò adormiresenzabadarle. – D’ora in poi, non abbiamointenzionedivederci piú, – proseguí lei come se volessedareunaspiegazione. O forse stava parlando al gatto. In ogni caso, Kino non sapeva come rispondere. Al di là del bancone, continuò semplicemente a riordinare, senza dire una parola. Pulí il ripiano della cucina, lavò gli utensili e li ripose in un cassetto. – Come dire… – riprese leismettendodiaccarezzareil gatto e tornando verso il bancone: i suoi tacchi alti risuonavanosulpavimento.– Sa, la nostra non è una relazionechesipossadefinire normale. – Non si può definire normale… – ripeté pedestrementeKino. La donna finí di bere il brandy che restava nel bicchiere. – C’è una cosa che vorrei mostrarle, signor Kino, – disse. Di qualsiasi cosa si trattasse, Kino non aveva alcunavogliadivederla.Non era obbligato a farlo. Lo sapeva benissimo fin dall’inizio. Eppure in quel momento non riuscí a pronunciare le parole che avrebbedovuto. Leisitolseilcardiganelo posòsuunosgabello.Portòle manidietrolanucaetirògiú la cerniera del vestito. Poi voltò la schiena verso Kino. Poco al di sotto della stringa del reggiseno, si vedevano alcunipiccolilividi.Eranodi un grigio carbone sbiadito, e lalorodisposizioneirregolare faceva pensare a una costellazione invernale. Una serie di scure stelle spente. Potevano essere i segni lasciatidaun’eruzionedovuta a una malattia contagiosa. O lecicatricidiunaferita. Perlunghiminutiladonna mostrò a Kino la schiena nuda, senza parlare. Il grigiore dei lividi faceva uno strano contrasto col bianco splendente del reggiseno nuovo. Kino la guardava in silenzio,comequalcunoacui siastatafattaunadomandadi cuinoncapisceilsignificato. Non riusciva a distogliere gli occhi dalla sua schiena. Finalmenteladonnatiròsula cernieraesivoltò.Sirimiseil cardiganecomeperprendere temposirassettòicapelli. – Mi hanno spento delle sigarette sulla pelle, – disse connaturalezza. Kino rimase un attimo senza parole. Però doveva direqualcosa. – Chi le ha fatto una cosa delgenere?–lechieseconla gola improvvisamente asciutta. Lei non rispose. Né dava segno di volerlo fare. D’altronde Kino non aveva bisogno di aspettare la risposta. –Chissàsepossoprendere ancoraunbrandy…–dissela donna. Kinoleriempídinuovoil bicchiere. Lei ne bevve un sorso e assaporò il calore dell’alcol che lentamente scendeva fino in fondo al petto. – Sa, signor Kino, – disse poi. Kino, che stava asciugando un bicchiere, si fermò e alzò il viso a guardarla. – Ne ho altri, di questi segni, – concluse lei con indifferenza.–Inpostiunpo’ imbarazzantidamostrare. Per quale moto del cuore quellaseraavevainiziatouna relazioneconlei,Kinononlo ricordava. Che quella donna avesse qualcosa di speciale, l’avevasentitofindall’inizio. Qualcosachesilenziosamente avevamessoinallarmeilsuo istinto:conquestaqui,meglio non lasciarsi coinvolgere piú di tanto. Oltretutto c’erano quelle tracce di bruciature di sigaretta sulla schiena. Kino era un uomo prudente di natura. Quando provava il bisogno di un corpo femminile,potevarivolgersia una professionista. Pagava, e la cosa finiva lí. Inoltre lei nonerailsuotipo. Quella sera però, quella donna provava l’intenso desiderio di fare l’amore con un uomo – nella fattispecie con Kino. Il suo sguardo mancava di profondità, solo lesueiridieranostranamente dilatate.C’eradeterminazione in esse, un luccichio che non consentiva tentennamenti. Kino non era riuscito a resistere a tanta energia. Non neavevalaforza. Chiuse il bar e salí con la donna la scala che portava al piano di sopra. Nella camera da letto illuminata lei si sfilò in fretta il vestito, si tolse la biancheriaintimaegliapríil suo corpo. Gli fece vedere quei posti «un po’ imbarazzanti da mostrare». D’istinto, Kino distolse gli occhi. Per un attimo, poi guardò. Non capiva quale sentimento potesse spingere un uomo ad azioni tanto crudeli, e una donna a sopportare tanto dolore, né aveva voglia di capirlo. Era qualcosa che distava anni luce dal suo mondo, il paesaggio desolato di un pianetasterile. Ladonnaglipreselamano elaportòsullecicatricidelle bruciature.Glielefecetoccare tutte una per una. Ne aveva anche vicino ai capezzoli, vicinoalsesso.Guidatedalla mano di lei, le dita di Kino seguirono quei segni scuri e induriti. Come quando con unamatitasitracciaunalinea cheuniscedeipuntinumerati, finché appare una figura. Il perimetro di quei segni gli ricordava qualcosa, ma alla fine non riuscí a collegarlo a nulla.Poiladonnaglitolsei vestitiefecesessoconluisui tatami della stanza. Senza conversazioni né preliminari, senza prendere il tempo di spegnere la luce o tirar fuori il futon. Gli spinse la lingua tra le labbra, gli conficcò le unghienellaschiena. Come due belve affamate, sotto la luce accesa, senza parlarsi,iduesisaziaronopiú volte della carne bramata. Fecero l’amore in tanti modi e tante posizioni, senza quasi fermarsi. Smisero quando fuori dalla finestra cominciava ad albeggiare: si infilarono nel futon e si addormentarono come se venissero trascinati via dalle tenebre. Poco prima di mezzogiorno, quando Kino aprí gli occhi, la donna se n’era già andata. Aveva l’impressionediaverfattoun sogno tremendamente realistico. Ma non era stato unsogno.Sullaschienaaveva ancora i segni profondi delle unghie di lei, sul petto quelli dei suoi morsi, e il pene che lei gli aveva stretto forte era ancoradolorante.Sulcuscino bianco c’erano alcuni lunghi capelli neri che disegnavano deimulinelli,enellelenzuola erarimastounintenso,strano odore. In seguito, lei era tornata ancora diverse volte al bar. Sempreinsiemeall’uomocon la barbetta. Si sedevano al bancone, bevevano un cocktaildopol’altroparlando tranquillamente, e se ne andavano. La donna ogni tanto scambiava qualche parola con Kino, di solito riguardoallamusica.Dalsuo tono noncurante, si sarebbe dettochenonricordassenulla di quella notte. In fondo ai suoi occhi però c’era la luce di un intenso desiderio. Kino la poteva vedere. C’era e brillavacomeunalanternain fondo a una galleria buia, senzapossibilitàdidubbio.A Kino quella luce intensa faceva tornare in mente il dolore provato quando lei gli aveva conficcato le unghie nellaschienaostrettoforteil pene, il movimento rotatorio della sua lunga lingua, e l’insolito, intenso odore rimasto nel futon. Gli diceva che non avrebbe mai potuto dimenticare. Mentre Kino e la donna parlavano, l’uomo che era con lei osservava attentamente, con l’occhio di un lettore esperto in grado di leggere fra le righe, l’atteggiamento di Kino, l’espressione del suo viso. Tra quell’uomo e quella donnasiintuival’esistenzadi unasortadifeelingvischioso, appiccicaticcio. Sembravano condividere, loro due soltanto, un pesante segreto. Kino, come sempre, non riuscivaacapiresevenissero al bar prima di fare sesso o dopo. Ma da una delle due alternative non si scappava, su questo non aveva dubbi. Inoltre, altro dettaglio che trovava strano, né l’uno né l’altrafumavano. Prima o poi la donna, probabilmenteinunanottedi pioggia tranquilla, sarebbe venuta da sola. Sarebbe venutaquandol’uomoconla barbetta si fosse trovato «in un posto molto lontano». Kinolosapeva.Glielodiceva quella luce intensa che le vedevainfondoagliocchi.Si sarebbe seduta al bancone, avrebbe bevuto in silenzio diversi brandy, in attesa che arrivasse l’ora di chiusura. Poi sarebbe salita con lui al primo piano, si sarebbe svestita, avrebbe dischiuso il suo corpo sotto la lampada e mostrato i segni delle bruciature recenti. Insieme avrebbero di nuovo fatto sessocomeduebestie.Senza pensare a nulla, finché non fosse arrivata l’alba. Prima o poi sarebbe successo, ma chissà quando… Il momento l’avrebbe deciso lei. A quel pensiero,Kinosentivalagola seccarsi. E una sete che, per quanta acqua bevesse, non potevaplacare. Verso la fine dell’estate il divorzio divenne finalmente ufficiale,einquell’occasione per la prima volta Kino incontrò l’ex moglie. Restavano diverse questioni da sistemare, e l’avvocato di lei aveva fatto sapere a Kino che la signora desiderava parlargli a quattr’occhi. Decisero di vedersi al bar di lui,primadell’apertura. Risolti in fretta tutti i problemi (Kino non si era opposto a nessuna delle richiestepresentategli),gliex marito e moglie firmarono i documenti. Lei indossava un abitoazzurroeavevaicapelli molto piú corti di prima. Sembrava anche piú serena e inmiglioricondizionifisiche. Avevapurepersoquelfilodi grasso che all’epoca aveva iniziato ad accumulare sulle braccia. Insomma, aveva iniziato una vita nuova e probabilmente piú piena. Si guardò attorno e disse che quel bar era davvero un bel locale, che in qualche modo rifletteva la personalità di Kino: tranquillo e pulito, aveva un’atmosfera rilassante. Seguí un breve silenzio. «Ma privo di qualcosa che faccia veramente vibrare il cuore», Kino immaginò che volesse aggiungere. – Bevi qualcosa? – le chiese. – Un sorso di vino rosso, senehai. Kino prese due bicchieri da vino e vi versò dello Zinfandel della Napa Valley. Bevvero in silenzio. Non era il caso di brindare alla conclusione della pratica di divorzio.Ilgattosiavvicinòe saltòsulleginocchiadiKino, cosa che faceva raramente. Lui lo accarezzò dietro le orecchie. – Devo chiederti scusa, – disselei. –Dicosa?–chieseKino. – Di averti ferito. Perché sei rimasto ferito, no? Almenounpo’… – Be’, sí… – fece Kino dopo una pausa. – Sono anch’io un essere umano, quindisonovulnerabile.Setu mi abbia ferito tanto o poco, però,nonsapreidirlo. – Se ho voluto vederti, è perché trovavo doveroso scusarmi. Kinoannuí. –Tutiseiscusata,eioho accettatoletuescuse.Quindi possiamo anche archiviare l’argomento. – Avrei voluto confessarti tutto prima che accadesse quello che è accaduto, ma nonneavevoilcoraggio. – Sí, ma comunque la si rigiri, l’esito sarebbe stato lo stesso,no? – È vero, – ammise lei. – Però, se ti avessi parlato… invece ho aspettato, ho aspettato, ed è finita nel peggioredeimodi. Kino portò in silenzio il bicchiere alle labbra. Se doveva essere sincero, cosa fosse successo quella volta nonseloricordavaquasipiú. La sua memoria non riusciva ametterenelgiustoordinegli eventi. Come l’indice sottosopradiunlibro. – Non è colpa di nessuno, –disse.–Forsesarebbestato meglio che io non fossi tornato a casa con un giorno d’anticipo. Oppure che ti avessi avvisata prima. Avremmoevitatoquelfinale. Lamoglienondissenulla. –Daquantotempodurava larelazioneconlui? –Preferireinonparlarne. – Vuoi dire che è meglio cheiononlosappia? Leitacque. –Già,forsehairagione,– riconobbe Kino, riprendendo acarezzareilgatto.Ilgattosi mise a fare le fusa, era la primavoltachesuccedeva. –Forsenontoccherebbea me darti questo consiglio, – disse la donna che era stata sua moglie, – ma faresti meglio a dimenticare tutto al piúpresto,iniziareunanuova storiaconun’altrapersona. – Mah, chissà… – rispose Kino. – Sicuramente da qualche parte c’è una donna adatta a te. Non penso che avrai difficoltà a trovarla. Io non sono stata capace di diventarlo, e ti ho fatto una cosa crudele. Ne sono veramente desolata. Ma tra noi due, fin dall’inizio, era come… come dei bottoni sfasati rispetto alle asole. Tu sei una persona che può trovarelafelicitàinmodopiú semplice. «Dei bottoni sfasati rispetto alle asole», pensò Kino. Guardò il vestito azzurro cheleiindossava.Datochele sedeva di fronte, non poteva sapere come si chiudesse sulla schiena. Non riuscí a fare a meno di rivedere col pensieroilcorpochesarebbe apparso tirando giú la cerniera o slacciando i bottoni. Un corpo che ormai non gli apparteneva piú. Che nonpotevapiúnéguardarené toccare. Poteva soltanto immaginarlo.Masechiudeva gliocchi,sullaschienabianca e liscia di lei vedeva infiniti segni scuri lasciati da bruciature, segni che si contorcevano irrequieti come unosciamediinsettiviviesi muovevano strisciando in tante direzioni. Per scacciare quella fantasia sinistra, Kino scosse leggermente il capo due o tre volte. Un movimentodicuisuamoglie sembrò comprendere il significato. Posòcondolcezzalamano suquelladiKino. – Ti chiedo perdono, – disse.–Davvero. Quando venne l’autunno, prima sparí il gatto, poi cominciarono a comparire i serpenti. Prima che Kino si accorgesse che il gatto non c’era piú, passarono alcuni giorni. Perché quel randagio senzanomevenivanellocale soltanto quando ne aveva voglia, e succedeva spesso che per un po’ di tempo non sifacessevedere.Igattisono creature che tengono molto alla loro libertà. Probabilmente trovava del cibo anche in altri posti. Quindi non c’era da preoccuparsi se per una settimana o una decina di giorni non compariva. Quando la sua assenza si prolungò oltre le due settimane, però, Kino cominciò a inquietarsi. Non era mica finito sotto una macchina, per caso? Passate tre settimane, capí che non sarebbemaipiútornato. Kino a quel gatto si era affezionato. Gli dava da mangiare,gliavevapreparato una cuccia, e cercava di disturbarlo il meno possibile. Anche il gatto sembrava legato a lui, e per essere gentile, o per non mostrarsi ostile,loricompensavaconla sua presenza. Era come se svolgesse il ruolo di nume protettore del locale. Finché c’era lui, tranquillamente addormentato in un angolo, sembrava che non potesse accaderenientedibrutto. Piú o meno all’epoca in cuisparíilgatto,iniziaronoa farsivederedeiserpenti. Il primo era marrone scuro. Piuttosto lungo. Avanzavacontorcendosisotto il salice che faceva ombra al giardino. Kino stava prendendo dalla tasca la chiave di casa, una busta piena di vettovaglie su un braccio, quando lo vide. Vedere un serpente in pieno centro di Tōkyō non è una cosa che capiti tutti i giorni. Ne fu un po’ sorpreso, ma non vi diede molta importanza. Tuttavia due giorni dopo, verso mezzogiorno, quando dall’interno aprí la porta per prendereilgiornale,scorseun altro serpente, di nuovo sotto il salice. Questo aveva un colore bluastro. Era piú piccolodelprimoed’aspetto viscido… Percependo la presenza di Kino, si bloccò, alzòleggermentelatestaelo guardò in faccia (perlomeno, questa era l’impressione che dava). Mentre Kino si chiedeva perplesso cosa fare, il serpente abbassò la testa e sparí nell’ombra con un guizzo. Kino non poté fare a meno di provare un senso di repulsione.Perchéilserpente sembravaconoscerlo. Futregiornidopochevide il terzo, quasi nello stesso posto dei primi due. Questo era molto piú corto, e di colore nerastro. Kino non sapevanulladiserpenti.Però intuí che era estremamente pericoloso. Con ogni probabilità il suo morso era letale, ma come verificarlo? L’aveva visto soltanto per pochi secondi. Perché anche questo serpente, avvertita la suapresenza,sieradileguato nell’erba. Tre serpenti in una settimana erano davvero troppi. Stava succedendo qualcosa,daquelleparti. Telefonò a sua zia a Izu. Dopo averle raccontato brevemente come andavano le cose, le chiese se avesse maivistodeiserpentiintorno aquellavillettadiAoyama. – Dei serpenti? – ripeté la zia sbalordita. – Quelli… quelli che strisciano, vuoi dire? Kinolespiegòcheperben tre volte aveva visto dei serpentinelgiardinodicasa. –Cihovissutomoltianni, lí,manonricordodiavermai vistounserpente,–risposela zia. – Quindi non è normale, vero? Vederne tre di fila in unasettimana… – No che non lo è. Per niente. Può darsi che sia un segno premonitore, che stia per arrivare un forte terremoto. Gli animali sentono in anticipo quando sta per succedere qualcosa, e si comportano in modo anomalo. –Intalcaso,èmegliofare scortadicibo,–disseKino. – Sí, meglio. Tanto, vivendo a Tōkyō, puoi star sicuro che prima o poi un terremotoarriva. – Ma è normale che i serpenti si preoccupino tanto deiterremoti? La zia gli disse che non sapeva assolutamente di cosa si preoccupassero i serpenti. E naturalmente non ne aveva ideanemmenoKino. – Però sono animali furbi, – disse la zia. – Nella mitologia antica, spesso fanno da guida agli esseri umani. Stranamente, è una cosa che si ritrova in miti e leggende di tutto il mondo. Ma per capire se portano in unadirezionebuonaocattiva, è necessario seguirli. Cioè in molticasipuòesserealtempo stesso sia l’una che l’altra cosa. –Sonoambigui,insomma, –feceKino. –Appunto.Iserpentisono pernaturaanimaliambigui.E il piú grande e furbo di tutti, per non venire ucciso nasconde il cuore da un’altra parte. Cosí, se lo vuoi ammazzare,devientrarenella sua tana quando lui non c’è, trovareilsuocuorechebatte e tagliarlo in due. Va da sé chenonèunacosafacile. Kino era impressionato da quanto estese fossero le conoscenzedellazia. – Lo diceva qualche giorno fa alla televisione un professoredinonsopiúquale università. Sul canale nazionale c’era un programma in cui paragonavano i miti del mondo. Ti insegnano un sacco di cose utili, alla televisione.Lagentesbagliaa parlarne male. Dovresti guardarla di piú anche tu, quandohaitempo. Da quella conversazione con sua zia, Kino aveva capito almeno una cosa: che vedere tre serpenti diversi in una settimana non era normale. A mezzanotte chiuse il locale e salí al primo piano. Feceilbagno,lesseunpo’… erano quasi le due quando spense la luce. In quel momento ebbe l’impressione di essere circondato da serpenti.Avevanoaccerchiato la casa in numero incalcolabile. Riusciva a percepirli acquattati nel giardino. A notte fonda tutto taceva nel quartiere, l’unico rumore che si sentisse ogni tanto era la sirena di qualche ambulanza. I serpenti si avvicinavano strisciando, gli sembrava di sentirli. Per impedire loro di entrare in casa, chiuse la gattaiola inchiodandocisopraun’asse. Almeno per il momento, non sembravano voler fare nulla di male a Kino. Si accontentavano di circondare silenziosamente, ambiguamente, quella villetta. Ecco forse il motivo percuiilgattogrigiononera piú venuto! Anche la donna con i segni delle bruciature sembrava sparita. Nelle sere di pioggia Kino temeva di vederla entrare da sola, e al tempo stesso, nel segreto del suo cuore, lo sperava. Anche questaeraunacosaambigua. Unasera,pocoprimadelle dieci, ricomparve Kamita. Ordinò una birra, bevve un doppio White Label, e mangiòpersinodegliinvoltini di verza. Non era mai successo che venisse cosí tardi,echesifermassetantoa lungo. A tratti alzava gli occhi dal libro che stava leggendo e si metteva a fissareilmurodifronteasé. Sembrava assorto in qualche pensiero. Comunque attese l’ora di chiusura, quando l’unicoclienterimastonelbar eralui. –SignorKino,–dissecon voce diversa, come se avesse fatto le dovute considerazioni, – sono davvero desolato che sia successaunacosadelgenere. – Una cosa del genere? – ripetéKinosorpreso. – Che lei debba chiudere questo locale. Anche solo temporaneamente. Kino lo guardò a bocca aperta.Chiudereillocale? Kamita diede un’occhiata attorno, per assicurarsi che noncifossepiúnessuno.Poi guardòKinoinfaccia. – Sbaglio, o il significato delle mie parole non le è ancorachiaro? – Infatti. Non capisco di cosaleistiaparlando. – A me piaceva, questo posto, – riprese Kamita col tono di chi dà una spiegazione.–Potevoleggere indisturbato, e anche la musica era di mio gradimento. Ero molto contento quando lei l’ha aperto in questa strada. Ma purtroppo pare che siano venuteamancaremoltecose. – Molte cose? – Che significato avevano, concretamente,quelleparole? Kino non capiva. L’unica cosa che gli veniva in mente era una ciotola col bordo un po’sbeccato. – Anche quel gatto grigio non tornerà piú, vero? – chieseKamitasenzadareuna risposta.–Almenoperunbel po’. – Non torna perché qui mancanodellecose? Di nuovo Kamita non risposealladomanda. Kinoasuavoltasiguardò intorno attentamente, ma non notò nulla di anormale. Semplicemente il locale sembravaaveremenoenergia vitale e colore del solito, anche dopo l’orario di chiusura. – Lei non è il genere di persona che fa intenzionalmente qualcosa di scorretto. Questo lo so bene. Maaquestomondoastenersi dal far male non sempre basta. Ci sono persone che credonodicavarselaevitando diagire.Micapisce? No, Kino non ci capiva niente.Lodisse. – Ci pensi bene, – fece Kamita guardandolo dritto negli occhi. – È un problema grave che ha bisogno di una riflessione profonda. Un problema cui non è facile trovareunarisposta. – Cioè, sta dicendo che il problema si è verificato non perchéioabbiafattoqualcosa di scorretto, ma perché non ho fatto la cosa giusta. Un problemacheriguardaquesto locale, oppure la mia persona… Kamitaannuí. – Le cose stanno proprio cosí.Manonhointenzionedi darelacolpasoloalei.Anche io avrei dovuto rendermi conto della situazione molto prima. C’è stata negligenza anchedapartemia.Nonsono soltanto io a sentirmi a mio agio in questo posto, sono sicuro che tutti ci si trovano bene. –Maioadessocosadovrei fare?–chieseKino. Kamita taceva, le mani infilate nelle tasche dell’impermeabile. – Chiuda il locale per un certoperiodo,vadalontano,– disse poi. – Per il momento, pare che non ci sia molto altro che lei possa fare. Se conosce qualche bonzo insigne, si faccia recitare dei sutra e gli chieda degli amuleti da affiggere tutt’intorno alla casa. Di questi tempi però non se ne trovano facilmente, di personecosí.Quindièmeglio che lei se ne vada da qui prima delle prossime piogge. Scusi l’indiscrezione, ma ha soldi a sufficienza per intraprendere un lungo viaggio? – Be’, dipende dalla durata,maperqualchetempo dovreifarcela,–disseKino. – Tanto meglio. A quello che succederà dopo, ci penserà quando sarà il momento. –Sí,mascusi…leichiè? –IosonosoltantoKamita. Si scrive con gli ideogrammi di «divinità» e «risaia», ma nonsileggeKanda.Abitonel quartieredamoltianni. – Signor Kamita, c’è una cosa che vorrei chiederle, – disse Kino d’impulso. – Lei percasohavistodeiserpenti da queste parti, negli ultimi tempi? A quella domanda Kamita nonrispose. –Mihacapitobene,vero? – disse invece. – Vada lontano e si sposti di frequente, mi raccomando. Un’altra cosa: ogni lunedí e ogni giovedí mi mandi una cartolinaillustrata.Cosísaprò cheleièsanoesalvo. –Unacartolinaillustrata? –Sí,unaqualunque,basta che sia del posto dove si trova. – Ma a chi devo indirizzarla? –AsuaziaaIzu.Manon scrivailnomedelmittente,e niente messaggi, nemmeno unrigo.Scrivasoloilnomee l’indirizzo del destinatario. Non lo dimentichi, è molto importante. –Leièamicodimiazia?– chiese Kino al colmo dello stupore,guardandol’uomo. – Sí, la conosco bene. A dire la verità, è lei che si è rivolta a me a titolo precauzionale. Mi ha chiesto di tenerla d’occhio, in modo chenonlesuccedessenulladi brutto.Maparecheiononsia stato all’altezza delle sue aspettative. Insomma, chi diavolo era quell’uomo,cosavoleva?Ma se non era lui a spiegarglielo di sua iniziativa, Kino non avevamododisaperlo. –Quandoriterròchepotrà tornare, glielo farò sapere. Nel frattempo, si tenga lontano da qui. Sono stato chiaro? Quella notte, Kino fece i bagagli in vista del viaggio. «È meglio che lei se ne vada da qui prima delle prossime piogge». Un avviso troppo brusco, senza una spiegazione.Enessunalogica nel susseguirsi degli eventi. Kino però credeva fermamente alle parole di Kamita. Era una storia assurda, ma per qualche motivo non dubitava che fosse vera. Il discorso di Kamita aveva una strana, irrazionale forza di persuasione. Infilò dei vestiti di ricambio e alcuni effetti personali in una sacca di medie dimensioni. La stessa che portava con sé quando si spostavaperlavoro,all’epoca in cui era impiegato nella ditta di articoli sportivi. Sapeva bene cosa fosse necessario e cosa no, per un lungoviaggio. Sul far dell’alba affisse con una puntina da disegno un foglio di carta sulla porta delbar:Chiedoscusapernon aver avvisato prima, ma il locale al momento è chiuso. «Vada lontano», aveva detto Kamita.Mainpraticanongli venivainmentenessunposto. Doveva dirigersi a nord? A sud? Non sapeva nemmeno quello,diconseguenzadecise di seguire lo stesso percorso che faceva spesso quando vendeva scarpe da corsa. Prese un autobus delle linee interregionali e andò a Takamatsu.Avevaintenzione difareungiroperloShikoku, poipassarenelKyūshū. A Takamatsu si fermò in un modesto hotel vicino alla stazioneevipassòtregiorni. Girovagò per la città, vide diversifilm.Icinemadurante la giornata erano quasi vuoti, e proiettavano pellicole mediocri. Al calar della sera tornava in albergo e accendeva la televisione. Guardava soprattutto il programma educativo che gli avevaconsigliatosuazia,ma non ottenne nessuna informazione che avrebbe potuto essergli utile. Il secondo giorno – un giovedí –, comprò una cartolina illustrata in un minimarket, l’affrancò e la spedí alla zia. Ci scrisse sopra soltanto il nome e l’indirizzo, come gli avevadettoKamita. La sera del terzo giorno pagò i servizi di una prostituta. Il numero di telefono glielo diede un tassista. Era una ragazza giovane, sui vent’anni, e aveva un bel corpo liscio e snello. Ma fare sesso con lei fu insipido dall’inizio alla fine. Era soltanto un mezzo per placare la libido, ma a direlaveritànonplacòunbel niente. Al contrario, a cose fatte Kino aveva piú sete di prima. «Ci pensi bene, – aveva detto Kamita. – È un problema grave che ha bisogno di una riflessione profonda». Ma per quanto si scervellasse, Kino non riusciva a capire in cosa consistesseilproblema. Quella notte pioveva. Non molto forte, era la tipica pioggiaautunnalechesembra non dover smettere mai. Senza pause e senza variazioni d’intensità, come una monotona confessione ripetuta piú volte. Kino non ricordava nemmeno quando era iniziata, quella pioggia che portava con sé soltanto unafreddaapatia.Nonaveva nessuna voglia di uscire con l’ombrello per cercare un ristorante. In realtà poteva anche fare a meno di cenare. Ilvetrodellafinestraaccanto al letto era coperto di goccioline d’acqua che si rinnovavano di continuo. Kino non riusciva a staccare gli occhi dai minimi mutamenticheavvenivanosu quel vetro, perso in pensieri sconclusionati. Al di là si estendeva la città con le sue strade buie. Da una bottiglietta si versò del whisky in un bicchiere, vi aggiunse la stessa quantità d’acqua minerale e bevve. Senza ghiaccio. Non se la sentiva nemmeno di trascinare i piedi fino al distributore di ghiaccio in corridoio. La sensazione tiepida del liquido era in perfetta sintonia con la fiacchezza che aveva in corpo. Una volta si fermò in un business hotel 2 vicino alla stazione di Kumamoto. Il soffitto era basso, il letto stretto, e tutto nella stanza – televisore, vasca da bagno, frigorifero – era molto piccolo. Lí dentro aveva l’impressione di essere diventato un gigante. Ma quella mancanza di spazio non l’opprimeva. Rimase chiuso in camera tutta la giornata.Ancheacausadella pioggia,nonmisemaiilnaso fuori, se non per andare al minimarket piú vicino, dove comprò una bottiglietta di whisky, acqua minerale e dei cracker. Steso sul letto leggeva, quando si stufava guardava la televisione, poi riprendevaaleggere… A Kumamoto rimase tre giorni. In banca gli restava ancoradenaroasufficienza,e volendo avrebbe potuto fermarsi in alberghi migliori. Ma nella situazione in cui si trovava, sentiva che quel generedipostoerapiúadatto alui.Standosenetranquilloin unapiccolastanza,nonaveva bisogno di preoccuparsi di niente e gli bastava stendere la mano per raggiungere la maggiorpartedellecose.Era una situazione che apprezzava. Se avesse anche potuto ascoltare la musica, non gli sarebbe mancato piú nulla. Teddy Wilson, Vic Dickenson,BuckClayton…a volte gli veniva un desiderio indolente di ascoltare quei musicisti jazz d’altri tempi. Una tecnica sicura, accordi semplici, la gioia genuina di suonare, l’ottimismo addirittura prodigioso… Ciò che Kino desiderava in quei momenti era proprio quella musica,unamusicacheormai non esisteva piú. Ma la sua collezione di dischi era lontana, era rimasta in un posto lontano. Gli venne in mente il suo bar ormai chiuso, buio e silenzioso. Il grande salice in fondo alla stradina. Immaginò i clienti che arrivavano, leggevano il foglio attaccato alla porta, e se ne andavano rassegnati. E ilgatto,dov’erafinito?Anche sefossetornato,vedendoche non c’era piú possibilità di entrare e uscire, sarebbe andatoviadeluso.Echissàse quei misteriosi serpenti accerchiavano ancora zitti zittilacasa… Di fronte a quella stanza all’ottavo piano c’era un palazzo di uffici. Era un edificioaltoestrettocostruito con materiali scadenti, attraverso le cui finestre, al piano corrispondente al suo, Kino poteva vedere diverse persone lavorare dal mattino alla sera. Qua e là le veneziane erano tirate giú, quindi la visuale era frammentaria e non permetteva di capire in quale settore operasse quella ditta. C’erano uomini in giacca e cravatta che entravano e uscivano, donne che battevano sulla tastiera dei computer, rispondevano al telefono,mettevanoinordine dei documenti. Non era uno spettacolo che lo attraesse particolarmente. Anche le facce e il modo di vestire di quellepersoneeranodeltutto banali. Se Kino le guardava per ore senza stancarsi, era solo perché non aveva nient’altrodafare.Malacosa che trovava strana, anzi, che lo riempiva di stupore, era che quella gente a volte sembrava veramente divertirsi. C’era anche chi ognitantosifacevaunabella risata.Assurdo!Cosac’eradi tanto piacevole nel lavorare per tutto il giorno in quello squallido ufficio, svolgendo mansioni che Kino non riusciva a immaginare interessanti? Quel posto era depositario di un importante segretoaluiincomprensibile? A quel pensiero Kino si sentivaunpo’inquieto. Ma era tempo di pensare alla località successiva. «Si sposti di frequente, mi raccomando»,gliavevadetto Kamita. Per qualche ragione misteriosa, però, Kino era riluttante a staccarsi da quell’angusto business hotel di Kumamoto. C’erano posti dove gli sarebbe piaciuto andare? Paesaggi che gli sarebbepiaciutovedere?Non gli veniva in mente nulla. Il mondo era un immenso oceano privo di punti di riferimento, e Kino una barchetta che aveva perso carta nautica e ancora. Quando apriva la cartina del Kyūshū per cercare di capire doveavrebbepotutodirigerei suoi passi, veniva preso da una leggera nausea, come se avesse il mal di mare. Sdraiato sul letto leggeva, ogni tanto alzava il capo e osservava la gente al lavoro nell’ufficio di fronte. Man mano che il tempo passava perdeva peso e sentiva la pelle diventare quasi trasparente. Il giorno prima, lunedí, aveva comprato al negozio dell’albergo una cartolina raffigurante il castello di Kumamoto,viavevascrittoil nomeel’indirizzodisuazia, e incollato un francobollo. Poi con la cartolina in mano era rimasto a lungo a osservare, sovrappensiero, la fotografia del castello. Il genere di veduta perfetto per una cartolina. Una fortezza che si stagliava maestosa contro il cielo azzurro e nuvole bianche sullo sfondo. Anche detto Ginnan-jō. Uno deitrepiúimportanticastelli in Giappone, diceva la didascalia. Per quanto lo guardasse, Kino non riusciva atrovareunpuntodicontatto fra quel castello e se stesso. Allora voltò la cartolina, e nello spazio bianco scrisse d’impulso due righe per la zia: Come stai? Come va la tua schiena? Io sto ancora girovagando da solo. A volte ho l’impressione di essere diventato per metà trasparente. Come se si potessero vedere le mie viscere, come se fossi una seppiaappenapescata.Maa partequesto,stobene.Prima opoipensodipassaredaIzu. Kino. Non sapeva quale moto dell’animo l’avesse spinto in quelmomentoascriverequel messaggio. Kamita gliel’aveva severamente proibito. «Solo il nome e l’indirizzo del destinatario, nient’altro! Non lo dimentichi», gli aveva detto. Ma Kino non era riuscito a trattenersi. Doveva ricollegarsi in qualche modo alla realtà. Altrimenti non sarebbepiústatosestesso.La sua mano, quasi automaticamente, aveva riempito di ideogrammi minuscoli e precisi il piccolo spazio bianco. Prima di cambiare idea, era subito andato a infilare la cartolina nellabucaperleletterevicino all’albergo. Quando aprí gli occhi, la sveglia digitale sul comodino segnavale2e15delmattino. Qualcuno bussava alla porta della stanza. Non erano colpi forti, erano brevi, duri e concisicomequellichedàun bravo carpentiere dalle braccia robuste quando conficcaunchiodonellegno. Inoltrelapersonachebussava sembrava sapere bene che quei colpi arrivavano alle orecchiediKino.Sapevache lo tiravano fuori dal sonno profondo delle prime ore del mattino, da una breve, compassionevole pausa di riposo, per riportare, instancabili e crudeli, la sua coscienzaallapienalucidità. Kino sapeva chi era, chi gli chiedeva con tanta ostinazionediusciredalletto eaprirelaporta.Esapevache non poteva aprire la porta dall’esterno. Solo lui, Kino, potevafarlo,dall’interno. Ancora una volta, quella visita era la cosa che piú desiderava, e al tempo stesso piútemeva.Proprioinquesto consiste l’ambiguità, nell’occupare lo spazio fra due estremi. «Perché sei rimastoferito,no?Almenoun po’…», gli aveva chiesto sua moglie.Leavevarispostoche anche lui era un essere umano, quindi vulnerabile, come tutti. Ma non era vero. O perlomeno era una mezza bugia. Non era rimasto ferito abbastanza, non quanto avrebbe dovuto, ammise Kino. Invece di soffrire veramente, aveva represso le sensazioni essenziali. Aveva evitato di affrontare di petto la realtà per risparmiarsi un gravedolore,colrisultatoche si era svuotato di ogni capacità di provare sentimenti. Cosí i serpenti si erano impossessati di quella cavità e avevano cercato di nascondere lí il loro gelido cuore. «Non sono soltanto io a sentirmiamioagioinquesto posto,sonosicurochetuttici si trovano bene», erano state le parole di Kamita. Finalmente Kino capiva cosa avevavolutodirgli. Si tirò il piumone sulla testa, chiuse gli occhi e si tappòleorecchieconlemani, per rifugiarsi nel suo piccolo mondo angusto. Non vedo nulla e non sento nulla, disse a se stesso. Ma era tutto inutile. Poteva anche fuggire in capo al mondo e sigillarsi le orecchie con l’argilla: finché fosse stato in vita, finché avesse conservato un barlume di coscienza, il rumore di quei colpi lo avrebbe perseguitato. Non venivano dati alla porta di una camera d’albergo, ma a quella del suo cuore. Era un suono cui nessuno poteva sfuggire. E fino all’alba – ammessochearrivasseancora un’alba – dovevano passare lungheore. Dopo un tempo che non riuscí a calcolare, a un certo punto si accorse che i colpi eranocessati.Lastanzaeradi nuovo silenziosa come la faccia in ombra della luna. Kino però, sempre nascosto sotto il piumone, non si mosse. Non doveva essere imprudente. Soffocando ogni segnodellasuapresenza,tese le orecchie e nel silenzio cercò di percepire qualche indizio funesto. Quel «qualcuno» dall’altra parte della porta non era tipo da arrendersi cosí facilmente. Tanto piú che non aveva fretta. In cielo non c’era la luna, solo l’ombra nera di costellazioni estinte. Ancora per qualche tempo il mondo apparteneva a «quelli lí». «Quelli lí» avevano tante modalità diverse. Le loro richieste potevano prendere molte forme. Potevano estendere le loro radici scure fino a raggiungere il centro della terra. Con pazienza, mettendocituttoiltempoche ci voleva, erano in grado di trovare il punto debole che permetteva di spezzare anche larocciapiúdura. Come Kino aveva immaginato,icolpiripresero. Questa volta però provenivanodaun’altraparte. Anche la vibrazione del suonoeradifferente.Ederano molto piú vicini di prima, li sentiva letteralmente accanto al suo orecchio. Sembrava che quel «qualcuno» si trovassefuoridallafinestradi fianco al letto. Era probabilmente aggrappato al muro di quel palazzo di otto piani, con la faccia schiacciata contro il vetro bagnato dalla pioggia, e continuava a picchiare ostinatamente.Nonc’eraaltra spiegazione. Ilritmoperòerasemprelo stesso. Due volte di seguito, unapiccolapausa,ealtredue volte. E questa sequenza si ripetevasenzasosta.Ilsuono si alzava, poi di nuovo si abbassava.Comeilbattitodel cuorequandosihapaura. Le tende erano rimaste aperte. Prima di addormentarsi, Kino aveva osservatoalungolegoccedi pioggia sul vetro. Se ora avesse sporto la testa dal piumone, immaginava cos’avrebbe visto nel buio fuori dalla finestra. Anzi no, non lo immaginava. Doveva cancellare quel moto della mente che era l’immaginazione. In ogni caso, non doveva vedere «quellilí».Perché,perquanto vuoto, il suo cuore in quel momento gli apparteneva ancora.Conservavaancoraun po’dicaloreumano,sebbene fievole. Alcuni ricordi personali, come alghe avvinghiate a un palo sulla spiaggia, attendevano in silenzio che arrivasse l’alta marea. Alcuni pensieri, se recisi,avrebberoversatofiotti di sangue rosso. Non era ancora tempo di mandare il suocuoreavagareinqualche postoassurdo. «Si scrive con gli ideogrammi che significano “divinità” e “risaia”, ma non si legge Kanda, si legge Kamita. Abito qui vicino», avevadettoKamita. «Loterròamente»,aveva rispostol’uomogrosso. «Buona idea. I ricordi in qualchemododannoforza». Era possibile che Kamita, inqualcheforma,fosselegato al vecchio salice in giardino, pensò tutt’a un tratto Kino. Quell’albero aveva protetto luielapiccolacasa.Anchese non ne comprendeva la logica, appena quell’idea gli attraversò il cervello, subito tuttalastoriagliparvetrovare unsenso. Rivide il salice dalla fronda lussureggiante che arrivavaquasiatoccareterra. In estate proiettava sul piccolo giardino un’ombra fresca. Nei giorni di pioggia innumerevoli goccioline argentate brillavano sui rami flessibili. Quando l’aria era immobile restava in silenzio, assorto in profonda meditazione, mentre nelle giornate ventose agitava senza speranza il cuore irrequieto. Piccoli uccelli venivanoaposarsisudilui,si parlavano con le loro voci acute tenendosi abilmente in equilibrio,poiriprendevanoil volo. Dopo che gli uccellini se n’erano andati, i rami oscillavano a destra e a sinistraconariacontenta. Rannicchiato sotto le coperte come un insetto, a occhi chiusi, Kino semplicemente pensava al salice. Rievocava il suo colore, la sua forma, il suo ondeggiare. E intanto aspettava l’arrivo dell’alba. Non poteva far altro che resistere in questo modo, in attesa che a poco a poco il cieloschiarisse,cheicorviei passeri iniziassero la loro giornata.Nonpotevafaraltro che aver fede in tutti gli uccelli del mondo. Tutti quelli che avevano ali e becco. Nel frattempo non doveva svuotare il suo cuore nemmeno per un attimo. Perché il vuoto, quel vuoto assoluto che si generava, attirava«quellilí». Quando il salice non bastava, Kino pensava al gatto randagio, magro e grigio. Ricordava che gli piacevano le alghe scottate sulla fiamma, le mangiava sempre. Pensava a Kamita cheleggevatuttoconcentrato, seduto al bancone, ai giovani atleti che allo stadio si allenavanointensamentenella corsa di media lunghezza, a My Romance suonato magnificamente al sassofono da Ben Webster (a metà del disco c’erano due graffi che facevano saltare la puntina). «I ricordi in qualche modo danno forza». Poi rivide la sua ex moglie, con i capelli corti e il vestito nuovo azzurro.Kinosperavachelei conducesse in un altro luogo una vita sana e felice. Che non dovesse mai portarsi addosso delle ferite. Gli aveva chiesto scusa guardandolo in faccia, e lui aveva accolto le sue scuse. Ma non doveva solo dimenticare, doveva anche perdonare. Tuttavia il tempo non sembrava scorrere in modo regolare. Il suo fluire era intralciato dal peso della libido che aveva l’odore del sangue, e dall’ancora arrugginita del rimorso. Lí il tempononeraunafrecciache volava in linea retta. Continuava a piovere, le lancette dell’orologio erano disorientate, gli uccelli erano ancora profondamente addormentati, impiegati delle poste senza volto selezionavano in silenzio le cartoline illustrate, sua moglie faceva oscillare i bei seni nel vuoto, qualcuno bussava ostinatamente al vetro della finestra. Con infinita regolarità, come se volesseattrarloinunlabirinto dalle insinuazioni profonde. Toctoc,toctoc.Eancoratoc toc. «Non distogliere gli occhi, guarda me», gli mormorava all’orecchio qualcuno. Questa è l’immaginedeltuocuore. I rami del salice continuavano a oscillare alla brezza della prima estate. In una piccola stanza situata in fondo all’anima di Kino, qualcuno tendeva una mano verso la sua e cercava di posarvela sopra. Sempre a occhi chiusi, lui la sentiva calda e morbida… Era qualcosa che aveva a lungo dimenticato. Per tanto tempo neerastatoseparato.Sí,sono stato ferito, e molto profondamente, disse Kino rivolto a se stesso. E cosí le lacrime arrivarono. In quella piccolastanzabuia. Nel frattempo la pioggia continuava a bagnare il mondosenzafermarsi. 1 Rispettivamente kami e ta [N.d.T.]. 2 Albergo modesto, in stile occidentale, la cui clientela è costituita principalmente da viaggiatori di commercio e impiegati che si spostano per lavoro[N.d.T.]. Samsainnamorato Quando si svegliò, nel letto, si accorse di essere diventato Gregor Samsa. Era supino e guardava il soffitto. Gli ci volle un po’ di tempo per abituarsi alla penombra della stanza. Il soffitto non aveva niente di speciale. In origine doveva essere bianco o crema, ma negli anni polvere e sporcizia l’avevano fatto diventare color latte cagliato. Non aveva decorazioni o altre caratteristiche visibili. Né pretese, né messaggi. Svolgeva senza problemi il suo ruolo strutturale di soffitto,enonparevaaspirare adaltro. Su una parete della stanza (quellaasinistradalpuntodi vista di Samsa) c’era un’alta finestra, ma era bloccata dall’interno. In sostituzione delle tende di cui una volta doveva essere provvista, erano state inchiodate in sensoorizzontale,lungotutto iltelaio,diverseassidilegno. Fra un’asse e l’altra delle fessure di alcuni centimetri – non era chiaro se lasciate intenzionalmente o no – facevano entrare il sole del mattino, che tracciava sul pavimento delle strisce di luce parallele. Perché la finestra era stata sbarrata in modo cosí drastico? Difficile dirlo. Per impedire che qualcuno entrasse? Oppure per impedire che qualcuno uscisse? Ma qualcuno chi? Samsa stesso? O forse stava arrivando un qualche tornado? Sempresupino,muovendo solo la testa e gli occhi, Samsa si guardò attorno. A parte il letto su cui era sdraiato, nella stanza non c’erano mobili. Niente armadi,tavoliosedie.Nessun quadrooorologioospecchio appeso alle pareti. Non si vedevaalcuntipodilampada. E sul pavimento, fin dove arrivava il suo campo visivo, non c’erano tappeti o moquette. Un semplice e nudo parquet. La carta da parati aveva decorazioni minute, ma era talmente vecchia e sbiadita che nella penombra–maforsesarebbe statolostessoinpienaluce– era impossibile capire che cosarappresentassero. Sulla parete di fronte alla finestra,alladestradiSamsa, c’eraunaporta.Conunpomo di ottone annerito qua e là. Forseinoriginequellastanza era stata usata come camera da letto. L’atmosfera era quella. Ma al momento ogni traccia di chi l’aveva occupata era stata cancellata. Erarimastosoloilletto,posto nel centro. Ma senza coperte olenzuola,trapunteocuscini. Soltanto un vecchio materasso. Samsa non riusciva a immaginare dove si trovasse, né cosa dovesse fare. Capiva a malapena una sola cosa: ormai era un essere umano che si chiamava Gregor Samsa. Come faceva a saperlo? Forse qualcuno gliel’aveva sussurrato all’orecchio mentre dormiva? «Il tuo nome è Gregor Samsa». E poi… chi era, prima? Checos’era,prima? Se cominciava a seguire questo pensiero, però, la sua coscienza a poco a poco si offuscava.Einfondoallasua testa si alzava una colonna scura di zanzare che diventavasemprepiúspessae densa, si spostava verso le parti piú molli del suo cervello producendo un leggero brusio. Samsa smise subito di pensare. Per lui, riflettereafondosuqualcosa, in quel momento era uno sforzotroppogrande. In ogni caso, doveva imparare a muoversi. Non poteva restare per sempre supino a guardare il soffitto. Era troppo vulnerabile. Se avessesubítounattaccodaun avversarioinquellaposizione –adesempiodapartediuno stormodiuccellirapaci–non avrebbe avuto possibilità di sopravvivere. Per iniziare, mosse un dito. Le sue mani ne avevano cinque per una, dieci lunghe dita in tutto. Erano dotate di numerose articolazioni, che rendevano complicato combinare i movimenti. Come se non bastasse,tuttoilsuocorpoera intorpidito, quasi fosse immerso in un liquido vischioso e pesante, al punto che gli era difficile trasmettere forza alle estremità. Tuttavia, chiudendo gli occhi e concentrandosi al massimo, provando e riprovando, a poco a poco riuscí a muovere le dita di entrambe le mani. E anche, seppur lentamente, a comprendere come funzionavanolearticolazioni. Il controllo delle dita portò gradualmenteall’attenuazione dell’irrigidimento che bloccava il suo corpo. Però subentrò – come scure rocce sinistre appaiono al ritiro della marea – un dolore intensoesemprepiúforte. Gli ci volle del tempo per capirecheerasolofame.Una fame spaventosa, una fame chenonavevamaiprovatoin vita sua, o perlomeno non ne aveva memoria. Era come se per una settimana intera non avesse mangiato il minimo frammento di cibo; come se nel suo corpo si fosse aperta una voragine. Tutte le ossa gemevano, i muscoli si contraevano, gli organi interni erano in preda a spasmi. Non potendo sopportare oltre quel dolore, Samsa puntò i gomiti contro il materasso e a poco a poco si tirò su. La sua spina dorsale scricchiolò diverse volte. Quanto tempo era rimasto sdraiato su quel letto? Ogni parte del suo corpo, di fronte alla necessità di alzarsi, di cambiare posizione, alzava grida di protesta. Ciononostante, incurante del dolore, concentrando tutte le sue forze, Samsa riuscí a mettersisedutosulletto. Quant’era brutto! Guardandoilsuocorponudo, toccando le parti che non vedeva,nonpotéfareameno ditrovarsiorrendo.Ecomese non bastasse, era sprovvisto di qualsiasi mezzo di difesa. Una pelle bianca e liscia (coperta da una peluria poco piú che simbolica), il ventre privo di protezione, un organo sessuale dalla forma assurda, soltanto quattro arti lunghi e sottili, fragili vene affioranti che sembravano cordebluastre,uncollolungo efragilechepotevaspezzarsi comeunfuscello.Unagrossa testa deforme, con un fascio dipelilunghieduriincimae ai lati due orecchie sporgenti che sembravano due conchiglie. Sono davvero io, questo qui?, non poté fare a meno di chiedersi Samsa. Dovrei sopravvivere con questocorpocosíirrazionale, assurdo, cosí vulnerabile? Perchénonsonodiventatoun pesce? Perché non sono diventato un girasole? Un pesceoungirasoleavrebbero avuto un senso. Piú senso di GregorSamsa,perlomeno. A quel punto mise giú le gambeeposòaterralepiante dei piedi. Il pavimento era molto piú freddo di quanto avesse immaginato, una sensazione che lo colse di sorpresa. Dopo una serie di tentativifalliti,urtandodiqua e di là, finalmente riuscí a mettersi in piedi. Aggrappato con una mano al bordo del letto, per qualche istante rimase fermo in quella posizione. Sentiva la testa pesante e non riusciva a tenereilcollodritto.Ilsudore gli colava sotto le ascelle, i genitali per lo sforzo si contrassero.Dovetterespirare a fondo alcune volte per rilassareimuscoli. Quando si fu bene o male abituato a stare in piedi, dovette esercitarsi a camminare. Ma camminare implicava una serie di movimenti che costituivano una vera e propria tortura. Avanzare spostando alternativamente la gamba destra e la sinistra era sotto ogni punto di vista un atto irrazionale e contrario alle leggi della natura, mentre la posizionetroppoaltadeisuoi occhi rispetto al suolo lo faceva vacillare: per trovare l’equilibrio, per imparare a coordinare le articolazioni delle anche e delle gambe, all’inizio dovette fare uno sforzo sovrumano. A ogni passo in avanti provava un terrore tale che le ginocchia gli tremavano violentemente edovevaappoggiarsialmuro conunamano. Tuttavianoneraunmotivo sufficiente per restare per sempre in quella stanza. Aveva bisogno di trovare del cibo e mangiare, altrimenti i morsi della fame avrebbero finito col consumare la sua carneedistruggerlo. Lentamente, tenendosi aggrappato al muro, avanzò verso la porta. Pur non avendo alcun modo di misurareiltempo,sapevache ci stava mettendo ore. Era l’estrema sofferenza a dargliene la sensazione reale. Ciononostante, man mano che si muoveva, imparava a poco a poco a usare articolazioni e muscoli. La velocità era molto ridotta e i movimenti goffi. Non poteva fare a meno di un sostegno. Eppure in qualche modo il suocorpo,purcontuttelesue difficoltà, forse poteva funzionare. Toccòilpomodellaporta, provò a tirarlo. La porta non si mosse. Lo spinse, ma non serví a nulla. Allora provò a girarlo verso destra. La porta si aprí verso l’interno con un lieve cigolio. Non era chiusa a chiave. Samsa si affacciò e guardò fuori. Nel corridoio non si vedeva l’ombra di un essere umano. Il silenzio era assoluto, come in fondo al mare. Mise la gamba sinistra oltrelasogliaesenzalasciare il pomo si sporse in avanti con la metà superiore del corpo. Poi portò la gamba destra accanto alla sinistra. Tenendosi saldamente al muro, avanzò nel corridoio a piedinudi. C’erano quattro porte, inclusa quella da cui lui era appena uscito. Porte tutte uguali, di legno scuro. Cosa cipotevamaiesserealdilà? Qualche persona? Aveva una gran voglia di aprirle e guardare. Perché forse avrebbe potuto capire qualcosadellasuastranissima condizione. Trovare una parvenza di filo logico. Invecepassòdavantiaquelle porte cercando di non farsi sentire.Primadisoddisfarela curiosità, doveva calmare la fame. Riempire al piú presto la voragine che si era aperta nelsuocorpo. E sapeva benissimo dove andarepermetterelemanisu qualcosadicommestibile. Basta seguire l’odore, pensò Samsa fiutando l’aria. Odore di cibo caldo. Di cibo cucinato.Fluttuavainsilenzio attraverso l’aria in particelle infinitesimali e veniva a solleticare le sue narici. Le informazioni percepite dall’olfatto venivano trasmesse al suo cervello, creandoun’anticipazionecosí vivida, un desiderio cosí violento, che sentiva le budellatorcersicomesefosse nelle mani di un efferato inquisitore. La bocca gli si riempídisaliva. Perraggiungereilluogoin cui si originava quell’odore, però, doveva scendere una rampa di scale. Per lui già camminare in piano era un’impresa ardua, figurarsi fare quei diciassette gradini! Sarebbe stato un incubo. Aggrappandosi al corrimano, iniziò la discesa. A ogni scalino il peso del suo corpo gravava sulle sue fragili caviglie, diverse volte ebbe l’impressione di perdere l’equilibrio e stare per rotolare giú. In quella posizione innaturale, tutte le sue ossa e i suoi muscoli urlavanodaldolore. Intanto, Samsa pensava ai pesci e ai girasoli. Se fosse stato un pesce o un girasole, avrebbe potuto vivere tranquillo fino alla fine dei suoi giorni senza bisogno di salire e scendere delle scale. Perché invece era costretto a compiere movimenti tanto innaturali e pericolosi? Non avevasenso. Dopo essere arrivato bene o male in fondo a quei diciassette gradini, Samsa si raddrizzò, e usando le poche forze rimastegli avanzò nella direzione da cui proveniva l’odore di cibo. Attraversò una hall dal soffitto molto alto ed entrò nella sala da pranzo, la cui porta era aperta. Qui, su un grande tavolorotondo,eranodisposti diversi piatti pieni di cose da mangiare. Intorno c’erano cinque sedie vuote, nella stanzanonc’eranessuno.Dai piatti si levava ancora un poco di vapore. Il vaso di vetro posto nel mezzo conteneva una dozzina di gigli bianchi. La tavola era apparecchiataperquattro,ma nessuno sembrava aver toccatoleposateoitovaglioli immacolati. Come se delle persone fossero state sul punto di fare colazione, ma qualcosa di imprevisto le avesse spinte ad alzarsi e scappare. Questa era l’impressione che avevano lasciato.Enondovevaessere passato molto tempo da quandoerasuccesso. Cos’era accaduto? Dov’erano andati, tutti quanti? O piuttosto, dov’erano stati portati? Sarebberotornatiperfinirela lorocolazione? Samsa però non poteva permettersi di soffermarsi su questi pensieri. Si lasciò cadere sulla sedia piú vicina, afferrò con le mani il cibo disposto sul tavolo e cominciò a mangiare, senza usare né posate, né tovagliolo. Divorò il pane senza metterci burro o marmellata, addentò tutt’interaunagrossasalsiccia bollita,masticòunuovosodo contuttalabuccia,simisein bocca manciate di verdure marinate e purè di patate ancora caldo. Masticò ogni cosa insieme e mandò giú tutto quanto bevendo l’acqua direttamentedallacaraffa. Ilgustonongliimportava. Buono o cattivo, aspro o dolce, per Samsa non faceva alcuna differenza. L’essenziale era riempire il buco che aveva nello stomaco. Mangiava assorto, come se lottasse contro il tempo. Al punto che una volta, per addentare quello chetenevainmano,sisbagliò esimorseledita.Pezzettidi cibo erano sparsi dappertutto sultavolo,unpiattodiportata caddealsuoloesiruppe,ma luinoncibadò. Il tavolo presentava uno spettacolo indecoroso. Sembrava che un grosso stormo di cornacchie fosse entrato dalla finestra aperta e sifossedisputatalevivandea colpi di becco, poi fosse volato via lasciando i resti sparsi ovunque. Quando Samsa, dopo aver mangiato tutto quello che poteva, finalmente tirò il fiato, sul tavolononrestavaquasinulla di commestibile. Aveva risparmiatosoltantoigiglinel vaso. Se di cibo non ce ne fosse stato a sufficienza, probabilmente avrebbe divorato anche quelli. Tale e tantaerastatalasuafame. Dopo, rimase a lungo seduto dove si trovava, lo sguardo perso nel vuoto. Mentre respirava a fondo, le mani sul tavolo, fra le palpebresocchiuseguardavai fiori bianchi nel vaso. Un senso di sazietà lo invase lentamente, come la marea che arriva a coprire la spiaggia.Lavoraginenelsuo corpo andava colmandosi e togliendo gradualmente spazio alla sensazione di vuoto. Samsa prese allora una caraffa di metallo e si versò del caffè in una tazza di ceramica bianca. L’aroma forte del caffè gli ricordò qualcosa. Non era un ricordo immediato, ma una reminiscenza che gli arrivava in modo indiretto, per fasi successive. Come se si trovasse nel futuro e rivedesse quello che stava vivendoadessosottoformadi ricordo. C’era questa strana doppia dimensione, la memoria e l’esperienza presente sembravano corrersi dietro in un circolo chiuso, avanti e indietro. Mise parecchia panna nel caffè, giròcolditoebevve.Ilcaffè non si era del tutto raffreddato.Portòlatazzaalla bocca e dopo aver fatto una pausa bevve con concentrazione, un sorso dopol’altro.Illiquidotiepido calmò un poco il suo nervosismo. Tutt’a un tratto ebbe freddo. Cominciò a tremare con violenza. Prima la fame aveva obnubilato ogni altra sensazione fisica, ma una volta riempito lo stomaco, si era accorto che l’aria del mattinoerapungente.Ilfuoco nel camino era spento. E come se non bastasse, lui era completamente nudo, piedi inclusi. Sapevachedovevatrovare qualcosadamettersiaddosso. Cosí non poteva resistere. Inoltre farsi vedere in quelle condizioni sarebbe stato indecente. Poteva arrivare qualcuno da un momento all’altro. Le persone che fino apocoprimasitrovavanolí– quelle che stavano per fare colazione – sarebbero probabilmente tornate. Se l’avessero trovato nudo, gli avrebbero fatto passare dei guai. Per qualche ragione, Samsa sapeva queste cose. Noneranonésupposizioniné cognizioniacquisite,mapura comprensione. Per quali vie tale comprensione fosse arrivata fino a lui, lo ignorava. Forse si trattava di un altro di quei ricordi che ruotavanonellasuatesta. Si alzò, uscí dalla sala da pranzo e si diresse verso l’ingresso. Ormai, seppure in manieragoffaeconlentezza, riusciva a procedere sulle gambe senza bisogno di appoggiarsiaqualcosa.Nella hall, in un portaombrelli di metallo, insieme a un parapioggia c’erano diversi bastoni da passeggio. Ne scelseunodilegnoverniciato di nero, in modo da potersi sostenerementrecamminava. La sensazione del solido manico contro il palmo era sufficiente a rassicurarlo e dargli fiducia. E nel caso fosse stato attaccato dagli uccelli, se ne sarebbe servito comediun’armadidifesa.In piedi davanti alla finestra, scrutò all’esterno attraverso unospiragliofraletendinedi pizzobianco. Lacasadavasuunastrada. Non una strada molto larga, però, e quasi deserta. Vide solo poche persone che camminavano frettolosamente. Tutte indossavano degli abiti, di foggiaecoloridiversi.Erano quasi esclusivamente uomini, ma passarono anche un paio di donne. Gli uomini e le donne erano vestiti in modo differente.Aipiedicalzavano scarpedirigidocuoio.Alcuni avevano lucidi stivali. Le suole delle scarpe producevanounrumoresordo sulselciatodiciottolirotondi. Tutti avevano un cappello in testa. Ognuna di queste persone sembrava trovare del tutto naturale camminare su due gambe e non mostrare i genitali. Samsa si spostò davanti al grande specchio della hall e confrontò il suo aspettoconquellodellagente che passava per la strada. Si trovò brutto e miserabile, dava un’impressione di debolezza. Aveva la pancia sporca di grasso e di salsa, i pelipubicipienidibricioledi pane. Cercò di spazzarle via conlamano. Devo trovare qualcosa da mettermi addosso, pensò di nuovo. Poi si girò ancora una volta verso la strada, cercò conlosguardogliuccelli.Ma nonnevide. Al pianterreno c’erano la hall, la sala da pranzo, una cucina, e un salotto. Ma verosimilmente in nessuna di questestanzeavrebbescovato dei vestiti. Non era lí che le persone li toglievano e li indossavano. Dovevano tenerlialprimopiano. Si fece coraggio e tornò su. Inaspettatamente, trovò moltopiúfacilesalirelescale che scenderle. Tenendosi al corrimano, fermandosi ogni tanto per riprendere fiato, fece quei diciassette gradini in un tempo relativamente breve,senzaprovarenépaura néaffanno. Per sua fortuna – occorre dirlo–nessunadelleporteera chiusa a chiave. Bastava girare il pomo e spingere, perché si aprissero verso l’interno. Al primo piano le stanzeeranoquattro,eaparte quella in cui si era svegliato, fredda e spoglia, erano confortevoli e ammobiliate. Avevano letti provvisti di lenzuola e coperte pulite, armadi, scrivanie, lampade e tappetidaimotivicomplicati. Eranoordinateebentenute.I libri erano allineati sugli scaffali, e sui muri erano appesi quadri incorniciati di paesaggi dipinti a olio. Tutti raffiguravano bianche scoglieremarine,concandide nuvolesimiliaciambelleche vagavano nel cielo. I vasi di vetro erano pieni di fiori dai colori vivaci. Non c’erano finestre bloccate da ruvide tavoledilegno.Dalletendine di pizzo filtrava una luce morbida che era come una benedizione. Sembrava che suognilettoqualcunoavesse dormito fino a poco prima. Sui cuscini restava ancora l’incavolasciatodallatesta. Nell’armadio della stanza piú grande, Samsa trovò una specie di veste da camera della sua taglia. Piú o meno poteva andare. Gli altri indumenti, non riusciva a immaginare in che modo si dovessero indossare e combinare insieme, era troppo complicato. C’erano tanti bottoni, era difficile distinguere l’alto dal basso, capire cosa andasse sotto e cosa sopra. Ciò che doveva imparare, riguardo ai vestiti, era troppo. In confronto, la vestaglia era molto piú sempliceepratica,nonaveva ornamenti superflui e sembravaproprioadattaalui. Il tessuto, blu scuro, era leggero e morbido, piacevole sulla pelle. Trovò anche un paiodipantofoledellostesso colore. Infilò la vestaglia sul corpo nudo, e dopo molti tentativi falliti riuscí a stringere la cintura intorno alla vita facendo il nodo davanti. Poi, con quella palandrana addosso e le pantofole ai piedi, si guardò allo specchio. Perlomeno era meglio che andare in giro nudo. Se avesse potuto osservarebeneinchemodosi vestivano le altre persone, di sicuro avrebbe capito anche lui la maniera giusta di indossare gli abiti. Nel frattempo, doveva accontentarsi di quella vestaglia. Non si poteva dire che fosse sufficientemente calda,maserestavaincasalo avrebbe piú o meno riparato dal freddo. E soprattutto quello che lo rassicurava era il fatto che la sua pelle tanto vulnerabile non fosse piú esposta agli attacchi degli uccelli. Quando squillò il campanello, Samsa stava sonnecchiando nel lettone (era il piú grande di tutti) nella stanza piú vasta della casa, sotto la trapunta. Avvolto in quel caldo involucro di piume si sentiva bene, come all’interno di un uovo. Aveva sognato. Cosa, non lo ricordava. Ma era un sogno piacevole, luminoso. Proprio in quel momento il trillo del campanello era risuonato in tutta la casa, cacciando via il sogno e riportando Samsa alla fredda realtà. Si alzò, riannodò bene la cintura della vestaglia, infilò le pantofole blu, prese il bastone verniciato di nero e scese lentamente le scale tenendosi al corrimano. Ci riuscí molto piú facilmente della prima volta. Ma il pericolo di rotolare giú sussisteva. Occorreva fare estrema attenzione. Scese i gradini uno per uno, guardandobenedovemetteva i piedi. Nel frattempo il campanello continuava a suonare senza sosta in modo assordante. Chi lo premeva doveva essere una persona impaziente,eostinata. Arrivato al piano di sotto, tenendoilbastonebenstretto nella mano sinistra, aprí la porta d’ingresso. Bastava girare il pomo e tirare verso l’interno. Al di là della soglia vide una donna. Una donna molto piccola. Un miracolo che fosse arrivata con la mano fino al campanello. A guardarlabene,però,nonera affatto bassa. Anzi, probabilmente era di statura normale, ma stava tutta piegatainavantiacausadella schiena curva. Con un elasticoavevalegatoicapelli sulla nuca, in modo che non le ricadessero sulla faccia. Capellicastanoscuro,emolto folti. Indossava una lunga gonna che le copriva le caviglieeunagiaccaditweed malandata. Intorno al collo avevaunasciarpadicotonea righe. Non portava cappello. Le scarpe erano solide, allacciate fino alle caviglie. Doveva avere ventidue o ventitre anni. C’era ancora qualcosa di infantile in lei. Gli occhi erano grandi, il nasopiccolo,lelabbraunpo’ piegate all’ingiú, come una luna sottile. Le sopracciglia dritte e nere le davano un’espressionesospettosa. – Questa è casa Samsa, vero? – chiese, girando la testainmododaguardarloda sotto in su. Poi si contorse tutta.Comequandolaterrasi scuoteduranteunterremoto. –Sí,esatto,–disseSamsa dopo aver esitato un po’. Visto che lui era Gregor Samsa, quella doveva essere casa Samsa. Chi poteva trovarequalcosadaobiettare? La ragazza tuttavia non parve soddisfatta. Corrugò la fronte. Probabilmente aveva percepitonellavocediluiuna lieveesitazione. – Sicuro? È proprio casa Samsa? – chiese in tono severo. Come avrebbe fatto un guardiano esperto davanti aunpoveraccio. – Sono Gregor Samsa, – disseluicontuttalacalmadi cui fu capace. Su questo era certodinonsbagliarsi. –Be’,intalcaso…–fece la ragazza. Poi sollevò a fatica una grossa borsa nera posata ai suoi piedi. Una vecchia borsa logorata dall’uso, probabilmente ereditata da qualcuno. – Alloraprocediamo–.Esenza attenderelarispostaentròper primaincasa. Samsa chiuse la porta. La ragazza, in piedi nell’ingresso,losquadròdalla testa ai piedi, considerando con aria sospettosa la vestagliaelepantofole. –Parecheiol’abbiatirata giú dal letto, – disse poi in tonogelido. – Oh, non ha importanza, – fece lui, rendendosi conto, dallo sguardo sconcertato di lei, di quanto fosse inadeguato il suo abbigliamento. – Mi scusi se mi presento cosí, – disse, – il fatto è che perunaseriedicircostanze… La ragazza non fece commenti. –Allora?–chiesesecca. –Alloracosa? – Allora, questa serratura chenonfunziona? –Unaserratura? – Sí, la serratura rotta –. Fin dall’inizio la ragazza aveva rinunciato a reprimere l’irritazione nel tono della voce. – Mi è stato chiesto di venire ad aggiustare una serraturarotta. –Ah,già,–feceSamsa.– Laserraturarotta… Sisforzavadisperatamente di riflettere. Ma appena si concentrava, di nuovo in fondo al suo cervello si formavaunascuracolonnadi zanzare. – A me, riguardo a questa serratura rotta, non hanno dettonulla,–rispose.–Forse è una delle porte al primo piano. La ragazza contrasse il viso e storcendo il collo guardòSamsadasottoinsu. – Forse? – ripeté in tono ancora piú gelido. Poi, inarcando un sopracciglio: – Unadelleporte? Samsasiaccorsediessere arrossito. Si vergognava di non sapere nulla riguardo a quella serratura. Si schiarí la gola, ma le parole non gli venivano. – Signor Samsa. I suoi genitori adesso non sono in casa?Credosiamegliocheio parliconloro. – No, sono usciti per fare una commissione, – disse Samsa. –Come,sonousciti?–La ragazza era sbalordita. – Che commissione dovevano fare, col caos che c’è in questo momento? –Nonloso,maquandomi sonoalzato,incasanonc’era piúnessuno,–spiegòSamsa. –Cosedapazzi!–dissela ragazza. Poi fece un lungo sospiro. – Eppure erano stati avvisatichequalcunosarebbe venutostamattinaaquest’ora, perlariparazione. –Sonomortificato. Per qualche secondo lei rimase in silenzio. Poi abbassò lentamente le sopracciglia, e guardò il bastone nero che Samsa tenevanellamanosinistra. – Ha dei problemi alle gambe, signor Gregor? – chiese. –Unpochino,–fulavaga rispostadilui. Di nuovo la ragazza si contorse tutta, pur restando piegata in avanti. Samsa non capivachesensoochescopo avessero quei gesti. Ma non potevafareamenodiprovare un’istintiva simpatia per quellacomplessasequenzadi movimenti. – Be’, non ci possiamo fare nulla, – disse la ragazza rassegnata. – In ogni caso andiamo su e diamo un’occhiata alla serratura di quelle porte. Considerato che hoattraversatoilponteesono venutafinqui,dall’altrocapo della città, nel bel mezzo di questopandemonio.Hoquasi rischiato la vita. Sarebbe il colmo che me ne andassi senzafarenulla.«Ah,nonc’è nessuno? Be’, fa niente: sarà per un’altra volta…» Non è d’accordo? «Nel bel mezzo di questo pandemonio»? Di cosa stava parlando? Samsa non ne aveva idea. Era successo qualcosa di grave? Decise di nonchiederespiegazioni.Era meglio non mostrare ulteriormente ignoranza. la sua Sempre piegata in due, tenendolapesanteborsanera conlamanodestra,laragazza si arrampicò su per le scale: sembrava quasi strisciare come un insetto. Samsa, aggrappato al corrimano, la seguiva lentamente. Vederla camminare sollevava in lui unavaga,empaticanostalgia. Arrivataalprimopiano,la ragazza si fermò e osservò a turnolequattroporte. – Ha detto che dev’essere una di queste ad avere la serraturarotta,vero?–chiese. DinuovoSamsaarrossí. – Sí, una di queste, – rispose. Poi, esitando, aggiunse: – Potrebbe essere l’ultimainfondoasinistra–. Era quella della stanza vuota e disadorna dove si era svegliatoquellamattina. – Potrebbe essere… – ripeté la ragazza in un tono inespressivo che faceva pensare a un falò spento. Si voltòeguardòSamsa. – Già, potrebbe… – fece lui. –SignorGregorSamsa,sa che è divertente parlare con lei? Un vocabolario ricchissimo, proprietà di linguaggio… – disse in tono tagliente. Poi fece un altro sospiro. – Comunque sia, – aggiunse rinunciando al sarcasmo, – cominciamo da lí, dall’ultima in fondo a sinistra. Andò fino alla porta e provò a girare il pomo. Spinseilbattente,chesiaprí. All’interno, la stanza era tale e quale l’aveva lasciata Samsa uscendo. L’unico mobile era il letto. Piazzato nel centro dello spazio, sembrava un’isola deserta in mezzo a una corrente oceanica. Sul letto c’era solo ilmaterasso,pocopulito.Era lí che lui si era svegliato nei panni di Gregor Samsa. Non aveva sognato. Il pavimento era nudo e freddo. Alla finestra erano inchiodate assi di legno. Davanti a quello spettacolo però la ragazza non sembrò sorpresa. La sua reazionelasciavapensareche di stanze simili ce ne fossero ovunque,inquellacittà. Si curvò ulteriormente per aprire la borsa nera, ne tirò fuori un panno di flanella color crema e lo dispiegò sul pavimento. Poi scelse alcuni attrezzi e ve li dispose sopra con ordine. Come un esperto torturatore che allinea con cura i suoi sinistri strumenti davanti alla sua infelice vittima. Prese un fil di ferro di media grandezza, ne inserí un’estremità nel buco della serratura e con gesti sicuri lo mosseintutteledirezioni.Lo sguardo era attento nei suoi occhi leggermente socchiusi, l’udito teso al minimo rumore. Dopo un po’ scelse un filo piú sottile e ripeté l’operazione. L’espressione contrariata,storselaboccain una smorfia che ricordava una di quelle appuntite sciabole cinesi. Prese una grossatorciaelettricaeiniziò a esaminare la serratura con espressionesevera. – La chiave ce l’ha? – chieseaSamsa. – No, non so assolutamente dove sia, – risposeluisincero. –Ah,GregorSamsa,mifa venirvogliadimorire!–disse la ragazza levando gli occhi alsoffitto. Dopodiché si disinteressò di lui, prese un cacciavite fra gliattrezziallineatisulpanno einiziòastaccarelaserratura dallaporta.Isuoigestierano cauti e attenti, non voleva rischiare di spanare le viti. Anche mentre svolgeva quell’operazione, piú volte si fermòpercontorcersitutta. Alle sue spalle Samsa, guardandolamuoversiinquel modo, sentí che il suo fisico reagiva in maniera strana. A poco a poco una sensazione dicalorepervaseilsuocorpo, lesuenaricisidilatarono.La boccaglisiseccòaunpunto tale che quando inghiottí la saliva sentí contro i timpani un suono sordo. I lobi delle orecchie per qualche ragione gli prudevano. E il suo organo sessuale, che fino ad alloraerapenzolatoinerte,gli siindurí,crebbeinspessoree lunghezza, e cominciò a sollevarsi verso l’alto. Il che produsse una protuberanza sul davanti della vestaglia. Ma cosa significava tutto questo? Samsa non ci capiva niente. Dopo aver tolto la serratura, la ragazza la portò vicino alla finestra per esaminarla attentamente alla lucechefiltravafraun’assee l’altra. La fronte corrucciata, le labbra serrate in una piega storta, la frugò con il fil di ferro e la scosse forte per sentire che rumore faceva. Poi sospirò e si voltò verso Samsa. –L’internoèrotto,–disse. – Aveva visto giusto, la serratura che non funziona è questa. –Oh,bene,–fecelui. – Be’, mica tanto. Non possoaggiustarlaqui,adesso, – disse la ragazza. – È un modello un po’ inusuale. Devo portarla a casa e farla vedere a mio padre o a uno dei miei fratelli maggiori. Loroforsepotrannoripararla. Io non ne sono capace. Sto ancoraimparando,melacavo soloconleserraturenormali. – Capisco, – disse Samsa. Cosíquellaragazzaavevaun padre e diversi fratelli maggiori.Etuttiquantierano fabbri. –Inrealtàavrebbedovuto venire uno di loro, ma come sa bene anche lei, è successo quel che è successo. Per questohannomandatome.La città è tutta un posto di blocco. Detto ciò, la ragazza fece un sospiro che attraversò l’interosuocorpo. –Macomehafattoquesta serraturaarompersiinquesto modo? – proseguí. – Non so chi possa essere stato, ma sembra che qualcuno l’abbia distrutta dall’interno servendosi di uno strumento apposito. È l’unica spiegazione. Dinuovosicontorsetutta. Quando si contorceva, ruotava le braccia come se praticasse qualche stile particolare di nuoto. Quel movimento affascinava Samsa. Gli faceva battere il cuore. – Posso farle una domanda? – le chiese di puntoinbianco. – Una domanda? – ripeté la ragazza scrutandolo sospettosa.–Forza,sentiamo, anche se non riesco a immaginare… – Perché ogni tanto si scuoteinquelmodo? La ragazza lo guardò a boccaaperta. – Mi scuoto? – Per qualche secondo parve rifletteresullaquestione.–In questo modo, vuol dire? – chiese eseguendo il movimento. –Sí. La ragazza lo osservò con occhi che sembravano due pietre. – È per sistemare bene il reggiseno,–dissepoiseccata. –Tuttoqui. – Il reggiseno? – chiese Samsa. Quella parola non evocavainluialcunricordo. –Sí,ilreggiseno.Sacos’è un reggiseno, no? – disse la ragazza come se sputasse fuori le parole. – O trova strano che una gobba come melousi? «Gobba?», pensò Samsa. Anche quel termine venne inghiottito nel buio della sua coscienza. Cosa stava dicendo, quella lí? Non ne aveva idea. Ma doveva risponderequalcosa. – No, non lo trovo affatto strano,–sidifeseconunfilo divoce. – No perché sa, anche io ho due tette come tutte le altre, e ho bisogno di tenerle ferme con un reggiseno. Non voglio mica sembrare una mucca,quandocammino,con le tette che vanno avanti e indietro. – Naturalmente, – disse Samsa, che continuava a non capircinulla. – Ma dato che sono conciata cosí, trovare un reggisenochesiadattialmio corpoèimpossibile.Perchéè unpo’diversodaquellodelle altredonne.Alloraognitanto sonocostrettaadagitarmiper rimettereilreggisenoaposto. Per me non è facile, sa, in quanto donna… è molto piú difficile di quanto lei creda! In tanti sensi. Ma a lei piace guardarmi da dietro mentre mi risistemo? La cosa la diverte? – No, no, non è che mi diverta!Michiedevosoltanto a che scopo facesse questa cosastrana. Ora Samsa sapeva che un reggiseno serviva a tenere fermi i seni, e che «gobba» indicava la forma peculiare del corpo di lei. Le cose da imparare riguardo al mondo in cui si trovava erano davverotroppe. – Non è che mi sta prendendo in giro, per caso? –chieselaragazza. –No,affatto. Lei piegò la testa per guardarlo. E comprese che era vero, che non la stava prendendo in giro. Né sembrava malintenzionato. Forse è soltanto un po’ scemo, pensò. Ma sembrava un ragazzo per bene, ed era anchepiuttostobello.Doveva avereunatrentinad’anni.Era unpo’troppomagro,avevale orecchie troppo grandi e un colorito malsano, ma era una personaeducata. A quel punto, notò la protuberanza che tendeva ad angolorettolaparteinferiore della vestaglia che lui indossava. –Equello,cos’è?–chiese in tono gelido. – Quel rigonfiamento? Samsa abbassò gli occhi a guardare la montagnola che sollevava la stoffa. A giudicare dal tono di lei, era qualcosa che non si poteva mostrare decentemente in pubblico. – Ah, ecco! Sta pensando «chissà com’è scopare una gobba…» La cosa la incuriosisce,eh? – Scopare? – chiese Samsa. Anche quella parola nonl’avevamaisentita. –Datochesonopiegatain avanti, si sta dicendo che sono in posizione perfetta perchéleimiscopidadietro. Giusto? Di tipi come lei, che hanno di queste perversioni, ce ne sono parecchi in circolazione. E tutti sono convinti che noi ci stiamo immediatamente. Ma per sua disgrazianonfunzionacosí. – Non so bene di cosa parli,masepercasohofatto qualcosa che l’ha offesa, mi dispiace davvero. Non so come chiederle scusa. Mi perdoni. Non l’ho fatto per malizia. Sono stato malato, e ci sono tante cose che non afferroancorabene. La ragazza fece un altro sospiro. – Ah, ecco… capisco, – disse.–Leiconlatestanonci sta tanto. Solo il pisello le funziona bene. Non è colpa sua. –Miscusi,–ripetéSamsa. –Be’,falostesso,–disse la ragazza rassegnata. – Ho quattro fratelli uno peggio dell’altro, di queste cose ne ho viste fino alla nausea fin da quando ero piccola. Lo fanno apposta, per farmi arrabbiare. Sono delle canaglie. Di conseguenza ci sonoabituata,micreda. Si accovacciò sul pavimentoperriporreunoper uno i suoi strumenti, avvolse la serratura rotta nel panno color crema e la mise con curanellaborsanerainsieme a tutto il resto. Poi prese la borsaesialzò. – La serratura la porto a casa.Lodicaaisuoigenitori. Se la si può riparare bene, altrimenti bisognerà sostituirlaconunanuova.Ma inquestomomentoprocurarsi una serratura nuova non sarà facile, temo. Quando i suoi sarannodiritornoglielodica. Hacapito?Seloricorderà? Sí,leassicuròSamsa. La ragazza si avviò lentamentegiúperlescale,e Samsa piano piano la seguí. Le loro due figure che scendevano uno dietro l’altra erano in forte contrasto. Lei eraquasiaquattrogambe,lui stava piegato all’indietro in una posizione del tutto innaturale, eppure avanzavano praticamente alla stessavelocità.Nelfrattempo Samsa si sforzava di reprimere «la protuberanza», ma con scarso successo. Tanto piú che a vedere lei camminare, il cuore gli batteva sempre piú forte. Il sangue fresco e vigoroso che gli circolava nelle vene teneva decisamente sollevata lavestaglia. –Comelehodettoprima, in realtà sarebbe dovuto venire mio padre, o uno dei miei fratelli, – disse la ragazza sulla porta di casa. – Malacittàèpienadisoldati, cisonocarriarmatidatuttele parti. Ci sono posti di blocco aogniponte,emoltepersone sonostatepreseeportatevia. Quindi gli uomini della mia famiglianonpotevanouscire. Se uno viene notato e arrestato, non si sa quando farà ritorno. È troppo pericoloso. Per questo sono venuta io. Ho attraversato da sola tutta Praga. A me forse nessuno fa caso. Conciata come sono, posso tornare utileanch’io,avolte. – Carri armati? – chiese connoncuranzaSamsa. – Sí, tantissimi. Dotati di cannoni e mitragliatrici. Anche il suo, di cannone, mi pare bello grosso, – disse la ragazza indicando la protuberanza. – Quelli però sono piú grossi e anche piú aggressivi. Be’, spero che i suoifamigliaritorninoacasa saniesalvi.Leisadovesono andati,tuttiquanti? Samsascosselatesta.Non neavevalaminimaidea. – Senta, non posso rivederla?–chiesed’impulso. La ragazza piegò lentamente la testa e lo guardò da sotto in su con occhisospettosi. –Leivorrebberivedermi? –Sí,mifarebbepiacere. – Col pisello dritto come adesso? Samsa gettò un’occhiata allaprotuberanza. – Non so spiegarmi bene, macredochequestacosanon abbia alcun nesso con quello che provo. Forse è un problemacardiaco. – Ah, ecco, – fece la ragazza. – Un problema cardiaco.Èun’interpretazione interessante, sa? Una novità assoluta,perme. – La verità è che non possofarciniente. –Quindinonc’entranulla conlavogliadiscopare. – Non sto pensando a scopare.Davvero. – Cioè se il pisello le diventa grosso e duro, non è perché lei pensa a scopare, ma perché ha un problema cardiaco.Èquestochemista dicendo,vero? Samsaannuí. –LogiurasuDio? – Dio, – ripeté Samsa. Anche quella parola gli tornava nuova. Per qualche secondorimaseinsilenzio. La ragazza scosse debolmente la testa. Poi ancora una volta si contorse intuttiisensipersistemarsiil reggiseno. – Lasci perdere Dio, tanto credochesenesiaandatoda Praga già da qualche giorno. Forse aveva qualcosa d’importante da fare. Quindi lodimentichipure. – Allora possiamo rivederci? – chiese per la secondavoltaSamsa. La ragazza sollevò un sopracciglio.Poisulsuoviso apparve un’espressione diversa, come se stesse guardando un paesaggio lontanoenebbioso. – Sta dicendo che vuole davverovedermidinuovo? Samsafececennodisí. – E cosa potremmo fare, insieme? –Potremmoparlare. –Parlaredicosa? –Ditutto. –Soloparlare? –Cisonotantecosechele vorreidomandare. –Acheproposito? – Del modo in cui è fatto questomondo,dilei,dime… La ragazza rifletté un momento. –Nonèchevuolesoltanto infilare il suo coso dove sappiamo? – No, davvero, – disse Samsa con fermezza. – Semplicemente ho l’impressione che ci siano tantissime cose di cui dobbiamo parlare, lei e io. Dei carri armati, di Dio, dei reggiseni,delleserrature… Unaltrosilenziocalòfrai due. Si udí il rumore di qualcunochepassavadavanti acasatirandouncarretto.Un rumoresinistrochetoglievail fiato. – Sí, ma non so… – disse lei scuotendo lentamente la testa.Ilsuotonoperònonera piúfreddocomeprima.–Lei viene da una famiglia troppo in alto, rispetto alla mia. I suoi genitori non saranno certo contenti che il loro prezioso figlio si metta con unaragazzacomeme.Inoltre adessolacittàèpienadicarri armati e soldati stranieri. Chissà cosa succederà, nei prossimi giorni, nessuno lo puòsapere. Naturalmente non lo sapevanemmenoSamsa.Non capivanulladelpresenteedel passato, figurarsi del futuro! Ignorava persino il modo giustodiindossareivestiti! – Comunque sia, fra qualchegiornotorneròquida lei, – disse la ragazza. – Per riportarle la serratura. Gliela riporto in ogni caso, che si riesca a ripararla o no. Devo anche farmi pagare. Se lei sarà ancora qui, potremo rivederci.Anchesenonsose potremoparlareconcalmadi com’èfattoilmondo.Davanti ai suoi genitori, però, quella protuberanza è meglio che nonlatengainmostra.Nonè ilgeneredicosachesipossa far vedere come se nulla fosse, nessuno le farebbe i complimenti. Samsa annuí. Non sapeva benecomefareanasconderla, maciavrebbepensatodopo. – È strano, però, sa? – disse la ragazza con aria pensosa. – Mentre tutto sta crollando, c’è chi si preoccupa di una serratura rotta, e chi viene a ripararla. A pensarci bene, è assurdo, nontrova?Maforseèmeglio cosí, dopotutto. Forse è la cosa giusta da fare. Cioè, anche se il mondo adesso si sta sfasciando, la gente, continuando a occuparsi onestamentediquestepiccole cose, forse riuscirà a mantenere l’equilibrio mentale. La ragazza piegò la testa di lato e guardò Samsa in faccia, un sopracciglio sollevato. – Tra parentesi, – continuò, – forse non sono affari miei, ma quella stanza al primo piano, a cosa è servita,finora?Nientemobili, maunaserraturasolidacome questa. Perché i suoi genitori erano tanto preoccupati che fosse rotta? E perché alla finestra hanno inchiodato delle spesse assi di legno? Non è che per caso lei era rinchiusolídentro? Samsa non rispose. Se qualcuno era stato rinchiuso in quella stanza, poteva trattarsi solo di lui. Ma per quale motivo, che necessità c’eradifarlo? – Mah, forse non serve a niente chiederle certe cose. Ora devo andare. Se tardo a rientrare i miei si preoccupano. Preghi che riesca ad attraversare sana e salva la città. Che i soldati non degnino di un’occhiata una povera ragazza gobba. Che fra loro non ci sia qualchepervertitocuipiaccia fottere una come me. Stanno già fottendo la città, ed è piú chesufficiente. – Pregherò, – rispose Samsa, anche se non capiva cosa significasse quella parola,eneppure«pervertito» o«fottere». Poilaragazzauscí,piegata in due, la pesante borsa di cuoioneroappesaallamano. – Ci incontriamo ancora, vero? – chiese di nuovo Samsaallesuespalle. – Se lo desidera veramente, prima o poi di sicuro ci rincontreremo, – disse lei. Ora nella sua voce c’eraunanotadidolcezza. – Faccia attenzione agli uccelli rapaci! – le gridò dietroGregorSamsa. Leisivoltòefececennodi sí. Sulla sua bocca un po’ stortaapparvel’accennodiun sorriso. Samsa rimase a guardare attraversoletendinelafigura curvadileichesiallontanava sui ciottoli della strada. Aveva un’andatura goffa, ma procedeva sicura e veloce. Ogni suo gesto gli pareva seducente. Sembrava un girino sulla superficie dell’acqua. Ai suoi occhi, quel modo di camminare appariva molto piú naturale che non avanzare in modo instabilesuduegambe. Quando non riuscí piú a vederla, ben presto si rese conto che il suo organo genitale era di nuovo piccolo e molle. La grossa «protuberanza» a un certo punto, chissà quando, era svanita.Il«coso»glipendeva tra le gambe quieto e inoffensivo, come un frutto innocente. I due testicoli riposavano tranquilli nella loro sacca. Samsa si riaggiustò la cintura della vestaglia, andò a sedersi su una sedia della cucina e bevve il caffè che restava, ormaifreddo. Le persone che abitavano in quella casa se n’erano andate. Non sapeva chi fossero, ma probabilmente si trattava dei suoi famigliari. Per qualche oscura ragione erano scappati di corsa. E magarinonsarebberomaipiú tornati. Il mondo stava per sfasciarsi… Gregor Samsa nonsapevacosavolessedire. Non riusciva a immaginarlo. Soldati stranieri, carri armati…eratuttounmistero. Una cosa sola comprendeva bene: desiderava incontrare di nuovo quella ragazza gobba. Anelava a rivederla. Parlare con lei per ore, uno di fronte all’altra. Scoprire insieme, a poco a poco, il mistero del mondo. Voleva guardarla da angoli diversi mentre si scuotevaperrimettereaposto il reggiseno. E possibilmente toccare tutto il suo corpo. Sentire sotto le dita la morbidezza e il tepore della sua pelle. Salire e scendere con lei, insieme, uno accanto all’altra,lescaledelmondo. Gli bastava pensare a lei, rivedere mentalmente la sua figura,persentireuncalorein petto.Ecominciòarallegrarsi di non essere un pesce o un girasole. Camminare su due gambe, indossare dei vestiti, mangiareusandouncoltelloe una forchetta… tutto questo costituiva una seccatura tremenda, era vero. E al mondo c’era una quantità impressionante di cose da ricordare. Ma se fosse diventato un pesce o un girasole,invececheunessere umano, forse non avrebbe conosciuto quella strana sensazionechegliscaldavail cuore.Cosíglisembrava. Rimase per molto tempo seduto a occhi chiusi. Assaporava tranquillamente quel calore, come una personaaccantoaunfalò.Poi sialzò,preseilbastoneneroe si diresse verso le scale. Voleva tornare al piano di sopra e cercare di comprendere il modo giusto di indossare i vestiti. Per il momento, questo era il suo compito. Ilmondoattendevachelui imparasse. Uominisenzadonne Poco dopo l’una, venni svegliato dal suono del telefono. Un suono che in piena notte ha sempre qualcosadiaggressivo.Come se qualcuno cercasse di lacerare il mondo servendosi diun’armabrutale.Inquanto membro del genere umano, dovevofarlosmettere.Quindi mialzai,andaiinsoggiornoe sollevailacornetta. Unuomodallavocebassa mi diede una notizia: una donna aveva lasciato per sempre questo mondo. La voce era quella del marito. Perlomeno, cosí si presentò lui.Midissechelamoglie,il mercoledí della settimana precedente,sierasuicidata.E che comunque stessero le cose, riteneva doveroso farmelo sapere. Comunque stessero le cose. Da quello chepotevogiudicare,nelsuo tono non c’era la minima tracciadiemozione.Comese dettasse il testo di un telegramma. Nessuna pausa fra una parola e l’altra. Una notizia asettica. Un evento privo di circostanze accessorie.Punto. Come risposi a quell’annuncio? Probabilmente alcune parole le dissi, ma non ricordo piú quali. In ogni caso, seguí un lungo silenzio. Un silenzio che faceva pensare a una profonda buca apertasi improvvisamente nel bel mezzo della strada, e due persone ferme sui due lati a guardarcidentro.Poil’uomo, senza aggiungere nulla, riagganciò. Cautamente, comequandosiposaperterra un fragile oggetto d’arte. Io rimasi in piedi dov’ero, il ricevitore insulsamente in mano. Avevo addosso una maglietta bianca e dei boxer azzurri. Quellochenoncapivoera come facesse lui a sapere di me. La donna gli aveva fatto il mio nome dicendogli che ero un suo ex fidanzato? A che scopo? E come mai lui conosceva il mio numero di telefono, visto che non ero sull’elenco? Ma soprattutto, perché quell’uomo si era sentitoinobbligodichiamare me per annunciarmi che la moglie era morta? Non riuscivo a credere che lei, nelle sue ultime volontà, avesselasciatoscrittodifarlo. Eravamo stati insieme molti anni addietro. E dopo esserci lasciati, non ci eravamo piú rivisti. Nemmeno parlati al telefono. Comunque, tutto questo non aveva importanza. Il problema era che lui non mi aveva dato uno straccio di spiegazione. Sentendo il dovere di informarmi del suicidio della moglie, si era procurato in qualche modo il mio numero. Ma non aveva ritenuto necessario darmi notizie piú dettagliate. Sembrava che il suo scopo fossestatodipiazzarmiinun punto intermedio tra la conoscenzael’ignoranza.Ma perché? Voleva insegnarmi qualcosa? Cosa,adesempio? Non ci capivo niente. Andavomoltiplicandoipunti interrogativi. Come un bambino che continui a stampareacasosulquaderno, uno dopo l’altro, timbri di gomma. Di conseguenza ancora adessononsoperchéleisisia suicidata, né quale modo abbia scelto di togliersi la vita. Anche avessi voluto indagare, non ne avevo i mezzi. Ignoravo dove abitasse, e tanto per cominciare non avevo mai saputo che si fosse sposata. Néconoscevo,ovviamente,il suo nuovo cognome (al telefono il marito non si era presentato).Aquandorisaliva il matrimonio? Aveva dei figli? Eppure presi per buono tutto quello che il marito mi disse al telefono, non dubitai mai che non mi avesse detto la verità. Dopo essersi separata da me, lei aveva continuatoaesistereinquesto mondo, si era (probabilmente) innamorata di un uomo, l’aveva sposato, e poi il mercoledí della settimana precedente, per qualche ragione, con qualche mezzo, si era tolta la vita. «Comunquestesserolecose». Nella voce di lui c’era in effetti qualcosa di profondamente legato al mondo della donna morta. Nel silenzio della notte, percepii quel legame. Vidi lo sfolgorio di un filo teso fino allospasimo.Inquestosenso – a prescindere dal fatto che fosse intenzionale o meno – telefonarmi all’una del mattino, da parte di lui, era stata una scelta giusta. Se mi avesse chiamato all’una del pomeriggio, forse non avrebbe ottenuto lo stesso risultato. Allafineposaiilricevitore e tornai a letto. Anche mia mogliesierasvegliata. – Chi era? È morto qualcuno?–michiese. – No, nessuno. Hanno sbagliato numero, – dissi. Con voce assonnata, strascicandoleparole. Naturalmente lei non ci credette.Perchénelmiotono si era insinuata l’ombra della suicida. Il turbamento che crea la morte di una persona ha una fortissima capacità infettiva. Si manifesta in un lieve tremore che si propaga attraversoifilideltelefono,e diventa una vibrazione nella voce che fa oscillare il mondo.Miamoglieperònon fece commenti. Distesi uno accanto all’altra nel buio, seguimmo ognuno i propri pensieri, tendendo l’orecchio alsilenzio. Era la terza, fra le donne con cui avevo avuto una relazione, che sceglieva di darsi la morte. A pensarci bene, anzi, senza bisogno di pensarci piú di tanto, era un tasso di mortalità altissimo. Stentavo a crederci. Perché nonèchefossistatocontante donne… Per quale motivo si erano tolte la vita una dopo l’altra, ancora giovani? Cosa le aveva obbligate a farlo? Non lo capivo. Purché non fosse colpa mia, mi dissi. Purché io non c’entrassi nulla. Purché non avessero pensato a me come a un testimone oculare, o a qualcuno che registrasse l’evento. Lo speravo sinceramente.Inoltre…come dire? Comunque la si rigiri, lei, la terza donna (per comodità qui la chiamerò Emu), non era il genere di personachesisuicida.Perché Emu avrebbe sempre dovuto essere vegliata e protetta dai robusti marinai del mondo intero! Non posso raccontare che tipo di donna fosse Emu, dove e quando ci siamo conosciuti, quali cose abbiamo fatto insieme. Chiedo scusa, ma se entrassi nei dettagli creerei dei problemireali.Probabilmente mettereiinimbarazzodiverse persone che sono ancora in vita. Di conseguenza tutto quello che posso scrivere, da partemia,èchemoltotempo fa, per un certo periodo, ho avutoconleiunlegameassai intimo,echeauncertopunto sono sorti dei motivi per cui cisiamolasciati. Aesseresincero,Emueio ci conoscevamo da quando avevo quattordici anni. In realtà non è cosí, ma almeno quisupponiamochelosia.Ci siamo incontrati a quattordici anni in un’aula della scuola media. Alla lezione di biologia. Si parlava di ammoniti o celacanti o qualcosadelgenere.Emuera la mia vicina di banco. Io le avevo chiesto se poteva prestarmi una gomma da cancellare, perché avevo dimenticato la mia, e lei avevaspezzatoinduelasuae me ne aveva dato metà. Sorridendomi. E io in un attimo,allalettera,meneero innamorato. Era la ragazza piúbellacheavessimaivisto. Perlomeno è quello che pensai quella volta. È cosí che voglio considerare Emu. Ècosícheciincontrammoin un’aula della scuola media. Grazie alla mediazione irresistibile delle ammoniti o dei celacanti. A questo pensiero, tante cose trovano confacilitàunaspiegazione. Avevo quattordici anni, ero sano e in forma come un pesce appena nato, e ogni volta che soffiava un vento caldo da ovest avevo un’erezione.Manoneraleia farmelo venire duro. Perché Emueramegliodelventoche soffiava da ovest. Anzi, era talmente straordinaria da sbaragliare tutti i venti, da qualsiasi direzione venissero. Noneracertoilcasodiavere una patetica erezione davanti a una giovane donna tanto perfetta. Mai una ragazza mi avevaispiratotalisentimenti. Io «sento» che quello è stato il mio primo incontro con Emu. In realtà non è andata esattamente cosí, ma pensarlo aiuta a dare un filo logico alla storia. Io avevo quattordici anni, e lei anche. Era quella l’età giusta per incontrarci. In una dimensioneideale. Peccato che in seguito, chissà quando, Emu sia scomparsa. Non la vedevo piú, dov’era finita? Appena avevo distolto per un attimo lo sguardo, qualcosa me l’aveva portata via. Fino a pocoprimaeralí,eauncerto punto mi sono accorto che non c’era piú. Forse era stata indotta in modo un po’ subdolo a salire su una nave direttaaMarsigliaoinCosta d’Avorio. La mia delusione erapiúprofondadiqualunque oceano avesse attraversato. Piúprofondadiunmaretanto vastodacelarepiovregiganti e draghi marini. Cominciai a detestarelamiapersona.Non credevo piú a nulla. Ebbene sí, a tal punto ero affascinato daEmu.Atalpuntol’amavo. Atalpuntoneavevobisogno. Perché mi ero distratto e avevo guardato da un’altra parte? Paradossalmente,daallora Emu ha continuato a vivere ovunque.Lavedevoovunque. Era presente in molti luoghi, era compresa in molte dimensioni temporali, in moltepersone.Eiolosapevo. Ho messo la metà della gomma da cancellare in una bustina di plastica e l’ho portatasempreconme,come fosse un tesoro. O un amuleto. O una bussola. Se l’avessi tenuta sempre in tasca,primaopoidaqualche parte avrei trovato Emu. Ne ero convinto. Era stata incantata dalle lusinghe dei marinai – la sanno lunga, i marinai –, messa su una grande nave e portata in un paeselontano.Perchéerauna persona che voleva credere alle cose. Che poteva spezzare in due una gomma nuova senza pensarci due volte e darne la metà a qualcuno. Hocercatodiprocurarmia pocoapocodeiframmentidi lei prendendoli da gente e da posti diversi. Ma naturalmente erano soltanto dei frammenti. Per quanti ne mettessi insieme, tali restavano. Il nucleo di lei si era dileguato, come un miraggio. L’orizzonte non avevalimite,nésullaterrané sul mare. Mi spostavo di continuoperinseguirlo.Sono andatofinoaBombay,aCittà del Capo, a Reykjavík, alle Bahamas. Ho fatto il giro di tutte le città che avessero un porto. Ma quando arrivavo, lei aveva già fatto perdere le sue tracce. Nel suo letto in disordine restava ancora un po’ del suo calore. Appoggiata alla spalliera di una sedia c’era ancora la sciarpaamotivistampatiche portava intorno al collo. Sul tavolo, un libro aperto alla pagina che stava leggendo. Nel bagno le sue calze di nylon appese ad asciugare. Ma lei non c’era piú. I marinai del mondo intero, tempestivi,avevanofiutatola mia presenza e l’avevano portata via di corsa per nasconderladaqualcheparte. Naturalmenteaquelpuntoio non ero piú un adolescente. Erodiventatomoltopiúforte eabbronzato.Avevolabarba piúfoltaesapevodistinguere una metafora da una similitudine. Ma una parte di me non era cambiata, aveva ancora quattordici anni. E quella parte di me che avrebbe avuto per sempre quattordici anni attendeva paziente che un dolce vento daovestvenisseacarezzareil mio sesso innocente. Perché lí, nel posto da dove soffiava quel vento, di sicuro c’era Emu. QuestoeraEmuperme. Non una donna che potesse sentirsi tranquilla in unpostosolo. Ma neanche il genere di persona che mette fine alla propriavita. A essere sincero, ora non so piú bene cosa volessi dire qui. Forse intendevo scrivere dell’essenza di qualcosa, non di un fatto reale. Ma parlare di qualcosa di essenziale che non sia anche reale è come dare appuntamento a qualcuno sulla faccia in ombradellaluna.Buiopesto, nessun segnale visibile. Inoltre è un luogo troppo vasto. Quello che vorrei dire è che Emu era una donna di cuiavreidovutoinnamorarmi quando avevo quattordici anni.Inveceèsuccessomolto piútardi,eall’epocaanchelei (purtroppo) ne aveva tanti di piú. Ci siamo incontrati nel periodo sbagliato. È come se avessimo frainteso il giorno dell’appuntamento.Illuogoe l’ora erano giusti, il giorno no. Eppure anche dentro di Emu viveva ancora una quattordicenne. In modo globale, certamente non frammentario.Guardandocon attenzione, potevo vedere quella ragazzina muoversi dentro di lei. Quando facevamol’amore,Emunelle mie braccia poteva diventare molto vecchia o molto giovane.Potevaandareavanti e indietro all’interno del suo tempopersonale,lofacevadi continuo. A me piaceva che lei fosse cosí. In quei momenti la stringevo forte a me,tantodafarlemale.Forse ci mettevo un po’ troppo ardore. Ma non ne potevo fare a meno. Perché non volevolasciarlaandarevia. Tuttavia, com’era naturale che accadesse, a un certo punto l’ho persa di nuovo. Per forza, tutti i marinai del mondo miravano a lei. Non era possibile che fossi il solo a proteggerla. A chiunque succede di distogliere un attimo lo sguardo. È necessario dormire, bisogna andare in bagno. Lavarsi. Affettare le cipolle e sbucciare i fagioli. Controllare la pressione nelle gomme della macchina. Ed è cosí che alla fine ci siamo separati. Cioè, lei si è allontanata da me. C’era di sicuro l’ombra dei marinai, dietro. Un’ombra densa, dotata di vita propria, che si arrampicava sui muri del palazzo.Ilbagno,lecipollee la pressione delle gomme erano soltanto i frammenti delle metafore che quell’ombra spargeva come puntine. Quando lei se n’è andata, sono caduto in un abisso di angoscia di cui nessuno conosce la profondità. È qualcosa che nessuno può sapere.Vistochenemmenoio me lo ricordo tanto bene. Quanto ho sofferto? Quanto dolore ho sentito in petto? Sarebbe bello che a questo mondo esistesse uno strumento per misurare in modo semplice e preciso la sofferenza. Cosí si potrebbe poi quantificarla in cifre e segnareilnumerodaqualche parte. E se quello strumento losipotesseteneresulpalmo della mano, sarebbe perfetto. Ci penso ogni volta che regolo la pressione delle gomme. E poi lei è morta. L’ho saputo da una telefonata nel cuore della notte. Non so nulla di questa morte – il luogo, il mezzo, la causa, lo scopo –, se non che Emu ha presoladecisioneditogliersi lavitael’hamessainpratica. E che ha lasciato in silenzio (probabilmente) questo mondo reale. Anche ricorrendoatuttiimarinaidel mondo, servendosi di tutte le loro astute lusinghe, ormai nonsipuòpiútirarefuori–o rapire–Emudalmondodelle tenebre. Anche tu, se tendi attentamente l’orecchio durante la notte, potrai udire, molto lontano, il canto funebredeimarinai. Insieme a lei, ho la sensazione di aver perso per sempre il me stesso quattordicenne. Come se in una squadra di baseball mancasse un giocatore. La parte della mia vita costituita dal quattordicesimo anno è stata strappata con tutte le radici. È stata rinchiusa in qualcherobustoforzieredalla serraturacomplicata,ebuttata in fondo al mare. Forse la porta del forziere non verrà piú aperta, per migliaia di anni. Lo proteggeranno le ammonitieicelacanti.Anche quelfantasticoventodaovest non soffia piú. I marinai del mondo intero rimpiangono Emu dal profondo del cuore. Eanchetutticolorochesono controimarinai. Quando sono venuto a saperedellamortediEmu,ho sentito che ero diventato il secondo uomo piú solo e triste al mondo. L’uomo piú solo e triste al mondo naturalmente era suo marito. Glicedovolentieriilprimato. Non so che tipo di persona sia.Nonsoquantianniabbia, cosafaccia,cosanonfaccia… nonsoassolutamentenulladi lui. Di lui conosco soltanto una cosa, la sua voce bassa. Ma il fatto che abbia una voce bassa, concretamente non mi dice niente della persona.Chesiaunmarinaio? Oppure appartenga al gruppo contrario ai marinai? In quest’ultimo caso, è un mio fratello, altrimenti… be’, anche nel primo caso condivido i suoi sentimenti, naturalmente. Mi piacerebbe poterfarequalcosaperlui. Peccato che non possa avvicinarmiaquell’uomoche è stato suo marito. Non conosco il suo nome, non so dove abiti. Può anche darsi che abbia già perso tutto, il nome che aveva, il luogo doveviveva.Perchéèl’uomo piútristeesoloalmondo.Nel belmezzodiunapasseggiata mi sono seduto davanti alla statuadiununicorno(sitrova inungiardinoinclusonelmio percorso abituale) e guardando l’acqua fredda dellafontanahopensatoalui. Ho cercato di immaginare cosa significhi essere l’uomo piú triste e solo al mondo. Cosa significhi essere il secondo uomo piú triste e soloalmondo,losogiàbene. Ilprimoperòno.Trailprimo e il secondo c’è un fosso profondo. Forse. Profondo, e anche terribilmente largo. Tanto che vi si è accatastata una montagna di uccelli morti, uccelli che a un certo punto hanno perso le forze e non ce l’hanno fatta a volare daunbordoall’altro. Un giorno all’improvviso diventi uno dei tanti uomini che non hanno una donna. Quel giorno viene di colpo a farti visita senza che tu ne abbia il minimo presentimento, senza il minimo preavviso, senza annunciarsi bussando o schiarendosi la gola. Svolti l’angolo, e ti accorgi che ormai sei arrivato lí. Ma non puoipiútornareindietro.Una volta girato l’angolo, quello diventa il tuo solo, unico mondo. E quel mondo lo chiami «uomini senza donne». Sí, con un plurale di geloinfinito. Quantosiaduroedoloroso essere uno degli «uomini senzadonne»,sologliuomini chehannopersounadonnalo sanno. Significa perdere quel fantastico vento da ovest. Venir derubati per sempre – migliaia di anni sono forse vicini all’eternità – del proprioquattordicesimoanno. Sentire lontano il canto triste e sofferente dei marinai. Mescolarsiconleammonitie i celacanti in fondo al mare. Telefonare a qualcuno poco dopo l’una di notte. Ricevere latelefonatadiqualcunopoco dopo l’una di notte. Darsi appuntamento con uno sconosciuto in un punto intermedio tra la conoscenza e l’ignoranza. Mentre controlli la pressione nelle gomme,versarelacrimesulla stradaarida. Comunquesia,davantialla statua dell’unicorno prego perché quell’uomo un giorno si rimetta in piedi. Prego perchéfiniscacoldimenticare i numerosi fatti complementari, ma non ciò che conta davvero – la sostanza, la chiamiamo semplicemente noi. Sarebbe bene che lui dimenticasse persino di aver dimenticato. Losperocontuttoilcuore.È importante, no? Perché il secondo uomo piú solo e triste al mondo sta pregando, pieno di compassione, per l’uomo piú solo e triste al mondo (che non ha mai nemmenoincontrato). Maperchéluihachiamato proprio me? Non lo sto criticando, però ancora oggi continuo a pormi questa basilare domanda. Perché era al corrente della mia esistenza? Perché si è preoccupato della mia persona? Forse la risposta è semplice. Forse Emu gli aveva parlato di me. Non c’è altra spiegazione. Ma non riesco a immaginare cosa possa avergli detto. Quale valore, quale significato avevo,inquantoexfidanzato, che lei dovesse rivelare (al marito, di sua volontà)? Era qualcosa di grave che ha una relazioneconlamortedilei? Lamiaesistenzaproiettauna qualche ombra sulla sua scomparsa? Forse ha detto al marito che io avevo un bel membro. A letto, il pomeriggio, a lei piaceva guardare il mio pene. Lo teneva sul palmo della mano con precauzione, come se ammirasse un gioiello leggendario incastonato in una corona indiana. «Ha una forma stupenda», diceva. Naturalmente non so se sia veroono. Èperquestaragionecheil marito di Emu mi ha telefonato? Per deferenza verso il mio pene, all’una passatadinotte?Figuriamoci! Nonèconcepibile!Tantopiú cheilmiopene,daqualunque punto di vista lo si consideri, non è niente di speciale. Tutt’al piú è normale. Ora che ci penso, non sono mai stato molto convinto del sensoesteticodiEmu.Aveva un senso dei valori originale, tuttosuo. Oforse(èunacosachemi stosoloimmaginando)gliha detto che una volta in classe, alle medie, mi ha regalato metà della sua gomma da cancellare. Gli ha raccontato quest’episodio di poca importanza senza alcuna intenzione nascosta o malevola.Mailmarito,vada sé, si è ingelosito. Quella mezzagommacheavevadato a me, ha suscitato in lui una gelosiamoltopiúacutachese Emu fosse andata a letto con due autobus di marinai. È naturale,no?Cosavoleteche siano due autobus di robusti marinai?Inognicaso,Emue io avevamo entrambi quattordicianni,eperquanto mi riguardava, all’epoca bastavachesoffiasseilvento da ovest perché avessi un’erezione. Ricevere da una ragazza cosí metà di una gomma che aveva spezzato per me, era già una cosa straordinaria. Come offrire a una tromba d’aria una dozzina di vecchie capanne dasfasciare. Da allora, ogni volta che passo davanti alla statua dell’unicorno, mi siedo lí per qualche minuto e vado col pensiero agli «uomini senza donne».Perchéinquelposto? Perché l’unicorno? Chissà, magari anche lui fa parte degli uomini che non hanno una donna. Sí, perché finora non l’ho mai visto accoppiato. Lui – è un maschio, senza possibilità di dubbio – sta sempre solo e protende con forza il suo cornoappuntitoversoilcielo. Forse dovremmo farne un simbolo di solitudine da portare sulle spalle, in rappresentanza degli uomini senza donne. Dovremmo percorrereinsilenziolestrade del mondo con un distintivo raffigurante un unicorno attaccato al petto o al cappello. Senza bisogno di musica, di bandiere, di volantini lanciati in aria a migliaia. Forse (so che uso troppo la parola «forse». Forse). È facilissimo diventare «uomini senza donne». Basta che tu ami profondamente una donna, e lei a un certo punto se ne vada. Nella maggiorpartedeicasi(malo sapete già), a rapirle sono quei campioni di astuzia dei marinai. Le seducono con le loro lusinghe e in quattro e quattr’otto le portano a Marsiglia o in Costa d’Avorio.Enoinonpossiamo farci quasi niente. Oppure le donne si tolgono la vita di loro volontà, senza che ci sia relazione alcuna con i marinai. Anche riguardo a quest’eventualità siamo impotenti. Lo sono pure i marinai. In ogni caso, è cosí che diventi uno dei tanti uomini senza una donna. In un attimo.Eunavoltachelosei diventato,lalorosolitudineti siattaccaaddossopersempre, è un colore che ti entra dentro, come una macchia di vino su un tappeto chiaro. Farla sparire è un lavoro improbo.Coltempopuòdarsi che sbiadisca, ma almeno finché respiri resterà lí, indelebile. Ha le sue prerogative di macchia, che includono a volte il diritto allaparola.Etudovraivivere insieme alle sue piccole variazioni, insieme ai suoi contorni che prendono significatimutevoli. In quel mondo, anche la vibrazione dei suoni è diversa. Anche il modo di schiarirsilagola.Elavelocità a cui cresce la barba. Le reazioni del commesso di Starbucks. Persino gli assolo di Clifford Brown ti sembrano differenti. E il modoincuisiapronoleporte dei vagoni della metropolitana. Andando a piedi da Omotesandō a Aoyama1-chōme,ladistanza nontiparràpiúlastessa.Ese per caso in seguito incontri un’altra donna, anche se la trovimeravigliosa(anzi,tanto piú se la trovi meravigliosa), da quel momento inizi a pensarechelaperderai.Basta un’ombrachetifacciavenire in mente i marinai, il suono della lingua che loro parlano (greco? estone? filippino?) permettertiinallarme.Inomi esotici dei porti del mondo intero ti spaventano. Perché sai bene cosa significhi diventare «uomini senza donne». Sei un tappeto persianodaicoloridelicati,su cui la solitudine è una macchia indelebile di Bordeaux.Lasolitudineviene dalla Francia, il dolore alla ferita dal Medio Oriente. Per gli uomini che hanno perso una donna, il mondo è un grande e doloroso miscuglio, l’immaginestessadellafaccia inombradellaluna. La mia storia con Emu è durata all’incirca due anni. Non molto, quindi. Ma sono stati due anni importanti. Certo, si potrebbe dire «solo due anni». Oppure «due lunghi anni». Dipende dai punti di vista, naturalmente. Inoltre parlare di «una storia con lei» forse è fuori luogo, in realtà ci vedevamo due o trevoltealmese.Leiavevale sueragioni,eiolemie.Epoi, purtroppo, all’epoca non avevamoquattordicianni.Per tutte queste ragioni, tra noi non ha funzionato. E pensare checercavoditenerlastretta, perché non se ne andasse. L’ombra densa dei marinai spargeva le puntine aguzze dellametafora. Lacosacheancoraadesso ricordo meglio di Emu è che amavailgeneredimusicache si sente negli ascensori. Quella di Percy Faith, ad esempio, o di Enrico Mantovani, Raymond Lefèvre,FrankChacksfield… O anche di Francis Lai, Paul Mauriat, Billy Boone, la 101 Strings… roba cosí. A lei quell’innocua musica che io trovavo un po’ fatalista piaceva da morire. Trascinantiorchestrediarchi, sentimentali flauti in legno, trombe e sassofoni usati con la sordina, arpe che accarezzanoilcuore.Melodie affascinantichenonrischiano di spezzarsi, belle armonie gradevoli come dolci zuccherati,registrazioniincui sisenteun’eco. Quando in macchina ero solo, ascoltavo rock o jazz. DerekandtheDominos,Otis Redding, i Doors… Ma non c’era verso di farli sentire a Emu. Si portava sempre dietro una busta di carta con una dozzina di cassette di musica per ascensore, che infilavanellostereounadopo l’altra. Facevamo spesso lunghi giri senza una meta stabilita,enelfrattempoEmu muovevainsilenziolelabbra seguendo la melodia di 13 jours en France di Francis Lai. Le sue belle labbra sensuali dal rossetto chiaro. Aveva migliaia di cassette di quel genere. E una conoscenza straordinaria della musica innocua del mondo intero. Avrebbe addirittura potuto aprire un «Museo di musica per ascensore». Quando facevamo sesso, era la stessa cosa. Metteva sempremusicaperascensore. Non so quante volte, mentre facevo l’amore con lei, ho ascoltatoASummerPlace 1di Percy Faith. Mi vergogno un po’ a rivelare questo genere di cose, ma ancora oggi, quando ascolto quella canzone, mi eccito. Il mio respiro si fa affannoso e il sanguemisalealviso.Credo di essere il solo uomo al mondo a eccitarsi ascoltando l’introduzione di A Summer Place di Percy Faith, potete cercare finché volete. Anzi no,puòdarsichecisiaanche suo marito. Lasciamo aperta questa possibilità. Me incluso, ci sono forse solo due uomini al mondo che si eccitano ascoltando l’introduzione di A Summer Place di Percy Faith. Ecco, cosívameglio.Cosívabene. Spazio. – Sai, a me piace tanto questogeneredimusica,–mi ha detto un giorno Emu. – Puòdarsichesiaunproblema dispazio. –Unproblemadispazio? – Sí, perché mentre la ascolto ho l’impressione di trovarmi in un grande spazio vuoto. Uno spazio davvero immenso, privo di divisioni. Niente pareti, niente soffitto. Quando sono lí, non è necessario che pensi a qualcosa, non è necessario che dica qualcosa, che faccia qualcosa. È sufficiente che chiuda gli occhi e mi abbandoni al meraviglioso suono degli archi. Lí non esistonomalditesta,sensodi freddo, mestruazioni, periodo d’ovulazione… Tutto è infinitamente bello, confortevole, sicuro… non esistono tentennamenti. Non possodesiderarenulladipiú. – È come stare in paradiso? – Sí. Sono sicura che in paradiso si sente in sottofondolamusicadiPercy Faith. Senti, perché non mi accarezziancoralaschiena? –Sí,certo,–hodetto. – Sei bravo, ad accarezzarelaschiena. Henry Mancini e io ci scambiamo un’occhiata furtiva. Con un lieve sorriso agliangolidellabocca. Ormai ho perso anche la musica per ascensore. Lo penso, guidando, ogni volta che sono solo in macchina. Vorrei che mentre aspetto fermo a un semaforo una ragazza che non conosco all’improvviso aprisse la portiera, si sedesse accanto a me, senza dire niente, senza nemmeno guardarmi, e infilasse nello stereo della macchina, senza chiedere il permesso, la cassetta di 13 joursenFrance.Melosogno addirittura. Ma naturalmente certe cose non succedono. Tanto per cominciare, ormai non ho piú uno stereo a cassette. Nella mia automobile attuale ascolto la musica collegando l’iPod a un cavo usb. E naturalmente lí dentro non ci sono la 101 StringseFrancisLai.Cisono i Gorillaz e i Black Eyed Peas. Questo significa perdere una donna. E a volte perdere una donna significa perderle tutte. Cosí diventiamo «uomini senza donne». E naturalmenteperdiamoleloro schiene seducenti. E anche Percy Faith, Francis Lai e la 101 Strings. Le ammoniti e i celacanti. Mentre ascoltavo HenryMancinidirigereMoon River,carezzavolaschienadi Emu seguendo il ritmo di quella musica soave. «Waiting ’round the bend, | My huckleberry friend…» Eppuretuttoquestoèsvanito. È rimasto soltanto un pezzo di gomma da cancellare, e, lontano, il canto sconsolato deimarinai.El’unicornoche tende verso il cielo il suo corno solitario, sul bordo dellafontana. SperocheEmuoraascolti ASummerPlaceinparadiso– oinunpostodelgenere.Che una musica immensa e senza barriere la tenga teneramente fra le braccia. Che lí dove si trova non si sentano i JeffersonAirplane(noncredo che Dio sia tanto crudele). E mentresifacullaredaiviolini che suonano in pizzicato A Summer Place sarebbe bello cheognitantopensasseame. Ma è chiedere troppo. Prego perché Emu viva felice, tranquilla, insieme a quella musica per ascensore immortale, anche senza di me. Inquantounodegliuomini senza donne, lo spero dal profondo del cuore. È tutto quello che posso fare. Per il momento.Forse. 1 Tema del film omonimo, del 1959,diDelmerDaves(initaliano Scandaloalsole)[N.d.T.]. Il libro Eseundemonedallefattezze femminilifacessedituttoper venire a letto con noi? E se un marito decidesse di diventare amico dell’amante dellamoglie? E se Gregor Samsa si svegliasse una mattina trasformato in un essere umano? Sette storie d’amore e di mistero. Perché d’amore e mistero è fatta la vita, e nessuno sa raccontarla come MurakamiHaruki. «Se la letteratura fosse come laboxe,Murakamiavrebbeil donopiúprezioso:lacapacità di sferrare un colpo da ko quando l’avversario meno se loaspetta». «CorrieredellaSera» «Murakami Haruki ha la freschezza di chi narra il mondo ricominciando da capoepermettendosiinfinite variazioni: non è uno scrittore, ma una serie di scrittoriracchiusiinuno». «laRepubblica» UnamattinaGregorSamsasi sveglia in un letto e scopre con orrore di essersi trasformato in un essere umano. Non ricorda nulla dellasuavitaprecedente.Che fine ha fatto lo spesso carapace che lo proteggeva? E perché adesso è ricoperto da questa sottile, delicata pelle rosa? Chi, o cosa, era prima di quel risveglio? Insomma, adesso Samsa dovrà adattarsi alla nuova e «mostruosa» condizione di uomo. Quando però alla sua portabussaunaragazzailcui fisico è deformato da un’enorme gobba, Samsa dovrà fare i conti con qualcos’altro di sconosciuto: ildesiderioel’erotismovisto con gli occhi nuovi di chi sa andareoltreleapparenze. Habara, il protagonista di «Shahrazād», è un uomo solo, confinato in una casa nella quale gli è vietato ogni contatto col mondo. Non sapremo mai perché, e in fondo non è importante: quello che sappiamo è che il suo unico svago sono le visite regolari di una donna misteriosacheloriforniscedi libri, musica, film… e sesso. Ma soprattutto gli racconta delle storie, proprio come facevaShahrazād.Einqueste storie Habara si tuffa come un bambino, finalmente libero.Ecco,èproprioquesto che vive il lettore di Murakami: la sensazione di inoltrarsiinunaltrouniverso, di essere «come una lavagna pulita con uno straccio umido, libero da preoccupazioni e brutti ricordi». Almeno fino alla storiasuccessiva. Nove anni dopo I salici ciechi e la donna addormentata, Murakami Haruki regala ai suoi lettori una nuova raccolta di racconti, sette distillati della sua arte e dei suoi temi: il fantastico che irrompe nel quotidiano, la nostalgia per ciò che non è stato, ma soprattutto la ricerca della felicitàtrauominiedonne. L’autore MurakamiHarukiènatoa Kyōto nel 1949 ed è cresciuto a Kōbe. È stato insignito di numerosi premi, tra cui il Franz Kafka Prize e il Jerusalem Prize.PressoEinaudisono disponibili: Dance Dance Dance, La ragazza dello Sputnik, Underground, TuttiifiglidiDiodanzano, Norwegian Wood (Tokyo Blues), L’uccello che girava le Viti del Mondo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Kafkasullaspiaggia,After Dark, L’elefante scomparsoealtriracconti, L’arte di correre, Nel segnodellapecora,Isalici ciechi e la donna addormentata, i due volumi che raccolgono la trilogiadi1Q84,Asuddel confine, a ovest del sole, Ritratti in jazz, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio e Sonno. Dello stesso autore Laragazzadello Sputnik Underground DanceDanceDance TuttiifiglidiDio danzano NorwegianWood. Tokyoblues L’uccellochegiravale VitidelMondo Lafinedelmondoeil paesedellemeraviglie Kafkasullaspiaggia AfterDark L’elefantescomparsoe altriracconti L’artedicorrere Isaliciciechiela donnaaddormentata Nelsegnodellapecora 1Q84.Libro1e2 1Q84.Libro3 Asuddelconfine,a ovestdelsole Ritrattiinjazz L’incoloreTazaki Tsukurueisuoiannidi pellegrinaggio Sonno Titolooriginale (Onnano inaiotokotachi) ©2014MurakamiHaruki.Allrightsreserved OriginallypublishedbyBungeishunjūLtd., Tōkyō (KoisuruSamsa):©2013 MurakamiHaruki.Allrightsreserved OriginallypublishedinJapanin2013inthe anthology :TenSelectedLove Stories (KoiShikute:TenSelectedLoveStories)by Chūōkōron-Shinsha,Inc.,Tōkyō ©2015GiulioEinaudieditores.p.a.,Torino Incopertina:©DanielEgneus/SaraGentile. ElaborazionegraficadiFabrizioFarina. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziatootrasmessoinpubblico,outilizzato inalcunaltromodoadeccezionediquantoè stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistatoodaquantoesplicitamenteprevisto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazionielettronichesulregimedeidiritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questoebooknonpotràinalcunmodoessere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita,acquistoratealeoaltrimentidiffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. 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