Uomini senza donne

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Uomini senza donne
MurakamiHaruki
Uomini
senzadonne
Traduzionedi
AntoniettaPastore
Einaudi
Drivemycar
Nella sua vita Kafuku
aveva visto molte donne alla
guida
di
un’auto,
e
grossomodo le divideva in
due categorie: quelle un po’
troppoaggressiveequelleun
po’ troppo prudenti. Le
seconde erano molto piú
numerose delle prime – cosa
della quale possiamo solo
rallegrarci. In generale, le
donne sono piú corrette e
caute degli uomini: e di una
guidacautaecorrettaèovvio
chenessunosipuòlamentare.
Anche se a volte, però, può
essere esasperante per gli
automobilistiintorno.
Quanto
alle
donne
appartenenti all’altro gruppo,
le «aggressive», di solito si
credevano degli assi del
volante.
Consideravano
quelle troppo prudenti delle
imbecilli e si vantavano di
non essere come loro.
Cambiavano
corsia
all’improvviso,senzarendersi
conto che cosí costringevano
gli altri automobilisti a
frenare
sospirando
o
ricoprendolediimproperi.
Naturalmente,
c’erano
anche donne che non
appartenevano né all’una né
all’altracategoria.Donneche
guidavano in maniera del
tutto normale, né troppo
aggressiva, né troppo cauta.
Fra queste, alcune erano
davverobrave.Ancheinloro,
tuttavia, Kafuku percepiva
segni di tensione. In cosa
consistessero, questi segni,
non sarebbe stato in grado di
dirlo,masedutoallorofianco
intuivaunacertaasperitàche
si trasmetteva fino a lui,
mettendolo
a
disagio.
Provava uno sgradevole
bisognodiinumidirsilagola,
e per colmare il silenzio si
lanciava in discorsi futili e
superflui.
È ovvio che anche fra gli
uomini c’era chi guidava
bene e chi no. Nella maggior
parte dei casi, però, gli
uomini al volante non gli
davano l’impressione di
essere tesi. Non che fossero
particolarmente
rilassati.
Magari in realtà erano un
fascio di nervi. Però
riuscivano
in
maniera
naturale–forseinconscia–a
non lasciar trapelare la
tensione nei loro gesti. Pur
concentrandosi nella guida,
conversavanoesimuovevano
normalmente.Eranoduesfere
d’azionediverse.Kafukunon
sispiegavailperchédiquesta
differenza di comportamento
trauominiedonne.
Nella vita quotidiana, gli
capitavararamentedinotarne
altre. Di percepire, cioè, una
qualche differenza tra le
capacità di maschi e
femmine.
Nella
sua
professione aveva occasione
dilavoraresiacongliuniche
con le altre, e, a essere
sinceri, si sentiva piú a suo
agio con le donne. Erano piú
attenteaidettagli,esapevano
ascoltare. Ma quando doveva
salire su un’automobile, se a
stringereilvolante,accantoa
lui, erano mani femminili,
Kafuku per tutto il tempo ne
era
sgradevolmente
consapevole. Però non aveva
mai parlato a nessuno di
questasuavisionedellecose.
Non gli sembrava un
argomento di conversazione
proponibile.
Quindi non si mostrò
particolarmente
contento
quandoilsuomeccanicoOba,
a cui aveva chiesto di
trovargli un autista, gli
propose una giovane donna.
Vedendolo perplesso, Oba
sorriseconl’ariadichipensa:
«Lacapiscobenissimo».
– Guardi che questa
ragazza guida davvero bene,
sa, signor Kafuku. Glielo
garantisco. Perché non la
incontra, una volta? Perché
non si fa portare un po’ in
giro?
–Semelaraccomandalei,
non ho nulla da obiettare, –
rispose Kafuku. Aveva
bisogno di un autista al piú
presto, e Oba era un uomo
affidabile. Erano ormai
quindici anni che lo
conosceva. Aveva capelli
comefildiferroel’ariadiun
folletto, ma in materia di
automobili era praticamente
infallibile.
– Per scrupolo, farei una
revisionecompleta.Seperlei
vabene,signorKafuku,gliela
consegno rimessa a nuovo
dopodomani
alle
due.
Chiederò alla ragazza di cui
lehoparlatodivenirequiper
quell’ora, cosí potrà metterla
alla prova, farsi scorrazzare
unpocoperilquartiere.Cosa
nepensa?Senonlaconvince,
lo dica tranquillamente. Non
ha
bisogno
di
fare
complimenti,conme.
–Quantianniha?
– Credo venticinque o
ventisei. Ma non gliel’ho
chiesto, – disse Oba. Poi
proseguí, l’aria perplessa: –
Comelehodetto,alvolanteè
bravissima,però…
–Però?
– Mah, come spiegarle?
Ha un lato… diciamo
scomodo.
–Inchesenso?
– Be’, ecco, è un po’
scontrosa, di poche parole. E
fuma
ininterrottamente.
Quando la vedrà, capirà cosa
vogliodire.Nonèiltipodella
bambolina, insomma. Non
sorride mai. A dirla tutta, si
potrebbe quasi definire… sí,
unpo’rozza.
– Non ha importanza.
Anzi, meglio se non è una
bellezza: non mi sentirei a
mio agio, e poi darei adito a
pettegolezzi.
–Alloraèperfettaperlei.
–Inognicaso,aguidareè
brava,no?Mel’assicura?
– Bravissima. E non
«bravissima per essere una
donna».Èdavveroingamba.
Inassoluto.
–Adessochelavorofa?
– Questo con precisione
non lo so. Cassiera in un
minimarket, consegna pacchi
a domicilio… lavoretti
saltuari, insomma, giusto per
sbarcare il lunario. Impieghi
che può lasciare dall’oggi al
domani, se le si presenta
un’occasione migliore. È
stato un mio conoscente a
mandarcela, ma anche da noi
la crisi si fa sentire, non
possiamo permetterci di
assumere un’altra impiegata.
Tutto quel che possiamo fare
è chiamarla quando ne
abbiamo bisogno. Ma penso
che sia una ragazza a posto,
affidabile.
Tanto
per
cominciare, non beve un
gocciod’alcol.
A sentir parlare di alcol,
Kafuku si adombrò. Senza
rendersene conto, portò la
manodestraallabocca.
– Allora la vedrò
dopodomanialledue,–disse.
Quella ragazza scontrosa e
taciturna, poco affabile, lo
interessava.
Due giorni dopo, alle due
in punto, la sua Saab 900
cabriolet
era
pronta.
L’ammaccatura sulla parte
anteriore
destra
era
scomparsa, sulla carrozzeria
ben verniciata adesso non se
ne vedeva piú traccia. Oba
aveva anche provveduto a
controllare
il
motore,
sostituirelepastigliedeifreni
eiltergicristallo,farlavarela
vettura,lucidareeingrassarei
cerchioni delle ruote. Come
sempre,
un
servizio
impeccabile. Erano dodici
annicheKafukuavevaquella
Saab,conlaqualeavevafatto
piú di centomila chilometri.
Lateladellacapoteormaiera
sgualcita e nei giorni di
pioggia forte c’era il rischio
chelasciassepassarel’acqua.
Ma per il momento Kafuku
non aveva intenzione di
cambiare automobile. Di
grossi problemi la Saab non
gliene aveva mai dati, e
soprattutto ci era affezionato.
Gli piaceva lasciare il
tettuccioaperto,inqualunque
stagione fosse. D’inverno
mettevauncappottopesantee
una sciarpa intorno al collo,
d’estate un berretto in testa e
gliocchialidasole.Sedutoal
volante, provava il sottile
piacere di cambiare marcia
mentreattraversavalacittà,e
quandoerafermoaisemafori
guardava le nuvole che si
spostavano nel cielo e gli
uccelli fermi sui fili della
luce. Quell’abitudine era
ormai diventata una parte
imprescindibile del suo stile
di vita. Kafuku fece un lento
giro intorno all’automobile,
controllando una cosa qui e
unalí,comeilproprietariodi
uncavalloprimadiunacorsa.
L’aveva comprata quando
sua moglie era ancora viva.
Era stata lei a sceglierla
gialla. Nei primi anni la
usavano spesso insieme. Sua
moglie non guidava, cosí al
volantesimettevasemprelui.
Avevano anche fatto lunghi
viaggi. Izu, Hakone, Nasu…
In seguito però, per quasi
dieci anni, su quella Saab
Kafuku non aveva portato
nessuno.Dopolamortedella
moglie, aveva avuto diverse
storie,maperqualcheragione
non gli si era mai presentata
l’occasione di far sedere una
donna in macchina accanto a
sé. Né gli era piú capitato di
spostarsi fuori città, se non
permotividilavoro.
– Be’, cosette da riparare
quaelàcen’eranoparecchie,
maèancorapiúchevalida,–
disse Oba carezzandone
amorevolmente il cruscotto,
come se fosse il collo di un
grosso cane. – È una vettura
affidabile. Le automobili
svedesi di quegli anni sono
eccellenti. Hanno qualche
difettuccio
al
circuito
elettrico, va tenuto d’occhio,
ma la meccanica di base non
dà mai grossi problemi.
Comunque l’ha trattata
propriobene,lei.
Kafuku aveva firmato i
documentiperlariconsegnae
stava
ascoltando
la
spiegazione dettagliata della
fattura, quando arrivò la
ragazza. Era piuttosto alta,
forse
un
metro
e
sessantacinque, e pur non
essendograssaavevalespalle
largheeunfisicorobusto.Sul
collo, a destra, aveva una
macchia ovale grande come
un’oliva, violacea, alla quale
non sembrava dare molta
importanza visto che non si
preoccupavadicoprirlaconi
capelli, che aveva neri e
spessi e per comodità teneva
legati sulla nuca. No, Oba
aveva ragione, nessuno
avrebbepotutotrovarlabella,
il suo viso aveva qualcosa di
indisponente. Sulle guance le
erano rimasti i segni di
un’acne adolescenziale. Gli
occhi dalle iridi scurissime
avevano
uno
sguardo
sospettoso, ma forse davano
quell’impressione
perché
erano molto grandi. Le
orecchie
a
sventola
sembravano
antenne
paraboliche
in
piena
campagna. Indossava una
giacca da uomo a spina di
pesce un po’ troppo pesante
per la stagione – era maggio
–, dei pantaloni di tela
marroneeaipiediavevadelle
sneakersneredellaConverse.
Sotto la giacca e la maglietta
bianca,
il
seno
era
voluminoso.
Oba la presentò: si
chiamavaWatariMisaki.
– Misaki si scrive in
hiragana. Se lo desidera,
posso farle avere il mio
curriculum,–disselaragazza
in un tono che non aveva
nulladideferente.
Kafukuscosselatesta.
– No, per il momento non
ènecessario.Comeselacava
colcambiomanuale?
– Lo preferisco, – rispose
freddamentelaragazza,come
una convinta vegetariana a
cui avessero chiesto se
mangiaval’insalata.
– È un modello vecchio,
nonhailnavigatore.
– Non ne ho bisogno. Per
un certo periodo ho
consegnato
pacchi
a
domicilio. Ho bene in mente
latopografiadellacittà.
–Be’,alloravogliamofare
un giro di prova qui intorno?
È una bella giornata,
possiamo lasciare il tettuccio
aperto.
–Dovevuoleandare?
Kafuku ci pensò su un
momento. Erano vicini a
Shinohashi.
–Potremmogirareadestra
all’incrocio del tempio
Tengenji,
fermarci
nel
parcheggio sotterraneo dei
grandi magazzini Meijiya,
dove devo comprare una
cosa, poi salire la collina
verso il parco Arisugawa,
superare
l’ambasciata
francese e tornare qui
passandodaMeiji-dōri.
– Perfetto, – disse la
ragazza, senza preoccuparsi
diverificareilpercorso.Prese
da Oba le chiavi della
macchina, regolò con gesti
sveltilaposizionedelsedilee
del retrovisore. Sembrava
conoscere benissimo la
funzione di ogni pulsante.
Schiacciò sull’acceleratore,
provò il cambio. Tirò fuori
dal taschino della giacca dei
Ray-ban verdi e se li mise.
Poi si voltò verso Kafuku e
gli fece un piccolo cenno col
capo.Comeperdirglicheera
pronta.
–Cassette,–dissecomese
parlasse da sola, dando
un’occhiata
all’impianto
stereo.
–Sí,preferiscolecassette,
–risposeKafuku.–Sonopiú
facilidausaredeicd.Eposso
esercitarminellaparte.
–Eradaunpo’chenonne
vedevo.
– Quando ho iniziato a
guidare,siusavanoancoragli
stereo8piste.
Misaki non rispose.
Dall’espressione, sembrava
che non sapesse nemmeno
cosa fossero, gli stereo 8
piste.
Come aveva detto Oba, al
volante era bravissima.
Aveva una guida sicura e
fluida, senza bruschi scatti.
Malgrado il traffico fosse
intenso e le soste ai semafori
frequenti,badavaamantenere
il motore a un numero
costante di giri, lo si capiva
dal modo in cui spostava lo
sguardo dal cruscotto alla
strada.EseKafukuchiudeva
gliocchi,nonavvertivaquasi
i cambiamenti di marcia. Per
accorgersene, doveva tendere
l’orecchio al ronzio del
motore,sentirnelevariazioni.
Ancheilmododiusarefreno
e frizione era attento e
leggero.Maquellochefaceva
davveropiacereaKafukuera
il fatto che quella ragazza
mentre
guidava
fosse
rilassata, per tutto il tempo.
Anzi, sembrava quasi che
ogni tensione l’abbandonasse
appena metteva le mani sul
volante di un’automobile. La
suaespressionediventavapiú
affabile, lo sguardo piú
gentile. Ma restava taciturna.
Apriva bocca solo per
risponderealledomande.
AKafukuperòquestonon
dava fastidio. Nemmeno lui
era molto portato per la
conversazione. Parlare con le
persone con cui era in
confidenza
non
gli
dispiaceva, ma con tutti gli
altri preferiva stare zitto.
Sprofondato
nel
sedile
accantoaMisakicheguidava,
guardava distrattamente le
strade. Di solito stava seduto
al volante, e vista da questa
nuova posizione la città gli
facevauneffettodiverso.
SullatrafficataGaiennishidōri, Kafuku chiese piú volte
a Misaki di parcheggiare
lungo il marciapiede, per
prova, e lei ogni volta eseguí
la manovra con abilità e
precisione. Aveva i riflessi
pronti. E ottime funzioni
senso-motorie. Durante le
lunghe attese ai semafori,
fumava. Fumava Marlboro.
Ma appena il semaforo
passava al verde spegneva la
sigaretta,enonneaccendeva
maiunamentreguidava.Non
avevarossettosullelabbra,né
smalto
sulle
unghie.
Nemmeno
l’ombra
di
fondotintasulviso.
– Avrei alcune cose da
chiederle, – disse Kafuku
quando arrivarono al parco
Arisugawa.
– Prego, – lo incoraggiò
Misaki.
– Dove ha imparato a
guidare?
– Sono cresciuta fra le
montagne
dell’Hokkaidō.
Guido da quando avevo
quindicianni.Dallemieparti,
senza automobile non si
sopravvive.Èunacittadinain
fondo a una valle, il sole ci
arriva poco e per metà
dell’anno le strade sono
gelate.Chepiacciaomeno,si
imparaaguidare.
– Sí, ma a parcheggiare?
Non credo si faccia molta
praticadiparcheggi,suquelle
stradedimontagna.
La ragazza non rispose,
non sembrava ritenerlo
necessario.
– Il signor Oba le ha
spiegato perché ho avuto
bisogno di un autista da un
giornoall’altro?
–Mihadettocheleièun
attore, – rispose Misaki in
tono neutro, guardando dritto
davantiasé,–echeseigiorni
alla settimana recita a teatro.
Di solito ci va con la sua
macchina, e guida lei. La
preferisce ai mezzi pubblici.
Perché in macchina può
esercitarsi a ripetere la parte.
Ma poco tempo fa ha avuto
un piccolo incidente, in
seguito al quale le è stata
sospesa la patente. Era
positivo all’alcoltest, inoltre
haunproblemaagliocchi.
Kafuku annuí. Aveva
l’impressione
di
sentir
raccontare un sogno fatto da
un’altrapersona.
– All’esame della vista
presso la struttura che mi ha
indicato la polizia, l’oculista
ha riconosciuto i sintomi di
un glaucoma. Ho un angolo
cieco nel campo visivo.
All’estremità destra. Io non
men’eromaiaccorto.
Riguardo alla guida in
stato di ebbrezza, in realtà il
tasso alcolico non era molto
alto,cosíerariuscitoatenere
segreta la notizia, evitando
che giungesse fino ai media.
Maperilproblemaallavista,
nonavevapotutofareameno
di informare il suo agente.
C’era il rischio che
quell’angolo
morto
gli
impedisse
di
vedere
un’automobile che arrivava
da destra. Gli era stato detto
di non guidare per nessuna
ragione,finoaquandonuove
analisi non avessero dato
risultatirassicuranti.
– Signor Kafuku? – gli
chiese Misaki. – Va bene se
lachiamocosí?Èilsuovero
cognome?
– Sí, è il mio vero
cognome, – rispose lui. –
Contiene la parola fortuna,
ma alla mia famiglia non ha
mai portato grandi benefici.
Nessuno dei miei parenti è
ricco.
Scese un breve silenzio.
Poi Kafuku le disse quanto
l’avrebbe pagata al mese per
il suo lavoro. Non era una
grossa somma, ma era tutto
quello che poteva offrire
l’agenzia. Kafuku era un
attore conosciuto, ma non
aveva
mai
ruoli
da
protagonista al cinema o alla
televisione, e a teatro non si
guadagna granché. Per un
attore del suo livello
assumere un autista, anche
solo per qualche mese, era
moltooneroso.
– L’orario di lavoro varia
in funzione dei miei impegni
professionali,maalmomento
recito soprattutto a teatro,
quindi la mattina di solito
sarà libera. Potrà dormire
anchefinoamezzogiorno.La
sera, farò in modo di tenerla
impegnata al massimo fino
alle undici. Nel caso io
finiscapiútardi,chiameròun
taxi. E le darò un giorno di
ferieallasettimana.
– D’accordo, – rispose
Misakisenzascomporsi.
–Illavoroinsénonpenso
sia faticoso. Può darsi che la
parte piú seccante sia restare
a disposizione senza fare
niente.
Aquestoproposito,Misaki
non fece commenti. Tenne le
labbra serrate, con l’aria di
chineavevavistedipeggio.
– Quando il tettuccio è
aperto, può fumare, ma
quandoèchiusovorreichese
neastenesse,–disseKafuku.
–D’accordo.
–Leihaqualcherichiesta?
–No,nienteinparticolare,
– fece Misaki. Socchiuse un
po’lepalpebreescalòmarcia
facendo un lungo respiro. –
Mipiace,questamacchina,–
disse.
Per il resto del tempo non
parlarono.
Tornarono
all’officina meccanica, dove
Kafuku chiamò Oba in un
angolo per dirgli che aveva
decisodiassumerelaragazza.
Dal giorno dopo, Misaki
divenne l’autista di Kafuku.
Ogni pomeriggio, alle tre e
mezza, tirava fuori la Saab
gialla
dal
parcheggio
sotterraneo del palazzo dove
abitava lui, nel quartiere di
Ebisu, e lo accompagnava al
suo teatro a Ginza. Se non
pioveva, lasciava il tettuccio
aperto. All’andata Kafuku,
seduto accanto a lei, infilava
unacassettanellostereo–un
dramma di Anton Čechov,
ZioVania, in un adattamento
ambientato nel Giappone
dell’era Meiji – e recitava il
testoadaltavoce,all’unisono
con
quello
registrato.
InterpretavalapartediVania.
Ormai la sapeva a memoria
dall’inizio alla fine, ma per
sentirsi tranquillo aveva
bisogno di ripeterla ogni
giorno. Era un’abitudine che
avevadaanni.
Al ritorno, ascoltava
spesso
Beethoven
nell’esecuzione
di
un
quartetto
d’archi.
Gli
piacevano, le opere di
Beethoven per quartetto
d’archi, era un genere di
musica che non gli veniva
mai a noia, e in piú gli
permetteva di pensare agli
affari suoi, o al contrario di
non pensare a nulla. Quando
aveva voglia di qualcosa di
piú leggero, sentiva vecchio
rock americano – i Beach
Boys, i Rascals, i Creedence,
i Temptations… –, roba di
modaquandoluieragiovane.
Misaki non faceva commenti
sulla musica che sceglieva
Kafuku, il quale non capiva
se le piacesse, se le facesse
schifo, o se non l’ascoltasse
neanche. Non mostrava mai
le sue emozioni, quella
ragazza.
Normalmente,Kafukunon
riusciva a ripetere la parte
davanti ad altre persone, si
sentiva a disagio, ma la
presenza di Misaki non lo
disturbava. Al contrario,
apprezzava l’atteggiamento
distaccato, quasi scostante di
lei. Anche quando parlava a
voce molto alta, la ragazza,
pur essendo seduta accanto a
lui,
manteneva
un’aria
indifferente, come se non lo
sentisse nemmeno. Ma forse
erapropriocosí,pensavasolo
alla guida. O magari
guidandoentravainunostato
diconcentrazionezen.
E di lui, che opinione
aveva?Kafukunonriuscivaa
immaginarlo. Lo trovava
almeno un po’ simpatico, o
non aveva per lui alcun
interesse, alcuna curiosità? O
addirittura
lo
trovava
repellente, tanto da averne la
pelled’oca,masopportavain
silenzio per non perdere il
lavoro? In ogni caso, di quel
chepensavaMisaki,aKafuku
non importava nulla. Gli
piaceva il suo modo
scorrevoleesicurodiguidare,
e tanto gli bastava, anzi,
apprezzava anche il fatto che
leisitenesselesueemozioni
persé.
Appena finiva di recitare,
Kafukusitoglievailtruccodi
scena, si cambiava e lasciava
in fretta il teatro. Non gli
piaceva fermarsi a perdere
tempo.Nonfrequentavaquasi
i suoi colleghi. Chiamava
Misaki col cellulare perché
venisse con la macchina
all’ingresso degli artisti, in
modo che la Saab gialla
cabrioletfosselíadattenderlo
quando usciva. E verso le
dieciemezzaeradiritornoal
suo appartamento a Ebisu.
Questa era la sua routine
quotidiana.
Gli capitava anche di
lavorare in altri posti. Una
volta alla settimana doveva
andare in uno studio
televisivoperregistrarelasua
parte in un telefilm. Si
trattava di una banalissima
serie
poliziesca,
ma
l’audience era alta e il
compenso ottimo. Kafuku
sosteneva il ruolo di un
indovino che aiutava una
poliziotta,laprotagonista.Per
immedesimarsi
nel
personaggio, diverse volte si
eratravestitodacartomantee
per la strada si era messo a
leggerelafortunaaipassanti.
Tanto che si era fatto la
reputazione di essere tagliato
per la parte. Nel tardo
pomeriggio,appenaterminata
la registrazione, doveva
correredirettamentealteatro.
Era la parte piú rischiosa del
programma settimanale. Nei
weekend, dopo lo spettacolo
inmatinée,tenevacorsiserali
agli allievi di una scuola di
recitazione. Insegnare ai
giovani
gli
piaceva
moltissimo. Il compito di
Misaki consisteva nel portare
Kafuku avanti e indietro da
un posto all’altro. Lo
accompagnava puntualmente
di qua e di là, senza mai
creare problemi, e lui si era
abituato a sedere nella Saab
di fianco alla ragazza che
guidava. A volte finiva
addiritturaperaddormentarsi.
Con l’arrivo del caldo,
Misakisostituílasuapesante
giacca maschile con una
estiva, piú leggera. In ogni
caso,
quando
guidava
indossavasempreunagiacca.
Forse al posto della divisa.
Nellastagionedellepioggeil
tettucciorestavaquasisempre
chiuso.
Sul sedile di fianco,
Kafuku pensava spesso alla
moglie morta. Da quando
Misaki gli faceva da autista,
per qualche motivo gli
tornavainmentedicontinuo.
Di due anni piú giovane, un
visostupendo,erastataattrice
anche lei. Kafuku all’epoca
era
soprattutto
un
«caratterista», interpretava
soventeilruolodelnevrotico
pienodifissazioni.Conlasua
faccia lunga e stretta, e la
tendenza precoce a perdere i
capelli,noneraadattoairuoli
di protagonista. La moglie
invece, con la sua bellezza,
eralatipicaprimaattrice,cui
venivano attribuiti ruoli e
compensi adeguati. Col
passare degli anni, tuttavia,
era stato piuttosto lui,
bravissimo nell’interpretare i
suoi personaggi tipici, ad
acquisire
notorietà.
Comunque i due coniugi
riconoscevano i rispettivi
meritiprofessionali,enonera
mai successo che la
differenza di popolarità e
guadagnicreasseproblemifra
loro.
Kafuku amava la moglie.
Se ne era profondamente
innamorato poco dopo averla
conosciuta – all’epoca lui
aveva ventinove anni –, e da
allora fino alla morte di lei –
vent’anni dopo –, il suo
sentimento era rimasto
invariato. Per tutta la durata
del suo matrimonio, non
aveva mai avuto rapporti
sessuali con altre donne. Le
occasioni non gli erano certo
mancate, ma non ne aveva
maiprovatoildesiderio.
La moglie invece era
andata a letto con altri
uomini.Conquattro,perquel
che ne sapeva Kafuku.
Quattro volte, per periodi
limitati, lei aveva avuto un
amante.Naturalmentenonne
aveva fatto parola al marito,
ma
Kafuku
percepiva
immediatamente quando lei,
in qualche luogo, stava fra le
braccia di un altro. Per
carattere
era
piuttosto
intuitivo, ma c’è da dire che
qualunquepersonaveramente
innamorata è in grado di
cogliere certi segnali, per
quanto sgradevoli. Dal tono
di voce di lei, capiva anche
chi era l’uomo. Si trattava
sempre di qualche attore col
quale recitava nel film di
turno. Di solito piú giovane.
La relazione continuava per
diversi mesi, finché veniva
meno in modo naturale al
termine delle riprese. Un
copione che si era ripetuto
benquattrovolte.
Perché lei sentisse il
bisogno di andare a letto con
altri uomini, Kafuku non
l’aveva mai capito. Ancora
adesso non riusciva a
spiegarselo. Da quando si
eranosposatiillororapporto,
siainquantomaritoemoglie,
sia in quanto compagni di
vita, era sempre stato ottimo.
Quando se ne presentava
l’occasione, parlavano con
passione e sincerità di tante
cose,ecercavanolareciproca
fiducia. Fra loro c’era
un’intesa magnifica, sia in
senso fisico che spirituale,
pensava Kafuku. Amici e
conoscenti li consideravano
unacoppiaunitaeideale.
Ciononostante, perché sua
moglie aveva avuto altri
uomini?Avrebbedovutofarsi
coraggio e domandarlo a lei
finché era in vita. Kafuku se
lo diceva spesso. Una volta
era stato sul punto di
chiederglielo. Che cosa
cercaviinloro?Checosanon
ti bastava, in me? Era
successo pochi mesi prima
che lei morisse. Ma davanti
alla moglie che stava per
andarsene
fra
terribili
sofferenze non era riuscito a
proferire quelle parole. Cosí
lei aveva lasciato il mondo
dei vivi senza dargli uno
straccio di spiegazione. Una
domanda inespressa, una
risposta
mancata.
Al
crematorio,
mentre
raccoglieva in silenzio le
ceneri della moglie, Kafuku
era immerso in questi
pensieri. Al punto da non
sentire nemmeno quello che
le
altre
persone
gli
sussurravanoall’orecchio.
Immaginare la moglie fra
le braccia di un altro, per
Kafuku era stato uno strazio.
D’altronde, come avrebbe
potuto non esserlo? Se
chiudeva gli occhi, vivide
immagini si formavano nella
sua mente una dopo l’altra.
Non che lui cercasse
intenzionalmente
quelle
fantasie, ma non riusciva a
reprimerle. Lo trafiggevano
con lentezza, senza pietà,
comelalamadiuncoltello.A
volte si diceva che sarebbe
stato preferibile se fosse
rimasto all’oscuro di tutto.
Ma era fondamentalmente
convinto che – in qualunque
circostanza–sapereèsempre
meglio che ignorare. Doveva
conoscere la verità, per
quanto grande fosse il dolore
che comportava. Solo la
conoscenzadellaveritàrende
gliesseriumanipiúforti.
Ancora piú dolorosi di
quelle immagini, tuttavia,
erano gli sforzi che doveva
fare per stare insieme alla
moglie come se nulla fosse,
senza farle capire che sapeva
tutto. Mostrarsi sereno,
mentredentrodisésisentiva
lacerare il petto e ribollire il
sangue. Portare avanti con
noncuranza le solite attività
quotidiane, conversare in
modo naturale, fare l’amore
conleinelloroletto.Nonera
una cosa alla portata di
chiunque. Ma Kafuku era un
attore
professionista.
Distaccarsi
da
sé
e
immedesimarsi in un ruolo
era il suo lavoro. E recitava
mettendoci l’anima. Una
recitasenzaspettatori.
Però, a prescindere da
questacircostanza–dalfatto,
cioè, che lei a volte facesse
l’amore di nascosto con altri
–,
marito
e
moglie
conducevanoinsiemeunavita
soddisfacenteetranquilla.Sia
l’uno che l’altra erano
contenti del loro lavoro e
guadagnavano bene. In
vent’anni
di
vita
matrimoniale avevano fatto
sesso innumerevoli volte, e
almeno da parte di Kafuku,
sempreconpiacere.Dopoche
lei era morta – un tumore
all’uterosel’eraportataviain
pochi mesi –, lui aveva
incontrato diverse donne e ci
era andato a letto. Senza mai
ritrovare con loro, però,
l’intima gioia che aveva
conosciuto con la moglie.
Tutto quello che provava era
un vago senso di déjà vu, il
pallido
ricordo
di
un’esperienzagiàvissuta.
Per
pagare
Misaki
l’agenzia aveva bisogno dei
suoi dati, quindi Kafuku le
chiese di annotare il suo
indirizzo attuale, il domicilio
legale, la data di nascita e il
numero della patente. La
ragazza viveva in un
appartamento nel quartiere di
Akabane, nella parte nord di
Tōkyō. Era domiciliata nel
comune di Kamijūnitaki,
nell’Hokkaidō, e aveva
appenacompiutoventiquattro
anni. Kafuku non sapeva in
che parte dell’Hokkaidō si
trovasse quella città, quanto
fossegrandeocosafacessero
gli
abitanti.
Ma
nell’apprendere l’età della
ragazzaerarimastocolpito.
Kafuku aveva avuto una
figlia che era vissuta solo tre
giorni. Era morta nel nido
della clinica, durante la terza
notte,senzanessunpreavviso.
Il cuore si era fermato, cosí,
dicolpo.Quandoeraspuntata
l’alba, la neonata non
respirava piú. I medici
avevano ipotizzato che era
nataconundifettocongenito
allavalvolacardiaca.Manon
c’era modo di provarlo.
D’altronde,conoscerelavera
causa della morte non
avrebbe riportato in vita la
bambina.Perfortuna,oforse
per disgrazia, ancora non le
avevano messo un nome. Se
fosse vissuta, ora avrebbe
avuto ventiquattro anni.
Nell’anniversario della sua
nascita, Kafuku calcolava
sempre gli anni trascorsi, e
diceva una preghiera, in
solitudine.
Per Kafuku e la moglie,
perdere la figlia in modo
tanto brusco era stato
naturalmente
un
colpo
terribile. Sentivano la sua
assenza con dolore profondo.
Impiegarono molto tempo a
riprendersi. Passavano le
giornate chiusi in casa, quasi
senza
parlarsi.
Perché
qualunque cosa dicessero,
sembrava
loro
senza
significato.
Lei
prese
l’abitudine di bere grandi
quantità di vino. Lui per un
certo periodo si dedicò con
singolare
passione
alla
calligrafia.
Tracciando
ideogrammi sulla carta
candida
col
pennello
imbevuto di inchiostro
nerissimo,gliparevadiveder
sciogliersi a poco a poco il
grovigliocheavevanelcuore.
Tuttavia, col reciproco
sostegno,
gradualmente
riuscironoaguariredaquella
ferita e a superare quel
periodo difficile. E a
concentrarsi ancora piú
intensamente di prima nelle
rispettive
carriere.
Si
dedicavano frenetici alla
preparazione dei ruoli che
venivano loro assegnati.
«Scusami,manonvogliopiú
averefigli»,disseaKafukula
moglie. Lui era dello stesso
avviso. «D’accordo, farò in
modo che non succeda. Se è
quellochedesideri,permeva
bene»,rispose.
Era stato a partire da quel
momento che sua moglie
aveva iniziato ad avere delle
relazioni con altri uomini,
rifletteva Kafuku ripensando
a quel periodo. Poteva darsi
che il fatto di aver perso una
figlia avesse risvegliato
dentrodileiquelbisogno.Ma
erano soltanto supposizioni.
Erasoltantounapossibilità.
– Posso farle una
domanda? – gli chiese
Misaki.
Kafuku,
che
stava
pensando ai fatti suoi e
guardava distrattamente fuori
dal finestrino, si voltò
sorpreso verso di lei. Erano
due mesi che passavano
molte ore insieme in
macchina, ma Misaki non
aveva quasi mai attaccato
discorso.
– Certamente, prego, –
disse.
– Perché è diventato
attore,signorKafuku?
–Quand’eroall’università,
un’amicamihainvitatoafar
parte del club di recitazione.
In realtà non è che avessi un
particolare interesse per il
teatro. Avrei voluto entrare
nella squadra di baseball. Al
liceo
me
la
cavavo
abbastanza bene, ero un
discreto interbase. Peccato
che all’università la squadra
fosse di livello ben superiore
al mio. Allora mi sono detto
che mi conveniva accettare
l’invito di quella mia amica.
Sono entrato nel gruppo
teatrale cosí, tanto per
provare, e anche per passare
piútempoconlei.Maapoco
apoco,fraun’interpretazione
e l’altra, ho capito che
recitare mi piaceva. Quando
micalavoinunruolo,potevo
diventare
qualcuno
di
diverso. E quando finivo di
recitare, ritrovare me stesso.
Era
una
sensazione
bellissima.
–
Cosa?
Diventare
qualcunodidiverso?
–Sí.Masoloacondizione
dipotertornareindietro.
– Non ha mai provato il
desideriodinontornare?
Kafukucipensòunpo’su.
Era la prima volta che
qualcuno gli faceva una
domanda del genere. Nel
traffico intenso, avanzavano
lentamentelungol’autostrada
metropolitana verso l’uscita
diTakebashi.
– Be’, dove altro avrei
potutoandare?–disse.
Misaki
non
fece
commenti.
Seguí qualche minuto di
silenzio. Kafuku si tolse il
berretto da baseball, ne
controllò la forma, se lo
rimise in testa. La Saab
cabriolet stava procedendo
accanto a un tir e alla sua
serie infinita di ruote. Al
confronto, sembrava una
fragile barchetta di fianco a
uncargo.
– Senta, so che non sono
fatti miei, ma c’è una cosa
che trovo strana, – proseguí
Misaki dopo un po’. –
Posso…
–Prego,–feceKafuku.
– Come mai lei non ha
amici?
Kafukusivoltòaguardare
la ragazza, che vedeva di
profilo, con una certa
curiosità.
– Cosa le fa pensare che
nonneabbia?
Misakifecespallucce.
– Quando si porta una
persona in macchina ogni
giorno per due mesi, certe
cosesicapiscono.
Kafuku osservò le ruote
deltir.Alungoecongrande
concentrazione.
–Vistochemelochiede,è
datantochenonhodeiverie
propriamici,–dissepoi.
– Non ne aveva neanche
dabambino?
– Da bambino sí.
Giocavamo
insieme
a
baseball,
andavamo
a
nuotare… Ma una volta
diventato adulto, non ho piú
sentitoilbisognodiamicizie.
Soprattutto da quando mi
sonosposato.
–Vuoldirechelebastava
suamoglie,chegliamicinon
eranopiúnecessari?
– Può darsi. Perché
eravamo anche buoni amici,
ioelei.
–Acheetàsièsposato?
– A trent’anni. Ci siamo
conosciuti
sul
set,
lavoravamonellostessofilm.
Ma lei aveva una parte
importante, io un ruolo
secondario.
La vettura avanzava a
singhiozzo nel traffico. Il
tettuccio era chiuso, come
sempre quando prendevano
l’autostrada.
– Lei non tocca mai un
gocciod’alcol,vero?–chiese
Kafuku, tanto per cambiare
argomento.
– No, sembra che il mio
fisico lo rifiuti, – disse
Misaki.–Miamadrebeveva,
abitudinechehacausatotanti
guai. Può darsi che c’entri
anchequesto.
–Beveancora?
Misaki scosse piú volte la
testa.
– È morta. Guidava
ubriaca, ha perso il controllo
della vettura, è uscita di
strada ed è andata a
schiantarsi contro un albero.
È morta praticamente sul
colpo. Io avevo diciassette
anni.
– Mi dispiace, – disse
Kafuku.
– Se l’è cercata, – fece
Misaki freddamente. – Prima
o poi doveva capitare, era
soloquestioneditempo.
Cifuunaltrosilenzio.
–Esuopadre?
– Non so dove sia. Se n’è
andato di casa quando avevo
ottoanni,edaalloranonl’ho
piú visto. Né sentito. Mia
madredavasemprelacolpaa
me.
–Perché?
– Ero figlia unica, e lei
diceva che se fossi stata una
bella bambina, lui non mi
avrebbe mai abbandonata.
Non faceva che ripetermelo.
Chemiavevalasciataperché
erobrutta.
– Ma lei non è affatto
brutta, – disse Kafuku senza
incertezze. – Semplicemente
a sua madre piaceva pensare
chefosseandatacosí.
Misaki si strinse di nuovo
nellespalle.
– Normalmente non lo
faceva, ma quando era
ubriaca, mia madre era
capace di dirmi qualsiasi
schifezza.Ripetevasemprele
stesse cose, all’infinito. E mi
feriva.Sochenonèunabella
cosa, ma quando è morta, a
esseresincera,permeèstato
unsollievo.
Questa volta, il silenzio
cheseguífumoltopiúlungo.
–Eleineha,diamici?
Misakiscosselatesta.
–No,nonneho.
–Comemai?
La ragazza non rispose.
Strinse
leggermente
le
palpebre continuando a
guardaredavantiasé.
Kafuku chiuse gli occhi
pensando di dormire un po’,
ma non ci riuscí. Anche se
Misaki ogni volta inseriva la
marcia con delicatezza, la
macchina si fermava e
ripartiva tutti i momenti.
Nella corsia di fianco, il tir
era sempre lí, un po’ piú
avanti o un po’ piú indietro,
come l’ombra gigantesca del
destino.
Kafuku
rinunciò
a
dormire.
– L’ultima volta che mi
sono fatto un amico è stata
quasi dieci anni fa, – disse
riaprendo gli occhi. – Ma
forse sarebbe piú esatto dire
«qualcosa di simile a un
amico». Aveva sei o sette
anni meno di me, ed era una
brava persona. Bere gli
piaceva,
per
tenergli
compagnia bevevo anch’io, e
intanto parlavamo di tante
cose.
Misaki annuí lievemente.
Aspettava il seguito della
storia.
Dopo
qualche
esitazione,Kafukusidecisea
raccontare.
– Le dirò la verità,
quell’uomo per un certo
periodoeraandatoalettocon
miamoglie.Maignoravache
iolosapessi.
Qualchesecondo,iltempo
di
mandare
giú
quell’informazione,
poi
Misakichiese:
– Vuole dire che
quell’uomo faceva sesso con
suamoglie?
– Esattamente. Ha fatto
sesso con lei diverse volte,
pertreoquattromesi,credo.
– E come è venuto a
saperlo?
– Be’, non è stata lei a
dirmelo, naturalmente, ma io
l’ho capito. Ora spiegarle
sarebbe troppo lungo. Ma è
una cosa di cui sono certo.
Nonmelasonoimmaginata.
Mentre erano fermi a un
semaforo, Misaki regolò la
posizione del retrovisore con
entrambelemani.
–Eilfattochequell’uomo
andasse a letto con sua
moglie non le ha impedito di
diventare suo amico? –
chiese.
– Al contrario, – rispose
Kafuku. – Ho voluto farmelo
amico proprio perché andava
alettoconlei.
Misaki non aprí bocca, in
attesacheluicontinuasse.
–
Come
spiegarle,
volevo… volevo capire.
Capirecosaavessespintomia
moglie a tradirmi con
quell’uomo, quale ragione
avesse di farlo. Perlomeno
all’inizio,lamiamotivazione
eraquesta.
Misaki fece un respiro
profondo. Sotto la giacca il
suo petto si sollevò e scese
lentamente.
– Non era una sofferenza,
per lei? Starsene a bere e
chiacchierare con un uomo
che si portava a letto sua
moglie?
–Certocheloera,èovvio,
– disse Kafuku. – Il mio
pensiero, anche non volendo,
andava sempre lí. Mi
tornavano in mente cose che
avrei preferito non ricordare.
Ma recitavo. Dopotutto era il
miomestiere.
– Diventare un altro
personaggio,–disseMisaki.
–Appunto.
– Per ritornare poi nei
propripanni.
– Appunto, – ripeté
Kafuku. – Ritornare nei miei
panni,anchesenonneavevo
alcuna voglia. Ma il fatto è
cheunavoltatornatiindietro,
non si è piú esattamente
quelli di prima, non è
possibile.Èunaregola.
Ora
cadeva
una
pioggerella fine fine, Misaki
azionò
piú
volte
il
tergicristallo.
–Edèriuscitoacapirlo?Il
motivo per cui sua moglie
andava
a
letto
con
quell’uomo?
Kafukuscosselatesta.
– No, non l’ho capito.
C’eranoalcunequalitàchelui
aveva, e io no. Cioè… in
realtà penso che fossero
molte.Macosainparticolare
avesse attratto mia moglie,
non avevo modo di saperlo.
Non è che noi agiamo spinti
da motivazioni precise.
Quando due persone si
frequentano, soprattutto un
uomo e una donna, come
dire…? È una questione piú
globale. Piú ambigua, piú
arbitraria,piú…piúsofferta.
Misaki rifletté qualche
secondosuquelleparole.
– Non è riuscito a capire,
però ha continuato a essere
amicodiquell’uomo,vero?
DinuovoKafukusitolseil
berrettoequestavoltaloposò
sulle ginocchia. Si strofinò il
craniocolpalmodellamano.
– Vede… il fatto è che
quandosiiniziaarecitareuna
parte, è difficile trovare il
momentogiustopersmettere.
Per quanto stressante sia,
finché la recita non trova il
suo senso, un senso
compiuto, non la si può
interrompere. È come nella
musica, una melodia non è
completa se non si conclude
con la nota dominante…
Capisce quello che voglio
dire?
MisakipreseunaMarlboro
dalpacchettoeselamisefra
le labbra, ma non l’accese.
Non succedeva mai che
fumasse quando il tettuccio
dellamacchinaerachiuso.Si
contentava di tenere la
sigarettafralelabbra.
– E nel frattempo,
quell’uomo continuava ad
andare a letto con sua
moglie?
– No, questo no, – disse
Kafuku.–Noncel’avreifatta
a sostenere un ruolo cosí
difficile! Sono diventato
amico di quell’uomo poco
dopolamortedilei.
– Ma gli era veramente
amico? Oppure era soltanto
unarecita,nulladipiú?
Kafukurifletté.
– Entrambe le cose, –
disse.–Iostessononriuscivo
piú a distinguere il confine.
Marecitaresulseriosignifica
proprioquesto.
A Kafuku quell’uomo era
rimasto simpatico fin dal
primo incontro. Si chiamava
Takatsuki. Alto, un bel viso,
interpretava spesso la parte
del seduttore. Aveva da poco
superato la quarantina e nel
suo mestiere non si poteva
dire eccellesse. Non avendo
una forte personalità, poteva
sostenere una varietà limitata
di ruoli. Di solito gli
affibbiavano
quello
dell’affascinante uomo di
mezzaetà.Sempresorridente,
un’ombra di malinconia a
offuscargliognitantoilvolto.
Caratteristiche
che
conquistavano le spettatrici
anziane. Kafuku lo aveva
incontrato per caso nella sala
d’attesa degli studi televisivi.
Takatsuki, sapendo che sua
moglie era morta sei mesi
prima,sieraavvicinato,siera
presentatoegliavevafattole
sue condoglianze. Gli aveva
dettoconariacontritacheuna
voltaavevalavoratoconleiin
un film, e che lei era stata
molto affabile. Kafuku aveva
ringraziato. Per quel che ne
sapeva,
cronologicamente
Takatsuki era l’ultimo degli
uominiconcuisuamoglieera
andata a letto. Poco dopo la
fine di quella relazione, lei
aveva fatto delle analisi
all’ospedale e aveva scoperto
diavereuntumoreall’uteroa
unostadiogiàavanzato.
– Avrei una richiesta da
farle, – disse Kafuku una
voltaterminatiiconvenevoli.
–Dicosasitratta?
–Seleièd’accordo,vorrei
rubarleunpo’delsuotempo.
Potremmo bere qualcosa
insieme,eleimagaripotrebbe
raccontarmi cosa ricorda di
mia moglie… Mia moglie
parlavaspessodilei.
Aquellapropostainattesa,
Takatsukiparvestupito.Anzi,
inquieto. Sollevò un poco le
sopracciglia dalla forma
elegante e posò su Kafuku
uno sguardo circospetto.
Come se si chiedesse se non
ci fosse qualcosa sotto. Ma
non riuscí a leggere sul suo
viso nessun secondo fine.
Kafuku
aveva
assunto
l’espressione pacata che ci si
aspetta da un uomo che ha
persodapocolamoglie,dopo
averpassatoconleitantianni
dellasuavita.Lasuperficiedi
un lago che ritrova la quiete
quandosiplacanoleonde.
– Vorrei solo parlare di
miamoglieconqualcunoche
l’ha conosciuta, – insistette
Kafuku. – Sono sempre in
casadasolo,eadirelaverità,
a volte è dura. Ma se sono
importuno,
signor
Takatsuki…
Takatsuki si tranquillizzò:
Kafuku non sembrava essere
al corrente della sua
relazione.
– No, non è affatto
importuno! Le dedico tutto il
tempo che vuole, – disse. –
Se si accontenta di un
interlocutore
sprovveduto
come me… – Sorrise, rughe
gentili apparvero agli angoli
degli occhi. Un sorriso
davvero affascinante. Se
Kafukufossestatounadonna
di mezza età, sarebbe di
sicuroarrossito.
Takatsuki
ripassò
mentalmentelasuaagenda.
– Potremmo vederci
domani sera, parlare con
calma.Perleiandrebbebene?
Kafuku rispose di sí, era
libero anche lui. Questo
Takatsuki è una persona
piuttostotrasparente,pensava
intanto con stupore. Il suo
sguardo rispecchiava senza
ambiguità il suo pensiero.
Sembrava non avere né
tortuosità
né
malizia.
Insomma, non era il tipo da
scavare nottetempo una buca
profonda, e aspettare zitto
zitto che qualcuno passando
ci
cadesse
dentro.
Decisamente, non sarebbe
maistatounbravoattore.
– Dove vuole che ci
incontriamo?
–
chiese
Takatsuki.
– Decida lei. Qualsiasi
posto per me va bene, –
risposeKafuku.
Takatsuki fece il nome di
un noto bar di Ginza.
Riservando
un
séparé,
avrebbero potuto parlare in
santa pace, senza timore di
essereascoltati,disse.Kafuku
sapeva dove si trovava quel
locale. I due uomini si
salutarono con una stretta di
mano. La mano di Takatsuki
era morbida, le sue dita
lunghe e affusolate. Il palmo
eraleggermenteumido,come
se avesse sudato. Forse a
causadellatensione.
Rimasto solo, Kafuku
sedette su una poltrona della
sala d’attesa, aprí la mano
destra e la osservò. La
sensazione lasciata dalla
mano di Takatsuki, da quel
palmo e quelle dita che
avevano accarezzato il corpo
nudo di sua moglie –
accarezzato lentamente, dalla
testaaipiedi–,eraancoralí,
vivida. Chiuse gli occhi e
fece un respiro profondo.
Cosa cercava, con quella
manovra,
cosa
voleva
ottenere? Comunque fosse,
ormai non poteva tirarsi
indietro.
Nella quiete del séparé,
mentre sorseggiava il suo
whiskydimalto,Kafukucapí
una cosa: Takatsuki era
ancora innamorato di sua
moglie. E non era ancora
riuscitoadaccettarelarealtà:
lei era morta e il suo corpo
era ridotto in cenere e ossa.
Era un sentimento che
Kafuku conosceva bene.
Mentre parlavano di lei,
notavacheatrattigliocchidi
Takatsuki si velavano di
lacrime.
Tanto
che,
vedendolo in quello stato,
provava quasi l’impulso di
confortarlo battendogli sulla
spalla. Quest’uomo non
riesce a nascondere i suoi
sentimenti,pensò.Basterebbe
che gli dessi l’abbrivio, e
finirebbe col confessare ogni
cosa. Dai discorsi di
Takatsuki, Kafuku comprese
che a metter fine alla loro
relazioneerastatalei.«Forse
è meglio che non ci vediamo
piú»,gliavevaprobabilmente
detto, e non l’aveva mai piú
cercato. Per quel che ne
sapeva Kafuku, le storie
d’amore di sua moglie –
ammesso che si potessero
chiamare cosí – seguivano
tutte lo stesso schema:
incontri che si susseguivano
per alcuni mesi e poi
cessavano in modo netto e
definitivo. Peccato che
Takatsuki,
impreparato
all’idea di separarsi da lei
tanto bruscamente, a quanto
pareva avesse sperato in un
legamepiúduraturo.
Quando il tumore era
giuntoall’ultimostadioesua
moglieerastataricoveratafra
i malati terminali, Takatsuki
aveva chiesto di farle visita,
ma anche quella volta lei gli
aveva opposto un netto
rifiuto. Lí, all’ospedale, non
voleva vedere quasi nessuno.
A parte il personale medico,
nella sua stanza ammetteva
solo la madre, la sorella e
Kafuku. Takatsuki sembrava
rimpiangerechenonglifosse
stato concesso di incontrarla
almeno un’ultima volta.
Aveva saputo della sua
malattiasolopochesettimane
primachemorisse.Lanotizia
era stata uno shock, e ancora
adesso non riusciva a
rassegnarsi. Kafuku capiva
benequellocheprovava.Però
non si poteva dire che i loro
sentimenti fossero gli stessi.
Kafuku aveva visto sua
moglie consumarsi giorno
dopo giorno, al crematorio
avevaraccoltociòcherestava
dilei.Avevasuperatolafase
dell’accettare o meno la
realtà. Ed era una differenza
importante.
Sembra quasi che sia io a
consolare lui, si diceva
KafukumentreconTakatsuki
si scambiavano tanti ricordi.
Se mia moglie potesse
vederci, che effetto le
farebbe?
A
quell’idea
provava
una
strana
sensazione. Ma i morti con
ogni probabilità non avevano
piú
né
pensieri
né
sensazioni…Dalsuopuntodi
vista, era uno dei vantaggi
dellamorte.
Quella sera Kafuku capí
un’altra cosa di Takatsuki:
beveva troppo. Nel suo
ambiente professionale, di
etilisti ne incontrava tanti –
perché mai gli attori erano
quasituttideglialcolizzati?–,
e pensava che si dividessero
in due categorie: quelli che
bevevano per acquisire
qualcosa, e quelli che
bevevano per liberarsi di
qualcosa.
Takatsuki
apparteneva chiaramente al
secondo gruppo, ed era una
reazione naturale e tutto
sommatopositiva.
Di cosa cercasse di
liberarsi, Kafuku non lo
sapeva. Forse della propria
debolezza, forse della ferita
ricevutainpassato.Oppuredi
problemi presenti che lo
assillavano. O tutte queste
cose insieme. In ogni caso,
dentro di lui c’era qualcosa
che«potendo,avrebbevoluto
dimenticare»,
e
per
dimenticarlo,opersfuggireal
dolore che gli procurava,
doveva bere. Nel tempo che
Kafuku ci metteva a vuotare
un bicchiere, lui ne scolava
due o tre. Un ritmo
impressionante.
Amenocheilmotivonon
fosse la tensione. In fin dei
conti, Takatsuki si trovava di
frontealmaritodiunadonna
concuiuntempoavevaavuto
una relazione clandestina.
Sarebbe stato strano che non
fosse teso. Ma non doveva
essere la sola ragione.
Fondamentalmente,
quell’uomo non riusciva a
moderarsi nel bere, pensò
Kafuku(cheinveceseguivail
proprio ritmo, mentre lo
teneva d’occhio). Vedendo
che man mano che beveva
Takatsukisembravarilassarsi,
gli chiese se avesse famiglia.
Luirisposecheerasposatoda
dieci anni, e aveva un figlio
di sette. Ma che per diverse
ragioni l’anno precedente si
era separato dalla moglie.
Probabilmenteintempimolto
brevi avrebbe divorziato, e si
preparava ad affrontare il
problema dell’affidamento
del bambino. Voleva a tutti i
costi ottenere di poter vedere
suo figlio quando gli pareva.
Aveva bisogno di lui. Ne
mostrò la foto a Kafuku: era
un bambino molto carino,
dall’ariagiudiziosa.
Come la maggior parte
degli alcolizzati, Takatsuki
diventava piú loquace a ogni
bicchiere
che
beveva.
Raccontava quello che non
avrebbe dovuto, e che
nessuno desiderava sentire.
Ormai Kafuku, che aveva
assunto
il
ruolo
dell’ascoltatore,
lo
incoraggiava, e se riteneva il
caso di consolarlo, gli diceva
qualche
parola
per
rincuorarlo.Eintantocercava
di raccogliere quante piú
informazioni poteva. Si
comportavacomeseprovasse
per Takatsuki una gran
simpatia. Cosa che, essendo
una persona che sapeva
ascoltare, non gli riusciva
affatto difficile, lo trovava
davvero simpatico. Inoltre i
dueuominiavevanoqualcosa
di molto importante in
comune: sia l’uno che l’altro
continuavano
a
essere
innamorati di una donna
affascinante
ormai
scomparsa. Nessuno dei due
era riuscito a superare quella
perdita, quindi, malgrado
avesseroavutoconladefunta
dei rapporti di natura molto
diversa, avevano tante cose
dadirsi.
– Se è d’accordo, signor
Takatsuki, potremmo vederci
di nuovo. Mi ha fatto
veramentepiacereparlarecon
lei.Sa,eradatantotempoche
non provavo qualcosa di
simile, – disse Kafuku al
momento di separarsi. Aveva
già provveduto a pagare le
consumazioni. Perché il
pensiero che in quel bar
qualcuno dovesse regolare il
conto non sembrava sfiorare
Takatsuki.
Evidentemente
l’alcol gli faceva dimenticare
tante cose. Anche cose
importanti,forse.
– Certamente, – disse
Takatsuki sollevando il viso
dalbicchiere.–Speroproprio
di vederla ancora, ci tengo.
Ora che ho parlato con lei,
anch’io mi sento molto piú
sollevato.
–Inquestonostroincontro
vedo la mano del destino, –
disse Kafuku. – Chissà che
non sia stata mia moglie a
farciavvicinare.
E in un certo senso era
vero.
Si scambiarono il numero
dicellulare,sisalutaronocon
unastrettadimano.
Fu cosí che divennero
amici. Compagni di bevute
benaffiatati.Sitelefonavano,
si davano appuntamento in
qualche bar della città, e fra
un
sorso
e
l’altro
discorrevano tranquillamente.
Ma non succedeva mai che
cenassero insieme, andavano
sempreesoloalbar.Nonuna
sola volta Kafuku vide
Takatsuki servirsi degli
stuzzichini
che
accompagnavano
le
ordinazioni. Al punto che si
chiedeva se quell’uomo
mangiasse, ogni tanto. E a
parte
qualche
birra
occasionale, ordinava solo
whisky,whiskydimalto.
I due uomini parlavano di
tanti argomenti, ma gira e
rigira il discorso finiva
sempresulladefunta.Kafuku
raccontava episodi della
giovinezza di lei, Takatsuki
ascoltava con espressione
compunta, quasi raccogliesse
materiale per un libro di
memorie. Kafuku si rese
conto di gustare quelle
conversazioni.
Una sera si trovavano in
un piccolo bar di Aoyama.
Un locale che non dava
nell’occhio,inunaviuzzasul
retro del museo Nezu. Il
baristaeraunuomotaciturno
sulla quarantina. Su uno
scaffale, acciambellato in un
angolo, dormiva sempre un
gatto grigio, piuttosto magro.
Un gatto randagio approdato
in quel bar per caso. Vecchi
dischi di jazz giravano sul
piatto dello stereo. Sia a
Kafuku che a Takatsuki
quell’atmosfera
piaceva,
erano già stati in quel locale
diverse volte. Per qualche
ragione misteriosa, quasi
sempre pioveva, quando si
vedevano,eanchequellasera
cadeva una pioggerella
leggera.
– Era veramente una
donna straordinaria, – disse
Takatsuki guardando le
proprie mani, che teneva
posate sul ripiano del
tavolino. Mani belle, per un
uomo che aveva superato la
mezza età. Poche rughe,
unghie ben curate. – È stato
molto fortunato, signor
Kafuku, a sposare una donna
cosí, a vivere con lei. Di
sicuroeraunuomofelice.
– Sí, ha ragione, – disse
Kafuku. – Probabilmente ero
felice.Maèpropriolafelicità
a portare la sofferenza, a
volte.
– Cioè? Che genere di
sofferenza?
Kafukufecegirareigrossi
pezzi di ghiaccio nel suo
bicchiere di whisky con
acqua.
– Il timore di perderla un
giorno. Solo a immaginare
quest’eventualità,provavoun
doloreinpetto.
– Sí, so bene cosa vuol
dire,–feceTakatsuki.
–Losa?
– Be’… – Takatsuki
esitava, cercava le parole
giuste. – Perdere una donna
meravigliosacomelei…
–Parlandoingenerale?
– Sí, certo, – disse
Takatsuki, poi annuí diverse
volte,comeperconvincerese
stesso. – È una cosa che
possosoltantoimmaginare.
Kafuku taceva. Prolungò
almassimo,allimiteestremo,
quelsilenzio.
– In conclusione, però,
l’ho persa, – disse infine. –
L’ho persa poco per volta
mentre era ancora in vita, e
poideltutto.Comesevenisse
lentamente erosa, finché è
stata trascinata via, con tutte
leradici,daunagrandeonda.
Capiscecosavogliodire?
–Credodisí.
No, questo non lo puoi
sapere,pensòKafuku.
–Lacosapiúdolorosa,per
me, – proseguí, – è che non
sono riuscito a capirla, o
perlomeno a capire una parte
importante di lei. E adesso
che è morta, so che
probabilmente non la capirò
mai, e me ne andrò cosí.
Lasciando un piccolo scrigno
sepolto in fondo al mare. A
questopensiero,misistringe
ilcuore.
Takatsuki rifletté sulle
parole che aveva appena
sentito.
– Sí, signor Kafuku, –
dissepoi,–machièchepuò
capire del tutto un’altra
persona? Anche amandola
profondamente.
–
Abbiamo
vissuto
insieme
per
vent’anni,
eravamo una coppia molto
unita, e al tempo stesso
eravamo amici, avevamo
fiducia uno nell’altra. Ci
dicevamo
apertamente
qualsiasicosa.Perlomeno,era
quellochepensavo.Maforse
non era cosí. Come
spiegarle…èpossibilecheci
fosseinmeunangolociecoa
cuinonpotevosfuggire.
– Un angolo cieco… –
ripetéTakatsuki.
– Non sono riuscito a
vedere qualcosa di molto
importante
nella
sua
personalità. O forse l’ho
visto, senza darvi il giusto
peso.
Takatsuki si morse le
labbra,poivuotòd’unfiatoil
bicchiere e chiese al barista
unaltrowhisky.
–Sobenecosavuoldire,–
feceTakatsuki.
Kafukuloguardòdrittoin
faccia. Takatsuki per un po’
sostenne il suo sguardo, poi
distolsegliocchi.
– Come fa a saperlo? –
chieseintonopacatoKafuku.
Il barista portò un altro
whisky con ghiaccio, sostituí
il sottobicchiere bagnato con
uno nuovo. In sua presenza i
due uomini rimasero in
silenzio.
– Come fa a saperlo? –
ripeté Kafuku quando il
baristasifuallontanato.
Takatsuki rifletté a lungo.
Nei suoi occhi qualcosa
vacillava. Quest’uomo sta
esitando, pensò Kafuku. Sta
combattendo strenuamente
contro il desiderio di
confessare. Alla fine però
Takatsukinoncedette.
– Il fatto è che noi non
possiamocapirefinoinfondo
cosa pensa una donna, non
crede?–finícolrispondere.–
Volevo dire solo questo. Mi
riferivo alle donne in genere.
Quindi non è solo in lei che
esiste un angolo cieco, non
mi sembra, perlomeno. Se la
sensazione di cui mi ha
parlato la consideriamo un
angolo cieco, l’abbiamo tutti,
ci accompagna per tutta la
vita.Quindifarebbemeglioa
non sentirsi in colpa, signor
Kafuku.
– Sí, ma lei sta
generalizzando, – disse
Kafuku dopo averci pensato
unpo’su.
– Ha ragione, – ammise
Takatsuki.
– Io sto parlando di mia
moglie e di me. Preferirei
evitare
le
facili
generalizzazioni.
Takatsukitacquealungo.
– A mio parere, – disse
poi,–suamoglieeradavvero
una donna straordinaria.
Naturalmentequellocheioso
disuamoglienonènemmeno
uncentesimodiquellochesa
lei,signorKafuku,peròsono
convinto di quello che le sto
dicendo. Comunque stiano le
cose, lei deve essere grato di
aver passato vent’anni della
sua vita con una donna cosí.
Lo penso sinceramente. Per
quanto ci sia comprensione
reciproca con una persona,
per quanto la si ami, non si
può leggere nel cuore di
qualcunaltrocomeinunlibro
aperto. Se ci proviamo,
andiamo incontro solo a
sofferenza. Ma se cerchiamo
di guardare nel nostro cuore,
se ci sforziamo davvero di
farlo, alla fine ci riusciremo,
questo sí. Quindi, in
conclusione, quello che
dobbiamofareèvenireapatti
col nostro cuore. Se
desideriamo davvero capire
qualcuno, possiamo soltanto
guardare dentro noi stessi.
Questoèciòchepenso.
Quelle parole sembravano
emergere da qualche luogo
situato
nel
profondo
dell’uomo che si chiamava
Takatsuki. Solo per qualche
istante, una porta nascosta si
era socchiusa per lasciar
uscire la voce della sua
anima. Era chiaro che non
stava recitando. Non ne
sarebbe stato capace, non era
tantobravo.Kafukuloguardò
in silenzio negli occhi. Lui
questa volta non distolse lo
sguardo. Si scrutarono a
lungo. E negli occhi l’uno
dell’altro videro una luce.
Unalucecomelosfavilliodi
unastelladistante.
Quando si salutarono, si
strinsero la mano. Fuori
piovigginava. Takatsuki, che
indossava un impermeabile
beige, aprí l’ombrello e si
allontanò nella pioggia,
mentre Kafuku, come faceva
sempre,rimaseaosservarela
propria mano. Pensando,
come faceva sempre, che
quella di Takatsuki aveva
carezzatoilcorponudodisua
moglie.
Quella
considerazione,
tuttavia, non gli procurò
l’usualesensodioppressione.
Sono cose che possono
succedere,silimitòapensare.
In fin dei conti, si trattava
soltanto del suo corpo, ormai
tutto quel che ne restava era
qualche osso e un po’ di
cenere, si ripeteva Kafuku
comeperfarseneunaragione.
C’eranosicuramentecoseche
contavano di piú. Quello era
forse il suo angolo cieco,
doveva ammetterlo, ma lo
avevano tutti, un angolo
cieco.
Le parole di Takatsuki gli
restarono a lungo nelle
orecchie.
– Siete rimasti amici per
moltotempo?–chieseMisaki
guardandolafiladimacchine
davantialoro.
– Circa sei mesi, fra una
cosa e l’altra… Piú o meno
ogniduesettimanecidavamo
appuntamento in qualche bar
e bevevamo insieme, –
rispose Kafuku. – Poi ho
smesso di vederlo. Lui mi ha
chiamato, ma io ho preferito
ignorarlo. Né da parte mia
l’ho piú cercato. Cosí anche
lui ha finito col non
telefonarmipiú.
– Gli sarà parso molto
strano.
–Forse.
– Può anche darsi che ne
siarimastoferito.
–Sí,puòdarsi.
–Comemaitutt’auntratto
nonhapiúvolutovederlo?
– Perché non era piú
necessariorecitare.
– E non essendo piú
necessariorecitare,nonaveva
piú bisogno di essergli
amico?
– C’era anche questa
ragione,–disseKafuku.–Ma
nonètutto.
–Cioè?
Kafuku rimase a lungo in
silenzio. Misaki, la sigaretta
sempre fra le labbra, ogni
tantoglilanciavaun’occhiata.
– Se ha voglia di fumare,
fumipure,–ledisseKafuku.
–Come?
–Puòaccenderla.
– Anche se il tettuccio è
chiuso?
–Nonimporta.
Misaki abbassò il vetro e
con l’accendisigari della
macchina si accese la
Marlboro.
Aspirò
profondamente il fumo, gli
occhisocchiusi.Lotenneper
un po’ nei polmoni, poi lo
soffiò lentamente fuori dal
finestrino.
– Potrebbe esserle fatale,
losa?–ledisseKafuku.
– Be’, se è per questo, la
vitastessaèunrischiofatale.
Kafukurise.
– È un modo di vedere le
cose,–ammise.
– Non l’avevo mai vista
ridere,signorKafuku,–disse
Misaki.
– Già, ora che mi ci fa
pensare,forseèvero.Aparte
quando recito, mi succede
raramentediridere,–rispose
lui. – Senta, è da un bel po’
che voglio dirglielo: a
guardarlabene,leièpiuttosto
carina.Nonèaffattobrutta.
– La ringrazio. Neanch’io
penso di essere brutta.
Semplicemente non sono
bella. Come Sonia, – disse
Misaki.
Sorpreso, Kafuku si voltò
aguardarla.
–HalettoZioVania?–le
chiese.
–Leinerecitaognigiorno
deibranipresiacasoquaelà,
cosí mi è venuta voglia di
conoscere la storia intera.
Sono una persona curiosa, –
disse Misaki. – «Ah, che
brutta cosa non essere bella!
È terribile! E io lo so di non
esserebella,loso,loso…»È
un’operamoltotriste.
– Una storia senza
speranza, – disse Kafuku. –
«Oh Dio mio… Ho
quarantasette anni; se,
putacaso, arrivo ai sessanta,
menerestanoancoratredici.
È lunga! Come li vivo questi
tredici anni? Che cosa ci
faccio, come li riempio?» 1.
All’epoca la gente viveva in
media una sessantina d’anni.
LozioVaniapotevaritenersi
fortunato di non essere nato
oggi…
– Ho fatto una piccola
verifica.Leihalastessaetàdi
miopadre.
Kafuku non rispose. Prese
in silenzio alcune cassette e
passò in rassegna i titoli
scritti sull’etichetta. Ma non
neinfilònessunanellostereo.
Misaki teneva la sigaretta
accesafuoridalfinestrino.La
metteva per un momento fra
lelabbrasoloquandodoveva
cambiaremarcia,peraverela
manolibera.Intantolafiladi
vettureavanzavalentamente.
– Per dirle tutta la verità,
avevo pensato di punire
quell’uomo. Quell’uomo che
era andato a letto con mia
moglie, – riprese Kafuku col
tono di chi fa una
confessione,mentrerimetteva
alloropostolecassette.
–Dipunirlo?
– Di farlo soffrire in
qualche modo, soffrire
terribilmente.Conquistarnela
fiducia fingendomi amico,
trovareilsuopuntodebole,e
colpirlopropriolí.
Misaki corrugò la fronte,
pensando al significato di
quelleparole.
–Unpuntodebole?Quale,
adesempio?
– Non sono riuscito a
scovarlo. Ad ogni modo era
uno che quando beveva
abbassavalaguardia,equesto
mi avrebbe permesso di
inventare qualcosa. Me ne
sareiservitoperfarscoppiare
uno scandalo – non è molto
difficile imbastire una storia
chescreditiunapersona–,in
conseguenza del quale gli
avrebbero tolto l’affidamento
del figlio nella causa di
divorzio.Uncolpocuiluinon
avrebberetto.Nonsisarebbe
piúripreso.
–Chebruttoprogramma.
–Sí,bruttissimo.
– Voleva vendicarsi di lui
perché era andato a letto con
suamoglie?
– Vendicarmi? No, non è
esatto, – disse Kafuku. – Ma
non riuscivo a dimenticare.
Mi sforzavo, mi sforzavo
davvero, di non pensarci piú.
Non serviva a nulla! Vedevo
sempre mia moglie nelle
braccia di lui. Una visione
chetornavadicontinuo,come
un fantasma che non trova
pace e resta attaccato a un
angolo del soffitto, a
controllare
quello
che
succedeinbasso…Dopoche
mia moglie è morta, mi
dicevo che col tempo questa
sensazione
mi
avrebbe
finalmente
abbandonato.
Invece no, era sempre
presente.Anzi,erapiúfortee
vivida di prima. Avevo
bisogno di liberarmene. E a
questo
scopo
dovevo
sciogliere qualcosa dentro di
me, qualcosa che somigliava
tantoallacollera.
Chissà perché, si chiese
Kafuku,storaccontandotutte
queste cose a questa ragazza
che viene da Kamijūnitaki
nell’Hokkaidō, e che ha l’età
che avrebbe mia figlia.
Eppure, una volta iniziato,
nonriuscivapiúafermarsi.
– Cosí ha pensato di
punire quell’uomo, – disse
Misaki.
–Esatto.
– Però in pratica non ha
fattonulla.
– No. Nulla, – disse
Kafuku.
A quelle parole Misaki
sembrò tranquillizzarsi. Tirò
una boccata di fumo, poi
gettò la sigaretta ancora
accesa dal finestrino. Forse è
una cosa che a Kamijūnitaki
fannotutti,pensòKafuku.
– Non saprei spiegarle il
perché, ma tutto a un tratto
quella
storia
perse
importanza. Come se una
maledizionesifossesciolta,–
disse. – Non provavo piú
collera. O forse non si
trattava veramente di collera,
madiqualcos’altro.
–Be’,tantodiguadagnato
perlei,suquestononcisono
dubbi. Cioè, il fatto che non
abbiaferitonessuno,inalcun
modo.
–Sí,lopensoanch’io.
– Però non ha mai capito
perchésuamoglieabbiafatto
sesso con quell’uomo, e
perchéproprioconlui.
–No,nonl’hocapito.Èun
dubbio che mi porto ancora
dentro. Era un uomo
simpatico, e anche franco. E
amava davvero mia moglie.
Non se l’era portata a letto
solo per divertirsi. La sua
morte gli ha causato uno
shockprofondo.Eilrifiutodi
lei di farlo entrare nella
stanza, quando era andato
all’ospedale per vederla
un’ultima volta, lo faceva
ancora soffrire. Non potevo
impedirmi di pensare che
fosse una cara persona, tanto
che avrei anche potuto
esserglidavveroamico.
Kafukufeceunapausaper
seguire il corso delle sue
emozioni. Cercava le parole
peravvicinarsiilpiúpossibile
allaverità.
– Però, a dire il vero, non
era un individuo di grande
valore. Probabilmente aveva
un buon carattere. Era un
bell’uomo e aveva un sorriso
affascinante. E perlomeno
non era un superficiale. Ma
non era il genere di persona
che infonde rispetto. Era
sincero, ma mancava di
spessore.
Aveva
molte
debolezze, e come attore non
valeva granché. Mia moglie
al contrario era una donna
forte, e di grande profondità
spirituale. Poteva passare
molto del suo tempo a
riflettere. Allora perché si è
innamorata di quell’uomo da
poco,perchéèfinitanellesue
braccia? Questa domanda mi
tormentaancoraadesso,èuna
spinanelfianco.
– Vuole dire che la sente
come un insulto nei suoi
confronti?
Kafukucipensòsu.
–Sí,puòdarsi,–ammise.
– Ma sa, forse sua moglie
non era affatto innamorata di
lui, – disse Misaki con molta
semplicità. – Per questo ci è
andataaletto.
Kafukusivoltòaguardare
Misaki, come se osservasse
un paesaggio lontano. Lei
azionò
piú
volte
il
tergicristallo per pulire il
parabrezza. Le lame nuove
facevano contro il vetro un
rumore stridente, come strilli
dibambinicapricciosi.
–Sonocosecheavoltele
donne fanno, – aggiunse
Misaki.
Kafuku non sapeva cosa
rispondere.
– È un tipo di
comportamento per cosí dire
patologico, signor Kafuku.
Non è qualcosa che si possa
controllare
razionalmente.
Anche mio padre che ci ha
lasciate, e mia madre che mi
trattava male, lo hanno fatto
perché erano squilibrati.
Arrovellarsi su cose del
genere non serve a niente.
Tutto quel che possiamo fare
è cercare di sopravvivere,
mandaregiúeandareavanti.
– Allora tutti dobbiamo
recitare?
–Sí,piúomenoècosí.
Kafukusisistemòbenesul
sedile e chiuse gli occhi per
concentrarsisuunacosasola,
cogliere il momento in cui
Misaki cambiava marcia, ma
non ci riuscí. Tutto avveniva
in modo troppo morbido e
sicurodisé.Allesueorecchie
arrivava solo una leggera
variazione nel ronzio del
motore, come se sentisse un
insettoandareevenire.
Pensòdidormireunpoco.
Farsi un sonnellino breve ma
profondo. Dieci o quindici
minuti. Poi sarebbe di nuovo
salito sul palco. Avrebbe
recitato la sua parte sotto i
riflettori. Il pubblico avrebbe
applaudito,esarebbecalatoil
sipario. Per un determinato
lasso di tempo sarebbe
diventato un’altra persona,
per tornare poi a essere se
stesso. Non esattamente
quellodiprima,tuttavia.
– Faccio un sonnellino, –
disse.
Misaki non rispose.
Continuò a guidare senza
parlare.Kafukulefugratodi
quelsilenzio.
1
Anton Čechov, Zio Vania,
traduzionediLuigiLunari,Rizzoli,
Milano2008[N.d.T.].
Yesterday
Per quel che ne so io, la
sola persona che abbia mai
provato a tradurre Yesterday
dei Beatles in giapponese –
anzi,neldialettodelKansai–
è stato un ragazzo chiamato
Kitaru.Lacantavaspessonel
bagnodicasasua.
Ierièl’altroierididomani
ildomanidell’altroieri…
Ricordo che l’incipit era
qualcosa del genere, ma è
passato tanto di quel tempo
chenonsonosicurissimoche
facesse proprio cosí. In ogni
caso
erano
parole
sconclusionate,
dall’inizio
alla fine. Erano… come
dire… una roba davvero
assurdachefacevailversoal
testo
originale
senza
assomigliarcineancheunpo’.
La
familiare
melodia
originale, cosí bella e
malinconica, associata alla
cadenza un po’ indolente –
priva di pathos, si potrebbe
dire–deldialettodelKansai,
formavano un abbinamento
strano,
un’accoppiata
talmente priva di senso da
risultare
quasi
ardita.
Perlomeno, alle mie orecchie
produceva quest’effetto. Mi
faceva ridere, la trovavo
sciocca,maaltempostessovi
percepivo un messaggio
segreto. In ogni caso mi
limitavo
ad
ascoltarla
sconcertato.
Kitaru,puressendonatoe
cresciuto nel quartiere di
Dennenchōfu a Ōta, nella
cintura di Tōkyō, parlava il
dialetto del Kansai in modo
praticamente perfetto. Io
invece, che ero nato e
cresciuto nel Kansai, mi
esprimevo in un giapponese
standard quasi impeccabile –
quello che si parla a Tōkyō,
insomma. Ora che ci penso,
eravamo
un’accoppiata
davverosingolare.
L’avevo
conosciuto
quando lavoravo part-time in
un caffè vicino all’ingresso
principale del campus di
Waseda. Io stavo in cucina,
Kitaru serviva ai tavoli. Nei
momenti
di
calma
chiacchieravamo volentieri.
Entrambi ventenni, eravamo
nati a una settimana di
distanzal’unodall’altro.
– È un nome insolito,
Kitaru,–glidissi.
– Sí, è vero. Non ce ne
sonomolti,–fecelui,colsuo
forteaccentodelKansai.
– C’era un lanciatore dei
Lottechesichiamavacosí.
–Sí,manonc’entraniente
conlamiafamiglia.Anchese
una
qualche
relazione
probabilmente ci sarà, visto
cheèunnomepiuttostoraro.
All’epoca frequentavo il
secondo anno di Lettere
dell’Università di Waseda.
Lui era rōnin 1 e seguiva un
corso preparatorio all’esame
diammissione,perilsecondo
anno di fila, ma non dava
certo
l’impressione
di
impegnarsi sul serio. Nel
tempo libero leggeva cose
che non avevano il minimo
rapporto con lo studio. La
biografia di Jimi Hendrix,
manualidishōgi,Originedel
cosmo… roba del genere. Mi
disse che veniva ogni giorno
al lavoro da casa dei suoi a
Ōta.
–Casadeituoi?–chiesi.–
E io che ero sicuro che fossi
delKansai!
– Figurati! Sono nato e
cresciutoaDennenchōfu.
A quelle parole rimasi
disorientato.
– Scusa, ma allora perché
parlineldialettodelKansai?
– Be’, mi sono messo
d’impegno e l’ho imparato.
Cel’homessadavverotutta.
–Tiseimessod’impegno?
–Sí,davvero,l’hostudiato
seriamente. I verbi, i
sostantivi… insomma, è
come studiare l’inglese o il
francese.Sonoancheandatoa
farpraticasulluogo.
Impressionante. Era la
prima volta che sentivo di
qualcuno che «si metteva
d’impegno» per imparare il
dialetto del Kansai, come
fosse una lingua straniera. A
Tōkyō c’era veramente di
tutto, mi dissi. Mi sentivo
come Sanshirō, l’ingenuo
protagonista dell’omonimo
romanzo di Sōseki che dalla
provincia va a studiare nella
capitale.
– Sono sempre stato un
tifoso degli Hanshin Tigers,
findabambino.Nonmisono
mai perso una loro partita,
quando giocavano a Tōkyō.
Mettevo l’uniforme bianca a
righe nere e andavo a
piazzarmi nella sezione dello
stadioriservataaitifosiospiti.
Ma non c’era niente da fare,
col mio accento di Tōkyō,
appena aprivo bocca nessuno
mi degnava piú di uno
sguardo. Non c’era verso di
farsiaccettarenellacomunità.
Devo imparare il dialetto del
Kansai, ho pensato a quel
punto.Misonorimboccatole
maniche e ho studiato tanto
dasudaresangue.
– E l’hai imparato cosí
bene solo a questo scopo? –
chiesistupefatto.
– Certo. Gli Hanshin
Tigerspermeeranotutto.Da
allora ho sempre parlato nel
dialettodelKansai,siaacasa
che a scuola. Persino quando
parlo nel sonno, parlo nel
dialetto del Kansai, – disse
Kitaru.–Comelotroviilmio
accento,nonèperfetto?
– Assolutamente. Sembri
proprio uno del Kansai, – gli
risposi. – Solo che non è
veramente l’accento dell’area
Hanshin, ma piuttosto quello
di Ōsaka. La parlata
dell’entroterra,insomma.
– Questo lo so. Quando
ero al liceo, durante le
vacanze estive ho fatto una
vacanza studio a Ōsaka, nel
quartierediTennōji.Misono
divertito un casino. Ho
persinofattoungiroallozoo.
– Una vacanza studio? –
domandai.Danoncrederci!
– Già, se mettessi nella
preparazione del concorso lo
stesso ardore che ho messo
nello studio del dialetto del
Kansai, adesso non sarei
rōnin per il secondo anno
consecutivo…–feceKitaru.
Proprio cosí, pensai.
Anche il vizio di fare
un’idiozia e poi darsi del
cretinoeratipicodelKansai.
–Etu?Didovesei?
–DellazonadiKōbe.
–Dove,dipreciso?
–Ashiya.
– Accidenti! I quartieri
alti! Avresti dovuto dirlo
subito, invece di girarci
intorno.
Cercai di spiegargli.
Quando mi chiedevano da
dove venivo, se rispondevo
«daAshiya»lagentepensava
subito che la mia famiglia
fosse ricca. Ma ad Ashiya
c’erano famiglie di ogni
classe sociale. I miei non
erano ricchi. Mio padre era
impiegato in una ditta
farmaceutica, mia madre
segretaria in una biblioteca.
Abitavamo in una casa
piuttosto piccola, la nostra
macchina era una Toyota
Corolla beige. Quindi, se
qualcuno mi chiedeva da
dove venivo, per evitare che
si facesse idee sbagliate,
avevo deciso di rispondere
sempre«dallazonadiKōbe».
– Be’, per me è uguale! –
disse Kitaru. – Abito a
Dennenchōfu, ma nella parte
piúsquallidadelquartiere,se
devo essere sincero. Vieni a
vedere, una volta. Non ci
crederai. «Come è possibile?
Questo
sarebbe
Dennenchōfu?» Ma perché
preoccuparsidicertecazzate?
È solo un indirizzo. Al
contrariodite,ioglielasparo
infaccia:«Allora?Sononato
e cresciuto a Dennenchōfu,
io!»
Lo
ammirai.
E
diventammoamici.
Cisonodiverseragioniper
le quali, dopo essermi
trasferito nella capitale, ho
smessodiparlareneldialetto
diŌsaka.Pertuttigliannidel
liceo, fino all’esame di
maturità, non mi ero mai
espressoinaltromodo.Dopo
aver passato un mese a
Tōkyō, però, mi resi conto,
con un certo stupore, che ne
avevo adottato la parlata con
facilità e naturalezza. Chissà,
forse ho la natura di un
camaleonte. Oppure ho
orecchio per le lingue.
Comunque sia, quando
dicevochevenivodalKansai,
nessunomicredeva.
Unaltromotivochemiha
indottoadabbandonareilmio
dialetto era il desiderio di
diventareun’altrapersona.
Quando sono venuto a
Tōkyō
per
iniziare
l’università, nel treno che mi
portava nella capitale non ho
fatto altro che riflettere e
ripercorrere mentalmente i
miei diciotto anni di vita:
dellamaggiorpartedellecose
chemieranosuccesse,potevo
solo vergognarmi. No, non
sto esagerando. La mia
esistenza era stata un
susseguirsi di idiozie che
preferivo dimenticare. Piú ci
pensavo, piú mi trovavo
detestabile.
Naturalmente
c’era anche qualche ricordo
bellissimo.Alcuneesperienze
pulite,alcunipensierielevati,
li avevo avuti. Lo riconosco.
Ma le cose di cui arrossire,
per le quali potevo solo
prendermilatestafralemani,
erano in numero molto
maggiore.Ancheilmiomodo
di
vedere
la
vita,
ripensandoci, era talmente
banale,talmentelimitato,che
nonvalenemmenolapenadi
parlarne. Un cumulo di idee
privedifantasia,ciarpameda
borghesucci. Roba che avrei
voluto impacchettare e
cacciare in fondo a un
cassetto. Oppure darvi fuoco
e ridurla in cenere – quale
fumo ne sarebbe uscito? In
ogni caso, desideravo solo
sbarazzarmi di tutto quanto e
iniziare a Tōkyō una vita
nuova, da persona nuova.
Sperimentare
nuove
possibilità. Quindi per me
abbandonare il dialetto del
Kansai e adottare un altro
modo di esprimermi era un
mezzo pratico – e al tempo
stesso simbolico – per
arrivarealloscopo.Perchéin
conclusione il linguaggio che
parliamo ci presenta come
persone. Perlomeno, è quello
che pensavo quando avevo
diciottoanni.
– Vergognarti? Di che
cosativergognavitanto?–mi
chieseKitaru.
–Oh,unpo’ditutto…
– Avevi problemi con i
tuoi?
– No, non si può dire che
avessi
dei
problemi.
Comunque mi vergognavo.
Anche solo a stare in loro
compagnia.
– Sai che sei davvero
strano? Perché mai uno
dovrebbe vergognarsi a stare
con i propri famigliari? Io ci
stobenissimo,conimiei.
Non risposi. Non riuscivo
a spiegarmi bene. Né avrei
saputo dire cosa ci fosse di
sbagliato in una Toyota
Corolla beige. In fondo
rivelavasemplicementechela
strada davanti a casa era
stretta,echemiopadreemia
madre non erano persone da
buttaresoldiperleapparenze.
–Tuttiisantigiorniimiei
me ne dicono di tutti i colori
perché non studio, una bella
rottura, credimi, ma che ci
possofare?Èillorocompito.
Non bisogna prendersela
troppoperquestecose.
– Beato te, che te ne
freghi! – dissi sinceramente
ammirato.
–Laragazzacel’hai?–mi
chieseKitaru.
–Almomentono.
–Eprima?
–Sí,finoapocotempofa.
–Visietelasciati?
–Esatto,–risposi.
–Comemai?
– È una lunga storia, in
questo momento non ho
vogliadiparlarne.
– Era una ragazza di
Ashiya?–insistetteKitaru.
– No, non di Ashiya. Era
di Shukugawa. Lí vicino,
insomma.
– Hai fatto tutto, con lei?
C’èstata?
Scossilatesta.
–No,nonhavoluto.
–Èperquestochevisiete
lasciati?
– Anche per questo, –
risposi dopo averci pensato
unpo’.
– Cioè, avete fatto tutto,
trannequello?
–Praticamentequasitutto.
– Sí, ma fin dove siete
arrivati?Concretamente,cioè.
– Non ho voglia di
parlarne.
–Anchequestaèunadelle
cose di cui dici di
vergognarti?
– Esatto, – risposi. Anche
quella era una delle cose che
preferivononricordare.
– Certo che sei ben
complicato, tu! – fece Kitaru
perplesso.
La prima volta che avevo
sentito
Kitaru
cantare
Yesterday nella sua strana
versioneerodavantialbagno
di casa sua a Dennenchōfu.
Né la casa né la zona erano
squallide come pretendeva
lui. Erano normalissime. La
casa era vecchia, ma piú
grande
della
mia.
Semplicemente non si poteva
dire che fosse bella. Per
inciso,
l’automobile
parcheggiata davanti era una
Golf blu penultimo modello.
Appena entrato, lui aveva
voluto farsi il bagno. E non
usciva piú dalla vasca. Cosí
avevo
portato
nello
spogliatoio uno sgabello
rotondo, mi ci ero seduto, e
parlavo con lui attraverso la
portasocchiusa.Erocostretto
arifugiarmilípersfuggireai
discorsi interminabili della
madre,discorsicheandavano
sempre a parare sul fatto che
quel suo figlio strampalato
non studiava. Nella vasca,
Kitarucantavaadaltavoce–
probabilmente per farsi
sentire da me, ma non ne
sono sicuro – quella canzone
cuiavevamessoquelleparole
assurde.
– Ma non significano
niente! – dissi. – A me
sembra soltanto che tu stia
facendoilversoaYesterday.
– Non dire cazzate! Non
sto facendo il verso a niente.
E poi, anche se fosse, a John
dopotutto le cose assurde
piacciono,no?Dicobene?
– Guarda che le parole di
Yesterday le ha composte
Paul.
–Veramente?
– Ne sono sicuro, –
sentenziai. – La musica e le
parolediquellacanzoneleha
composte Paul, è andato da
solo nello studio di
registrazione e l’ha cantata
accompagnandosi
alla
chitarra.Ilquartettod’archiè
stato aggiunto dopo. Gli altri
membridellabandnonhanno
voluto saperne. Perché
trovavano la canzone un po’
troppo«tenera»,periBeatles.
Anchesepoièstataattribuita
alla
coppia
LennonMcCartney.
– Ah. Be’, non sono
eruditocomete.
– Non è che sono erudito
io.Sonocosechesannotutti.
–Senti,chisenefrega,di
questi dettagli… – disse
Kitaru, immerso nell’acqua
calda, in tono noncurante. –
Nel bagno di casa mia canto
quel cavolo che mi pare.
Mica sto pubblicando un
disco… Non violo il diritto
d’autore, non do fastidio a
nessuno.
Piantala
di
criticarmisututto.
Esirimiseacantareconla
sua
voce
robusta,
distrattamente come si fa
nella vasca. Era intonato
anche nelle note alte. «E dir
chefinoaieri|leieraquicon
me…» e avanti cosí. Col
palmo delle mani batteva
sull’acqua
per
fare
l’accompagnamento. Forse
avreifattobeneaunirmialui,
manonneavevovoglia.Fare
discorsi sconclusionati per
un’ora,attraversounaportaa
vetri, con uno che se ne sta
immerso nell’acqua del
bagno, non è che sia proprio
unagoduria.
–Senti,sonosecolichesei
nellavasca.Ormaisaraitutto
raggrinzito!–dissi.
Al contrario di lui, io il
bagno l’ho sempre fatto in
fretta, fin da bambino.
Restare a mollo nell’acqua
calda mi viene subito a noia.
Non si può leggere né
ascoltarelamusica.Epassare
iltemposenzamusicaesenza
librimiriescedifficile.
– Stando nella vasca il
cervello si rilassa, e vengono
buoneidee…
– Buone idee? Tipo le
parole che hai messo a
Yesterday?
– Ecco, tanto per dirne
una,–feceKitaru.
– Saranno anche delle
buone idee, ma se hai tutto
questo tempo, non faresti
meglioastudiaredipiú?
– Ehi! Che rompipalle!
Sembri mia madre. Alla tua
tenera età, non dovresti
mettertiafareprediche.
–Sí,maseigiàalsecondo
annodarōnin,nonseistufo?
– È ovvio che è una
rottura. Figurati se non mi
piacerebbe
entrare
all’università e starmene in
pace, prendermela comoda,
finalmente! E uscire con la
miaragazzaquantomipare.
– Be’, basterebbe che
studiassi con un po’ piú di
impegno.
– Sí, ma vedi… – disse
Kitaru svogliatamente. – Se
potessi,l’avreigiàfattodaun
pezzo.
– L’università è un posto
del cavolo, – feci. – Quando
ci entrerai, rimarrai deluso.
Suquestononcisonodubbi.
Ma se uno non passa da lí, è
moltopeggio.
– È un ragionamento piú
che
valido.
Nessuna
obiezione.
– E allora perché non
studi?
– Perché non sono
motivato.
– Non sei motivato? –
ripetei.–Ildesideriodiuscire
con la tua ragazza non è una
motivazionesufficiente?
–Sí,mavedi…–dissedi
nuovo Kitaru. Poi, dal fondo
della gola, emise un suono a
metàtrailsospiroeilgemito.
– Se mi metto a raccontare,
rischiamo di andare per le
lunghe. Dentro di me c’è
qualcosa, qualcosa come una
scissione…
Kitaru stava con una
ragazza fin dai tempi delle
elementari. Era sempre stata
la sua amica del cuore, per
cosí dire. Avevano la stessa
età, ma lei aveva superato
l’esame di ammissione alla
Sophia
University
e
frequentava il corso di
letteratura francese. Era
membro del club di tennis.
Kitaru mi mostrò la sua
fotografia: era cosí bella che
senza volerlo mi lasciai
sfuggire un fischio. Aveva
anche un bel fisico, e
l’espressione vivace. Adesso
però loro due non si
vedevano. Dopo averne
parlato a lungo, avevano
decisocheerameglioevitare
di incontrarsi finché Kitaru
non
fosse
entrato
all’università, in modo che
potesse
studiare
senza
distrazioni. Era stato lui a
suggerirlo. «Be’, se lo dici
tu…», aveva risposto lei,
dando il suo consenso. Si
sentivano spesso al telefono,
ma si vedevano a malapena
una volta alla settimana, e i
loro incontri non si potevano
veramente definire tali.
Prendevano insieme un tè, si
raccontavano quello che era
successo nel frattempo
all’unoeall’altra.Sitenevano
per mano. Si davano baci
leggeri. Ma evitavano di
andare oltre. Una cosa molto
all’antica,insomma.
Kitaru
non
era
particolarmente
un
bel
ragazzo,maavevalineamenti
fini.Purnonessendoalto,era
snello,vestivaconsemplicità
ebuongusto,avevaunottimo
tagliodicapelli.Acondizione
che stesse zitto, sembrava un
ragazzo sensibile, di buona
famiglia, nato e cresciuto in
una grande città. Accanto a
lei faceva la sua figura. Se
proprio bisognava trovargli
una pecca, con il suo viso
delicato dava l’idea di essere
un debole, un tipo poco
determinato. Ma appena
apriva bocca, quella prima
impressionecrollavacomeun
castello di sabbia sotto le
zampe di un golden retriever
scalmanato. Il suo forte
accento del Kansai e la sua
voce robusta, stentorea,
coglievano tutti di sorpresa.
Stonavano terribilmente col
suo
aspetto.
Anch’io,
all’inizio, davanti a quello
squilibrio
ero
rimasto
confuso.
– Ma senza una ragazza,
nontisentisolo?–michiese
ungiornoKitaru.
–No,nonmisentosolo,–
risposi.
– Ascolta, Tanimura, non
avrestivogliadiuscireconla
miaragazza,percaso?
Non capivo bene cosa
stessecercandodidirmi.
–Uscire?Inchesenso?
– È una ragazza
eccezionale, sai? È bella, ha
un bel carattere, ed è anche
intelligente. Non faresti un
cattivoaffare,auscireconlei,
telogarantisco.
–Nonmiinteressa,chesia
un buon affare o meno, –
dissi, anche se continuavo a
noncogliereilsignificatodel
discorso. – Ma vorrei sapere
perché dovrei uscire con la
tua ragazza. Mi sfugge lo
scopo.
– Perché sei una brava
persona, – disse Kitaru. –
Altrimenti non ti proporrei
unacosadelgenere.
Non era una spiegazione.
Tra il fatto che io fossi una
brava persona, ammesso che
fossevero,elapossibilitàche
uscissi con la ragazza di
Kitaru, non c’era alcuna
relazionedicausaedeffetto.
– Erika (lei si chiama
Erika)eioabbiamofattotutte
le scuole insieme, dalle
elementariallemediealliceo,
– proseguí Kitaru. –
Praticamente, è come se
avessimo passato insieme la
vita intera. Ci è venuto
naturale fidanzarci, e tutti
approvavano. Gli amici, i
nostri
genitori,
gli
insegnanti… Eravamo una
coppia
legatissima,
unitissima, eravamo cosí, noi
due… – Kitaru appoggiò le
mani palmo contro palmo. –
Se avessimo continuato
d’amoreed’accordofinoalla
laurea,saremmovissutifelici
e contenti, ma io ho fatto un
fiascoclamorosoall’esamedi
ammissione, e ora eccomi
ridotto come mi vedi. Cosa
diavolo sia successo non lo
so, ma a poco a poco tante
cose hanno cominciato a non
funzionare. Evidentemente
nonècolpadinessuno,mala
responsabilitàèsolomia.
Ioascoltavoinsilenzio.
–Diconseguenzailmioio
si è per cosí dire spaccato in
due, – proseguí Kitaru,
separandoipalmidellemani.
Ilsuoiosieraspaccatoin
due?
–Inchesenso?–chiesi.
Kitarurimaseunmomento
in silenzio a osservarsi il
palmodellemani.
– Cioè, una parte di me è
terribilmente in ansia, –
riprese poi. – Mentre io
frequento
quel
corso
preparatorio del cavolo e
preparo quell’esame del
cavolo, Erika si gode la vita
universitaria. Va a giocare a
tennis,fadituttoedipiú.Siè
fatta dei nuovi amici, e
magari esce anche con un
altro. Quando mi nascono
questi pensieri, all’idea che
solo io vengo lasciato
indietro, mi sento andare il
cervello in fumo. Capisci
quellocheprovo?
–Sí,certo,–risposi.
– Un’altra parte di me,
però, al contrario si sente
sollevata. Insomma, se noi
due avessimo continuato ad
avanzareinsiemenellanostra
facile vita, senza problemi,
senza fare sbagli, dove ci
avrebbe portato tutto questo?
Non è meglio provare per un
certo periodo a percorrere
strade separate? Se poi ci
accorgiamo che abbiamo
bisogno l’uno dell’altra, a
quel punto possiamo tornare
insieme. Non faccio che
pensare che dovremmo avere
questapossibilitàdiscelta.Lo
capisciquesto?
–Sí,misembradicapirlo,
ma non ne sono sicuro, –
risposi.
– Insomma: prendere la
laurea, trovare un lavoro,
sposare Erika, diventare con
la benedizione di tutti una
coppia ben assortita, fare un
paiodibambini,mandarlialla
scuola
elementare
di
Dennenchōfucheconosciamo
come le nostre tasche, la
domenicaandaretuttiinsieme
a divertirci sulle rive del
fiume Tama, e obladí
obladà… certo, non si può
direchesarebbeunoschifodi
esistenza. Eppure non so, ho
ildubbiochepassareunavita
cosí – una vita facile,
piacevole, senza intoppi –
nonsiaproprioilmassimo.
– Cioè, il problema
sarebbe questo? Passare una
vita facile e senza intoppi? È
questochevuoidire?
–Sí,piúomeno.
Di nuovo non capivo:
quali problemi avrebbe
comportato una vita del
genere?Maperevitarecheil
discorso andasse per le
lunghe,
evitai
di
approfondire.
– D’accordo, ammettiamo
purechesiacosí.Maiocosa
c’entro?Perchélatuaragazza
dovrebbe uscire con me? –
domandai.
–Be’,sedevemettersicon
un altro, meglio che sia tu.
Perché ti conosco bene. E ti
potrei chiedere di lei, sapere
cosadice,cosafa…
Il discorso non stava in
piedi, ma l’idea di incontrare
la sua fidanzata era molto
allettante. A giudicare dalla
foto era di una bellezza
mozzafiato, e mi interessava
sapere perché una ragazza
cosí si fosse messa con uno
squinternato come Kitaru,
cosamaitrovasseinlui.Sono
semprestatopiuttostotimido,
mamoltocurioso.
– E con lei, fino a che
puntoseiarrivato?–chiesi.
–Nelsesso,vuoidire?
– Sí, ovvio. Avete fatto
tutto?
Kitaruscosselatesta.
– No, escluso. Ci
conosciamo fin da bambini,
quindi toglierle i vestiti,
toccarla,carezzarla…nonso,
sono cose che mi mettono in
imbarazzo. Con un’altra
ragazza sarebbe diverso,
credo, ma con lei, già solo
immaginare di infilarle una
mano nelle mutande o roba
del genere mi sembra brutto.
Locapisci,no?
No,noncapivoaffatto.
–
Naturalmente
ci
baciamo, ci teniamo per
mano. Le carezzo il seno da
sopraivestiti.Masempreun
po’ per scherzo, quasi per
ridere… Ci eccitiamo, ma la
cosa finisce lí, nessuno dei
due sembra voler andare
oltre.
–Be’,sietevoicheinuna
certa misura dovete sforzarvi
di alimentare una corrente, –
dissi. Quella che di solito si
chiamadesideriosessuale.
–No,tisbagli.Nelnostro
caso è diverso. Cioè… Non
so spiegarmi bene, – fece
Kitaru, – ma ad esempio,
quandounosimasturba,deve
pensare concretamente a una
ragazza,no?
–Be’,sí…–dissi.
– Ecco, io non riesco
assolutamente a pensare a
Erika. Se lo facessi, ho
l’impressione
che
non
funzionerebbe. Quindi penso
aqualchealtra.Magariauna
chenonmipiacepiúditanto.
Secondoteperché?
Ci pensai un po’ su, ma
nonriusciiatrovarenullache
assomigliasse
a
una
spiegazione. Cosa ne sapevo
iodelmododimasturbarsidi
un altro? Ci capivo poco
persinodelmio.
– Senti, perché non ci
vediamo tutti e tre insieme,
unavolta?Tantoperprovare,
– propose Kitaru. – Poi ci
potrairiflettereconcalma.
Kitaru,lasuaragazza(che
sichiamavaKuritaniErika)e
io ci incontrammo il
pomeriggio della domenica
seguente, in un caffè vicino
allastazionediDennenchōfu.
Erika era alta piú o meno
come Kitaru, abbronzata,
indossava una camicetta
biancaamanichecortestirata
alla perfezione e una
minigonna blu. La tipica
ragazza di buona famiglia
nata e cresciuta nei quartieri
alti, e iscritta a un’università
femminile. Era bellissima,
come sulla fotografia, ma a
vederla di persona, piú che
l’avvenenza del viso, quello
che attirava in lei era una
sorta di franca energia vitale
che emanava da tutta la sua
persona. L’esatto opposto di
Kitaru, insomma, che invece
dava un’impressione di
evanescenza.
Kitaru
fece
le
presentazioni.
–SonocontentacheAkisi
sia fatto un amico, – disse
Erika. Il nome proprio di
KitarueraAkiyoshi.
–Cheesagerazione!Neho
un sacco, di amici, – obiettò
lui.
– Non è vero, – disse
freddamente Erika. – Come
potresti farti degli amici?
Basta guardarti! Ti esprimi
nel dialetto del Kansai
nonostante tu sia di Tōkyō, e
apri bocca solo per parlare
degli Hanshin Tigers e di
shōgi,sembrachetulofaccia
apposta. Uno fuori di testa
come te non può andare
d’accordo con le persone
normali!
– Guarda che a proposito
di gente fuori di testa, anche
luinonscherza,sai?–ribatté
Kitaru indicandomi. – Pensa
che viene da Ashiya, e parla
comequellidiTōkyō.
– Be’, a me sembra una
cosa piuttosto normale. Piú
normale che non il contrario,
perlomeno.
– Ehi, questa si chiama
discriminazione culturale! –
disse Kitaru. – Tutte le
culture si equivalgono. Non
puoidirecheillinguaggiodi
Tōkyō sia meglio di quello
delKansai.
– Senti, si equivarranno
pure, ma dalla Restaurazione
Meiji in poi, il linguaggio di
Tōkyō
è
diventato
grossomodo il giapponese
standard, – disse Erika. – Se
vuoi una prova, non esiste
una traduzione nel dialetto
del Kansai di… di Franny
and Zooey di Salinger, ad
esempio.
– Se la pubblicano, la
comprosubito,–feceKitaru.
Anch’io l’avrei comprata,
probabilmente, ma non lo
dissi.
Meglio
evitare
interventiestemporanei.
– Ad ogni modo, quello
che ti sto dicendo è solo
comune buonsenso. Nel tuo
cervello c’è una strana
distorsione.
– Una strana distorsione?
Cosasignifica?Amesembra
che
la
discriminazione
culturale sia una distorsione
ben piú pericolosa, – ribatté
Kitaru.
Evitandoprudentementedi
avanzare su quel terreno,
Erika decise di cambiare
argomento.
– Nel mio club di tennis
c’è una ragazza di Ashiya,
sai?–disserivoltaame.–Si
chiama Sakurai Eiko. La
conosci?
–Sí,laconosco,–risposi.
SakuraiEiko.Eraunaragazza
alta e allampanata, con un
naso dalla forma strana, i cui
genitori gestivano un vasto
campodagolf.Selatiravaed
era poco simpatica. Piatta
comeun’assedastiro.Soloa
tennis era brava, fin da
bambina,
tanto
che
partecipava
a
tornei
importanti.
Possibilmente,
avrei fatto volentieri a meno
dirivederla.
– Senti, lui è un tipo a
posto, solo che in questo
momentononhalaragazza,–
disse Kitaru a Erika. Si
riferiva a me. – Certo
fisicamente non è granché,
ma è beneducato e al
contrario di me non ha idee
strampalate. Conosce un
sacco di cose e legge libri
impegnati. Non sembra un
contaballe e non mi pare che
abbia brutte malattie. È quel
che si dice un giovane di
bellesperanze,insomma.
–Okay,–risposeErika.–
Nel mio club ci sono diverse
nuoveiscrittemoltocarine,te
nepossopresentarequalcuna.
–No,no.Nonèquestoche
ti chiedo, – fece Kitaru. –
Perchénonciescitu,conlui?
Io sono ancora rōnin, come
faccioastareconte?Diciamo
che potrebbe prendere il mio
posto. Sono sicura che ti
troveresti bene, a uscire con
lui. E io mi sentirei piú
tranquillo.
– Piú tranquillo? Cosa
vuoidire?–chieseErika.
– Be’, vi conosco tutti e
due,quindisareipiúcontento
di saperti con lui, piuttosto
che con uno che non ho mai
visto.
Erika strinse un po’ gli
occhi e guardò in faccia
Kitaru come se osservasse il
quadrodiunpaesaggioincui
il senso della prospettiva
fossesbagliato.Poipronunciò
lentamentequesteparole:
– Mi stai dicendo che
dovrei mettermi con lui, con
Tanimura? Mi stai esortando
a stare con lui, come una
donna sta con un uomo cioè,
perché «è un tipo a posto»?
Staiparlandosulserio?
– Be’, non è poi una
cattiva idea, no? Perché, stai
già con qualcun altro, per
caso?
– No. Non sto con
nessuno,–disseErikaintono
pacato.
– Allora faresti bene a
metterti con lui! Sarebbe una
specie di scambio culturale,
diciamocosí.
–Unoscambioculturale,–
ripeté Erika. Poi si voltò a
guardarmi.
Consapevole
che
qualunque cosa avessi detto
avrei solo peggiorato la
situazione,preferiistarezitto.
Finsi di osservare con
interesse il cucchiaino da
caffè che tenevo in mano.
Neanche fossi un archeologo
allo studio di un reperto
trovato in un’antica tomba
egizia.
– Cosa intendi con
«scambioculturale»?–chiese
ErikarivolgendosiaKitaru.
– Be’, considerare le cose
da una prospettiva un po’
diversa, accettare punti di
vistanuovi…Pernoiduenon
sarebbe affatto una cosa
negativa,noncredi?
– Questa sarebbe la tua
ideadiscambioculturale?
– Sí, ma quello che vorrei
dire…
– Benissimo! – decise
Erika. Se avesse avuto a
portata di mano una matita,
l’avrebbe di sicuro spezzata
in due. – Visto che lo
suggerisci, diamoci pure a
questo scambio culturale –.
Poibevveunsorsoditè,posò
latazzasulpiattino,esivoltò
versodime.Sorrise.
– Allora, Tanimura. Visto
che Aki, qui, si è tanto
impegnato per combinare
questacosa,laprossimavolta
usciamo solo in due, tu e io.
Saràbellissimo!Quandotiva
bene?
Non
sapevo
cosa
rispondere. Non trovare le
parole adatte nei momenti
critici è uno dei miei
problemi. Avevo cambiato
città e modo di parlare, ma
noneroriuscitoaliberarmidi
queldifettodibase.
Erika prese dalla borsa
un’agendina di pelle rossa e
la sfogliò per controllare i
suoiimpegni.
–Questosabatoseilibero?
–michiese.
– Sí, per sabato non ho
programmi,–dissi.
– Perfetto, allora è deciso.
Sabato. Dove potremmo
andare,noidueinsieme?
– A lui piace il cinema, –
intervenneKitaru.–Sognadi
scrivere sceneggiature di
film, in futuro. Si è pure
iscrittoaungruppochestudia
sceneggiatura.
– Ottimo, allora andiamo
al cinema. Che cosa
potremmo vedere? Be’,
deciditu.Amenonpiacciono
i film horror, ma a parte
quelli,mivatuttobene.
– Figurati che lei si
spaventapernulla,–midisse
a quel punto Kitaru. – Una
volta, da bambini, al luna
park, nella casa dei fantasmi
per tutto il tempo mi ha
tenutolamano…
– E dopo il film, – lo
interruppe Erika, – possiamo
cenare insieme tranquilli da
qualche parte –. Proferite
lentamente quelle parole,
scrisse il suo numero di
telefono su un notes, strappò
il foglietto e me lo porse. –
Questo è il mio numero.
Quando hai deciso il posto e
l’ora dell’appuntamento, mi
chiami?
Io all’epoca non avevo il
telefono
(vorrei
che
comprendeste che tutto
questo accadeva quando i
cellulari non esistevano
nemmeno nella fantasia),
quindi le diedi il numero del
caffè dove lavoravo. Poi
gettai un’occhiata al mio
orologio.
– Scusatemi, ma ora devo
andare, – dissi, cercando di
assumere il tono piú
disinvolto. – Devo terminare
unarelazioneentrodomani.
– Ma cosa te ne frega, di
quella roba? – fece Kitaru. –
Vistochesiamoquituttietre,
stiamoancoraunpo’insieme
a parlare. Qui vicino c’è un
postodovefannodegliottimi
soba…
Erikanonsipronunciò.Io
posai sul tavolino quel che
dovevo per il mio caffè e mi
alzai.
– Scusate, ma è una
relazionemoltoimportante,–
farfugliai. Anche se in realtà
nonloeraaffatto.–Domanio
dopodomanitichiamo,–dissi
aErika.
–Aspettolatuatelefonata,
– rispose lei, facendomi un
bellissimosorriso.Fintroppo
affabile per essere sincero,
pensai.
Dopoaverlasciatoglialtri
due nel caffè, mentre
camminavoversolastazione,
continuavo a chiedermi cosa
diavolo ci facessi in quel
posto.Ancherimuginaresulle
decisioni prese era uno dei
mieiproblemi.
Il sabato succesivo, con
Erika ci incontrammo a
Shibuya e andammo insieme
a vedere un film di Woody
Allen ambientato a New
York. Perché dopo aver
parlato un poco con lei, mi
ero fatto l’idea che Woody
Allen le sarebbe piaciuto.
Inoltre pensavo che Kitaru
non era il tipo da portarla a
vedere quel genere di film.
Per fortuna ci avevo
azzeccato, uscimmo dal
cinema tutti e due soddisfatti
e di buonumore. Ormai era
sera. Dopo una breve
passeggiata nel quartiere di
Sakuragaoka,entrammoinun
ristorantinodovemangiammo
una pizza e bevemmo del
Chianti.Unpostoallabuona,
nonmoltocaro.Lelucierano
basse, su ogni tavolo c’era
unacandelaaccesa(all’epoca,
nella maggior parte dei
ristoranti italiani si cenava a
lumedicandela,eletovaglie
eranoaquadri).Parlammodi
tante cose, del film appena
visto,dellenostregiornateda
studenti, dei nostri interessi.
Il genere di conversazione
chepossonoavereunragazzo
e una ragazza al secondo
anno di università la prima
voltacheesconoinsieme(per
cosídire).Ilnostrodialogofu
piú vivace di quanto avessi
previsto, lei rise di gusto
diverse volte. So che non
spetta a me dirlo, ma ho un
vero talento per far ridere le
ragazze.
– Ho saputo da Aki che ti
seiseparatodapocodallatua
ragazza,conlaqualestavifin
daitempidelliceo,–midisse
Erika.
– Sí, – risposi. – Siamo
stati insieme quasi tre anni,
ma alla fine non ha
funzionato.Peccato,però.
– Aki mi ha detto che vi
siete lasciati per problemi di
sesso. Cioè… Insomma, lei
non ti dava quello che tu
volevi?
– È stata una delle cause.
Ma non l’unica. Se l’avessi
amata
davvero,
profondamente, avrei portato
pazienza. Se avessi avuto la
certezza
di
esserne
innamorato, insomma. Ma
nonloero.
Erikaannuí.
–Ancheseavessimofatto
tutto, sarebbe finita allo
stesso modo. Quando sono
venuto a Tōkyō, con la
distanza,apocoapocomene
sono reso conto. Certo è un
peccato che sia andata cosí,
maerainevitabile,credo.
– Ed è stato difficile, per
te?
–Inchesenso?
– Cioè, ritrovarti solo,
tutt’auntratto.
– In certi momenti sí, –
risposisinceramente.
–Forse,però,dagiovaniè
necessario fare qualche
esperienza dolorosa, passare
qualchemomentodifficile.In
una certa misura. È un modo
percrescere,no?
–Èquellochepensi?
–Sí.Ècomeperglialberi.
Per diventare alti e robusti,
hanno bisogno di resistere a
un inverno lungo e rigido. In
un clima mite, mai troppo
freddo,iltroncononpotrebbe
formare un anello dopo
l’altro.
Provai a figurarmi gli
anelli che si erano formati
dentro di me. L’unica
immagine che mi apparve fu
quella di una fetta di
Baumkuchen vecchio di tre
giorni. Quando glielo dissi,
leirise.
– È vero, forse le persone
hanno anche bisogno di
attraversare un periodo duro,
–aggiunsi.–Acondizionedi
saperecheprimaopoifinirà.
Dinuovoleirise.
–Tranquillo,–midisse.–
Ora che ti conosco un po’,
sono sicura che presto
troveraiunabravaragazza.
– Magari, – risposi. Già,
magari.
Per qualche minuto Erika
rimase in silenzio, stava
riflettendo. Nel frattempo io
mangiavolamiapizza.
– Senti, vorrei parlarti di
una cosa. Hai voglia di
ascoltarmi?–michiesepoi.
–Naturalmente,–dissi.Ci
risiamo, pensavo intanto, si
sta mettendo male. Sentirmi
chiedereconsigliosuqualche
questione grave da gente
appena conosciuta era un
altro dei miei problemi.
Inoltre qualcosa mi diceva –
leprobabilitàeranoalte–che
Erika stava per tirar fuori un
argomento
non
particolarmentepiacevoleper
me.
– In questo momento ho
moltidubbi,–esordílei.
I suoi occhi si mossero
lentamente da destra a
sinistra, come quelli di un
gatto che stia cercando
qualcosa.
– Di sicuro ti sarai reso
conto anche tu che Aki,
nonostante sia già al suo
secondo anno da rōnin, non
sta affatto studiando per
l’esame di ammissione. Al
corso preparatorio ci va
quando ne ha voglia. Di
conseguenza non lo passerà
nemmeno questa volta, ci
puoi
scommettere.
Naturalmente, se mirasse a
un’università di livello piú
basso, da qualche parte
riuscirebbe a entrare, ma non
so perché, lui ha in mente
solo Waseda. È convinto che
Waseda sia l’unica opzione.
A me pare un’idea del tutto
senza senso, ma qualsiasi
cosa gli dica, qualsiasi cosa
glidicanoisuoigenitoriegli
insegnanti, da quell’orecchio
noncisente.Maalloraperché
non si mette a studiare sul
serio,perchénonsiimpegna?
Invecenonfaunbelniente.
– Secondo te perché non
studia?
– Perché è convinto che
per passare un esame di
ammissione basta avere
fortuna, – disse Erika. – Per
lui preparare un concorso
equivaleasprecareilproprio
tempo, a dissipare la propria
vita.Nonriescoacapiredove
sia andato a pescare un’idea
tanto assurda, c’è da non
crederci.
Anchequelloeraunpunto
di vista, pensai, ma
naturalmente me lo tenni per
me.
Erikafeceunsospiro.
– Alle elementari, –
proseguí, – studiava, era
bravissimo. Era sempre fra i
primi della classe. Ma dalle
medieinpoihacominciatoa
prendere
voti
sempre
peggiori, era come se
scivolasse giú per una china.
Ha un lato geniale, ed è
intelligente,manonèportato
perlostudiometodico,nonè
nel suo carattere. Non è
adatto al sistema-scuola, fa
solo quello che gli pare, fa
sempre di testa sua. È
l’opposto di me. Io non sono
tanto intelligente, ma studio
con
diligenza,
con
perseveranza.
Per
quel
che
mi
riguardava,
non
avevo
passatomoltotemposuilibri,
ma ero entrato all’università
senza
problemi.
Probabilmente avevo solo
avutofortuna.
– Io ad Aki voglio bene.
Ha tanti lati bellissimi, come
persona. Ma a volte trovo le
sueideeeccessive,nonriesco
aseguirlo.Prendiquestacosa
deldialetto.Perchéqualcuno,
nato e cresciuto a Tōkyō,
deve sforzarsi di parlare nel
dialetto del Kansai? Non ha
senso.All’iniziopensavoche
lofacessepergioco,manonè
cosí. Fa sul serio, e lo
proclama.
– Può darsi che volesse
cambiare,
che
volesse
diventare una persona nuova,
–dissi.Insomma,chefacesse
il mio stesso percorso, in
sensoinverso.
– E a questo scopo deve
parlare sempre e solo nel
dialettodelKansai?
–Già,èverocheèun’idea
unpo’eccessiva.
Erika prese in mano una
fettadipizzaeneaddentòun
pezzo delle dimensioni di un
francobollo. Lo masticò a
lungoconconsiderazione,poi
disse:
– Senti, Tanimura, se ne
parloate,diquestacosache
sto per dirti, è perché non
saprei a chi altri parlarne. Ti
secca?
– No, affatto, – risposi.
Chesceltaavevo?
– In genere, quando due
ragazzi stanno insieme da
tanto tempo, di solito lui
desiderafisicamentelei,no?
– Be’, sí, in genere credo
chesiacosí.
– Dopo averla baciata,
dovrebbe cercare di spingersi
oltre,no?
– Sí… cioè, normalmente
èquellochesuccede.
–Succedevaancheate?
–Certo.
– Ad Aki invece no. Lui
noncercamaidiandareoltre
i baci, nemmeno quando
siamosoli.
Ci misi un po’ di tempo
per trovare una risposta
sensata,leparoleadatte.
– Ma è una cosa che
cambia da individuo a
individuo, ognuno di noi
desidera cose diverse. Kitaru
ti ama, è ovvio, ma forse la
tua presenza per lui è troppo
familiare, troppo ovvia, ed è
per questo che il suo
sentimento non si sviluppa
nella direzione che ci si
aspetterebbe.
–Lopensiveramente?
– Non è che ne sia sicuro
al cento per cento, – dissi
scuotendo la testa. – Perché
non
ho
mai
avuto
un’esperienza simile. Dico
soloche«magarièquelloche
stasuccedendo».
–Avoltemichiedoselui
midesideridavvero.
– Figurati se non ti
desidera! Semplicemente si
vergognaadammetterlo.
– Ma abbiamo tutti e due
vent’anni!Noncisidovrebbe
piú vergognare, alla nostra
età.
– Forse il tempo trascorre
in modo diverso per ognuno
dinoi,–dissi.
Erikacipensòsu.Quando
rifletteva su qualcosa, lo
faceva con concentrazione,
senzadistrarsi.
– Forse lui, nel suo modo
particolare,
unico,
sta
seriamente
cercando
qualcosa, – proseguii. – In
maniera pulita, onesta, con i
suoi tempi. Però ancora non
sabenecosa.Diconseguenza
non riesce a progredire in
armonia con tutto quello che
lo circonda. Quando non si
hanno le idee chiare, la
ricerca diventa qualcosa di
estremamentedifficile.
Erika alzò il viso e per
qualche secondo mi guardò
dritto negli occhi, senza
parlare.Nellesueiridinerela
fiamma
della
candela
accendeva
due
punti
luminosi. Non riuscii a
sostenereilsuosguardo,tanto
erabello.
– Naturalmente tu lo
conosci molto meglio di me,
– dissi con l’aria di
giustificarmi.
Leifeceunaltrosospiro.
– Senti, – disse poi, –
voglio dirti la verità: oltre ad
Aki, ho un altro. Un ragazzo
del mio stesso club di tennis,
unodelterzoanno.
Questa volta fui io a
restareinsilenzio.
– Ad Aki voglio molto
bene. Non credo che potrei
nutrire per un altro il
sentimento
profondo
e
istintivo che ho per lui. Stare
lontana da Aki mi addolora,
fisicamente,miprovocadelle
fitte nel petto. Come quando
si ha un dente cariato. Sul
serio. Una parte del mio
cuore gli appartiene. Al
tempo stesso, però… al
tempostessoc’èinmeilforte
desiderio di conoscere altro,
di provare altro. Chiamala
curiosità,ovogliadimettermi
allaprova…Eanchequestoè
qualcosa di molto naturale,
che non potrei reprimere
nemmenovolendo.
Come una pianta robusta
che non si riesce a contenere
inunvaso,pensai.
– Quando dico che sono
confusa, intendo proprio
questo.
–Intalcaso,èmeglioche
neparliapertamenteaKitaru,
–
risposi
scegliendo
attentamente le parole. – Se
gli nascondi che ti vedi con
un altro, e per qualche
ragione lui lo viene a
sapere… be’, gli farai
veramenteunabruttacosa,ne
resteràferito.
– Ma credi che lui possa
accettarlo?Ilfattocheiostia
conunaltro,cioè?
–Sí,credochesiaingrado
dicapirequellocheprovi…
–Lopensidavvero?
–Be’,sí,però…
Kitaru
probabilmente
poteva
comprendere
i
vacillamenti e le esitazioni
che turbavano il cuore di
Erika. Perché li conosceva
anchelui.Inquelsenso,quei
due avevano senza dubbio
molto in comune. Tuttavia
non ero affatto sicuro che
riuscisse a digerire senza
problemi quello che lei stava
– forse – facendo. Da quel
che potevo giudicare, Kitaru
non era una persona molto
forte. Ma probabilmente
avrebbe sopportato ancora
meno che lei gli nascondesse
qualcosa,ocheglimentisse.
Erikaosservòinsilenziola
fiamma della candela che
tremolava al soffio d’aria
proveniente
dal
condizionatore.
– Faccio spesso un sogno,
– disse a un certo punto. –
Sono con Aki su una nave.
Una grande nave che fa una
lunga traversata. È notte
fonda, noi siamo nella nostra
piccola cabina, e dall’oblò
vediamo in cielo la luna
piena. Ma è una luna fatta di
ghiacciotrasparente.Lametà
inferioreèimmersanelmare.
«Quellasembralaluna,main
realtà è un pezzo di ghiaccio
spesso forse venti centimetri,
– mi spiega lui. – Domani
mattina, quando si leverà il
sole, si scioglierà. Quindi
guardala bene adesso, finché
la puoi vedere». È un sogno
che ho fatto e rifatto non so
quantevolte.Unsognomolto
bello. La luna è sempre la
stessa. Lo spessore pure,
venti centimetri. La metà
inferioreèimmersanelmare.
Io sono appoggiata contro
Aki e la luna splende,
stupenda.Siamonoiduesoli,
il rumore delle onde è
piacevolissimo.
Eppure
quando mi sveglio provo
sempre una gran tristezza.
Perchélalunadighiaccionon
èpiúvisibile.
Erikafeceunapausa.
– Se Aki e io potessimo
restare indefinitamente cosí,
noi due soli su quella nave,
sarebbe meraviglioso. Ogni
sera ci stringeremmo l’uno
all’altra e guarderemmo la
luna di ghiaccio dall’oblò. Il
mattino
la
luna
si
scioglierebbe, ma la sera
apparirebbedinuovo.Oppure
no. Forse una sera non la si
vedrebbe
piú.
Questo
pensiero mi spaventa. Mi
chiedo che sogno farò
domani, e provo una paura
tale che sento il mio corpo
contrarsitutto.
Il giorno dopo, quando
incontrai Kitaru nel caffè
dove lavoravo, lui mi chiese
subito com’era andata con
Erika.
–L’haibaciata?
– No, figurati! Perché
avreidovutofarlo?–risposi.
–Micamelaprendo,sai?
– Comunque sia, non l’ho
baciata.
–Malehaitenutolamano
fraletue…
–No,neanchequello.
–Alloracos’avetefatto?
– Siamo andati al cinema,
abbiamo
passeggiato,
abbiamo cenato insieme,
parlato.
–Tuttoqui?
– Di solito, la prima volta
chesiesceinsieme,micasifa
niente.
– Ah, davvero? – fece
Kitaru. – Sai, non ho molta
esperienza in questo campo.
Nonnesogranché.
–Peròsonostatobenecon
lei. Se fosse la mia ragazza,
non mi staccherei mai da lei,
mai,innessuncaso.
Kitaruriflettéunmomento
sulle mie parole. Stava per
dire qualcosa, poi cambiò
ideaeselotennepersé.
–Ecos’avetemangiato?–
chiesepoi.
Gli raccontai della pizza e
delChianti.
–PizzaeChianti?–Kitaru
pareva sorpreso. – Non
sapevo che le piacesse la
pizza. Con lei andiamo
sempre a mangiare soba o
roba del genere. In posti a
menu fisso. Ah, cosí le piace
il vino? Non sapevo
nemmeno che reggesse
l’alcol.
Kitarueraastemio.
–Cisonotantecosedilei
chenonconosci,–dissi.
SurichiestadiKitaru,feci
un resoconto dettagliato
dell’incontro. Voleva sapere
tutto: com’era il film di
Woody Allen che avevamo
visto (dovetti raccontare per
filo e per segno persino la
trama),ilristorante(aquanto
era il menu fisso? Avevamo
pagato metà per uno?),
com’era vestita lei (aveva un
abito di cotone bianco, e i
capelli tirati su), che
biancheria intima aveva
addosso
(come
potevo
saperlo?), di cosa avevamo
parlato… Naturalmente non
glidissichesieramessacon
uno un po’ piú grande di lei.
E nemmeno del sogno in cui
apparivaunalunadighiaccio.
– Vi siete accordati per
incontrarvidinuovo?
–No.
–Perché?Leinontipiace?
–Anzi,latrovofantastica.
Manonèunacosachepossa
continuare. È la tua ragazza,
no? Di baciarla proprio non
melasento.Anchesenonhai
nullaincontrario,comedici.
Di nuovo Kitaru ci pensò
unpo’su.
– Sai, verso la fine della
scuola media, ho cominciato
ad andare periodicamente
dallo psicologo. Sono stati i
miei genitori a volerlo, e
anchegliinsegnanti.Perchéa
scuola creavo problemi.
Insomma, dicevano che non
ero«normale».Manonèche
andaredallopsicologomisia
servito a qualcosa, non mi
pare proprio. Quelli se la
tirano tanto, ma sono una
manica di cialtroni. Se basta
ascoltarelagentedicendo«sí,
sí…»efacendofintadicapire
tutto,sonobuonoanch’io.
– Ci vai ancora, dallo
psicologo?
– Sí, circa due volte al
mese. Tanto varrebbe buttare
i soldi nel cesso. Non te l’ha
detto,Erika?
Scossilatesta.
– Sinceramente, non
capisco perché tutti trovino
che nel mio cervello c’è
qualcosa che non va. A me
sembra di fare cose
normalissime
in
modo
normalissimo. Invece mi
sento sempre ripetere che
sonostrano.
– Be’, è vero che ci sono
aspetti un po’ insoliti, nella
tuapersonalità,–dissi.
–Adesempio?Quali?
–Adesempio,’stacosadi
parlare nel dialetto del
Kansai. Fin troppo bene, per
esserediTōkyō.
Kitaru riconobbe che su
questoavevoragione.
– Lo ammetto, è un po’
fuoridell’ordinario.
– È una cosa che può
anchedarefastidio.
–Sarebbeadire?
–Be’,lagentenormaledi
solitononarrivaatanto.
–Sí,puòessere…
– Però, da quel che posso
vedere io, per quel che ne so
io, in realtà non rompi le
scatole a nessuno, anche se
faicosestrampalate.
–Peradesso.
– E allora dov’è il
problema? – sbottai. In quel
momento ero forse un po’
irritato (ma non so bene con
chicel’avessi),emirendevo
conto di parlare in tono
brusco. – Cosa c’è che non
va? Se «per adesso» non dai
fastidio a nessuno, non è
sufficiente? O pensi che
possiamo
capire
qualcos’altro, al di là di
quanto succede ora? Se vuoi
parlare nel dialetto del
Kansai, fallo! Fallo quanto
vuoi,finoacreparne!Senon
vuoi studiare per l’esame di
ammissione, non studiare. Se
non vuoi infilare la mano
nelle mutande di Erika,
nessuno ti obbliga. È la tua
vita. Fai quel cavolo che ti
pare! Cosa te ne frega di dar
fastidioaglialtri!
Impressionato, Kitaru mi
guardavaaboccaaperta.
– Sei davvero un tipo a
posto, tu, Tanimura, – mi
disse.–Ancheseognitantoti
comporti in modo un po’
tropponormale.
–Noncipossofareniente,
– risposi. – Non posso
cambiarmiilcarattere.
– Hai ragione. Il carattere
non lo si può cambiare. È
esattamentequellochevoglio
dire.
– Sí, però Erika è una
ragazzafantastica.Econtefa
sul serio. Cerca di non
lasciartela
scappare,
qualunque cosa accada.
Perché una cosí non la trovi
piú.
– Lo so. Lo so bene. Ma
saperlo non mi basta, non mi
serveaniente.
–Be’,tutelacantietela
suoni!
Due settimane dopo,
Kitaru lasciò il lavoro al
caffè. Tutt’a un tratto non si
fece piú vedere, senza dare
alcun preavviso. In quel
periodoc’eramoltodafare,e
il padrone del locale era
furibondo.
«Un
bell’incosciente, quello lí!»,
sbraitava. Kitaru non tornò
neancheperfarsidarelapaga
dell’ultima settimana. Il
padrone mi chiese se sapessi
dove abitava, ma io dissi di
no. Era la verità, non
conoscevo né il suo numero
ditelefono,néilsuoindirizzo
esatto. Avrei saputo ritrovare
la sua casa a Dennenchōfu, e
avevoilnumerodiErika,ma
eratutto.
Kitaru non mi aveva
messo al corrente della sua
intenzione di lasciare il
lavoro, e anche dopo non si
fece sentire. Scomparve
completamentedallamiavita.
E io ci rimasi molto male.
Credevo che mi fosse
veramente amico, e il fatto
chemiavessepiantatoinasso
con tanta facilità era duro da
mandargiú.All’infuoridilui,
aTōkyōnonavevofattoaltre
amicizie.
Unacosaperòmidavada
pensare: negli ultimi due
giorni Kitaru era diventato
stranamente taciturno. Anche
quando ero io a parlargli,
spesso non rispondeva. Poi
era sparito cosí, di punto in
bianco.
Avrei
potuto
telefonareaErikaechiederle
dilui,maperqualcheragione
non mi andava di farlo. Che
se la vedessero tra di loro,
quei due, non erano affari
miei. Questo pensavo. Non
volevo essere coinvolto oltre
nella
loro
complessa
relazione, non mi pareva una
cosa sana. Bene o male,
dovevo continuare a vivere
nel
piccolo
mondo
insignificante
appartenevo.
cui
Capii subito che era lei,
Kuritani Erika. L’avevo vista
solo due volte in vita mia, e
dall’ultima erano passati
sedicianni.Eppureerosicuro
di non sbagliarmi. Aveva
ancora un viso espressivo e
vivace,eraancorabellissima.
Indossava un vestito di pizzo
nero, scarpe nere dai tacchi
alti,ealcolloflessuosoaveva
duefilidiperle.Ancheleimi
riconobbesubito.Laincontrai
aunadegustazionediviniche
aveva luogo in un albergo di
Akasaka. Trattandosi di un
party
formale,
anch’io
indossavo un abito scuro e
avevo messo la cravatta. Se
dovessi spiegare perché mi
trovassi in un posto del
genere, andrei per le lunghe.
Lei faceva parte dell’agenzia
pubblicitaria che aveva
sponsorizzato l’evento, della
cui realizzazione era la
responsabile. E a quanto
pareva, aveva lavorato molto
bene.
–Perchédopoquellavolta
non mi hai piú chiamata,
Tanimura? – mi chiese. –
Avrei voluto parlarti ancora
ditantecose.
–Perchéeriunpo’troppo
bellaperme.
Leisorrise.
– Fa piacere sentirselo
dire,ancheseèunalusinga.
– Non ho mai fatto
lusingheinvitamia.
Il suo sorriso si accentuò.
Però io avevo detto la verità,
non era mia intenzione
lusingarla. Erika era troppo
bella perché io potessi
pensare
seriamente
a
mettermi con lei. Sia
all’epoca, sia ora. Inoltre il
suo sorriso era troppo soave
peresseresincero.
– Poco tempo dopo ho
chiamato il caffè dove
lavoravi, ma mi hanno detto
cheten’eriandato.
Dopo la scomparsa di
Kitaru, il lavoro mi era
venuto terribilmente a noia,
cosí, passate due settimane,
mierolicenziato.
Erikaeiociraccontammo
a grandi linee cos’avevamo
fatto dall’ultima volta che ci
eravamovisti.Dopolalaurea,
ioavevotrovatopostoinuna
piccola casa editrice dove
avevo lavorato per tre anni,
poiavevodatoledimissionie
daalloramidedicavosoltanto
alla scrittura, per conto mio.
A ventisette anni mi ero
sposato. Per il momento non
avevo figli. Erika invece era
ancora single. Lavorava
molto–lafacevanosgobbare
dal mattino alla sera – e non
aveva certo il tempo di
pensare al matrimonio, disse
scherzando. Ma qualcosa in
lei faceva supporre che in
quei sedici anni avesse avuto
molti fidanzati. Fu lei a
parlarmiperprimadiKitaru.
–AdessoAkifailcuocoa
Denver.Fasushi,–disse.
–ADenver?
– Sí, in Colorado.
Perlomeno, è quello che ha
scrittoinunacartolinachemi
hamandatoduemesifa.
–EperchéaDenver?
– Non lo so! La cartolina
precedente, che risale a circa
unannofa,venivadaSeattle:
anche lí lui faceva sushi.
Ogni tanto sembra ricordarsi
di me e mi scrive. Sempre
cartoline
illustrate
demenziali, sulle quali butta
giú due righe. Non mette
neancheilsuoindirizzo.
–Cosísièmessoafareil
cuocodimestiere…–dissi.–
Quindi
in
conclusione
all’universitànoncièandato?
Erikafececennodino.
–Quell’anno,versolafine
dell’estate, improvvisamente
ha dichiarato che rinunciava
all’esame d’ammissione. Che
continuare a prepararsi era
solo una perdita di tempo. E
si è iscritto a un corso di
cucina a Ōsaka. Diceva che
voleva studiare seriamente la
cucina del Kansai, e avere la
possibilità di andare allo
stadio Kōshien quando gli
pareva. Naturalmente gli ho
chiesto che cosa avesse in
mente: prendere da solo una
decisione cosí importante e
trasferirsi a Ōsaka… e con
me, cos’aveva intenzione di
fare?
–Eluicos’hadetto?
Erika taceva, le labbra
serrate. Come se volesse dire
qualcosa, ma temesse di non
riuscire a frenare le lacrime
appena avesse aperto bocca.
Con il rischio di rovinare il
trucco accurato degli occhi.
Cambiaisubitoargomento.
– L’ultima volta che ci
siamo visti, abbiamo bevuto
Chianti in un ristorante
italianodiShibuya.Eoggici
incontriamo
a
una
degustazione
di
vini
californiani della Napa
Valley. Se ci pensi, è una
stranacoincidenza.
–Ricordobene,–disselei,
che si era ripresa. – Quel
giornoabbiamovistounfilm
di Woody Allen. Che film
era?
Ledissiiltitolo.
–Unbelfilm,divertente.
Concordavo con lei. Era
una delle prime opere del
regista.
– E con quel tuo
compagno del club di tennis,
com’èpoiandata?–chiesi.
Erikascosselatesta.
– Non bene, purtroppo.
Perché…Nonso,cimancava
qualcosa
per
essere
veramente in sintonia. Siamo
stati insieme sei mesi, poi ci
siamolasciati.
– Posso farti una
domanda? Una domanda un
po’indiscreta.
– Certo. Ammesso che
possarispondere.
– Non ti offendere, per
favore.
–Ciprovo.
–Ciseiandataaletto,con
quelragazzo?
Erika mi guardò con aria
sbalordita.
E
arrossí
leggermente.
– Scusa, Tanimura, ma
perché a questo punto te ne
vieniconquestacosa?
– Già, perché? Il fatto è
che questo dubbio mi ha
sempre intrigato un po’. Ma
ho detto un’idiozia, ti chiedo
perdono.
Erikafececennodino.
–No,nonimporta,–disse.
– Non sono offesa.
Semplicemente stupita, non
mi aspettavo una domanda
del genere, di punto in
bianco. Su qualcosa che è
accadutotantotempofa.
Mi guardai lentamente
attorno. Gente vestita in abiti
formali assaggiava vini da
bicchierichetenevainclinati.
Bottiglie di pregio venivano
stappate una dopo l’altra. La
giovanepianistasuonavaLike
SomeoneinLove.
–Larispostaèyes,–disse
Erika.–Conquelragazzoho
fatto sesso non so quante
volte.
– Per curiosità, desiderio
dimettertiallaprova…
Erikaaccennòunsorriso.
– Esatto. Ero curiosa, e
volevomettermiallaprova.
–Ècosícheformiamogli
anellidelnostrotronco.
–Selodicitu…
–Emagarihaiavutoperla
prima volta un rapporto
completoconluipocodopoil
nostroincontroaShibuya…
Erika sfogliò le pagine
dellamemoria.
–Èvero.Èsuccessocirca
una settimana dopo, credo.
Mi ricordo bene di quel
periodo. Perché per me
«quella» era un’esperienza
nuova.
– Quindi Kitaru aveva
visto giusto, – dissi
guardandolanegliocchi.
Lei distolse lo sguardo,
presefraleditaleperledella
collana, una dopo l’altra,
come se volesse controllare
che ci fossero tutte. Poi fece
un lieve sospiro, quasi le
fosse tornato in mente
qualcosa.
–Già,èpropriocomedici
tu.Akiavevavistogiusto.
– Ma in conclusione con
quel ragazzo non ha
funzionato.
Erikafececennodino.
– Purtroppo sono un po’
imbranata, io, – disse. – Ho
semprebisognodiprenderele
cose alla larga, di fare delle
diversioni. Probabilmente è
quello che continuo a fare
ancoraadesso.
Tutti noi facciamo sempre
delle diversioni, avrei voluto
dirle, ma rimasi in silenzio.
Tirar fuori frasi fatte tutti i
momenti è un altro dei miei
problemi.
– Credi che Kitaru si sia
sposato?–chiesi.
– Per quel che ne so io, è
ancorasingle,–risposeErika.
– Perlomeno, non mi ha mai
mandato una partecipazione
dinozze.Èpossibilechenon
siamofattiperilmatrimonio,
néluinéio,dopotutto.
– Oppure ognuno di voi
sta semplicemente facendo
unalungadiversione.
–Puòdarsi.
– Non è ipotizzabile che
prima o poi vi incontriate di
nuovo, e vi rimettiate
insieme?
Erika abbassò lo sguardo
ridendo,conunpiccolocenno
di diniego. Un gesto di cui
non compresi bene il
significato. Forse voleva dire
che
escludeva
quella
possibilità. Oppure che
immaginare una cosa del
generenonservivaanulla.
– Sogni ancora la luna di
ghiaccio?–lechiesi.
Lei sollevò il viso di
scatto,sorpresa,emiguardò.
Finalmente un vero sorriso
apparve sul suo volto.
Lentamente, mettendoci tutto
il tempo necessario. Un
sorrisosinceroespontaneo.
–Tiricordiancoradiquel
sogno?
–Sí,nonsoperché.
– Anche se non l’hai
sognatotu?
– I sogni all’occorrenza si
possono prendere in prestito,
ne
sono
sicuro
–.
Decisamente non sapevo
evitarelefrasifatte.
–Èunpensierobellissimo,
– disse Erika. Il sorriso le
aleggiavaancorasullabocca.
Qualcunoallesuespallela
chiamò. Era ora di tornare al
lavoro.
– No, ormai quel sogno
non lo faccio piú, – mi disse
allafine.–Maancoraadesso
lo ricordo perfettamente. La
scena,l’atmosfera,quelloche
provavo… non è qualcosa
chepossadimenticare.Nonlo
dimenticheròmai,credo.
Dette queste parole, Erika
guardò un punto lontano,
oltre le mie spalle. Come se
cercasseunalunadighiaccio
nel cielo notturno. Poi si
voltò bruscamente e si
allontanò a passo veloce.
Forse andava alla toilette a
rifarsiiltruccoagliocchi.
Se per caso, quando sto
guidando, alla radio sento
Yesterday dei Beatles, il mio
pensiero va subito a quei
versi assurdi che Kitaru
cantavanellavascadabagno.
E rimpiango sempre di non
averli annotati da qualche
parte. Erano talmente strani
cheperuncertoperiodoliho
tenuti a mente, poi ho
cominciato a confonderli,
finchélihoscordatiquasidel
tutto. Ne ricordo solo alcuni
passaggi,manonsonosicuro
che siano proprio identici a
quelli che cantava Kitaru. I
ricordicambianodicontinuo,
èinevitabile.
Quandoavevopiúomeno
vent’anni, diverse volte mi
sono sforzato di tenere un
diario, ma non ci sono mai
riuscito veramente. Intorno a
me accadevano una dopo
l’altratantediquellecoseche
riuscivo a malapena a starci
dietro, e non avevo certo il
tempo o la possibilità di
fermarmiperprenderenotadi
ogni singolo evento. In piú,
gran parte di questi eventi
non erano di natura tale da
farmi ritenere indispensabile
segnarlidaqualcheparte.Per
quel che mi riguardava, era
già tanto se riuscivo a tenere
gli occhi aperti, respirare
regolarmente e avanzare di
qualchepassonelfortevento
di prua che mi investiva in
pieno.
Stranamente,
però,
conservounvividoricordodi
Kitaru.Siamostatiamicisolo
per qualche mese, ma ogni
volta che dalla radio mi
arrivanolenotediYesterday,
mi rivedo insieme a lui,
rammento le sciocchezze di
cui parlavamo per ore nel
bagnodicasasua:lecarenze
della line up degli Hanshin
Tigers, i vari problemi che
comportava
il
sesso,
l’inutilità di studiare per
l’esamediammissione…ela
cronistoria della scuola
elementare di Dennenchōfu,
la differenza concettuale tra
l’oden 2elacucinadelKantō,
la ricchezza emotiva del
dialetto del Kansai… E
ricordolavolta–l’unica–in
cui, indotto da Kitaru, uscii
conErika.Tuttoquellocheci
dicemmo in quel ristorante
italiano, seduti uno di fronte
all’altra con una candela
accesa tra noi. Sono cose
ancora fresche nella mia
memoria, come se fossero
accaduteieri.Lamusicahail
potere di resuscitare i ricordi
con tale fedeltà, con tale
intensità, che a volte fanno
male.
Ma quando cerco di
rievocare i miei vent’anni,
l’unica cosa che mi torni in
mente è la mia sconfinata
solitudine. Non avevo un
amore che mi scaldasse il
corpoeilcuore,néunamico
cui poter confidare senza
remoreimieisentimenti.Non
sapevo cosa fare delle mie
giornate, non riuscivo a
immaginareilmiofuturo.Me
nestavoquasisemprechiuso
inmestesso,alpuntodanon
parlareconnessunoancheper
una settimana intera. Ho
vissuto cosí per un anno. Un
anno lunghissimo. Quel
periodo è stato per me un
duro inverno, ma non saprei
giudicare se abbia formato
dentrodimeanellipreziosi.
Eracomeseaquell’epoca
anch’io ogni sera vedessi, al
di là di un oblò, una luna di
ghiaccio. Una luna dura,
gelida e trasparente, dello
spessore di venti centimetri.
Accanto a me però non c’era
nessuno. La guardavo da
solo, senza condividere con
altri l’impressione di fredda
bellezzachemitrasmetteva.
Ierièl’altroierididomani
ildomanidell’altroieri…
Spero davvero che a
Denver, o in qualche altra
cittàincapoalmondo,Kitaru
conduca una vita felice. O se
nonpropriounavitafelice,se
è chiedere troppo, gli auguro
perlomeno di passare questa
giornata
bene,
senza
problemi. Nessuno può
sapere cosa sogneremo
domani.
1
Inorigine,samuraichenonha
piú un signore. Attualmente il
termine indica uno studente che,
non avendo superato l’esame
d’ammissione
all’università,
trascorre l’anno scolastico a
preparare il concorso per l’anno
seguente[N.d.T.].
2 Piatto della regione del
Kansai. Sorta di stufato brodoso
che contiene diversi ingredienti:
uova sode, polpo, patate, uova di
quagliafritte,alga,pesceocarnee
altroancora[N.d.T.].
Organoindipendente
Ci sono persone che, pur
essendo prive di particolari
tortuosità e inquietudini,
riesconoacomplicarsilavita
inmanierasorprendente.Non
sono moltissime, ma a volte
se ne incontrano. Il dottor
Tokaieraunadiqueste.
Gli individui di tal fatta,
per poter adattare la propria
personalità, per cosí dire
rettilinea, al tortuoso mondo
circostante,inqualchemisura
sono obbligati a effettuare
degli aggiustamenti, senza
rendersi conto che finiscono
col guastarsi le giornate con
fastidiosi stratagemmi. Sono
fermamente convinti di
condurre una vita semplice e
onesta, priva di zone
d’ombra,
esente
da
espedienti. Cosí, quando per
qualche episodio fortuito una
luce nuova viene tutt’a un
trattoamostrarel’artificiosità
e l’innaturalezza del loro
operato,finisconocoltrovarsi
in situazioni a volte amare, a
volte comiche. Ovviamente
molte di queste persone sono
tantofortunate(nonlesipuò
definirediversamente)danon
avere mai, per tutta la vita,
questailluminazione.
Vorrei raccontare qui
brevemente quanto sono
venuto a sapere riguardo al
dottor Tokai. La metà di
queste informazioni le ho
avute direttamente da lui, ma
in parte mi sono state
raccontate
da
persone
affidabili che lo conoscevano
bene. Altre sono mie
congetture personali, basate
sull’osservazione diretta del
suocomportamentoabituale–
di ciò che faceva e diceva.
Come una pasta stesa a
riempirelefessuretraunfatto
e l’altro. Insomma, non è un
ritrattobasatosudatiobiettivi
e autentici quello che vi
propongo. Di conseguenza,
signori lettori, in quanto
autorepossosoloconsigliarvi
di considerare le cose qui
narrate alla stregua di una
prova processuale, o di una
documentazione a conferma
di una transazione (di che
genere
di
transazione
potrebbe trattarsi, non riesco
nemmenoaimmaginarlo).
Tuttavia, vi prego di
indietreggiare di qualche
passo
(prima
dovreste
controllare che alle vostre
spalle non ci sia un
precipizio) e contemplare
questo ritratto da una certa
distanza: vi renderete conto
che sapere se i dettagli siano
veri o falsi è irrilevante.
Avrete
un’immagine
tridimensionale e vivida del
personaggio del dottor Tokai
– perlomeno è quello che
l’autore spera. Lui… come
dire? Lui era un uomo che
non lasciava spazio a
fraintendimenti.
Con questo, non sto
cercando di farlo passare per
una persona semplice e
trasparente. Almeno in parte,
era un uomo complesso,
difficile da comprendere.
Quali tenebre celasse in
fondo alla propria coscienza,
quale peccato originale si
portasse sulla schiena come
un fardello, io naturalmente
nonlopossosapere.Tuttavia,
vistocheilsuooperatoaveva
una coerenza formale, mi
sento di dire che la sua
immagine
globale
è
relativamente facile da
presentare.Forsevisembrerà
un giudizio arbitrario, ma in
qualità
di
scrittore
professionista, questa è
l’impressione che ebbi di lui
all’epoca.
IldottorTokaiavevaquasi
cinquantadueanni,manonsi
era mai sposato. Né aveva
mai convissuto con una
donna. Da molti anni viveva
solo in un appartamento di
due camere e cucina al sesto
piano di un palazzo signorile
del quartiere di Azabu. Era
insomma uno scapolo di
ferro. Delle faccende di casa
– cucinare, lavare, stirare,
spolverare – si occupava lui
stesso senza lamentarsi, solo
due volte al mese ricorreva a
unadonnadiservizio.Amava
la pulizia, quindi rimboccarsi
le maniche non gli pesava.
All’occorrenza sapeva anche
preparare dei buoni cocktail,
e in cucina se la cavava
piuttosto bene, le sue
specialità andavano dal
polpettone al branzino al
cartoccio (come la maggior
parte dei cuochi per hobby,
non badava a spese nel
procurarsi ingredienti di
qualità, di conseguenza
preparava piatti ottimi). Non
aveva mai sentito la
mancanza di una donna in
casa, non si annoiava a stare
solo, dormire solo non gli
metteva tristezza. Perlomeno,
questaeralasituazionefinoa
uncertomomento.
Era un chirurgo estetico.
Dirigeva la Clinica estetica
Tokai a Roppongi. L’aveva
ereditata dal padre, che
faceva lo stesso lavoro. Le
occasioni di incontrare delle
donne, va da sé, non gli
mancavano.Nonsipuòcerto
dire che fosse un bell’uomo,
ma aveva un viso dai tratti
piú o meno regolari
(curiosamente non aveva mai
pensato di sottoporsi lui
stesso a un’operazione di
chirurgia estetica), nella
gestione della clinica era
molto in gamba, e i suoi
introitieranoelevati.Persona
beneducata,
dai
modi
eleganti, possedeva una
buona cultura e sapeva
conversare. Sulla testa aveva
ancora tutti i suoi capelli
(cominciavano a notarsi
quelli bianchi, però), e con
l’assiduafrequentazionedella
palestrariuscivaaeliminarei
chili di troppo che tendeva a
metter su, conservando cosí
un fisico giovanile. Di
conseguenza – questo modo
franco di esprimermi mi
attirerà forse l’antipatia di
molti – non gli erano mai
mancate donne con cui
andarealetto.
Perqualcheragione,Tokai
non aveva mai avuto il
desiderio di sposarsi e farsi
una famiglia. Convinto,
chissà perché, di non esser
tagliato
per
la
vita
matrimoniale, aveva sempre
evitato di frequentare le
donne, anche le piú
affascinanti, che vedevano in
luiunpossibilefuturomarito.
Risultato:simettevasempree
solo o con la moglie di un
altro, o con qualcuna che
aveva già un fidanzato,
diciamo cosí, «prioritario».
Se restava all’interno di
questi confini era al sicuro,
dato che cosí di certo non
avrebbe corso il rischio di
ritrovarsi
sposato
con
qualcuna. In parole povere,
Tokai per loro era o uno
spensierato «fidanzato di
riserva»,ouncomodopartner
per una relazione adulterina.
E a dire la verità, Tokai era
un maestro nell’arte di
mantenere questo genere di
rapporto e mettere le signore
a loro agio. Una relazione di
tipodiverso,unlegameincui
gli venisse chiesto, ad
esempio, di prendersi la sua
parte di responsabilità, lo
avrebbe reso nervoso e di
cattivoumore.
Ilfattodinonessereilsolo
a tenere le sue amanti fra le
braccia,dicondividerequesto
privilegio con altri uomini,
non gli creava alcun
problema. Un corpo, in
fondo, è solo un corpo. Ne
era convinto lui (soprattutto
dal suo punto di vista di
medico), e ne erano convinte
le donne (soprattutto dal loro
punto di vista di donne). A
Tokai bastava che non
avessero in mente un altro
quando stavano in sua
compagnia. Quello che
pensavano o facevano prima
odopo,eranoaffariloro.Non
spettavaaluipreoccuparsene.
Némettercibecco,questoera
addiritturaimpensabile.
Per Tokai, già solo
pranzare o cenare con queste
signore, bere e conversare
con loro, era un sincero e
genuino piacere. Il sesso era
soltanto un modo di
prolungarlo: un appagamento
supplementare, diciamo cosí.
Non era quello il suo
obiettivo ultimo. A lui
interessava soprattutto il
rapporto confidenziale e
intelligente
con
donne
seducenti. Il resto veniva
dopo. Motivo per cui queste
ne rimanevano facilmente
affascinate e apprezzavano
senza ripensamenti il tempo
passato con lui. Col risultato
cheloaccoglievanocongioia
nella loro intimità. Secondo
me la maggior parte delle
donne (tanto piú quelle che
hanno fascino) considerano
gli uomini che pensano solo
al sesso dei molesti e
superficiali egocentrici. Ma
questa è soltanto una mia
opinionepersonale.
A volte Tokai si diceva
che avrebbe dovuto contarle,
le donne con le quali aveva
avuto, in un arco di quasi
trent’anni, questo tipo di
relazione. Ma non nutriva
alcun interesse per la
quantità. Gli interessava
soltanto la qualità. E non
dava molto peso nemmeno
all’aspetto delle sue amanti.
Gli bastava che non avessero
difetti tali da attirare il suo
interesseprofessionale,enon
fossero banali al punto da
annoiarlo. L’aspetto, se lo si
vuole veramente, e si spende
ildenaronecessario,losipuò
cambiare (in quanto esperto
in materia, conosceva un
numero sorprendente di casi
delgenere).No,ledonneche
Tokai apprezzava veramente
erano quelle provviste di un
cervello brillante, senso
dell’umorismo, e spessore
intellettuale.Quelleacortodi
argomenti invece, quelle
incapaci
di
formarsi
un’opinione personale, piú
erano
belle,
piú
lo
demoralizzavano. Non c’è
operazione estetica che possa
alzare le capacità intellettive
di una persona. Conversare
piacevolmente, durante una
cena, con una donna in
gamba dotata di presenza di
spirito, o scherzare e dire
mille sciocchezze con lei nel
letto, pelle contro pelle: per
Tokaieranoquelliimomenti
piúpreziosi.
Non gli era mai successo
ditrovarsineiguaiacausadi
un’amante.Nonavevaalcuna
propensione per i torbidi
viluppi emotivi. Se per
qualche motivo vedeva
addensarsi
all’orizzonte
infauste nubi foriere di
complicazioni,erabravissimo
auscirediscenasenzacreare
scompiglioe,nellamisuradel
possibile, senza ferire la
signorainquestione.Inmodo
rapido e naturale, cosí come
l’ombradellecosesidisperde
all’approssimarsi della sera.
Da scapolo inveterato qual
era, eccelleva in questa
tecnica.
Separarsi dalle sue amanti
era un evento periodico. La
maggior parte delle donne
fidanzate,auncertopuntogli
dicevano:«Sonodesolata,ma
non mi sarà piú possibile
vederti. Fra poco mi sposo».
Di solito erano ben
determinateaconvolarepoco
prima dei trent’anni, altre
volte dei quaranta. Forse per
lo stesso motivo per cui si fa
caso ai calendari soprattutto
verso la fine dell’anno. Di
solitoTokaiaccoglievaquegli
annunci con un sorriso
tranquillo in cui metteva una
giustadoseditristezza.Come
a dire che era davvero
desolato, ma si doveva
rassegnare. L’istituzione del
matrimonio non faceva per
lui, però era sacra. Andava
rispettata.
In
quelle
occasioni
comprava un regalo di nozze
divalore,eloaccompagnava
con parole d’augurio: «Tutte
le mie congratulazioni, spero
davvero che tu sia felice. Te
lo meriti, sei intelligente,
bella e affascinante». Parole
cheesprimevanoconsincerità
i suoi sentimenti: quelle
ragazze gli avevano dato dei
momenti meravigliosi, gli
avevano
dedicato,
per
genuina
simpatia
(probabilmente), un periodo
prezioso della loro vita. Era
un motivo sufficiente per
esser loro grato. Cos’altro
potevadesiderare,lui?
Tuttavia, circa un terzo
delle sue amanti che
convolavano a giuste e liete
nozze,passatialcunianni,un
bel giorno gli telefonavano.
«Senti, perché non ci
vediamo, non facciamo
qualcosa?», gli dicevano. E
tornavano a stringere con lui
un piacevole legame che non
aveva nulla di sacro. Da un
facile rapporto tra single,
passavano a un rapporto un
po’ piú complicato tra una
donna sposata e un single
(cosa che aveva il suo
fascino). Ma quello che
facevanoconTokai–aparte
un notevole miglioramento
tecnico – in pratica era lo
stesso. I restanti due terzi
delle donne che lo avevano
lasciato per sposarsi, non lo
cercavanopiú.Probabilmente
conducevano
una
vita
matrimoniale
serena
e
soddisfacente.
Erano
diventate ottime padrone di
casa, e avevano messo al
mondo dei bambini. I loro
splendidi seni che un tempo
lui aveva accarezzato con
dolcezza,
adesso
forse
allattavano dei neonati.
Contenteloro,contentitutti.
Gli amici di Tokai erano
quasituttisposati.Eavevano
deifigli.Tokaiandavaspesso
a trovarli, ma non aveva mai
provato invidia per loro. I
bambini finché erano piccoli
erano abbastanza carini, ma
quando
diventavano
adolescenti, tutti, senza
eccezioni, cominciavano a
odiareedisprezzaregliadulti,
acercareunaqualcherivalsa,
combinando
guai
e
provocando
ulcere
ed
esaurimenti ai loro genitori.
Che, del resto, pensavano
solo a far entrare i propri
rampolliinscuoleprestigiose
e discutevano fra loro di
continuo,
addossandosi
reciprocamente
la
responsabilità dei risultati
deludenti e degli insuccessi
scolastici dei figli, motivo
perennediirritazione.Quanto
ai figli, a casa non aprivano
quasi bocca, si chiudevano
nelle loro stanze dove
chattavanoall’infinitocongli
amici, oppure passavano le
ore assorti in qualche
videogioco porno di natura
non identificabile. Tokai non
sentiva proprio la mancanza
di siffatta prole. Gli amici
avevano un bel dirgli, tutti
quanti, che i figli, comunque
lasimetta,sonopreziosi,non
era il tipo da credere a frasi
fatte.
Forse
cercavano
semplicementedicondividere
con lui il fardello che
portavano sulla schiena.
Tante persone sono convinte,
chissà perché, che tutti
abbiano il dovere di patire le
lorostessedisgrazie.
Per quel che mi riguarda,
misonosposatogiovaneeda
quelgiornohosemprevissuto
con mia moglie, ma, non
avendo figli, in una certa
misura posso capirlo, Tokai.
La sua convinzione può
essere un po’ parziale,
esagerata,unfiloretorica,ma
tutto sommato penso che
abbia ragione. Certo, lo so
anche io che non esistono
solo i casi disperati.
Fortunatamente in questo
vasto mondo esistono anche
le belle famiglie felici in cui
genitoriefiglivannod’amore
e d’accordo dall’inizio alla
fine (esistono sí, ma con la
frequenza di una tripletta a
calcio). Ma dubito che sarei
potuto entrare nell’esiguo
numero di questi genitori
fortunati, né penso (anzi,
sono convinto del contrario)
checisarebberiuscitoTokai.
Capitemi bene: Tokai era,
per sintetizzare, una persona
socievole. Privo (almeno in
apparenza)diqueidifettiche
inevitabilmente
guastano
l’equilibrio di una persona –
testardaggine,
complesso
d’inferiorità,
invidia,
eccessivo
orgoglio,
suscettibilità –, non si
arroccavasupregiudizieidee
politiche irremovibili. Tutti
quellicheglistavanointorno
amavanoilsuoatteggiamento
franco e aperto, la sua
correttezza e la sua buona
educazione, la sua allegra
positività.Abeneficiaredelle
sostanziali qualità di Tokai,
era soprattutto il gentil sesso
– circa la metà del genere
umano, cioè. La capacità di
mostrarsiattentoepremuroso
versoledonneèuntalentodi
cui le persone che lavorano
nel suo campo non possono
essereprivi;nelcasodiTokai
tuttavianonsitrattavadiuna
tecnica acquisita a posteriori,
ma di una dote naturale e
congenita. Come una bella
voce o delle dita affusolate.
Di
conseguenza
(naturalmente a questa virtú
si
sommava
la
professionalità, questo è
sicuro),laclinicachedirigeva
aveva un successo strepitoso.
Anche se non faceva
pubblicità
sulle
riviste
specializzate, le prenotazioni
eranosemprealcompleto.
Comesicuramenteilettori
sapranno,
le
persone
«socievoli» a volte mancano
unpo’dispessore,nonèraro
che siano mediocri e poco
interessanti. Non era il caso
di Tokai. A me faceva
davvero piacere, ogni fine
settimana, passare un’oretta
con lui bevendo una birra.
Sapeva conversare e non era
mai a corto di argomenti. Il
suo senso dell’umorismo non
era complicato, andava dritto
al punto. Mi ha raccontato
diversi episodi divertenti
connessi
alla
chirurgia
estetica (senza mai rivelare
segreti
professionali,
s’intende) e mi ha dato
informazioni
molto
interessanti sulle abitudini
femminili. Questi discorsi
però non sono mai scesi a
livellodimaldicenza.Parlava
delle donne con rispetto e
affetto,efacevasempremolta
attenzione a non dare
informazionidacuisipotesse
risalireallapersona.
–Ungentiluomononparla
delle tasse che ha pagato, e
delle donne con cui è andato
aletto,–dichiaròunavolta.
–Chièchel’hadetto?
– L’ho detto io, – rispose
imperturbabile Tokai. –
Anche se ogni tanto, col mio
commercialista,ditassedevo
parlare.
Per
Tokai,
avere
contemporaneamente due o
tre fidanzate era una cosa
normale.Laprecedenzanello
stabilire gli orari spettava a
loro, che avevano ognuna un
marito o un fidanzato, lui
doveva accontentarsi del
tempo che avanzava. Motivo
per cui non giudicava
scorretto mantenere piú di
una relazione, ma alle sue
amanti, ovviamente, questo
non lo diceva. Nella misura
del possibile cercava di non
mentire, ma le informazioni
che non era necessario dare
non le dava. Ecco, a grandi
linee era questa la sua
politica.
Nella clinica di Tokai
lavorava, da molti anni, un
segretario di eccezionale
bravura, che gestiva per lui,
con la perizia di un esperto
controllore di volo, il
programma densissimo delle
sue giornate. Oltre a
occuparsidell’organizzazione
dell’attività professionale, a
poco a poco aveva preso
l’abitudine di sovraintendere
anche all’impiego del tempo
cheTokaidedicavaaquestao
quella signora. Conosceva la
vita privata del dottore nei
minimi dettagli, non diceva
maiunaparoladitroppo,non
si lamentava mai per
l’eccessodilavoroesvolgeva
i suoi compiti con distaccata
competenza.
Regolava
abilmente il traffico in modo
che gli appuntamenti con le
diverse
amanti
non
interferissero l’uno con
l’altro. So che è difficile
crederlo, ma teneva a mente
perfino il ciclo di ognuna
delle donne che Tokai
frequentavainundeterminato
periodo. Se Tokai faceva un
viaggio con una di loro,
procuravaibigliettideltreno
e prenotava la camera
d’albergo.
Senza
quel
segretario di straordinaria
efficienza, di sicuro la vita
privata di Tokai non sarebbe
stata altrettanto brillante. Lui
gliene era estremamente
grato, e quando se ne
presentaval’occasionefaceva
a quel giovane attraente
(ovviamente gay) dei bei
regali.
Noneramaisuccesso,per
fortuna,
che
qualcuno
scoprisse la relazione della
moglie o della fidanzata con
Tokai, che gli creasse delle
grane o montasse uno
scandalo. Tokai, da uomo
prudente qual era, le aveva
avvisatedimuoversiconogni
cautela.Dinonfarelecosein
modo
precipitoso
o
innaturale, di non seguire
semprelostessoschema,e,se
proprio era necessario dire
unabugia,ditrovarelascusa
piú semplice. Questi erano i
tre consigli essenziali che
dava loro (piú o meno era
come insegnare a volare ai
gabbiani, ma per scrupolo
nonmancavamaidifarlo).
Il che non significa che
riuscisse sempre a evitare i
guai. Non sarebbe stato
possibile portare avanti per
tanti anni relazioni tanto
complicate con diverse
amanti, senza che si
verificasse a volte qualche
problema. Arriva il giorno in
cui anche una scimmia cade
dall’albero. C’erano donne
che
non
prestavano
abbastanza
attenzione,
fidanzati sospettosi che
telefonavano in ufficio e
facevanomilledomandesulla
suavitapersonaleesullasua
moralità (ci pensava il suo
bravissimo segretario a
intortarli con la sua
parlantina), e c’erano donne
sposate che, troppo coinvolte
nella relazione con lui,
finivano col perdere la
lucidità. Una di loro era
addirittura sposata con un
notocampionedilottalibera.
Questifattiperònonavevano
mai portato a gravi
conseguenze. Tokai non
aveva mai trovato nessuno
cheglispaccasselafaccia.
–Nonèsolounaquestione
difortuna?–dissi.
– Forse, – rispose lui
ridendo. – Forse sono stato
fortunato. Ma non si tratta
solo di questo. Non posso
certo
dire
di
essere
particolarmente astuto, ma in
questecosehouncertotatto.
–Tatto…
– Diciamo che… quando
intuisco che le cose stanno
prendendounbruttapiega,di
colpoilmiocervellosimette
al lavoro, – mormorò Tokai.
Come se avesse qualche
scrupolo a dirlo ad alta voce,
ocercasseinvanounesempio
cheillustrasselesueparole.
–Sa,inunvecchiofilmdi
Truffaut 1c’èunascenaincui
una donna dice a un uomo:
«Al mondo ci sono persone
educate,epersonechehanno
tatto.
Naturalmente
educazione e tatto sono
entrambe delle belle qualità,
madisolitolasecondavince
sulla prima». Lo ha visto,
quelfilm?–chiesi.
– No, non mi pare, –
risposeTokai.
– La donna si spiega
facendounesempioconcreto:
unuomoaprelaportadiuna
stanza e vede una donna che
si sta cambiando, è nuda.
L’uomo educato prima di
richiudere subito la porta
dirà: «Mi scusi, signora».
L’uomo che ha tatto invece
dirà:«Miscusi,signore».
– Ah, in effetti… – fece
Tokai, impressionato. – Un
esempio divertente. A essere
sincero, lo trovo molto
sensato,essendomitrovatoio
stesso diverse volte in
situazionidelgenere.
– E con il suo tatto se l’è
cavatabene?
Tokaisembròcorrucciarsi.
–
Non
vorrei
sopravvalutare
le
mie
capacità. Fondamentalmente,
ho sempre avuto molta
fortuna. Sono un uomo
beneducato, che è sempre
statoassistitodallasuabuona
stella. Forse è piú prudente
pensarecosí.
Inognicaso,lafortunadel
signor Tokai durò una
trentina d’anni. Un lungo
periodo. Finché un giorno
accadde qualcosa che non si
sarebbe mai aspettato: si
innamorò
perdutamente.
Anche la volpe piú astuta
prima o poi finisce nella
tagliola.
La donna di cui si
innamorò era sposata da
sedici anni, con un uomo di
poco piú vecchio di lei che
lavorava presso la It,
un’impresa finanziata da
capitali stranieri. Aveva una
figliapiccolachenonandava
ancoraascuola.
–Aleinonèmaicapitato
di decidere che si sta
innamorando troppo, e
cercaredisperatamentedifare
marcia indietro, signor
Tanimura? – mi chiese un
giorno Tokai. La relazione
con quella donna durava da
circa diciotto mesi. Eravamo
all’inizio dell’estate, e da
quando l’avevo conosciuto
era passato poco piú di un
anno.
Risposi di no, non
ricordavonulladisimile.
– Nemmeno a me era mai
successo. E invece eccomi
qui preso al laccio, – disse
Tokai.
– Si sta sforzando di non
innamorarsi
troppo
di
qualcuno?
–
Esattamente.
È
l’obiettivo su cui sto
concentrando le mie energie
inquestomomento.
–Perqualeragione?
–
Una
ragione
semplicissima.
Perché
altrimentisoffrirò.Soffriròin
modo atroce. E dato che il
mio cuore non sembra poter
reggere a una tale prova,
faccio tutto il possibile per
non innamorarmi troppo di
unacertadonna.
Sembravaparlaresulserio.
Non aveva la sua solita
espressionedivertita.
– In pratica, cosa fa? –
chiesi.–Pernoninnamorarsi,
intendo…
– Oh, provo di tutto!
Fondamentalmente,
però,
cerco di pensare solo ai suoi
difetti. Faccio la lista del
maggior numero possibile di
cose che in lei «non vanno
tantobene».Emelaripetodi
continuo, come un mantra,
dicendomi al tempo stesso
«questa donna non mi deve
piacere piú di quanto sia
necessario».
–Efunziona?
– No, poco, – rispose
Tokai scuotendo la testa. –
Tanto per cominciare, non
riescoatrovarlemoltidifetti.
Ma la cosa grave è che a
sedurmi sono proprio quelli.
Inoltre,noncapiscobenecosa
sia necessario per il mio
cuore e cosa non lo sia. Non
vedo
la
linea
di
demarcazione. È la prima
voltainvitamiacheprovoun
trasporto cosí irrefrenabile,
cosíincondizionato.
Gli chiesi se davvero non
avesse mai nutrito un
sentimento
tanto
sconvolgente per una donna,
malgrado
ne
avesse
conosciutetante.
– No, assolutamente, –
rispose il dottore senza
esitare. Poi andò a ripescare
nella memoria un ricordo
lontano.–Cioè,quandoeroal
liceohoprovatoqualcosadel
genere, anche se è durato
poco. Sentire una fitta in
petto quando si pensa a
qualcuno,enonpensarequasi
a nient’altro… Ma era un
amore non ricambiato, senza
speranza. Ora la situazione è
diversa. Ora sono un adulto
chehafattomoltastrada,eha
con le donne dei rapporti
fisici.Edeccomiinpredaalla
confusione. Quando penso a
lei, ho l’impressione che
persino i miei organi interni
siano
scombussolati.
Soprattuttoquellicheservono
arespirareeadigerire.
Tokai rimase qualche
minuto in silenzio, come se
stesse auscultando i propri
polmonieilpropriostomaco.
–Dallesueparole,sembra
cheleifacciadituttopernon
innamorarsi troppo di quella
donna, ma al tempo stesso
speridinonperderla,–dissi.
–Appunto,èpropriocosí.
Evidentemente
è
una
contraddizione.Unascissione
delmioio.Desiderounacosa
e il suo contrario. Per quanti
sforzi faccia, non è possibile
che funzioni. Eppure non
riesco a rassegnarmi. Non
posso accettare di perderla.
Se questo dovesse mai
accadere, mi perderei io
stesso.
–Sí,maleièsposataeha
unafiglia.
–Perl’appunto.
– Ma questa signora cosa
pensadellasuarelazionecon
lei,dottore?
Tokai
assunse
un’espressione
perplessa,
cercòleparolegiuste.
– Su quello che lei pensa
della nostra relazione, posso
solo fare delle congetture, e
queste congetture riescono
soloaconfondermiancoradi
piú. L’unica cosa certa è che
al momento sostiene di non
voler divorziare dal marito.
Perché ha una figlia, e non
vuole distruggere la sua
famiglia.
–Peròvuolecontinuarela
storiaconlei.
– Per adesso cerchiamo di
vederciquandopossiamo.Ma
cosaciriserviilfuturononlo
so.Leihapauracheilmarito
venga a sapere di me, quindi
puòdarsicheprimaopoimi
lasci. A meno che non siamo
costretti ad allontanarci
perché il marito scopre tutto.
O semplicemente a un certo
puntoleverròanoia.Nonho
la minima idea di quello che
puòaccaderedomani.
–Equestolaspaventapiú
diognialtracosa.
– Sí. Quando comincio a
figurarmi tutte le eventualità
possibili, non riesco piú a
pensare ad altro. Anche il
cibomisifermaingola.
Il dottor Tokai e io ci
eravamo conosciuti nella
palestra vicino a casa mia.
Lui arrivava nei fine
settimana,ilmattino,conuna
racchetta da squash sotto il
braccio.Dopoqualchetempo
avevamo cominciato a fare
qualche partita insieme.
Tokai era un uomo molto
corretto, fisicamente robusto,
e non gli interessava vincere
o perdere. Era il partner
perfetto per godersi una
partitainsantapace.Ioavevo
qualche anno in piú, ma
appartenevamo alla stessa
generazione (sto parlando di
cose avvenute molto tempo
fa) e anche nello squash
eravamo piú o meno di pari
livello. Dopo aver sudato
abbondantemente correndo
dietroallapalla,andavamoin
unlocalelívicinoaberciuna
birra alla spina. Come la
maggior parte delle persone
di buona famiglia che hanno
ricevuto
un’ottima
educazione e non hanno mai
conosciuto
difficoltà
economiche, il dottor Tokai
fondamentalmente pensava
solo a se stesso. Tuttavia –
l’hogiàdetto–,eracapacedi
conversareinmodogradevole
mostrandointeresseperilsuo
interlocutore.
Quando seppe che di
professione
facevo
lo
scrittore, a poco a poco dai
soliti argomenti generici
passò a raccontarmi le sue
faccende
personali.
Probabilmente riteneva che
gli scrittori, come gli
psicologieipreti,avesseroil
diritto (o forse il dovere) di
ascoltarechivolevaparlaredi
séedeipropriproblemi.Non
erailsoloapensarlo,lastessa
cosa mi era successa in
precedenza con tante altre
persone. Detto ciò, a me
ascoltare gli altri non
dispiace,esoprattuttononmi
stancavo mai di ascoltare lui.
Era onesto e sincero, e
riusciva a vedersi in maniera
relativamente imparziale. Né
temeva di mostrare i suoi
punti deboli. Poca gente al
mondohatuttequestequalità.
– Mi è capitato non so
quante volte di stare con
donne piú avvenenti di lei,
donne che avevano un fisico
moltopiúbello,cheeranopiú
intelligenti e avevano un
gusto piú raffinato. Ma è un
confronto che non ha senso.
Per qualche motivo, lei per
me è un essere speciale. La
amonellasuatotalità.Tuttele
sue qualità hanno come un
nucleo comune, un nocciolo,
qualcosa di suo e solo suo…
non ha senso estrapolare una
sola caratteristica e fare
paragoni
con
un’altra
persona. È qualcosa in quel
nucleo che mi seduce
irresistibilmente. Come un
magnete potentissimo. Al di
làdiogniragione.
Bevevamo Black and Tan
in
grandi
bicchieri,
piluccandosottacetiepatatine
fritte.
– C’è un tanka che fa:
Dopo averti incontrato | in
confronto a ciò che provo |
ora per te nel mio cuore | è
come se mai prima | avessi
amato,–disseTokai.
– Sí. Di Gonchūnagon
Atsutada,
–
continuai,
chiedendomi perché mai
ricordassi una cosa del
genere.
– Dopo averti incontrato
sta a indicare la relazione
fisica tra l’uomo e la donna,
mi
hanno
spiegato
all’università. All’epoca ho
soltanto
pensato
«ah,
davvero?», ma da quando mi
trovoinquestacondizione,ho
finalmente capito, in pratica,
che sentimento provava
l’autorediqueltanka.Èquel
profondosensodiperditache
tiassalequandodevisepararti
dalla donna amata, dopo
averla incontrata ed esserti
unito a lei. Quella fatica che
fai a respirare. Se ci pensa, è
un sentimento che è rimasto
ugualedapiúdimilleanni.E
io che fino a oggi non avevo
mai provato personalmente
questa emozione, in quanto
essere umano non ero
completo.Menerendoconto
soltantoora,econdolore.Un
po’troppotardi,però.
Dissicheinquestogenere
di cose non ha senso parlare
di troppo tardi o troppo
presto. Meglio tardi che mai,
no?
– Sí, ma è un’esperienza
che forse è meglio fare da
giovani, – rispose Tokai. –
Cosísipossonoformaredegli
anticorpi.
A me non sembrava un
problema che si potesse
risolvere tanto facilmente.
Conosco un certo numero di
personecheportanodentrodi
sé i germi latenti di brutte
malattie, senza mai essersi
formati degli anticorpi. Ma
non lo dissi, il discorso si
sarebbefattotroppolungo.
– Ormai è un anno e
mezzochemivedoconlei.Il
marito va spesso all’estero
per lavoro, e in quelle
occasioni io e lei pranziamo
insieme, poi andiamo a casa
mia e facciamo l’amore. Si è
messa con me dopo aver
saputo che il marito la
tradiva.Ilmaritolehachiesto
scusa e ha promesso di
lasciare l’amante e non fare
mai piú una cosa del genere.
Ma questo non è bastato a
calmarla. Ha iniziato questa
relazioneconmeperritrovare
l’equilibrio.
Parlare
di
vendetta è forse un po’
esagerato,maledonnehanno
bisognodifarequestotipodi
percorso.Succedesovente.
Non ero del tutto sicuro
che quel genere di cose
«succedesse sovente», ma ad
ogni buon conto ascoltavo in
silenzio.
– Finora è andato tutto
bene, siamo sempre stati
d’incanto,
insieme.
Conversazioni
stimolanti,
segreti intimi di cui siamo al
corrente solo noi due, sesso
fattoconperizia,senzafretta.
Pensocheabbiamocondiviso
delle ore stupende. Mi
capitava spesso di farla
ridere. Ridere di cuore. Man
mano che la relazione è
andata avanti, però, mi sono
innamorato sempre piú, tanto
danonpotertornareindietro.
Cosí ho cominciato a
riflettere seriamente, negli
ultimitempi.Achiedermiche
cosasonoio.
Avendo l’impressione di
nonaversentitolesueultime
parole (o piuttosto di averle
sentite male), lo pregai di
ripetere.
– Che cosa sono io. Di
questi tempi me lo domando
spesso.
–Arduaquestione,–dissi.
– Infatti. Molto ardua, –
ripeté Tokai. E fece cenno di
sípiúvolteconlatesta,come
a confermarne la difficoltà.
Non sembrava aver colto la
leggera ironia delle mie
parole.
–Infindeiconti,checosa
sono io? – proseguí. – Come
chirurgo estetico, finora ho
svolto il mio lavoro senza
farmitantedomande.Misono
specializzato in chirurgia
pressolafacoltàdiMedicina.
All’inizio aiutavo mio padre
facendogli da assistente, poi,
quando lui si è ritirato per
problemi alla vista, ho preso
il suo posto alla direzione
dellaclinica.Nondovreidirlo
io, ma nella mia professione
penso di essere bravo. Il
mondodellachirurgiaestetica
in realtà è un miscuglio di
pietre preziose e di sassi, la
facciata è splendida, ma la
sostanza assai meno, ci sono
molti dilettanti. Nella mia
clinica, invece, si fa tutto in
modo scrupoloso, dall’inizio
alla fine, non abbiamo mai
avuto problemi seri con i
pazienti,nemmenounavolta.
Per me è una questione di
orgoglio professionale. Non
hoparticolarifrustrazioni.Ho
moltiamici,eperilmomento
sono in buona salute. Mi
godo la vita a modo mio.
Eppuredirecentemisuccede
spessodichiedermi«checosa
sono io?» Di chiedermelo
seriamente.Seperdessilamia
carriera e il mio talento di
chirurgo estetico, se venissi
privatodellemieconfortevoli
condizioni di vita e venissi
lasciatonelmondocosícome
sono, un individuo nudo,
senza che mi venisse fornita
nessuna spiegazione, cosa
sarei?Cosadiventerei?
Tokai mi guardò dritto in
faccia. Come se sperasse in
unarisposta.
–Perchétutt’auntrattole
vengonoinmentecerteidee?
–chiesi.
– Ho cominciato a farmi
questa domanda poco tempo
fa,dopoaverlettounlibrosui
campi di concentramento
nazisti. Credo sia questa la
ragione.Unmedicoebreoche
esercitava a Berlino, un
giorno è stato preso insieme
allafamigliaemandatoinun
campo di concentramento.
Fino a quel momento
quell’uomo era amato dai
famigliari e rispettato dalla
gente, godeva della fiducia
dei pazienti e conduceva una
vita piena di soddisfazioni in
unabellacasa.Avevaquattro
cani e la passione del
violoncello, suonava insieme
agli amici musica da camera
di Schubert e Mendelssohn.
Un’esistenza
piacevole,
tranquilla e agiata, insomma.
Poi tutto è cambiato e lui è
finito in un vero e proprio
inferno, un inferno in terra.
Unpostodovenonerapiúun
cittadino abbiente di Berlino
e un medico rispettato, dove
non era quasi piú un essere
umano. Separato dalla sua
famiglia, veniva trattato alla
streguadiuncanerandagioe
non riceveva quasi cibo.
Provvisoriamenteglierastata
risparmiata la camera a gas
perché il comandante del
campo, sapendo che era un
medico di fama, si era detto
che poteva tornare utile, ma
la situazione poteva mutare
da un giorno all’altro.
Bastava il malumore di una
guardiaperchévenisseucciso
a bastonate. Tutti gli altri
membri della sua famiglia
erano probabilmente già
morti.
Tokaifeceunapausa.
– A quel punto mi è
venuto un dubbio. La sorte
terribile di quel medico, in
luoghietempidiversi,poteva
benissimo capitare a me. Se
io per qualche ragione –
anche se non so immaginare
quale – un giorno venissi
all’improvvisospogliatodella
vita che conduco adesso,
privato di ogni privilegio, e
degradato a un semplice
numero… cosa rimarrebbe di
me,checosasarei?Hochiuso
il libro e mi sono messo a
riflettere. A prescindere dalla
mia abilità e dalla fiducia di
cui godo in quanto chirurgo
estetico,nonhoalcunmerito,
alcuna capacità particolare,
sono soltanto un uomo di
cinquantadue anni. Anche se
sono nel complesso in buona
salute, non ho piú le stesse
energie di quando ero
giovane. Non sono piú in
grado di fare pesanti lavori
manuali a lungo. Sono bravo
soltanto a scegliere un buon
Pinot nero, a tenermi
informato sui ristoranti, i
posti dove si mangia il
miglior sushi e i bar alla
moda, a trovare accessori
eleganti da regalare alle
donne…soanchesuonareun
po’ il piano, uno spartito
facile lo leggo a prima vista.
Piú o meno è tutto. Ma se
venissi
mandato
ad
Auschwitz, a cosa mi
servirebbero queste mie
capacità?
Ero d’accordo. Conoscere
i vini, saper suonare o
raccontare, in un posto del
genere probabilmente non
sarebbestatodigrandeutilità.
– Mi scusi, signor
Tanimura, ma a lei non
vengono mai questi pensieri?
Se perdesse la capacità di
scrivere, a cosa si ridurrebbe
insostanzalasuapersona?
Cercaidispiegargli.Ioera
partito da zero, all’inizio non
ero nessuno. Mi ero lanciato
nella vita praticamente nudo.
Avevo cominciato a scrivere
percaso,avevoavutofortuna,
e bene o male riuscivo a
mantenermi con la mia
scrittura.Diconseguenza,per
riconoscere di essere un
sempliceessereumano,senza
meriti né capacità particolari,
non avevo bisogno di
postulare un’ipotesi su vasta
scala come il campo di
concentramento
di
Auschwitz.
Sentendo le mie parole,
Tokai si mise a riflettere
seriamente. Il mio modo di
pensare sembrava essere per
luiun’assolutanovità.
–Ah,ecco!–disse.–Può
darsichelavitasiapiúfacile,
perlepersonecomelei.
Gli feci timidamente
notare che la vita non è
proprio una passeggiata, per
una persona che parte da
zero.
– Naturalmente, – disse
lui. – Naturalmente, lei ha
ragione.Partiredazero,nella
vita,dev’essereun’esperienza
dura. Da questo punto di
vista, penso di essere stato
fortunato. Quando si arriva a
unacertaetà,però,quandosi
è acquisito un certo stile di
vitaesièraggiuntaunacerta
posizione sociale, può essere
molto penoso mettersi a
dubitare, a quel punto, del
proprio valore in quanto
persona. Si finisce col
pensarechel’esistenzachesi
è condotta fino a quel
momentononhaalcunsenso,
alcuna utilità. Da giovani c’è
ancora la possibilità di
cambiare, di sperare. Ma alla
miaetà,ilpesantefardellodel
passato ci schiaccia. Non è
qualcosa che si possa
cambiare.
– E ha iniziato a porsi
queste domande dopo aver
letto un libro sui campi di
concentramento
nazisti?
Vuole dire che è stata questa
lacausascatenante?–chiesi.
– Sí. Quella lettura è stata
per me uno shock che ha
coinvolto direttamente la mia
persona, chissà perché.
Inoltre non so come andrà a
finire la storia con la mia
amante,edaunpo’soffrodi
quella leggera depressione
tipica della mezza età. «Che
cosa sono io?»: non faccio
altro che pormi questa
domanda. Ma per quanto ci
rimugini su, non riesco a
trovare una via d’uscita.
Continuo a girare in tondo.
Tante cose che ho sempre
fatto con piacere, non mi
divertono piú. Non ho voglia
di comprare vestiti, di fare
sport, persino aprire il
pianoforte mi annoia. Ho
perso l’appetito. E a stare
fermo senza agire, mi viene
in mente soltanto lei. Penso
sempre a lei, anche sul
lavoro, davanti alle pazienti.
Finisco quasi col fare il suo
nomecosí,senzarendermene
conto.
– Con quale frequenza la
vede,quellasignora?
– Dipende dalle volte.
Daglispostamentidelmarito.
Anche questo per me è un
tormento. Quando lui sta via
per molto tempo, ci vediamo
di continuo. In quelle
occasioni lei lascia la figlia
dai suoi genitori, o fa venire
una baby-sitter. Quando il
marito è in Giappone, però,
possono passare settimane
senza che ci incontriamo. E
per me è dura. Finisco col
pensarechenonlavedròmai
piú. Scusi il luogo comune,
mamisentospezzareilcuore
indue.
Ascoltavo in silenzio
quanto mi stava raccontando.
Non si esprimeva in maniera
particolarmente originale, ma
noneraneanchebanale.Anzi,
le sue parole erano molto
efficaciarenderel’idea.
Prese un lungo, lento
respiro.
– Ho avuto molte amanti.
Forse
le
sembrerà
sconcertante, ma a volte
anche quattro o cinque alla
volta. Se non potevo vedere
l’una,vedevol’altra,ol’altra
ancora. E la cosa non
presentava nessun problema.
Ma da quando mi sono
innamorato di quella donna,
lealtrenonmiattiranopiú.È
strano,loso.Quandostocon
un’altra, in testa ho sempre
lei. Non riesco a togliermela
dallamente.Èunasituazione
disperata,glieloassicuro.
Una situazione disperata,
pensai.
Mi
apparve
l’immagine di Tokai che
telefonava per chiamare
l’ambulanza:
«Pronto?
Un’ambulanza, presto, è
urgente! È una situazione
disperata! Mi manca il
respiro, il cuore mi si può
spezzare in due da un
momentoall’altro…»
– Sí, è grave, – proseguí
Tokai. – Piú la conosco, piú
mi innamoro. Sto con lei da
un anno e mezzo, ma adesso
sono molto piú preso che
all’inizio.
Ormai
ho
l’impressione che il mio
cuore e il suo siano
profondamente
legati.
Quando il suo si muove,
trascina anche il mio. Come
due barche attaccate l’una
all’altra da una corda. Anche
volessitagliarla,quellacorda,
non ho strumenti abbastanza
affilati per farlo. È un
sentimento che non avevo
mai provato in vita mia. Mi
mette ansia. A cosa porterà
tuttoquesto?Comefinirà?
– Capisco, – dissi. Ma
Tokaivolevaunarispostapiú
sostanziosa.
– Cosa devo fare, signor
Tanimura?
– Be’, come lei possa
affrontare concretamente la
situazione,iononloso.Maa
giudicaredaquellochemiha
detto,pensocheilsentimento
che prova sia qualcosa di
normale, di coerente. Amare
significa proprio questo. Si
perde il controllo del proprio
cuore, si ha l’impressione di
venire travolti da una forza
irragionevole.
Non
sta
facendo
un’esperienza
assurda, lontana da ogni
buonsenso,dottorTokai.Siè
semplicemente innamorato di
una donna, innamorato sul
serio. E non vuole perderla.
Vorrebbe stare sempre con
lei. Se non potesse piú
vederla, il suo mondo
andrebbe in pezzi. È
un’emozione
naturale,
frequente.Nonènéstranané
speciale. È uno degli eventi
piú comuni, nella vita di una
persona.
Il dottor Tokai si mise a
braccia
conserte
per
considerare quello che gli
avevoappenadetto.Comese
ci fosse qualcosa che non lo
convinceva. Era probabile
chenonriuscisseadaccettare
l’idea che la sua esperienza
fosse del tutto banale. Forse
laconsideravaqualcosadipiú
diunsemplice«amore».
Finimmo di bere le nostre
birre, e al momento di
andarcene,luimidisse,come
semifacesseunaconfidenza:
– Sa, signor Tanimura, la
cosacheioalmomentotemo
di piú, che mi confonde di
piú, è la collera che sento
dentrodime.
– La collera? – gli chiesi
unpo’sorpreso.Misembrava
un sentimento poco in
sintonia col personaggio di
Tokai.–Colleraneiconfronti
dicosa?
Luiscosselatesta.
–Nonloso.Disicuronon
ce l’ho con la mia amante.
Ma quando non la vedo,
quando non ci possiamo
incontrare, sento montare
dentro di me questa gran
rabbia. Non so contro cosa,
nonriescoacapirlo.Maèuna
rabbia tremenda, quale non
ho mai provato in vita mia.
Mi viene voglia di gettare
dallafinestratuttoquelloche
trovo a portata di mano. Le
sedie, il televisore, i libri, i
piatti, i quadri, tutto quanto.
Tanto peggio se rischio di
colpire in testa dei passanti,
che crepino pure, chi se ne
frega!Socheèun’idiozia,ma
inqueimomentilopensosul
serio.Peroralamiacollerala
tengo a bada, naturalmente.
Non farei mai una cosa del
genere. Ma può darsi che
venga un giorno in cui non
riescapiúacontrollarmi.Che
finiscacolfareveramentedel
maleaqualcuno.Equestomi
fa paura. Perché piuttosto
preferirei far del male a me
stesso.
Nonricordocosarisposial
riguardo. Probabilmente mi
limitai a dire qualche vaga
parola
d’incoraggiamento.
Non capivo bene che
significato avesse quella sua
collera, cosa suggerisse.
Avrei fatto meglio a dargli
qualche consiglio concreto.
Maanchesel’avessifatto,ho
l’impressione che non avrei
cambiatoilsuodestino.
Pagammo il conto, ci
salutammoecenetornammo
ognunoallapropriacasa.Lui
salí su un taxi, la racchetta
sottoilbraccio,edall’interno
dellavetturamifeceuncenno
con la mano. E quella fu
l’ultima volta che lo vidi.
Settembrestavaperfinireela
temperaturaeraancoraestiva.
Da quel giorno Tokai non
sifecepiúvedereinpalestra.
Nei fine settimana io ci
andavospesso,nellasperanza
di incontrarlo, ma non lo
trovavo mai. Nessuno ne
sapeva nulla. Sono cose che
succedono, nelle palestre.
Qualcuno
che
veniva
considerato un frequentatore
assiduo, un bel giorno
scompare.Unapalestranonè
unluogodilavoro.Andarcio
meno è una scelta personale.
Di conseguenza non attribuii
molta importanza alla sua
assenza. Passarono cosí due
mesi.
Un venerdí pomeriggio,
verso la fine di novembre,
ricevetti una telefonata dal
segretario di Tokai. Si
chiamava Gotō. Parlava con
untonobassoesuadenteche
mi ricordava la musica di
Barry White. Il genere di
musica che si sente spesso
allaradionellenottid’estate.
– È triste per me darle
questa notizia per telefono, e
cosí all’improvviso, signor
Tanimura,mamercoledídella
settimana scorsa il dottor
Tokai è mancato. Le esequie
hanno avuto luogo lunedí,
alla sola presenza delle
personeintime.
– È mancato? – chiesi
sbalordito.–Masel’hovisto
l’ultima volta due mesi fa, e
sembrava in ottima salute!
Cosaèsuccesso?
Dall’altra parte del filo,
Gotōesitavaarispondere.
–Senta,c’èunoggettoche
il dottore, quando era ancora
in vita, mi ha incaricato di
consegnarle,
signor
Tanimura,–dissepoi.–Sodi
chiederle molto, ma non
potremmo
vederci
un
momento? Penso che in
quell’occasione
potrò
spiegarle tutto. Mi dica dove
equando,eiocisarò.
– Potremmo vederci oggi,
questopomeriggio,–proposi.
Gotō rispose che per lui
andava bene. Gli indicai un
caffè in una via laterale di
Aoyama-dōri.Allesei.Eraun
posto dove avremmo potuto
parlare tranquilli, senza
timore di venir disturbati.
Gotōnonloconosceva,malo
avrebbetrovatofacilmente.
Quando arrivai, alle sei
meno cinque, Gotō era già
seduto,evedendomiavanzare
verso di lui si alzò
immediatamente. Dal timbro
basso della sua voce al
telefono, mi ero immaginato
unuomodalfisicomassiccio,
invece era alto e magro.
Avevaunbelviso–comemi
aveva detto Tokai –,
indossava un abito di lana
marrone, una camicia bianca
coi bottoni al colletto, e una
cravatta color mostarda. Un
abbigliamento impeccabile.
Anche i capelli, piuttosto
lunghi, erano molto curati e
gliscendevanomorbidamente
a coprirgli la fronte. Doveva
essere sui trentacinque o
trentaseianni,esenonavessi
saputo da Tokai che era gay,
non lo avrei mai indovinato:
avevasemplicementel’ariadi
un bravo ragazzo vestito in
maniera del tutto normale
(c’era ancora in lui qualcosa
di adolescenziale). La barba
era ben rasata ma si intuiva
che doveva essere stata folta,
cosa rara per un giapponese.
Stava bevendo un doppio
espresso.
Dopo aver scambiato con
luiunbrevesaluto,ordinaila
stessacosa.
– Quindi è morto
all’improvviso, vero? –
chiesi.
Gotō
socchiuse
le
palpebre, come se venisse
colpitodaunaforteluce.
– Sí. Una morte che ci ha
veramente colti di sorpresa.
Ma al tempo stesso, una
morte terribilmente lenta e
dolorosa.
In silenzio, aspettavo il
seguito. Ma Gotō per un po’
non
aggiunse
nulla,
probabilmente attendeva che
mi portassero quello che
avevoordinato.
– Io avevo un rispetto
sincero per il dottor Tokai, –
disseilgiovanepercambiare
argomento.
–
Era
straordinario, sia come
persona, sia come medico.
Con infinita pazienza mi ha
insegnatounmucchiodicose.
Perquasidieciannihoavuto
l’onore di lavorare nella sua
clinica, e se non fosse stato
per lui, adesso non sarei
quellochesono.Eraunuomo
franco e sincero, sempre di
buonumore, mai arrogante,
attentoinegualmisuraatutte
lepersonecheavevaintorno,
e tutte infatti gli volevano
bene. Non l’ho mai sentito
parlare male di qualcuno,
neancheunavolta.
Dovevo convenire che
anche in mia presenza non
avevamaicriticatonessuno.
– Il dottor Tokai parlava
spesso di lei, – dissi. – Era
convinto che senza di lei
gestire la clinica gli sarebbe
stato impossibile, e nella vita
privata avrebbe avuto mille
complicazioni.
Alle mie parole, sulle
labbra di Gotō apparve un
vagoetristesorriso.
– No, non ero tanto
prezioso.
In
quanto
segretario,cercavosoltantodi
essergli utile, facevo del mio
meglio.Amodomio,credodi
avercela messa proprio tutta.
Permeeraunagioia.
Quandolacameriera,dopo
avermi portato il caffè, si
allontanò, finalmente Gotō
riprese a parlare della morte
diTokai.
– La prima cosa di cui mi
sono accorto è che il dottore
non pranzava piú. Fino ad
allora, nella pausa di
mezzogiorno aveva sempre
mangiato qualcosa, anche
solo un boccone. In questo
era piuttosto metodico, pur
essendo spesso oberato di
lavoro.Edeccocheauncerto
puntohacominciatoasaltare
ilpranzo.«Perchénonprende
qualcosa?», gli chiedevo, ma
lui mi diceva di non
preoccuparmi,semplicemente
non aveva appetito. Questo
succedeva
all’inizio
di
ottobre.
A
me
quel
cambiamento
inquietava.
Perché il dottore non amava
cambiare abitudini, non era
quel genere di persona. Dava
un’estrema importanza alla
regolarità delle sue giornate.
E non c’era soltanto il
problema del pranzo. Ben
prestoavevasmessoanchedi
frequentarelapalestra.Prima
ci andava regolarmente tre
volteallasettimana.Nuotava,
giocava a squash e faceva
ginnastica senza risparmiare
le energie. Ma aveva perso
ogni interesse nell’attività
fisica. E aveva iniziato a
trascurare il suo aspetto. Lui
sempre cosí pulito ed
elegante, a poco a poco…
come dire? Si era lasciato
andare, era sciatto. Gli
capitava di mettere gli stessi
vestiti anche per tre giorni di
fila. Ed era diventato sempre
piú taciturno, sembrava
assorto tutto il tempo in
qualche profonda riflessione,
finché non ha piú detto
nemmenounaparola.Cadeva
sempre piú spesso in uno
stato di intontimento. Gli
parlavo, ma lui pareva non
sentire. E non incontrava piú
le sue amanti dopo le ore di
lavoro.
–Leierabenpiazzatoper
esserealcorrentediquelche
faceva, visto che si occupava
diorganizzareilsuotempo.
–Infatti,ècosí.Tantopiú
cheperildottoreincontrarele
sue amanti era l’evento
crucialedellagiornata.Erala
fonte della sua energia. Il
fatto che a un certo punto
questi incontri si fossero
ridottiazero,comunquelasi
rigiri, era molto strano.
Cinquantadue anni non è
un’età in cui si comincia a
invecchiare.Probabilmentesa
anche lei, signor Tanimura,
che il dottor Tokai, per quel
che riguardava le donne,
aveva sempre condotto una
vitapiuttostoattiva.
–Già,nonnefacevaalcun
mistero. Ma neppure se ne
vantava, era semplicemente
molto franco, a questo
proposito.
Gotōannuí.
– Sí, su questo argomento
eramoltofranco.Ancheame
raccontava un sacco di cose.
Quindi il suo cambiamento
improvvisoèstatounoshock.
Non mi diceva piú niente.
Qualunquecosaglicapitasse,
se la teneva per sé, non ne
parlava.
Naturalmente
cercavo di fargli delle
domande. Le è successo
qualcosa di sgradevole? C’è
qualcosa che la preoccupa?
Ma il dottore si limitava a
piegare la testa di lato, senza
rivelare quello che aveva nel
cuore. Non mi rivolgeva
quasi piú la parola. E
dimagrivaavistad’occhio,si
era ridotto pelle e ossa. Era
evidente che non si nutriva a
sufficienza. Ma non potevo
mettere il naso negli affari
suoi piú di tanto. Il dottore
eraunapersonaschietta,però
nonammettevaquasinessuno
nella sua sfera privata. Per
molti anni sono stato il suo
segretario personale, ma non
sonoquasimaientratoincasa
sua. Soltanto quando mi
chiedeva di andargli a
prendere qualcosa che aveva
dimenticato. Le uniche
personecheviavevanolibero
accesso,forse,eranoledonne
a cui il dottore era piú
intimamentelegato.Iopotevo
soltantoguardaredalontanoe
farecongettureansiose.
Dette queste parole, Gotō
sospirò. Come se si
arrendesse di fronte alle
«donneacuiildottoreerapiú
intimamentelegato».
– Dimagriva a vista
d’occhio? – chiesi ripetendo
lesueparole.
– Esatto. Aveva gli occhi
incavatieilvisopallidocome
carta.Camminandovacillava,
non riusciva piú a tenere in
mano nemmeno il bisturi. È
ovvio che non era piú in
grado di fare operazioni
chirurgiche. Per fortuna
avevaunbravoassistenteche
temporaneamente operava al
posto suo. Ma la situazione
non poteva protrarsi a lungo.
Iononfacevochetelefonarea
destra e a manca per disdire
gli appuntamenti, la clinica
stava rischiando di chiudere.
Finchéungiornoildottoreha
smessodeltuttodivenire.Sí,
non si è piú fatto vedere.
Questo verso la fine di
ottobre. L’abbiamo chiamato
a casa, ma non rispondeva.
Per due giorni non abbiamo
avuto sue notizie. Dato che
avevo le chiavi del suo
appartamento – me le aveva
datelui–,ilmattinodelterzo
giornosonoandatoacasasua
e sono entrato. Sapevo che
noneraunacosacorretta,ma
l’apprensioneeratalechenon
horesistito.
Quandohoapertolaporta,
hosentitounodoretremendo.
Perterrac’eraditutto,sparso
ovunque. Giacche, pantaloni,
cravatte, biancheria intima…
vestitichesieratoltoeaveva
gettato
sul
pavimento.
Probabilmenteeranomesiche
non metteva ordine lí dentro.
Le finestre erano chiuse e
l’aria stagnava. Il dottore era
sdraiato nel letto, l’aria
tranquilla –. Gotō doveva
rivedere la scena, perché
chiuse gli occhi e scosse
lievementelatesta.–Appena
l’ho visto, ho pensato che
fosse morto. Stava per
venirmi un colpo. Invece era
vivo. Ha voltato verso di me
il viso scarno e livido, ha
aperto gli occhi e mi ha
guardato. Ogni tanto batteva
le palpebre. Respirava, anche
semoltodebolmente.Manon
si muoveva, le coperte tirate
fino al collo. Ho provato a
parlargli: nessuna reazione.
Lesuelabbraseccheeserrate
sembravano cucite. La barba
gli era cresciuta parecchio.
Primadituttoandaiadaprire
lafinestra,percambiarel’aria
nella stanza. Visto che non
c’erano misure urgenti da
prendere, e il dottore non
sembrava soffrire, mi sono
messo a fare un po’ d’ordine
nell’appartamento.Perchéera
inunostatodavveroterribile.
Ho raccolto i vestiti sparsi
ovunque, ho messo in
lavatrice le cose che si
potevano lavare, infilato in
unasaccaquelledaportarein
tintoria.Hosvuotatolavasca
cheerapienad’acquasporca,
e
l’ho
pulita.
Dalle
incrostazioni che vi si erano
formate, ho dedotto che non
veniva svuotata da molto
tempo.Unacosaimpensabile
perildottore,unuomocheè
sempre
stato
attento
all’igiene. A quanto pareva
anche la donna delle pulizie
aveva smesso di venire,
perché su ogni mobile c’era
un velo di polvere. Soltanto
una cosa faceva eccezione, il
lavello della cucina, che era
immacolato.
Il
che
significava che la cucina non
veniva piú usata. Alcune
bottiglie di acqua minerale
erano rotolate a terra, ma di
cibononc’eratraccia.Apriiil
frigo: ne uscí un odore
nauseabondo, indescrivibile.
Le cose all’interno – nattō 2,
verdura,
frutta,
latte,
sandwich, prosciutto… –
eranomarcite.Homessotutto
inunagrossabustadiplastica
e l’ho portata nello
sgabuzzino della spazzatura
nelseminterratodelpalazzo.
Ilgiovanepreseinmanola
tazza ormai vuota e la
osservò, tenendola inclinata.
Poi sollevò di nuovo lo
sguardo.
–
Per
riportare
l’appartamento a uno stato
decente mi ci sono volute tre
ore. Per tutto il tempo ho
tenuto le finestre aperte, e il
cattivo odore alla fine non si
sentiva quasi piú. Ma il
dottore non aveva ancora
dettounaparola.Silimitavaa
seguirmicongliocchimentre
mi davo da fare nella stanza.
Nel suo volto smagrito, gli
occhi apparivano molto piú
grandi e lucenti del solito.
Perònonesprimevanoalcuna
emozione. Mi guardavano,
ma non mi vedevano. Mi…
mi seguivano soltanto, come
lenti di telecamere fisse
regolate in modo da
sorvegliare tutto ciò che si
muove nel campo visivo. Ma
sefossiioomeno,cosastessi
facendo, al dottore non
sembrava importare nulla.
Erano occhi tristissimi.
Finché vivrò, non li
dimenticheròmai.
Poisonoandatoaprendere
il rasoio elettrico e gli ho
rasatolabarba.Glihopassato
un asciugamano bagnato sul
viso. Lui non opponeva
nessuna resistenza. Subiva
passivamente qualsiasi cosa.
A quel punto ho chiamato il
medico di famiglia. Quando
gli ho spiegato la situazione,
èvenutosubito.L’havisitato
eauscultato.EildottorTokai
restava
sempre
zitto,
nemmeno una parola. Ci
guardavaconqueisuoiocchi
assenti,prividiognicalore.
Non so se mi esprimo nel
modo giusto, ma non
sembrava piú un essere
vivente. Sembrava… ecco,
qualcunochehadigiunatoper
diventare una mummia, ma
non ci è riuscito, incapace di
liberarsi
delle
passioni
terrene…unsepoltovivoche
viene fuori strisciando dalla
terra. So che è un’immagine
spaventosa,
ma
è
l’impressione che mi fece in
quel momento. La sua anima
ormai se n’era andata. E non
c’eradasperarechetornasse.
Semplicemente il suo corpo
non aveva ancora ceduto e
continuava a muoversi in
modo indipendente dalla sua
volontà.
Pronunciando
queste
ultime parole, il giovane
annuivaconvinto.
– Chiedo scusa, –
proseguí,–mistodilungando
troppo.Cercheròdiesserepiú
breve. In sintesi, il dottor
Tokaisoffrivadiunaformadi
anoressia. Non mangiava piú
nulla, si teneva in vita solo
con un po’ d’acqua. Cioè,
parlaredianoressiaforsenon
è esatto. Come lei saprà, è
una patologia che di solito
colpisce le giovani donne.
Vogliono dimagrire per
essere piú belle e cercano di
mangiare il meno possibile,
finchéilfattoinsédiperdere
peso diventa l’obiettivo
principale e non riescono piú
a ingoiare nulla. Nei casi
estremi, il loro ideale è
ridurreilpropriopesoazero.
Di conseguenza non è
pensabile che un uomo di
mezza età diventi anoressico.
Nel caso del dottor Tokai
però si trattava di un
fenomeno
simile.
Naturalmente lui non lo
faceva per un problema
estetico. Se aveva smesso di
nutrirsi, a mio parere era
perchéilcibononglipassava
piúperlagola,allalettera.
– Era quel che si dice
«consumarsiperamore»…
– Forse, qualcosa del
genere, – rispose il giovane
Gotō.–Chissà,magariilsuo
desiderio profondo era di
ridursi a zero. Annullarsi.
Altrimenti non avrebbe
potuto
sopportare
le
sofferenzechedàlamorteper
fame,lepersonenormalinon
ce la fanno. La gioia di
vedere il proprio corpo
consumarsi era piú forte del
dolore. La stessa cosa che
provano le ragazze che
soffrono di anoressia man
mano che perdono peso,
insomma.
Cercai di immaginare
Tokaidistesosulletto,chein
preda a un amore cieco
dimagriva fino a diventare
fragile come una mummia.
Ma quella che mi veniva in
mente
era
soltanto
l’immagine solare di lui,
allegro, sano, elegante e
amantedellabuonatavola.
– Il medico gli ha fatto
un’iniezione di sostanze
nutritive, poi ha chiamato
un’infermiera e ha preparato
l’occorrente per la flebo. Ma
le
iniezioni
nutritive
sappiamo quanto valgono, e
riguardo alla flebo, volendo
poteva staccare il tubo da
solo. Né io potevo restare
giorno e notte accanto a lui.
Se l’avessimo forzato a
mangiare qualcosa, avrebbe
di sicuro vomitato. Per il
ricovero in ospedale era
necessario il suo consenso,
non potevamo farlo portare
via contro la sua volontà.
Ormai il dottor Tokai aveva
perso il desiderio di vivere,
era determinato a ridursi a
zero. Non c’erano cure o
iniezioni
nutritive
che
tenessero, non saremmo mai
riusciti a invertire la corrente
diquelfiume.Potevamosolo
incrociare le braccia e
guardare i morsi della fame
divorare il corpo del dottor
Tokai. Sono stati giorni
penosissimi. Bisognava fare
qualcosa, ma in pratica
eravamo
impotenti.
Ci
consolava solo il fatto che il
dottore
non
sembrava
soffrire. Perlomeno, io non
gli
ho
mai
visto
un’espressione sofferente sul
viso.Andavoacasasuaogni
giorno, prendevo la posta
nella cassetta delle lettere,
facevo le pulizie, poi mi
sedevo accanto a lui sul letto
e gli parlavo di tante cose.
Informazionicheerotenutoa
dargli in quanto segretario,
discorsi piú frivoli… ma lui
non ha mai detto una parola.
Non ha mai avuto una
reazione.
Non
sapevo
nemmenosefossecoscienteo
meno.Stavafermoinsilenzio
e mi guardava con i suoi
grandi occhi inespressivi.
Occhi
stranamente
trasparenti.
Avevo
l’impressione di poter vedere
dall’altraparte.
–Èsuccessoqualcosacon
una donna? – chiesi. – Lui
stesso mi ha raccontato di
avere un’intensa relazione
con una donna sposata e
madredifamiglia.
– Sí, è vero. Il dottore da
qualche mese si era legato a
quelladonnainmodosincero,
profondo. Cioè, non era la
solita relazione occasionale e
pocoimpegnativa.Dev’essere
successo qualcosa di grave
con lei. Qualcosa che gli ha
tolto la voglia di vivere. Ho
provatoatelefonareacasadi
quella signora. Ma non ha
rispostolei,èstatoilmaritoa
venire al telefono. Gli ho
dettochevolevoparlareasua
moglie
riguardo
all’appuntamento che aveva
preso alla clinica. Mi ha
risposto che la moglie non
abitava piú lí. Allora gli ho
chiesto dove avrei potuto
trovarla,maluimihadettoin
tono gelido che non lo
sapeva,ehariattaccato.
Gotō rimase qualche
secondo in silenzio, quindi
riprese:
–Perfarlabreve,poisono
riuscitoarintracciarla.Aveva
lasciato il marito e la figlia
per andare a vivere con un
altrouomo.
Per un attimo restai senza
parole. Non ci capivo piú
nulla.
– Mi sta dicendo che alla
fine ha piantato sia il marito
cheildottorTokai?
– Esatto, in parole povere
ècosí,–disseilgiovanecon
una certa riluttanza, e
contrasse un poco il viso. –
Aveva un terzo uomo. Non
conosco la storia nei
particolari, ma pare sia uno
piú giovane di lei. Questa è
solo la mia opinione
personale, ma qualcosa mi
dice che deve trattarsi di un
poco di buono. Pare che la
donnaabbiapresoilvolocon
lui, servendosi del dottor
Tokaicomediunapedanaper
il salto. L’ha usato come le
faceva comodo, insomma.
Tutto lascia pensare che il
dottore abbia dilapidato una
fortuna per lei. Controllando
il suo conto in banca e la
carta di credito, ho trovato
strani movimenti di denaro,
grosse somme. Credo che
abbia speso un patrimonio in
regali costosi. O che le abbia
fatto dei prestiti. Di queste
elargizioni non sono rimaste
prove e i dettagli non sono
chiari,mainognicasoisoldi
che sono stati prelevati in
quel periodo ammontano a
unacifraimportante.
Feciunbrevesospiro.
– Dev’essere stato un
colpoterribile,perlui,–dissi.
Gotōannuí.
– Sí. Se lei lo avesse
lasciato dicendogli: «Senti,
non posso abbandonare mio
marito e mia figlia. Di
conseguenza
la
nostra
relazione finisce qui», penso
che lui avrebbe potuto
accettarlo. Di sicuro sarebbe
piombato nello sconforto,
perché l’amava veramente,
come non aveva mai amato
nessunadonnainvitasua,ma
non sarebbe giunto a cercare
la morte di propria volontà.
Insomma, quello che voglio
direècheunavoltatoccatoil
fondo, prima o poi sarebbe
tornato a galla. Ma scoprire
che c’era un terzo uomo,
rendersi conto di essere stato
cinicamente usato, per il
dottore è stata una pugnalata
alcuore.
Non feci commenti,
limitandomiadascoltare.
–Quandoèmorto,pesava
trentacinquechili.Lametàdi
prima, visto che di solito era
un poco sopra i settanta. Le
ossa del torace erano cosí
sporgenti che sembrava una
costa rocciosa con la bassa
marea. Si faceva fatica a
guardarlo. Mi ricordava le
immaginidiundocumentario
che ho visto tanto tempo fa,
sui prigionieri ebrei appena
liberati da un campo di
concentramento
nazista,
ridottipelleeossa.
I
campi
di
concentramento. Già. In un
certo senso, Tokai aveva
avuto una premonizione.
«Che cosa sono io? Di
recentemelochiedospesso».
– Dal punto di vista
medico, – proseguí il
giovane, – è morto per
insufficienza cardiaca. Il suo
cuore non aveva piú la forza
di pompare il sangue. Se
possoesprimereilmioparere,
però, è stato l’amore a
ucciderlo. È morto d’amore,
alla lettera. Piú volte ho
telefonato a quella donna e
l’ho pregata di venire a
trovarlo, spiegandole la
gravità della situazione. L’ho
supplicata in ginocchio.
«Venga almeno una volta,
anche solo per qualche
minuto. È in pericolo di vita,
secontinuacosínoncelafa».
Ma lei niente. Naturalmente
non penso che al dottore
sarebbe bastato vederla per
riprendersi. Lui aveva già
deciso di morire. Ma chissà,
forse
sarebbe
potuto
succedere un miracolo… O
perlomeno sarebbe morto in
condizioni
di
spirito
diverse… A meno che lo
stupore di trovarsela davanti
non finisse per aggravare la
sua confusione mentale, e
causargliun’ulterioreeinutile
sofferenza. Come posso
saperlo? A essere sincero, di
questa storia non ci capisco
granché. Tranne una cosa,
una sola: nessun altro al
mondo è mai morto d’inedia
per una delusione d’amore.
Nonlocredeanchelei?
Ero d’accordo. In effetti
non avevo mai sentito nulla
delgenere.Inquestosenso,il
dottor Tokai era stato
veramente
un
uomo
eccezionale. Quando glielo
dissi,ilgiovaneGotōsicoprí
lafacciaconlemani,eperun
po’ tacque. Di sicuro aveva
voluto molto bene a Tokai.
Avrei voluto consolarlo, ma
non c’era nulla che potessi
fare. Poco dopo smise di
piangere,presedallatascadei
pantaloniunfazzolettobianco
pulitoesiasciugòlelacrime.
– Scusi la debolezza,
mostrarmiinquestostato…
– Piangere per qualcuno
non è una debolezza, – dissi.
–Soprattuttoperunapersona
cara che ci è venuta a
mancare.
Gotōmiringraziò.
–Lesonoriconoscente.Le
sueparolemisonod’aiuto,–
disse. Poi prese da sotto il
tavolo una racchetta da
squash nella sua custodia e
me la porse: era una
magnificaBlackNightnuova
dizecca.
– Questa me l’ha affidata
il dottor Tokai. L’aveva
ordinataonline,maquandoè
arrivata, non aveva piú la
forza di usarla. Cosí mi ha
incaricato di regalarla a lei,
signor Tanimura. Poco prima
di morire, all’improvviso ha
ripresocoscienzaperqualche
minuto e mi ha dato diverse
disposizioni importanti. Una
riguardava questa racchetta.
Se le fa piacere, la usi, per
favore.
La presi ringraziando. Poi
gli chiesi cosa ne sarebbe
statodellaclinica.
–Perilmomentoabbiamo
sospesol’attività,maprimao
poi verrà chiusa. Oppure
verràvendutacontuttiimuri,
– rispose lui. – Naturalmente
ci sono da organizzare le
varie pratiche, quindi credo
che potrò dare una mano
ancora per qualche tempo.
Dopo non so. Anch’io ho
bisogno di fare ordine nella
mia anima. Non sono ancora
in condizioni di pensare
seriamentealfuturo.
Auguravo sinceramente a
quel giovane di riprendersi
dallo shock e vivere una vita
felice.
– Signor Tanimura, – mi
dissequandocisalutammo,–
so di chiederle molto, ma
vorrei pregarla di una cosa:
non dimentichi mai il dottor
Tokai.Perchéeraunapersona
dal cuore infinitamente puro.
Inoltrepensochelasolacosa
chepossiamofareperimorti
siacercarediricordarliilpiú
a lungo possibile. Ma è piú
difficilefarlochedirlo.Nonè
qualcosa che ci si possa
aspettaredachiunque.
Risposicheavevaragione.
Conservare il ricordo delle
persone scomparse non è
semplice come tutti pensano.
Promisi che avrei fatto ogni
sforzo per non scordare il
dottor Tokai. Non ero in
grado di giudicare fino a che
puntoilsuocuorefossepuro,
ma sapevo per certo che non
era una persona banale, e
valeva la pena riservargli un
posto nella memoria. Ci
separammoconunastrettadi
mano.
Di conseguenza, per non
dimenticare il dottor Tokai,
sto scrivendo questo testo.
Per me, mettere le cose per
iscrittoèilmezzopiúefficace
per non lasciarle cadere
nell’oblio. Al fine di non
recar danno a nessuno ho
cambiatoinomidipersonee
luoghi, ma i fatti sono
autentici, e sono avvenuti
esattamente come li ho
raccontati. E spero tanto che
il giovane Gotō, dovunque
sia,leggaquestepagine.
C’è un’altra cosa che
ricordo bene, riguardo al
dottor Tokai. Ora non
rammento perché fossimo
venuti
a
parlare
di
quest’argomento, ma una
volta lui mi espose la sua
opinione sulle donne in
genere.
Era sua convinzione
personale che ogni donna
nascesse dotata di un organo
speciale, un organo per cosí
dire indipendente, che le
permetteva di dire bugie.
Quali bugie, in quali
circostanze e in quale modo,
dipendeva da una donna
all’altra,
con
piccole
variazioni.Matutteauncerto
punto mentivano, senza
esitazioni. Sia su dettagli di
pococonto,siasucosegravi.
In quei momenti la loro
espressione, il loro tono di
voce, non si alteravano.
Perché non erano loro, le
donne in questione, ad agire,
ma l’organo indipendente di
cui erano provviste. Ragion
per cui non succedeva mai
che la consapevolezza di
mentire turbasse la loro
coscienzaoimpedisselorodi
dormire serenamente – a
partealcunicasieccezionali.
Parlavaintonocosísicuro
quella volta, il dottor Tokai,
che lo ricordo ancora
benissimo. Quanto a me,
fondamentalmente non posso
che essere d’accordo con lui,
ma su alcuni punti dissento.
Forseluieio,arrampicandoci
per sentieri diversi, siamo
arrivati
sulla
stessa
malagevolevetta.
È certo che prima di
morire ha avuto modo di
verificare,senzatrarnealcuna
gioia, quanto la sua teoria
fosseesatta.Nonènecessario
dire che mi fa molta pena,
rimpiango dal profondo del
cuore che se ne sia andato
cosí. Ci vuole molta
determinazioneperrifiutareil
cibo e lasciarsi morire
resistendo ai morsi della
fame.Lasofferenza,siafisica
chespirituale,dev’esseretale
che solo chi l’ha provata la
puòcomprendere.Tuttavia,il
fattocheluiabbiaamatouna
donna – a prescindere dal
valore di lei – al punto da
desiderare
l’annullamento
della propria persona, in un
certo senso lo ritengo
invidiabile, non posso fare a
meno di pensarlo. Volendo,
avrebbe potuto continuare a
condurre la sua vita brillante
egodereditantepiacevolezze
nel suo angolo della città. A
frequentare diverse donne
contemporaneamente, a bere
ottimo Pinot nero, a suonare
MyWaysulpianoacodadel
suo appartamento. Invece era
caduto in preda a un amore
tanto profondo da non
riuscire piú a ingoiare nulla,
da inoltrarsi in un territorio
deltuttosconosciutoevedere
paesaggi mai visti prima,
infine
cercare
intenzionalmente la morte.
Per usare le parole del
giovaneGotō,ildottorTokai
si era ridotto a zero. Quale
delle due esistenze fosse per
lui piú autenticamente felice,
oqualefossepiúvera,nonsta
a me giudicarlo. Al pari di
Gotō, non so quale via
predestinata lui abbia seguito
quell’anno da settembre a
novembre, non ci capisco
niente.
Giocoancoraasquash,ma
dopolamortediTokai,anche
perché nel frattempo ho
traslocato, ho cambiato
palestra. In quella che
frequento adesso, di solito
gioco con un allenatore
professionista. Costa, ma è
molto piú semplice cosí. La
racchetta che mi ha lasciato
Tokai non la uso quasi. È un
po’ troppo leggera per me. E
quando la tengo in mano,
quandolasoppeso,nonposso
fareamenodipensarealsuo
corporidottopelleeossa.
«Quando il suo cuore si
muove,trascinaancheilmio.
Come due barche attaccate
l’una all’altra da una corda.
Anche volessi tagliarla,
quella corda, non ho
strumenti abbastanza affilati
perfarlo».
Colsennodipoi,vieneda
pensare che si fosse legato
alla barca sbagliata. Ma
possiamodareungiudiziodel
genere con tanta facilità? A
mio avviso, come quella
donna (forse) ha mentito in
balia
di
un
organo
indipendente, allo stesso
modo per il dottor Tokai
innamorarsi è stato un atto
subordinato, qualcosa che la
sua volontà non era in grado
di impedire in alcun modo.
Ancheseleimplicazionisono
diverse. È troppo facile
dall’esterno, a posteriori,
mettere in discussione con
supponenzailcomportamento
diqualcunooscuoterelatesta
con commiserazione. Se nel
nostro
operato
non
intervenisseunorganocheci
spinge ad altezze vertiginose
o ci fa precipitare storditi in
fondo al baratro, un organo
che a volte ci mostra
splendide visioni, a volte ci
induce a cercare la morte, la
nostra vita sarebbe una cosa
bensquallida.Siridurrebbea
unaseriediabitudini.
Cos’abbia pensato o
provatoTokaidifronteauna
mortecheavevasceltodisua
volontà, naturalmente non
possiamosaperlo.Manelsuo
profondo dolore, nella sua
profonda angoscia, tornò in
sé, seppure per un momento,
perdirediconsegnarmilasua
racchettadasquash.Puòdarsi
cheabbiaaffidatoaqueldono
un qualche messaggio. Che
volessefarmisaperediessere
riuscito a trovare, arrivato
vicino alla fine, una risposta
alla domanda: «Che cosa
sono io?» È questa la mia
impressione.
1Bacirubati,del1968[N.d.T.].
2
Fagioli di soia bolliti e fatti
fermentare[N.d.T.].
Shahrazād
Ogni volta che facevano
sesso, la donna gli narrava
una
storia
bellissima,
appassionante. Come la
Shahrazād delle Mille e una
notte. È ovvio che Habara,
contrariamente al sultano
della leggenda, non aveva
alcuna intenzione di tagliarle
la testa al sorgere del sole
(tantopercominciare,leinon
era mai rimasta fino al
mattino).
La
donna
semplicemente
amava
raccontare.
O
forse
desiderava anche portare
qualche conforto a lui,
obbligato a stare tutto il
tempo solo e chiuso in casa.
Manondovevaesserel’unico
motivo, supponeva Habara,
probabilmente apprezzava il
piacere di parlare con un
uomo,accantoaluinelletto,
nel languore e nell’intimità
che seguono a un rapporto
sessuale.
Habara la chiamava
Shahrazād. Era il nome che
segnava nella sua agenda nei
giorni in cui la donna veniva
da lui. Poi riassumeva
brevemente
la
trama
dell’ultima storia, ma in
modo che nessuno, leggendo
quelle note, ci capisse
qualcosa.
Habara
non
sapeva
nemmeno se le storie che lei
raccontava fossero realmente
accadute o frutto della sua
fantasia,sefosseroinparteo
del tutto inventate. Verità e
immaginazione, osservazione
e sogno erano confusi in
modo
inestricabile,
e
orientarsi in questo groviglio
non gli era possibile. Di
conseguenza si limitava ad
ascoltare
senza
porsi
domande.Tantoperlui,nelle
sue condizioni, che le storie
fosserovereono,chefossero
complicatimosaicidirealtàe
fantasia, che importanza
potevaavere?
In ogni caso, Shahrazād
aveva la capacità di catturare
la sua attenzione. Di
qualunque genere di vicenda
si trattasse, raccontata da lei
diventava
qualcosa
di
straordinario.Iltono,ilmodo
di ritmare le pause, di
procedere nella narrazione,
tutto era perfetto. Shahrazād
sapevasuscitarel’interessedi
una
persona,
tenerla
perfidamente sulla corda,
farla riflettere e ipotizzare, e
alla fine darle esattamente
quello che cercava. La sua
abilità, tanto perfetta da
essere addirittura detestabile,
faceva
scordare
all’ascoltatorelarealtà,anche
solo per un’ora. Come uno
straccioumidopassatosuuna
lavagna, faceva scomparire
ricordi sgradevoli che non se
ne
volevano
andare,
preoccupazioni
cui
si
preferivanonpensare.Etanto
bastava, si diceva Habara.
Anzi, dimenticare, in quel
momento, era la sua
aspirazionepiúgrande,quello
che desiderava piú di ogni
altracosa.
Shahrazād
aveva
trentacinque anni – quattro
piú
di
Habara
–,
essenzialmente era una
casalinga (benché avesse il
diploma d’infermiera e ogni
tanto, all’occorrenza, venisse
chiamataperqualchelavoro),
aveva due figli in età scolare
e un marito impiegato in una
ditta.Abitavaaunaventinadi
minuti in macchina da
Habara, e questo era piú o
meno tutto quello che gli
aveva detto di se stessa.
Naturalmente lui non aveva
modo di controllare se fosse
vero o falso. Né vedeva
qualche ragione particolare
permetterloindubbio.Ilsuo
nome non gliel’aveva detto.
«Che bisogno hai di
saperlo?», gli aveva chiesto.
E
aveva
perfettamente
ragione. Per lui era soltanto
Shahrazād, e per il momento
era sufficiente. Nemmeno lei
lo chiamava mai «Habara»;
evitava con prudenti giri di
frasididireilsuonome–che
dovevaperforzaconoscere–,
quasi che pronunciarlo fosse
qualcosa di infausto o
disdicevole.
Anche a essere molto
generosi, non si poteva
paragonare Shahrazād a una
delle incantevoli principesse
che comparivano nelle Mille
eunanotte.Eraunacasalinga
di provincia che aveva
iniziato a metter su grasso
superfluo in varie parti del
corpoesiavviavaseriamente
a entrare nel territorio della
mezza età. Il mento le si era
ispessito, agli angoli degli
occhi le si erano formate
piccole rughe. Anche nel
tagliodeicapelli,nelmododi
vestirsi e di truccarsi, benché
nonfossetrascurata,nonlasi
potevacertodefinireelegante.
Il suo viso non era affatto
brutto,maerainsignificantee
passava
inosservato.
Incrociandola per la strada,
salendo con lei nello stesso
ascensore, la maggior parte
della gente non l’avrebbe
degnatadiun’occhiata.Forse
una decina di anni prima era
stata anche lei una ragazza
carinaepienadivita,epiúdi
un uomo si era voltato a
guardarla.
Ma
anche
ammettendo che fosse cosí,
su quei giorni a un certo
punto era calato il sipario. E
perilmomentonullalasciava
pensare che si sarebbe alzato
dinuovo.
Shahrazād veniva alla
«house» due volte alla
settimana. Non a giorni fissi,
però non capitava mai che si
presentasse nel weekend.
Probabilmente il sabato e la
domenicalitrascorrevaconla
famiglia. Circa un’ora prima
diarrivare,telefonava.Strada
facendo passava da un
supermercato a comprare dei
prodotti alimentari e li
caricava in macchina – una
Mazda azzurra di piccola
cilindrata,
un
vecchio
modello con un’appariscente
ammaccatura sul paraurti
posteriore e i cerchioni delle
ruote neri di sporcizia.
Parcheggiava nello spazio
riservato
alla
«house»,
sollevava il portellone,
prendevalabustadellaspesa,
etenendolacontutteeduele
bracciasuonavailcampanello
della
porta
d’ingresso.
Habara,dopoavercontrollato
dallo spioncino che fosse
Shahrazād, girava la chiave,
toglieva la catena e apriva.
Lei andava direttamente in
cucina,
suddivideva
le
vettovaglie acquistate e le
metteva nel frigo. Poi faceva
lalistadellecosedaportarela
volta dopo. Doveva essere
una padrona di casa
efficiente, perché lavorava
congestiesperti,senzaspreco
dienergia.Mentresbrigavale
sue faccende, non parlava
quasi.Conservavapertuttoil
tempo un’espressione seria e
concentrata.
Una volta terminata
quell’operazione,idue,senza
che l’iniziativa venisse
dall’uno o dall’altra, si
spostavano con naturalezza
verso la camera da letto,
come portati da una corrente
invisibile. Lí si toglievano in
fretta e in silenzio i vestiti, e
si infilavano tra le lenzuola.
Si abbracciavano quasi senza
scambiarsi una parola e
facevano sesso attenendosi
grossomodo alle fasi usuali,
quasi unissero le forze per
assolvere
insieme
un
compito.Quandoleiavevale
mestruazioni, per ottenere lo
scopo usava le mani. Il suo
tocco esperto e professionale
ricordava sempre a Habara
che
era
un’infermiera
diplomata.
Terminato il rapporto
sessuale, restavano distesi
uno accanto all’altra a
parlare. Cioè era lei che
parlava, lui si limitava a fare
ogni tanto un cenno, o una
breve domanda. E quando le
lancette
dell’orologio
segnavanolequattroemezza,
Shahrazād si interrompeva,
anche se era nel bel mezzo
della storia (stranamente,
succedeva sempre sul piú
bello), usciva dal letto,
raccoglievagliindumentiche
erano rimasti sparsi sul
pavimento, si rivestiva e si
preparava ad andarsene.
Perché doveva andare a
cucinarelacena,diceva.
Habaralariaccompagnava
fino all’ingresso, richiudeva
laportacontantodicatena,e
da uno spiraglio nelle tende
guardava
la
malconcia
automobile
azzurra
allontanarsi. Verso le sei si
preparava una semplice cena
con gli ingredienti che
trovavanelfrigo,emangiava
da solo. Per un certo periodo
era stato cuoco, quindi
cucinare per lui non era un
problema. Durante i pasti
beveva acqua minerale (non
toccava alcol), poi si faceva
uncaffè,guardavadeifilmin
dvd, oppure leggeva (poteva
leggereperore,dipreferenza
libri che meritavano piú di
una lettura). Cosí passava le
sue giornate. Non aveva
nessuno con cui parlare.
Nessunocuitelefonare.Privo
anche di un computer, non
poteva accedere a internet.
Non riceveva i giornali, né
guardavalatelevisione(c’era
un valido motivo). E
naturalmente non poteva
uscire.Seperqualcheragione
Shahrazād non si fosse piú
fatta vedere, avrebbe perso
ogni contatto col mondo
esternoesarebberimastosolo
comeunnaufragosuun’isola
deserta,letteralmente.
Questa possibilità però
non lo metteva in ansia.
Habara sapeva di essere in
una situazione che doveva
sistemare con le sue forze.
Unasituazionedifficile,dalla
quale tuttavia sarebbe venuto
fuori. Non si trovava su
un’isola deserta, lui «era»
un’isola deserta, si diceva.
Alla solitudine era abituato e
non lasciava che agisse sui
suoi nervi. Quello che lo
preoccupava, piuttosto, era il
fattochesefosserimastodel
tutto solo, non avrebbe piú
potuto parlare con Shahrazād
nel letto. O, piú esattamente,
non avrebbe potuto sentire il
seguitodellastoriacheleigli
stavaraccontando.
Poco
dopo
essersi
assuefatto alla «house»,
Habarainiziòafarsicrescere
la barba, che aveva piuttosto
folta. Naturalmente voleva
cambiare l’aspetto del suo
viso, ma non era l’unica
ragione. Il motivo principale
era l’ozio forzato. Con la
barba lunga, tutti i momenti
poteva portare la mano al
mento, alle basette, ai baffi e
godere di quella sensazione.
Poteva passare parecchio
tempo a modellarne la forma
con forbici e rasoio. Fino ad
allora non ci aveva mai fatto
caso, ma farsi crescere la
barba era un ottimo antidoto
allanoia.
– Nella mia vita
precedenteerounalampreda,
– gli disse una volta
Shahrazād a letto. Senza
scomporsi, come se gli
spiegasseunacosaovvia,tipo
che il Polo Nord si trova a
settentrione.
Che aspetto aveva una
lampreda? Come viveva?
Habara non ne aveva la
minimaidea.Diconseguenza
nonfececommenti.
– Sai come fa una
lampreda a mangiare una
trota?–glichieseShahrazād.
– No, non lo so, – rispose
Habara. Era la prima volta
che sentiva che le lamprede
mangiavanoletrote.
– Le lamprede non hanno
mento.Èlagrossadifferenza
conleanguille.
– Perché? Le anguille ce
l’hanno?
–L’haimaiguardatabene,
un’anguilla? – fece lei
meravigliata.
– Qualche volta l’ho
mangiata, ma non ho mai
avuto occasione di vederne
unaintera.
– Be’, una volta prova a
osservarne una. Magari vai
all’acquario. L’anguilla ha il
mento e ha i denti. La
lampreda invece non ha la
mascella
inferiore.
In
compenso la bocca è una
speciediventosa,unaventosa
con la quale si attacca alle
rocce in fondo ai canali e ai
laghi. Poi si capovolge e si
mette a fluttuare. Come
un’alga,insomma.
Habara
provò
a
immaginaretantelampredein
fondo
all’acqua
che
fluttuavano come alghe. Era
una scena distaccata dalla
realtà.Masapevabenechela
realtàavoltesidistaccadase
stessa.
– In pratica le lamprede
vivono grazie alle alghe, fra
le quali si nascondono. E
quando una trota passa sopra
di loro, vanno su veloci e si
attaccanoallasuapancia.Con
la ventosa. Aderiscono alla
trota come sanguisughe e
vivono a spese sue.
All’interno della ventosa c’è
unaspeciedilinguafornitadi
denti, che usano come una
lima per aprire un buco nel
corpodelpesceemangiarnea
pocoapocolacarne.
– Be’, non vorrei essere
unatrota,–disseHabara.
– Si dice che nell’antica
Roma avessero delle vasche
dove le allevavano, le
lamprede,
gli
schiavi
disobbedienti
e
ribelli
venivanogettativivilídentro
edatiloroinpasto.
Non avrei nemmeno
voluto essere uno schiavo
nell’antica Roma, pensò
Habara. Né nell’antica Roma
né in nessun’altra epoca, a
direilvero.
– Ho visto per la prima
volta una lampreda quando
ero
alle
elementari,
all’acquario, e quando ho
letto le spiegazioni sul loro
modo di vita, tutt’a un tratto
misonoresacontochequello
era stato il mio mondo
precedente,
–
disse
Shahrazād. – Ne ho dei
ricordi molto vividi. Stavo
attaccata alle rocce in fondo
all’acqua,fluttuavocamuffata
tralealgheeguardavoinalto
le grasse trote che passavano
sopradime.
– Ricordi di averne
mangiatauna?
–No,questono.
– Meno male… – fece
Habara.–Nonricordialtrodi
quando eri una lampreda?
Solocheondeggiaviinfondo
all’acqua?
– Non è che si possa
ricordare tutto in modo
chiaro,delmondoprecedente,
–disselei.–Sesièfortunati,
a volte ce ne torna in mente
un
frammento
per
associazionediidee.Comese
all’improvviso si guardasse
dall’altra parte di un muro
attraverso un forellino. Di
quello che c’è al di là, se ne
vedesoltantounpezzetto.Tu
ti ricordi qualcosa, della tua
vitaprecedente?
– No, nulla, – rispose
Habara.Eadirelaveritànon
aveva nemmeno voglia di
ricordarla. Quella presente
bastavaeavanzava.
– Non era male però
vivereinfondoall’acqua,sai?
Con la bocca saldamente
attaccata a una roccia, a
guardare i pesci che
passavano sopra di me.
C’erano anche tartarughe
enormi. Viste dal basso
sembravano
scure
e
gigantesche,
come
le
astronavi dell’Impero in
Guerre stellari. Grandi
uccelli bianchi dal becco
lungo e affilato attaccavano i
pescicomefosserodeisicari.
Vistidalfondodell’acqua,gli
uccelli sembravano nuvole
che vagavano nel cielo
azzurro. Ma a noi, che
vivevamo giú, camuffate in
mezzo alle alghe, non
potevanofareniente.
–Èunoscenariocheriesci
ancoraavedere?
– In modo chiarissimo, –
disse Shahrazād. – La luce
che c’era, la sensazione
dell’acqua che scorreva…
Ricordo anche le cose che
pensavo all’epoca. E a volte
riesco persino a entrarci, in
quelloscenario.
–Lecosechepensavi?
–Sí.
– Perché? Pensavi a
qualcosa,làsotto?
–Èovvio.
– E a cosa pensa, una
lampreda?
–Pensacosedalampreda.
Argomenti da lampreda,
contesti da lampreda… ma
non si possono tradurre nel
nostro linguaggio. Perché
sono idee appartenenti alle
creature
che
vivono
nell’acqua. È come per i
bambini che sono ancora
nell’utero. Sappiamo che
hanno delle idee, ma non le
possono esprimere con le
parole che usiamo noi che
siamoalmondo.Noncredi?
– Non dirmi che ricordi
anche quello che pensavi
quandoerinellapanciaditua
madre,–feceHabarastupito.
– Certo che lo ricordo, –
disse Shahrazād in tono
noncurante.Einclinòunpoco
la testa che teneva posata sul
pettodilui.–Tuno?
No,risposeHabara.
– Be’, prima o poi te ne
parlerò. Del tempo in cui ero
ancoraunfeto.
Quella sera Habara segnò
sulla sua agenda Shahrazād,
lampreda,mondoprecedente.
Sequalcunoavesseletto,non
avrebbecapitonulla.
Aveva
incontrato
Shahrazād quattro mesi
prima. Era stato mandato in
quella«house»chesitrovava
in una piccola città nel Nord
del Kantō, e si era visto
assegnare come «addetta al
collegamento»unadonnache
viveva nelle vicinanze. Il
compito di questa donna era
comprare per lui, che non
poteva
uscire,
generi
alimentarietantialtriprodotti
d’uso quotidiano, e portargli
il tutto a casa. Gli procurava
anche i libri, le riviste e i cd
cheluileindicava.Succedeva
anche che arrivasse con
qualche film in dvd (con
quale criterio li scegliesse,
Habara non l’aveva mai
capito).QuandoHabarasiera
abituato alla sua nuova
condizione, dalla settimana
seguente Shahrazād l’aveva
portato a letto, quasi fosse
uno sviluppo ovvio del loro
rapporto.Sieraanchemunita
di profilattici. Poteva darsi
che fosse una delle «attività
di supporto» che le erano
state assegnate. In ogni caso,
la proposta era venuta da lei
senza imbarazzo o esitazioni,
inserendosi in modo naturale
nel corso degli eventi, quindi
Habara non aveva osato
opporsi. Si era docilmente
infilato con lei nel letto e
l’aveva presa tra le braccia,
senza capire bene la logica
dellasituazione.
IlsessoconShahrazādnon
sipotevacertodirechefosse
appassionato, ma nemmeno
una cosa soltanto tecnica.
Anche supponendo che
all’inizio lei lo considerasse
solo uno dei suoi compiti (o
doveri), da un certo punto in
poiavevainiziatoatrovarvi–
almeno in parte – un certo
piacere.Habaralosentivadai
sottili cambiamenti che
percepivanelsuocorpo,ene
era
piuttosto
contento.
Comunque la si mettesse, lui
non era un animale selvatico
messo in gabbia, ma una
personadotatadiunadelicata
emotività. Un atto sessuale
finalizzato solo a soddisfare
la sua libido, benché in una
certa misura gli fosse
necessario, non lo appagava
piú di tanto. Detto ciò, non
riusciva a distinguere fino a
che punto Shahrazād lo
facesse per dovere, e quanto
inveceattenesseallasuasfera
personale.
E non si trattava soltanto
del sesso. Tutte le mansioni
cheladonnasvolgevaperlui
rientravano nei suoi compiti
oppure erano qualcosa che
faceva di sua iniziativa, per
un suo desiderio (ammesso
che si potesse parlare di
desiderio in questo caso)?
Anche questo Habara non lo
sapeva. Shahrazād era una
donna di cui era difficile
capiresialeemozionichegli
intenti. Ad esempio, di solito
indossava
semplice
biancheriadicotone,privadi
fronzoli.Ilgeneredicoseche
mette una casalinga fra i
trenta e i quarant’anni (una
congettura di Habara, che da
parte sua non aveva mai
avutorapporticoncasalinghe
diquell’età).Robacheaveva
probabilmente comprato in
saldo in qualche grande
magazzino. In certi giorni
però sfoggiava completi
intimi provocanti, concepiti
per sedurre. Dove se li
procurassenonerachiaro,ma
si trattava di capi di
eccellente qualità. Capi
delicati di colore intenso, di
splendida seta e pizzo
raffinato. Da dove nascevano
quelle differenze estreme, in
quali circostanze e con quale
scopo? Per Habara non era
possibilevenirneacapo.
Un’altra cosa che lo
impensieriva era che l’atto
sessuale con Shahrazād e le
storie che lei gli raccontava
formavano una cosa sola:
sesso e storie erano legati al
punto che non riusciva piú a
separarli. Isolare l’uno o
l’altro elemento gli era
semplicemente impossibile.
Esserecoinvoltoinmodocosí
profondo, diciamo pure
essere legato mani e piedi, a
una donna di cui non era
innamorato, per la quale non
nutriva
una
particolare
passione, era una condizione
perluideltuttonuovachelo
confondevaunpo’.
–Quandoeroadolescente,
–attaccòunavoltaShahrazād
mentre erano a letto, – ogni
tanto mi intrufolavo di
nascostonellacasadeivicini.
Habara – come succedeva
riguardo alla maggior parte
delle storie che lei gli
raccontava–nonriuscíafare
uncommentopertinente.
– A te è mai capitato, di
intrufolartidinascostoincasa
diqualcuno?
– No, mai, credo, – si
limitòarispondereHabara.
– Sono cose che se le fai
unavolta,poiprendiilvizio.
–Maèillegale.
– Infatti. Se ti beccano,
finisci in galera. La
violazione di domicilio con
furto, o tentativo di furto, è
un crimine piuttosto grave.
Eppure, anche se sapevo che
eramale,nonriuscivoafarne
ameno.
Habaraascoltavailseguito
senzafiatare.
– La cosa piú bella,
quando si entra in casa di
qualcuno in sua assenza, è il
silenzio. Non so perché, ma
c’era sempre una pace
assoluta.Avevol’impressione
diesserenelpostopiúquieto
del
mondo.
In
quell’atmosfera,semisedevo
sul pavimento e non mi
muovevo, potevo tornare
facilmentealtempoincuiero
una lampreda, – disse
Shahrazād. – Era una
sensazione fantastica. Ti ho
raccontato, vero, che nella
vita precedente ero una
lampreda?
–Sí,mel’hairaccontato.
–Be’,provavodinuovole
stesse cose: attaccata con la
ventosa a una roccia sul
fondo,portavolacodainalto
e fluttuavo dolcemente
nell’acqua. Come le alghe
intorno a me. Il silenzio era
profondo, non si sentiva il
minimo suono. E del resto,
forse, non avevo neppure le
orecchie.Neigiornidisolela
luce arrivava dalla superficie
dell’acqua dritta come una
freccia.
A
volte
si
scomponeva in un prisma
luccicante. Pesci di forme e
colori diversi mi passavano
sopralatesta.Nonpensavoa
nulla. O diciamo che avevo
solo idee da lampreda. Idee
confuse,eppurelimpide.Non
trasparenti, cioè, ma prive di
impurità. E io ero me stessa,
ma contemporaneamente non
lo ero. Provare questa
sensazione era qualcosa di
meraviglioso.
La prima volta che
Shahrazādsieraintrufolatain
casa d’altri, frequentava il
secondo anno di liceo – il
liceopubblicodelquartiere–
esierainnamoratadiunsuo
compagno di classe. Un
ragazzo alto che giocava a
calcio e aveva ottimi voti in
tuttelematerie.Nonsipoteva
dire che fosse bello, ma era
molto simpatico e sempre in
ordine. Peccato che non
ricambiasse la passione di
Shahrazād, come spesso
succede negli amori fra
liceali.Nonladegnavadiuno
sguardo,
probabilmente
innamoratoasuavoltadiuna
ragazza di un’altra classe.
Non le aveva mai rivolto la
parola e forse non si era
nemmeno accorto della sua
esistenza. Eppure Shahrazād
non riusciva a mettersi il
cuoreinpace.Ognivoltache
lo vedeva, per l’agitazione le
veniva l’affanno, a volte
addirittura la nausea. Doveva
fare qualcosa, se non voleva
impazzire. Ma dichiarargli il
suo amore non sarebbe stata
lamossagiusta.Alcontrario:
sarebbestatapurafollia.
UngiornoShahrazādsaltò
lascuolaeandòacasadiquel
ragazzo.
Dalla
propria
abitazione, ci mise una
quindicina di minuti a piedi.
In quella famiglia non c’era
piú il padre – un uomo che
aveva lavorato in un
cementificio ed era morto
alcuni anni prima in un
incidente stradale. La madre
insegnava giapponese in una
scuola media del comune
vicino. Anche la sorella
minore frequentava le medie,
quindi all’ora di pranzo in
casa non doveva esserci
nessuno.Leilosapevaperché
prima aveva raccolto le
informazioninecessarie.
La porta naturalmente era
chiusa a chiave. Shahrazād
provò a guardare sotto lo
zerbino davanti all’ingresso.
La chiave era lí. In quel
tranquillo
quartiere
residenziale
di
quella
cittadina di provincia non
c’eranocriminaliingiro,ela
gente non si preoccupava
molto
della
sicurezza.
Succedeva spesso che si
lasciasse la chiave sotto lo
zerbino o sotto un vaso, nel
caso qualcuno della famiglia
restassechiusofuori.
Ad ogni buon conto,
Shahrazād
suonò
il
campanelloeaspettòunpoco,
ma non successe nulla. Dopo
essersi guardata intorno per
controllarechenonlavedesse
nessunodeivicini,aprí.Entrò
echiuseachiavedall’interno.
Si tolse le scarpe, le infilò in
unabustadiplasticaelemise
nellozainettocheavevasulle
spalle.Inpuntadipiedisalíla
scala.
Come aveva previsto, la
stanza di lui si trovava al
primo piano. Il letto dalla
struttura in legno era rifatto
alla perfezione. C’erano
scaffali carichi di libri, un
armadio,unascrivania.Suun
cassettone vide un ministereoealcunicd.Allepareti
colorcremaeranoappesisolo
uncalendariodellasquadradi
calcio del Barcellona e una
specie
di
gagliardetto,
nient’altro, né poster né
quadri. Alla finestra c’erano
tendine bianche. Tutto era
pulitoeordinato.Nientelibri
ovestitilasciatiingiro.Sulla
scrivania ogni cosa – penne,
matite,gomme…–eraalsuo
posto. La stanza rivelava
chiaramente il carattere
scrupoloso
del
suo
proprietario. Ma forse era la
madre a rimettere tutto
perfettamente in ordine. O
magari entrambi. Shahrazād
eratesa.Perchéinunacamera
trasandataesottosopra,selei
inavvertitamente
avesse
spostatoqualcosa,nessunose
ne sarebbe accorto. Sarebbe
stato preferibile, pensò.
Invece cosí doveva muoversi
con molta attenzione. Al
tempo stesso era contenta di
aver trovato una stanza
semplice e pulita, tenuta con
cura. Rifletteva bene la
personalitàdilui.
Si sedette sulla sedia
davantiallascrivaniaeperun
po’ rimase lí senza fare
niente. Al pensiero che lui,
ogni giorno, studiava seduto
dov’era lei adesso, sentí
accelerare i battiti del cuore.
Preseinmanoaunoaunogli
oggetti che erano sul ripiano,
dal primo all’ultimo – le
matite, le forbici, il righello,
la spillatrice, il calendario da
tavola… – e li carezzò, li
annusò,
li
baciò.
Appartenevano a lui, e tanto
bastava perché quelle cose
banali brillassero per lei di
lucepropria.
Poiapríunodopol’altroi
cassetti della scrivania e ne
ispezionò attentamente il
contenuto.Nelprimoc’erano
fogli e quaderni e, in un
angolo, un souvenir di
qualcheviaggio.Nelsecondo
cassetto c’erano i quaderni
che lui usava a scuola, nel
terzo(ilpiúbasso)altrifogli,
vecchi fascicoli e verifiche
corrette. Solo materiale che
avevaachefareconlostudio
o con la squadra di calcio.
Nessun oggetto importante.
Nontrovònulladiquelloche
sperava, un diario o delle
lettere… Nemmeno una
fotografia. Le sembrò un po’
strano. Possibile che quel
ragazzo,apartelascuolaeil
calcio, non avesse alcun
interesse personale? Oppure
quel genere di cose le teneva
nascoste da un’altra parte, in
un
posto
dove
non
rischiavano di finire sotto
occhiindiscreti?
Tuttavia, già solo a stare
seduta sulla sua sedia, a
guardare i fogli dove aveva
scritto lui, Shahrazād si
sentiva colma di felicità. Di
quel passo, forse sarebbe
uscitadisenno.Percalmarsi,
si alzò e si sedette sul
pavimento. Alzò gli occhi al
soffitto. Tutt’intorno regnava
sempre un silenzio assoluto.
E fu cosí che si trasformò in
una lampreda in fondo
all’acqua.
– Tutto qui? Sei entrata
nella sua stanza, hai preso in
mano vari oggetti, e sei
rimasta cosí, senza fare
niente?
– No, non è tutto, – disse
Shahrazād. – Volevo avere
qualcosa di suo. Volevo
portarmi a casa qualcosa che
lui usava ogni giorno, che si
metteva addosso. Ma non
poteva essere un oggetto cui
teneva. Altrimenti si sarebbe
accorto subito della sua
mancanza. Quindi gli ho
soltantorubatounamatita.
–Unamatita?
– Sí, una matita già usata.
Ma non penso di aver
commesso un banale furto.
Sarei stata una ladruncola da
quattro soldi. Avrei perso la
miadignitàdipersona.Invece
erouna«ladrad’amore».
«Ladra d’amore», pensò
Habara. Sembrava il titolo di
unfilmmuto.
– In compenso, ho voluto
lasciare un segno, prima di
andarmene. Una prova che
ero stata lí. Per dimostrare
che non si era trattato di un
furto, ma di uno scambio.
Però cosa potevo lasciare?
Nonmivenivainmentenulla
diadeguato.Hofrugatonello
zainetto e nelle tasche, alla
ricerca di qualcosa che
potesse
assumere
il
significato di un segno, ma
non ho trovato niente. Avrei
dovutopensarciprima,ormai
eratardi…nonmirestavache
lasciare lí un tampax. Un
tampax non ancora usato,
naturalmente, che ho preso
dal pacchetto. Li avevo con
meperchéerovicinaalciclo.
Ne misi uno nell’ultimo
cassettodellasuascrivania,in
fondo, non l’avrebbe trovato
facilmente. Forse a causa
dell’agitazione,quellavoltale
mestruazioni mi sono venute
subitodopo.
Una matita e un tampax,
pensò Habara. Doveva
scriverlo nella sua agenda.
Ladra d’amore, matita,
tampax. Sfidava chiunque a
capirciqualcosa.
– Quella volta, credo di
essere rimasta lí al massimo
unaquindicinadiminuti.Era
la prima volta che entravo di
nascosto in casa d’altri,
quindipertuttoiltemposono
stata in ansia, temevo che
qualcuno
tornasse
all’improvviso e avevo fretta
di andarmene. Dopo aver
gettato uno sguardo per la
stradasonoscivolatafuori,ho
di nuovo chiuso a chiave la
porta, e ho rimesso la chiave
al suo posto sotto lo zerbino.
Poisonoandataascuola.Con
la preziosa matita che aveva
usatolui.
Arrivata a questo punto,
Shahrazādperunpo’nonaprí
bocca. Sembrava che stesse
rivedendo
mentalmente
queglieventipassati.
– Per tutta la settimana
successiva, ogni giorno mi
sentivo soddisfatta come non
lo ero mai stata prima, –
proseguí Shahrazād. – Tutti i
momenti
scrivevo
sul
quadernoconlamatitadilui,
anche se non era necessario.
La annusavo, la baciavo, me
l’appoggiavosullaguancia,la
strofinavoconledita.Avolte
la leccavo persino. Col
risultato
che
diventava
semprepiúcorta,cosachemi
rattristava molto. Ma non ci
potevo fare nulla. Quando si
sarebbe consumata del tutto,
bastavacheandassiarubarne
un’altra. Ecco cos’avevo in
mente. Nel contenitore delle
penne sulla sua scrivania, di
matite usate ce n’erano
parecchie. Se ne mancavano
una o due, non l’avrebbe
notato. Forse non s’era
nemmeno accorto che in
fondo a un cassetto c’era il
mio tampax. A quel pensiero
mi sentivo molto eccitata.
Provavo uno strano prurito
alla schiena. Per sopportarlo
dovevo sfregare forte le
ginocchiasottoilbanco.Non
aveva importanza se nella
vitarealequelragazzononmi
vedeva neanche, non si
accorgeva nemmeno che
esistessi. Perché a sua
insaputa mi ero procurata
qualcosacheerapartedilui.
–Eraunaspeciedirituale
magico, insomma, – disse
Habara.
–Esatto.Inuncertosenso,
forseeraunattodimagia.In
seguito, quando ho letto dei
libri sull’argomento, mi sono
venute in mente alcune cose.
Ma all’epoca ero ancora al
liceoeilmiopensierononsi
spingeva fin lí. Ero
semplicemente trascinata dal
mio desiderio di lui. Quando
siprendonocertirischi,prima
o poi può essere fatale. Se
venivo colta in flagrante
mentreentravoincasad’altri
in assenza dei proprietari,
sarei stata espulsa da scuola,
la cosa si sarebbe saputa e
nonavreipiúpotutoviverein
questa città, probabilmente.
Non facevo che ripetermelo.
Ma non serviva a nulla. Non
ero piú in condizioni di
ragionarelucidamente.
Trascorsi dieci giorni, di
nuovo Shahrazād saltò la
scuola e andò a casa del
ragazzo. Erano le undici del
mattino.Comelaprimavolta,
prese la chiave da sotto lo
zerbino davanti all’ingresso
ed entrò. Salí direttamente al
primopiano.Trovòlacamera
di lui in ordine perfetto, il
letto rifatto con cura. Tanto
percominciare,preseinmano
una lunga matita già usata e
la mise con devozione nel
proprio portapenne. Poi, con
molta titubanza, si sdraiò sul
letto. Tirò giú bene l’orlo
della gonna, incrociò le mani
sul petto e guardò il soffitto.
Era lí che lui dormiva ogni
notte. A quel pensiero il
cuore le si mise a battere
all’impazzata, in affanno.
L’aria non le arrivava ai
polmoni. La gola troppo
secca le faceva male ogni
voltacheinspirava.
Si rassegnò ad alzarsi,
stirò bene con le mani il
copriletto, poi si sedette sul
pavimento, come la volta
precedente. Alzò lo sguardo
al soffitto. Era troppo presto
per sdraiarsi sul suo letto, si
disse. Era un’emozione
troppoforte.
Quella volta rimase nella
cameraunamezzoretta.Prese
da un cassetto uno dei
quaderni e lo sfogliò. Lesse
un commento fatto dal
ragazzo su un libro di
Natsume Sōseki, Il cuore
delle cose. Era stato uno dei
compiti delle vacanze estive.
Da quell’allievo eccellente
cheera,avevariempitoifogli
di bei caratteri precisi, senza
errori né omissioni. La
valutazione era «ottimo».
Nulla di strano. A un testo
scritto in ideogrammi cosí
belli, qualunque insegnante
avrebbe dato il massimo dei
votianchesenzaleggerlo.
Poi
Shahrazād
aprí
l’armadioepassòinrassegna
ivestiti.Labiancheriaintima
e le calze. Le camicie, i
pantaloni. L’uniforme della
squadra di calcio. Tutto era
piegato metodicamente. Non
c’era nemmeno un capo
sporcoorovinato.
Tutto in ordine, tutto
pulito. Era il ragazzo che
piegava la roba? O sua
madre?
Probabilmente
quest’ultima. Provò una forte
invidia per quella donna che
ogni giorno poteva occuparsi
dilui.
Mise il naso nei cassetti e
aspirò
l’odore
degli
indumenti,aunoauno.Erail
profumodicoselavatebenee
asciugate al sole. Tirò fuori
una maglietta grigia in tinta
unita, la dispiegò, se la posò
sulviso.Speravachesottole
ascelle restasse l’odore del
sudore di lui. Invece niente.
Ciononostante, se la tenne
sulla faccia per molto tempo,
respirandodalnasoattraverso
la stoffa. Le venne voglia di
prendersi quella maglietta.
Ma era troppo pericoloso.
Quei vestiti erano tenuti con
tanta cura che di sicuro il
proprietario(esenonlui,sua
madre) ricordava esattamente
quante magliette c’erano nei
cassetti. Se ne fosse mancata
una, sarebbe successo un
putiferio.
Alla fine rinunciò a
quell’idea. Piegò di nuovo la
maglietta come l’aveva
trovata e la rimise al suo
posto. Doveva fare molta
attenzione.Nonerailcasodi
correre rischi. Quella volta,
oltre alla matita, decise di
prendereunpiccolodistintivo
a forma di pallone da calcio
che trovò in fondo a un
cassetto.
Era
una
cianfrusaglia cui lui non
doveva
tenere
molto,
probabilmente l’aveva da
quandogiocavanellasquadra
della scuola elementare. Mai
piú si sarebbe accorto della
suascomparsa.Operlomeno,
prima che se ne accorgesse
sarebbe passato un sacco di
tempo. Già che c’era,
Shahrazādvollecontrollarese
il tampax che aveva messo
nell’ultimo cassetto della
scrivania la volta precedente
c’era ancora. Sí, era sempre
lí.
Chissà
cos’avrebbe
pensato la madre, se avesse
trovatountampaxnascostoin
uno dei cassetti del figlio…
Ne
avrebbe
parlato
direttamentealui?«Acosati
serve questa roba? Vorrei
proprio saperlo!» Oppure
avrebbe taciuto, facendo in
cuor suo mille congetture?
Shahrazād non riusciva a
immaginare quale reazione
potesseavereunamadreinun
caso del genere. Ad ogni
buon conto il tampax non lo
toccò.Erailprimosegnoche
avevalasciato,dopotutto.
Questa volta, lasciò in
cambio tre suoi capelli. La
seraprimasierastrappatatre
capelli, li aveva avvolti nella
pellicola trasparente, poi li
aveva chiusi in una piccola
busta sigillata. Prese dallo
zainetto la busta che aveva
preparato e la mise in un
cassetto, infilata fra due
vecchi
quaderni
di
matematica. Erano tre capelli
neri, né troppo lunghi né
troppo corti. A meno di non
analizzarne il Dna, non era
possibile sapere a chi
appartenessero. Ma bastava
un’occhiata per capire che
eranoicapellidiunagiovane
donna.
Shahrazād uscí da quella
casaeandòascuola,seguíle
lezionidelpomeriggio.Eper
i dieci giorni seguenti si
ritenne soddisfatta. Aveva la
sensazionediessereentratain
possesso di altre parti di lui.
Ma il discorso non finiva
certamente lí. Entrare di
nascostoincasad’altri,come
aveva detto lei stessa, era
diventatounvizio.
Arrivata a quel punto,
Shahrazād guardò l’orologio
sulcomodino.
–Ah,adessodevoandare,
– disse come parlando a se
stessa. Scese dal letto e
cominciò a vestirsi. Le
lancette
dell’orologio
segnavano le quattro e
trentadue. Rimise le semplici
mutandine
bianche,
si
allacciò il reggiseno sulla
schiena,infilòinfrettaijeans
elamagliettablucolmarchio
dellaNike.Nelbagnosilavò
bene le mani col sapone,
diede qualche colpo di
spazzola ai capelli. Poi salí
sulla Mazda azzurra e se ne
andò.
Rimasto solo, Habara, che
non aveva granché da fare,
ripercorse col pensiero tutte
le cose che Shahrazād gli
aveva raccontato a letto, una
dopo l’altra, come le mucche
quando ruminano il cibo
appena mangiato. Come
sarebbe finita, quella storia?
Non riusciva proprio a
immaginarlo, come sempre
contuttelesuestorie.Gliera
difficile anche figurarsi lei al
secondoannodiliceo:chissà
seeracarina,aqueltempo,se
erasnella…Avevaletrecce?
Portava l’uniforme del liceo
conicalzinibianchi?
Non
avendo
ancora
appetito, prima di mettersi a
preparare la cena cercò di
andareavantinellaletturadel
libro che aveva iniziato, ma
non riuscí assolutamente a
concentrarsi. La scena di
Shahrazād che entrava di
nascosto in quella villetta di
due piani, che si metteva sul
viso la maglia del suo
compagno di classe, che ne
aspiraval’odore,continuavaa
tornargli in mente. Voleva
conoscere il seguito il piú
prestopossibile.
Shahrazād tornò tre giorni
dopo, passato il fine
settimana. Come sempre,
estrasse da una grossa busta
di carta una serie di
vettovaglie che sistemò in
vari posti, cambiò l’ordine di
disposizione del cibo nel
frigorifero, controllò che non
ci fossero prodotti scaduti,
verificò la provvista di
conserveinvetroeinlattina,
quelladeicondimenti,fecela
lista delle cose da comprare.
Mise in frigo altre bottiglie
d’acqua minerale. Per finire
posòsultavoloilibrieidvd
nuovicheavevaportato.
–C’èqualcosachemanca,
o che desideri in particolare?
–chiese.
– No, non mi viene in
mente nulla, – rispose
Habara.
Come al solito, i due
andarono a letto e fecero
sesso.Dopobrevipreliminari,
Habara mise un preservativo
e la penetrò (lei gli aveva
chiesto
di
usare
un
profilattico dall’inizio alla
fine) e dopo una durata di
tempo adeguata eiaculò. Un
rapportoforsenonpuramente
meccanico, ma nemmeno
coinvolgente. Lei stava
sempreattentaaevitarechesi
mettesse in quell’atto un
eccessodipassionalità.Come
un istruttore di scuola guida
che preferisce non avere
allievi
troppo
emotivi.
Shahrazād controllò con
occhio professionale che
Habara avesse versato senza
sbagliare nel preservativo
un’adeguata quantità di
sperma, poi iniziò a
raccontare.
Dopo essere entrata per la
seconda volta in casa del
ragazzo, aveva passato una
decina di giorni felice e
contenta. Ogni tanto, durante
le lezioni, accarezzava il
distintivo col pallone, riposto
al sicuro nel portapenne.
Mordicchiava la matita, ne
leccavalamina.Pensavaalla
stanza di lui. Alla sua
scrivania, al letto dove
dormiva, al suo armadio
pieno di vestiti, ai suoi
semplici boxer bianchi, e al
tampax e ai tre capelli che
aveva nascosto nel cassetto
dellasuascrivania.
Daquandoavevainiziatoa
intrufolarsi in quella casa,
aveva perso ogni voglia di
studiare. In classe o sognava
a occhi aperti, o si
concentrava nel gesto di
carezzare la matita e il
distintivo di lui. A casa
faceva fatica ad applicarsi ai
compiti che le erano stati
assegnati. Prima era stata
un’allieva discreta. Pur senza
distinguersi, aveva sempre
studiato seriamente – era nel
suocarattere–eottenutovoti
al di sopra della media. Di
conseguenza, quando non
riusciva a rispondere alle
domande degli insegnanti,
questi, piú che arrabbiarsi, si
stupivano. L’avevano anche
convocata in sala professori
durante l’intervallo, per
chiederlesecifossequalcosa
chenonandava,seavessedei
problemi.Maleinonerastata
in grado di dare una risposta
soddisfacente. «Negli ultimi
tempi non sono tanto in
forma…», era solo riuscita a
balbettare. Naturalmente non
poteva dire la verità: che si
era innamorata di un ragazzo
e durante la giornata entrava
di nascosto in casa sua, che
gliavevarubatodellematitee
un
distintivo,
che
giocherellava trasognata con
queste cose e non riusciva a
pensareadaltrochealui.Era
un suo segreto, oscuro e
pesante, di cui nessuno era a
conoscenza.
– Il bisogno di entrare
periodicamente in casa sua
era diventato impellente, –
disse Shahrazād. – Capirai
anche tu che la cosa era
rischiosissima. Non potevo
continuare indefinitamente a
camminare sulla fune. Lo
sapevo benissimo anch’io.
Prima o poi sarei stata
scoperta,eaquelpuntosarei
di
sicuro
finita
al
commissariato di polizia. A
quel
pensiero
provavo
un’ansia insopportabile. Ma
una volta iniziato a rotolare
giúperlachina,nonriuscivo
piú a fermarmi. Passati di
nuovodiecigiorni,ipiedimi
hanno portato da soli davanti
a casa sua. Altrimenti sarei
uscita di senno. Ma a
ripensarciadesso,midicoche
probabilmente ero già un po’
fuoriditesta.
– Saltare spesso le lezioni
non ti ha creato problemi, a
scuola?–chieseHabara.
– I miei genitori erano
commercianti,
sempre
sovraccarichidilavoro,enon
badavano molto a me. Non
avevo
mai
dato
preoccupazioni,
né
disobbedito apertamente ai
loro ordini. Di conseguenza
erano convinti di poter
allentare la presa sul
guinzaglio. Le giustificazioni
per la scuola riuscivo a
falsificarle
facilmente,
adducevo qualche motivo
banaleimitandolascritturadi
mia madre e firmavo.
All’insegnante responsabile
della classe avevo detto che
in quel periodo non stavo
bene e ogni tanto dovevo
assentarmi qualche ora per
andaredalmedico.Nellamia
classe c’erano diversi allievi
che non si presentavano a
scuola per lunghi periodi,
quindi i professori avevano
già problemi a sufficienza,
nessuno
dava
molta
importanza al fatto che io
saltassi qualche volta le
lezionidelmattino.
A quel punto Shahrazād
gettòun’occhiataall’orologio
sulcomodino,poiriprese:
– Di nuovo tolsi la chiave
da sotto lo zerbino, aprii la
porta ed entrai. La casa era
silenziosa come sempre, anzi
no, piú del solito. Il rumore
del termostato del frigo in
cucina stranamente mi fece
sobbalzare, sembrava il
sospirodiungrossoanimale.
Poi tutt’a un tratto squillò il
telefono.Aquelsuonofortee
sgradevole, il cuore mi si
fermò quasi nel petto. Mi
inondai di sudore dalla testa
ai piedi. Ma ovviamente
nessuno rispose a quella
chiamata, e dopo una decina
di volte gli squilli cessarono.
Quando il telefono tacque,
scese un silenzio piú
profondochemai.
Quel giorno era rimasta a
lungo distesa sul letto. Il
cuore non le batteva piú
all’impazzata come la volta
precedente, il suo respiro era
regolare.
Percepiva
la
presenza del ragazzo che
dormiva tranquillo accanto a
lei, le bastava protendere un
braccio per toccare il suo
braccio robusto. Era una
sensazionecuisieraabituata.
Ma in realtà di fianco a lei
non
c’era
nessuno,
naturalmente. Un sogno a
occhiapertil’avvolgevacome
unafittanebbia.
Le venne una voglia
irresistibile di sentire l’odore
dilui.Sialzòdalletto,eandò
afrugaretralemaglietteinun
cassetto dell’armadio. Erano
tutte perfettamente pulite,
asciugate al sole e arrotolate
con precisione come tanti
salsicciotti. Nessuna traccia
disporciziaodiodore.Come
lavoltaprecedente.
A quel punto le venne
un’idea. Magari avrebbe
funzionato. Scese in fretta al
pianterreno.Nellospogliatoio
delbagnotrovòlacestadella
roba sporca e ne sollevò il
coperchio.C’eranoindumenti
di lui, della madre e della
sorella. Probabilmente quelli
usati il giorno prima. Nel
mucchio, Shahrazād trovò
una maglietta da uomo. Una
maglietta bianca girocollo
della Bvd. La annusò. Era
impregnata del sudore di un
giovane maschio, senza
possibilità di dubbio. Un
odore un po’ soffocante – lo
stesso che sentiva quando
stavavicinoaisuoicompagni
di scuola. Non si poteva dire
che le allargasse il cuore,
eppure, venendo da lui, la
rendeva felice. Si portò al
visoilpezzosottoleascellee
aspirò a fondo: provò la
sensazione
che
lui
l’avvolgesse,chelastringesse
fortetralebraccia.
Con la maglietta in mano,
Shahrazādsalíalprimopiano
edinuovosidistesesulletto.
Selamisesulvisoerespiròa
lungo quell’odore, senza
stufarsi.Intantocominciavaa
provare uno strano torpore
all’altezza delle reni. Sentí
che i capezzoli le si
indurivano. Stavano per
venirle le mestruazioni? No,
non era possibile. Era troppo
presto. Capí che erano
sensazioni provocate dal
desiderio sessuale, ma non
sapeva come gestirlo e
controllarlo. In ogni caso, in
quel posto non poteva fare
proprio nulla. Dopotutto era
nellastanzadilui,sullettodi
lui.
Decise di portarsi via
quella maglietta impregnata
di sudore. Naturalmente era
pericoloso. Sua madre si
sarebbeaccortachemancava.
Anche senza andare a
immaginare che qualcuno
l’avesse rubata, si sarebbe
chiesta dove fosse finita.
Vista la cura e la pulizia
meticolosa con cui teneva la
casa, quella donna doveva
amare l’ordine in modo
ossessivo. Notando che c’era
una maglietta in meno,
avrebbe messo le stanze
sottosopra, decisa a non
arrendersifinchénonl’avesse
scovata. Un vero cane da
guardia
severamente
addestrato. A quel punto,
nella camera da letto del suo
prezioso figlio avrebbe
trovato le tracce lasciate da
Shahrazād.Maleinonvoleva
separarsi da quella maglietta,
pur rendendosi conto di fare
una cosa rischiosa. Il suo
cuore non voleva sentir
ragioni.
In cambio, cosa mai
poteva lasciare?, si chiese.
Magariuncapodibiancheria
intima… Le mutandine
banali,
semplici,
relativamente nuove, che
aveva messo quel mattino.
Poteva nasconderle in fondo
all’armadioamurodov’erano
riposti futon e coperte. Le
sembrava un oggetto di
scambio
assolutamente
appropriato. Quando se le
tolse, tuttavia, si rese conto
che erano umide. Colpa del
desideriocheprovavaperlui,
si disse. Provò ad annusarle:
non avevano nessun odore.
Ma considerando per quale
motivo le aveva sporcate, si
disse che non poteva
nasconderle in quella stanza.
Se avesse fatto una cosa del
genere, avrebbe finito col
disprezzarsi. Si rimise le
mutandine, e decise di
lasciare qualcos’altro. Ma
cosa?
Arrivataaquelpuntodella
storia, Shahrazād tacque. Per
lunghi minuti non disse una
parola. A occhi chiusi,
respirava quietamente dal
naso. Anche Habara, sdraiato
accantoalei,tacevainattesa
cheriprendesseaparlare.
–Senti,Habara,–fecelei
alla fine riaprendo gli occhi.
Era la prima volta che lo
chiamavapernome.
Luilaguardò.
– Senti, Habara, ti va di
prendermiancoraunavolta?
–Be’,direipropriodisí,–
risposeHabara.
Dinuovosiabbracciarono.
Lei adesso era molto diversa
da prima. Il suo corpo era
caldo, umido fino in
profondità. La sua pelle
splendeva, molto piú soda ed
elastica. Habara immaginò
che stesse rivivendo ciò che
aveva provato da ragazza,
quando si era intrufolata in
casa del suo compagno di
classe. O forse aveva
veramenterisalitoilfiumedel
tempoederatornataadavere
diciassette
anni.
Come
quando tornava alla sua vita
anteriore. Shahrazād era in
grado di farlo. Riusciva a
esercitaresusestessalaforza
straordinaria della sua arte di
narratrice. Allo stesso modo
incuiipiúbraviipnotizzatori
possono ipnotizzare se stessi
servendosidiunospecchio.
Fecero l’amore con un
trasporto diverso. A lungo e
con passione. E alla fine lei
raggiunse
chiaramente
l’orgasmo. Il suo corpo si
contrasse piú volte. In quei
momenti, anche i lineamenti
del suo viso sembrarono
stravolgersi. Vedendola cosí,
Habarariuscíaimmaginarela
ragazza che doveva essere a
diciassetteanni,quasipotesse
scorgere
un
paesaggio
guardando da uno spiraglio.
Quella che teneva ora fra le
braccia era un’adolescente
assillata da un pensiero, e
imprigionata per caso nel
corpo di una casalinga di
trentacinque anni. Habara si
rese conto che lei, a occhi
chiusi, trasognata, tremando
leggermente, stava aspirando
l’odoredellamagliettasudata
diungiovaneuomo.
Quando
finirono,
Shahrazād non ricominciò a
raccontare. Né controllò
scrupolosamente
il
preservativousatodaHabara.
I due rimasero cosí, in
silenziounoaccantoall’altra.
Lei teneva gli occhi aperti e
fissava il soffitto. Come le
lamprede, quando dal fondo
di un lago guardano in su la
superficie
luminosa
dell’acqua. Che felicità,
pensava Habara, se fosse
diventato anche lui una
lampreda in un mondo
diverso,inuntempodiverso!
Nonundeterminatoindividuo
che si chiamava Habara
Nobuyuki, ma una semplice
lampreda senza nome…
Sarebbero stati entrambi due
lamprede, lui e Shahrazād,
uno di fianco all’altra si
sarebbero attaccati con le
rispettiveventoseaunapietra
e avrebbero guardato verso
l’alto fluttuando dolcemente,
inattesachepassassequalche
grossatrotaaltezzosa.
– E alla fine cos’hai
lasciato, in cambio della
maglietta?–chieserompendo
ilsilenzio.
Lei tacque ancora per
qualchemomento,poidisse:
– Niente, alla fine non ho
lasciato niente. Perché non
avevo nulla con me che
valesse
quanto
quella
maglietta impregnata del suo
odore. L’ho presa e sono
andata via. E in quell’istante
sonodiventataunaveraladra.
Dodici giorni dopo,
quandoShahrazādandòperla
quarta volta a casa di lui,
trovò la serratura cambiata:
illuminata dai raggi del sole
quasiallozenit,brillavacome
l’oro, solida, orgogliosa. E la
chiave non era sotto lo
zerbino. Probabilmente la
madresieraaccortachedalla
cesta della roba sporca era
sparita una maglietta del
figlio.Avevaispezionatocon
occhio attento tutta la casa, e
si era resa conto che
accadevano cose strane. Che
qualcuno forse entrava
quando non c’era nessuno. E
subitoavevafattosostituirela
serratura. Una conclusione
ben fondata, e una reazione
tempestiva.
Davanti a quella serratura
nuova, Shahrazād si era
scoraggiata, ma al tempo
stessoavevaprovatounsenso
disollievo.Comesequalcuno
da dietro fosse venuto a
toglierleunpesodallespalle.
Ormainonavevapiúbisogno
di intrufolarsi in casa altrui,
pensò. Se la serratura non
fosse stata cambiata, avrebbe
di
sicuro
continuato,
lasciandosi trascinare in una
spirale sempre piú rischiosa.
Eprimaopoisarebbeandata
incontro a una catastrofe.
Qualcuno della famiglia
sarebbe
rientrato
all’improvviso mentre lei era
su al primo piano. E in tal
caso non avrebbe avuto
scampo. Sarebbe successo,
fatalmente. Ora invece non
correva piú il pericolo di
cacciarsi in quella disastrosa
situazione! Doveva essere
riconoscenteallamadredilui,
ai suoi occhi di falco, anche
senonl’avevamaiincontrata.
Ogni sera Shahrazād,
primadidormire,annusavala
maglietta che si era portata
via. Se la teneva accanto.
Quando andava a scuola la
avvolgeva in un pezzo di
carta e la nascondeva in un
posto sicuro. Dopo cena,
quandorestavasolanellasua
stanza, la prendeva, la
accarezzava, ne sentiva
l’odore. Temeva che col
passare dei giorni andasse
affievolendosi, ma non era
successo. Come un ricordo
prezioso,quell’odoreavrebbe
impregnato quella maglietta
persempre.
Sapendocheormaidoveva
rinunciare a intrufolarsi in
casa del ragazzo (meglio
cosí!), a poco a poco
Shahrazād ritrovò la sua
normalecondizionedispirito.
La sua mente riprese a
funzionare come prima. In
classe,gradualmentesmisedi
sognare a occhi aperti, tanto
che le succedeva persino di
sentire quello che diceva
l’insegnante. Ma piú che
prestare attenzione alle
lezioni, osservava lui. Lo
teneva d’occhio di continuo:
nonc’erapercasoqualcosadi
cambiato
nel
suo
atteggiamento? Non dava
segni di nervosismo? No, era
sempre lo stesso ragazzo che
rideva spensierato a bocca
aperta,
rispondeva
con
prontezza quando veniva
interrogato, e dopo le lezioni
siallenavaconpassionenella
squadra di calcio. Gridava
molto, sudava molto. Nulla
lasciavapensarecheintornoa
luifossesuccessoqualcosadi
strano. Era un ragazzo
terribilmenteaposto,pensava
lei con ammirazione. Non
avevaunsolodifetto.
Lei però conosceva il suo
punto
debole,
pensò
Shahrazād.Oqualcosacheci
andava vicino. Con ogni
probabilità
era
l’unica
personaaessernealcorrente,
a parte forse la madre. La
terza volta che era entrata in
casasua,infondoall’armadio
amuroavevatrovatounapila
di riviste pornografiche.
Rivistepienedifotodidonne
nude. Donne con le gambe
aperte
che
mostravano
generosamente i genitali.
C’erano anche foto di coppie
che facevano sesso in
posizioni
estremamente
innaturali. Membri grossi
comebastonichepenetravano
la vagina della donna. Era la
prima volta in vita sua che
vedevafotodelgenere.Siera
seduta alla scrivania e aveva
guardatocongrandeinteresse
quelle riviste, pagina dopo
pagina. Aveva immaginato
chedavantiaquelleimmagini
lui si masturbasse. La cosa
però non le dava fastidio.
Non si sentiva delusa nello
scoprire quella sua condotta,
la trovava del tutto naturale.
Doveva pur liberarsi da
qualche parte dello sperma
che produceva. Il fisico dei
maschi era fatto cosí (un po’
come le donne avevano il
ciclomensile).Inquelsenso,
lui era come tutti i ragazzi
della sua età. Né un eroe, né
unsanto.Conoscerequelsuo
lato le dava un senso di
sollievo.
– Dopo che ho smesso di
intrufolarmi in casa sua, il
sentimento fortissimo che
provavo per lui lentamente è
andato attenuandosi. Come
l’acquaconlabassamareasi
ritiraapocoapocodallariva
delmare.Nonsoperché,non
provavo piú la stessa
esaltazione nell’annusare la
sua maglietta, e mi capitava
sempre meno sovente di
accarezzare trasognata le sue
matiteoildistintivo.L’ardore
sistavaspegnendo,cosícome
cala la febbre. Non si era
trattatodi«qualcosadisimile
a una malattia», ma di una
malattia vera e propria. Una
sorta di forte febbre che per
un certo periodo mi aveva
sconvolto il cervello. Può
darsi che tutti, nella vita,
attraversino un periodo di
incoerenza cosí. O forse è
un’esperienza che ho fatto
solo io, un’esperienza molto
speciale. A te non è mai
successo?
Habara ci pensò su, ma
non gli venne in mente nulla
delgenere.
– No, niente di altrettanto
straordinario,–rispose.
Aquelleparole,Shahrazād
parveunpo’delusa.
– In ogni caso, quando ho
finitoilliceoauncertopunto
l’hodimenticato.Talmentein
fretta che ne ero stupita io
stessa.
Non
riuscivo
nemmeno a ricordarmi cosa
miavesseattrattotantoinlui,
quando avevo diciassette
anni.Lavitaèpropriostrana.
Qualcosa che in un certo
momento
ti
sembrava
splendidoeperfetto,qualcosa
percuieriprontaabuttarevia
tutto quello che avevi, basta
che passi un po’ di tempo, o
che lo guardi da un angolo
diverso,
e
lo
trovi
sorprendentemente scialbo.
Finisci col chiederti cosa
vedevano davvero i tuoi
occhi. Questa è la storia del
periodo in cui entravo di
nascostoincasaaltrui.
A Habara venne in mente
il «periodo blu» di Picasso.
Macomprendevabenequello
cheleivolevadire.
La
donna
diede
un’occhiata
all’orologio
digitale sul comodino: era
quasi ora di andare via.
Lasciò passare qualche
secondo,poiriprese:
– In verità, però, la storia
non finisce qui. Quattro anni
dopo, quando ero al secondo
anno del corso per diventare
infermiera, per una strana
combinazionel’hoincontrato.
In quell’occasione anche sua
madre
ha
fatto
una
sensazionaleentratainscena,
erainvischiatainunavicenda
cheassomigliavaaunastoria
di fantasmi. Non sono sicura
che mi crederai. Vuoi sentire
com’èandata?
– Assolutamente, – disse
Habara.
– Allora te lo racconto la
prossima volta, – concluse
Shahrazād. – Perché è una
storia piuttosto lunga, e ora
devo tornare a casa per
prepararelacena.
Si alzò, si rimise slip e
reggiseno, infilò le calze, la
sottoveste, la gonna e la
camicetta.Habara,ancoranel
letto, la osservava compiere
quellaseriedigesti.Preferiva
quasi vederla vestirsi che
spogliarsi.
– C’è qualche libro che
vuoichetiporti?–glichiese
Shahrazād prima di uscire.
Lui rispose di no, nessun
libro in particolare. Perché
voleva soltanto conoscere il
seguito di quella storia,
pensò, ma non lo disse.
Aveva l’impressione che
esprimere quel desiderio
avrebbe
allontanato
indefinitamente il momento
atteso.
QuellaseraHabaraandòa
lettopiúprestodelsolitoesi
mise a pensare a Shahrazād.
Potevaanchedarsichenonsi
facesse
piú
vedere.
Un’eventualità che non era
esclusa e che lo metteva in
ansia. Tra lui e Shahrazād
non c’era alcun patto
personale. Il loro era un
legame creato da qualcuno
che poteva interromperlo
quando gli pareva, a suo
capriccio. Insomma, erano
uniti in modo precario da un
filo
sottilissimo.
Probabilmente un giorno,
anzi,
«sicuramente
un
giorno» sarebbe arrivato
l’annuncio che tutto era
finito. Che il filo era stato
spezzato.Primaopoisarebbe
successo, non c’era da
dubitarne. E quando lei fosse
andata via, Habara non
avrebbe piú potuto sentirla
raccontare. La narrazione si
sarebbeinterrottaetantealtre
storie
nuove
sarebbero
rimaste
per
sempre
inascoltate.
Oppure gli sarebbe stata
toltaognilibertà,colrisultato
che avrebbe perso non solo
Shahrazād ma tutte le donne.
La probabilità che accadesse
era alta. In tal caso, non
avrebbe mai piú potuto
penetrare in fondo al loro
corpo umido. Mai piú
avrebbe potuto sentirle
vibrare leggermente. Ma la
prospettiva
davvero
insopportabileperlui,piúche
la preclusione dell’atto
sessuale in sé, era di non
poter piú passare insieme a
loro momenti di intimità.
Perdere le donne in
conclusione
significava
proprio questo. Perché le
donne offrivano un tempo
speciale che annullava la
realtà,
pur
restandovi
immerse. Era qualcosa che
Shahrazād gli aveva regalato
in quantità generosa, eppure
inestinguibile. Per Habara,
dover rinunciare un giorno a
tutto questo era forse la piú
penosadelleprospettive.
Chiusegliocchiesmisedi
pensare a lei. Pensò alle
lamprede. Alle lamprede che
non avevano mento, e
fluttuavano
dolcemente
attaccate a una roccia,
dissimulate fra le alghe. Si
trasformò in una di loro e
attese che passasse una trota.
Ma per quanto aspettasse, di
trote non ne vide arrivare
nemmeno una. Né grassa, né
magra,nénulla.Poiilgiorno
finí e tutto venne avvolto da
tenebreprofonde.
Kino
L’uomo sedeva sempre
allo stesso posto. L’ultimo
sgabelloinfondoalbancone,
che di solito era libero, a
meno che il bar fosse
affollato. Ma tanto per
cominciare, succedeva di
radochecifossemoltagente
in quel locale, e poi gli
avventori non apprezzavano
particolarmente
quella
posizione defilata. A causa
dellascalasulretroilsoffitto
in quel punto scendeva in
diagonale, e alzandosi si
rischiava di battere la testa.
Mal’uomo,puressendoalto,
sembrava prediligere quel
postoscomodo.
Kino ricordava bene la
prima volta che l’uomo era
venuto. Prima di tutto aveva
il cranio perfettamente rasato
(dalla
sfumatura
azzurrognola,
sembrava
fresco di tonsura), inoltre,
nonostante fosse magro,
aveva le spalle larghe e una
luce vigile negli occhi. Gli
zigomi sporgenti e il mento
forte. Età: fra i trenta e i
trentacinque anni. Indossava
un lungo impermeabile
grigio, anche se non pioveva
né minacciava di piovere.
Motivo per cui Kino si era
chiesto se non fosse uno
yakuza. Si era subito sentito
un po’ teso, già in allarme.
Era una sera piuttosto fresca
verso la metà di aprile,
appena passate le sette e
mezza, e non c’erano altri
clienti.
L’uomo andò a sedersi
sull’ultimosgabelloinfondo,
si tolse l’impermeabile,
l’appeseaunattaccapannisul
muro, ordinò una birra con
voce tranquilla, poi si mise a
leggereinsilenziounospesso
volume. Dall’espressione del
viso, sembrava totalmente
assorto nella lettura. Circa
una mezzora dopo, quando
terminò la birra, alzò una
mano per chiamare Kino e
ordinò un whisky. Alla
domanda se avesse delle
preferenze riguardo alla
marca,risposedino.
–
Possibilmente
un
normale scotch, doppio. Con
la stessa quantità d’acqua, e
pocoghiaccio,perfavore.
Possibilmente uno scotch?
Kinoversòinunbicchieredel
White Label, vi aggiunse
altrettanta acqua, spezzò del
ghiaccio con il punteruolo e
scelse due pezzi piccoli ben
riusciti. L’uomo bevve un
sorso e disse che andava
benissimo. Lesse per un’altra
mezzora,poisialzò,chieseil
conto e pagò in contanti. Per
non cambiare banconote,
diede giusti anche gli
spiccioli.Quandoseneandò,
Kino tirò un sospiro di
sollievo. L’ombra della
presenza di quell’uomo,
tuttavia,
continuò
ad
aleggiare nel bar. Mentre
preparava degli stuzzichini
per
accompagnare
le
bevande, Kino ogni tanto
alzava la testa e gettava
un’occhiata allo sgabello
dov’era seduto fino a poco
prima. Come se si aspettasse
di vederlo lí, a sollevare una
manoperchiedergliqualcosa.
L’uomo prese l’abitudine
di frequentare il bar di Kino.
Venivaunaoancheduevolte
alla settimana. Ordinava
prima una birra, poi un
whisky (White Label, la
stessa quantità d’acqua, poco
ghiaccio). Succedeva che ne
chiedesse un secondo, ma di
solito si limitava a un
bicchiere.
Certe
sere
sceglieva
di
mangiare
qualcosa di leggero fra le
proposte del menu scritto
sullalavagna.
Era un uomo taciturno.
Anche dopo essere diventato
un avventore abituale, non
apriva mai bocca, se non per
ordinare. Quando incontrava
losguardodiKinofacevaun
breve cenno con la testa,
quasi dicesse: «Mi ricordo
bene di te, sai?» Arrivava
relativamente presto con un
libro sotto il braccio, lo
posava sul bancone e si
metteva a leggere. Uno
spesso volume rilegato. Kino
nonl’avevamaivistoconun
libro in edizione tascabile.
Quandosistancavadileggere
(c’era da supporre che si
stancasse), alzava gli occhi
dalla pagina e guardava le
bottiglie sullo scaffale di
fronte a lui, una per una.
Come se esaminasse animali
rariimpagliati,provenientida
paesilontani.
Una volta abituatosi alla
sua presenza, però, Kino
smise di sentirsi a disagio
trovandosi solo con quel
cliente. Kino stesso era
taciturno, e stare in
compagniadiqualcunosenza
parlare non gli dava alcun
fastidio. Mentre l’uomo era
assorto nella lettura, lui
lavava i bicchieri, preparava
una salsa, sceglieva i dischi
da mettere sullo stereo,
oppure si sedeva a leggere il
giornale,comesefossesolo.
Non conosceva il nome di
quell’uomo. Mentre l’uomo,
invece, sapeva che lui si
chiamava Kino. Come il suo
bar. L’uomo non si presentò
mai, e Kino non gli chiese
mai nulla. Era soltanto un
cliente abituale che veniva,
beveva una birra e poi un
whisky, leggeva in silenzio,
pagava in contanti e se ne
andava. Non disturbava
nessuno. Cos’altro c’era da
sapere?
Kino aveva lavorato per
diciassetteanniinunadittadi
articoli sportivi. Quando
frequentava la facoltà di
Educazione fisica eccelleva
nella corsa su media
lunghezza. Ma al terzo anno,
a causa di un’infiammazione
del tendine di Achille, aveva
dovutorinunciareallacarriera
professionistica, e dopo la
laurea, su raccomandazione
del suo allenatore, era stato
assunto in quella ditta, dove
si occupava soprattutto del
settore delle scarpe da corsa.
Il suo lavoro consisteva nel
cercare di aumentarne la
distribuzione nei negozi di
articoli sportivi in tutto il
paese, e di far crescere,
almeno di uno, il numero
degli atleti importanti che
sponsorizzavano le scarpe di
quella marca. Quell’impresa
di media grandezza con sede
a Okayama non aveva il
prestigio della Mizuno o
dell’Asics.
Né
poteva
investire grosse somme di
denaro
per
assicurarsi
contratti
esclusivi
con
campioni mondiali, come
facevano la Nike o l’Adidas.
Non dava a Kino nemmeno i
soldi necessari per invitare
qualche atleta famoso. Se
volevaoffrireunacenaauno
di loro, doveva tagliare sulle
spese di viaggio, o pagare di
tascapropria.
Eppure la sua ditta
produceva
onestamente
scarpe da corsa di prima
qualità fatte a mano, e non
erano pochi gli sportivi che
apprezzavano quel modo di
lavorare
preciso
e
coscienzioso. «Quando si
lavora bene, i risultati si
vedono», era l’opinione del
presidente, che era anche il
fondatore.
Probabilmente
quellapoliticaimprenditoriale
sobria,controcorrenterispetto
ai tempi, era nelle corde di
Kino. Pur essendo un uomo
schivo e di poche parole,
riusciva infatti a svolgere
decorosamenteilsuoruolodi
rappresentante.
Proprio
perchénoneraunimbonitore,
sapeva conquistare la fiducia
di molti allenatori e la
simpatia di alcuni atleti. Si
faceva spiegare da ognuna di
queste persone quale tipo di
scarpa gli servisse, e una
volta tornato in sede
trasmetteva le richieste agli
incaricati della fabbricazione.
Era un lavoro tutto sommato
interessante,eKinolofaceva
volentieri.Lostipendiononsi
poteva dire buono, ma c’era
la soddisfazione di occuparsi
di qualcosa che sembrava
fattosumisuraperlui.Ormai
non poteva piú correre, ma
guardare gli atleti in piena
crescita che si allenavano in
pista con stile ed energia era
unveropiacere.
Se Kino aveva lasciato la
ditta, quindi, non era certo
perchénefossescontento.Vi
era stato spinto da un
problema scoppiato come un
fulmine a ciel sereno, un
problema di coppia: aveva
scoperto che un suo collega,
quello con cui era piú in
confidenza,
aveva
una
relazione con sua moglie.
Kino passava piú tempo in
viaggidilavorocheaTōkyō.
Girava per tutto il paese con
una sacca piena zeppa di
scarpedacorsa,andavadaun
negozio di articoli sportivi
all’altro, si presentava nelle
università e nelle ditte che
avessero una squadra di
atletica.Einsuaassenzaquei
due si vedevano. Lui non era
il tipo da fare attenzione a
certi indizi. Era convinto di
andare d’amore e d’accordo
con la moglie e non aveva
mai dubitato di lei. Se una
volta, per puro caso, non
fosse rientrato con un giorno
di anticipo, forse non si
sarebbemaiaccortodiniente.
Dalla città dov’era stato
per lavoro, era tornato
direttamente
al
suo
appartamento nel quartiere di
Kasai, e aveva trovato la
moglie e quell’uomo nudi,
una sopra l’altro, nella
camera di casa sua; nel letto
matrimoniale dove aveva
sempre dormito con lei. La
situazionenonlasciavaspazio
a fraintendimenti: sua moglie
era
accovacciata
su
quell’uomo, in una posizione
tale che, quando Kino aprí la
porta, se la trovò davanti, di
faccia. Vide i suoi bei seni
andare avanti e indietro.
All’epoca
lui
aveva
trentanove
anni,
lei
trentacinque. Non avevano
figli. Kino si voltò, si chiuse
alle spalle la porta della
stanza,ripreselasaccaconla
robasporcadiunasettimana,
uscí di casa e non fece piú
ritorno. Il giorno dopo diede
ledimissioni.
Kinoavevaunazianubile,
la sorella maggiore di sua
madre.Eraunadonnaconun
bel viso che aveva sempre
voluto molto bene a quel
nipote.Dadiversianniaveva
un fidanzato piú vecchio di
lei(forsesarebbemegliodire
un amante) che con grande
generosità le aveva offerto
una villetta nel quartiere di
Aoyama. Una storia degna
dei bei tempi antichi. Lei
viveva al primo piano, e al
pianterreno aveva aperto un
caffè.C’eraancheunpiccolo
giardino, con un magnifico
salicedallafrondarigogliosa.
Si trovava in una stradina
dietro il museo Nezu, una
posizione poco favorevole a
un’attività commerciale di
quelgenere,masuaziaaveva
il talento di calamitare la
gente,egliaffarileandavano
piuttostobene.
Purtroppo però la zia, che
aveva piú di sessant’anni,
soffrivadidoloriallaschiena
e a poco a poco trovava
sempre piú faticoso gestire il
locale. Cosí aveva deciso di
chiudere e trasferirsi in un
residencecontermeannessea
Izukōgen, nella penisola di
Izu. Il posto era anche
equipaggiato
per
la
fisioterapia. Di conseguenza,
tre mesi prima che Kino
scoprisse che la moglie lo
tradiva,gliavevapropostodi
prendere il suo posto quando
lei si fosse ritirata. Lui le
aveva
risposto
che
apprezzava
molto
quell’offerta, ma per il
momento non era sua
intenzioneaccettare.
Subito
dopo
essersi
licenziato in ufficio, Kino
telefonòallaziaperchiederle
seavessegiàcedutoillocale.
No, la vendita era stata
affidata
a
un’agenzia
immobiliare, ma non si era
ancora
presentato
un
acquirente affidabile, gli
risposelei.
–Mipiacerebbemetteresu
unbar,lí.Prenderloinaffitto,
se possibile, pagandoti un
tanto al mese… – propose
Kino.
–Ecomefaicollavoroin
ditta?
– Mi sono appena
licenziato.
–Tuamoglieèd’accordo?
– Da mia moglie
divorzierò molto presto,
credo.
Kino non disse il motivo,
la zia non fece domande.
Dall’altra parte del filo ci fu
un breve silenzio. Poi la zia
gli disse quanto gli avrebbe
chiestoalmeseperaffittargli
eventualmente il locale, una
somma molto inferiore a
quella che lui aveva
immaginato. Se le cose
stannocosí,pensòKino,forse
celafarò.
– Riceverò anche una
piccola liquidazione, quindi
non ho intenzione di crearti
problemi,zia,–disse.
– Di questo non mi
preoccupo affatto, – tagliò
cortolei.
Non è che Kino e sua zia
si fossero parlati molto negli
anni (sua madre non vedeva
di buon occhio troppa
confidenza fra loro), eppure
stranamente si erano sempre
capiti.Laziasapevabeneche
tipo d’uomo fosse il nipote:
se faceva una promessa, la
manteneva.
Usando la metà dei suoi
risparmi, Kino ristrutturò
l’interno
del
locale
trasformandolo in un bar. Lo
ammobiliò nel modo piú
semplice possibile, con
un’asse di legno lunga e
spessa si fece costruire un
bancone, comprò delle sedie
nuove. Tinteggiò le pareti in
colori tranquilli, cambiò le
luci con altre piú adatte a un
luogo dove si beveva alcol.
Portò da casa i dischi della
sua modesta collezione e li
dispose su uno scaffale.
Installò un buon sistema
stereo – della Thorens, gli
amplificatori invece erano
della Luxman, e le casse Jbl
2ways–cheavevacomprato,
con molto sforzo, prima di
sposarsi. Gli era sempre
piaciuto ascoltare vecchio
jazz registrato in analogico.
Era il suo solo hobby, un
hobby che non condivideva
con nessuno dei suoi amici.
Inoltre da studente aveva
lavorato part-time in un pub
di Roppongi, e con i cocktail
selacavava.
Il bar lo chiamò «Kino».
Non gli venne in mente un
nome migliore. La prima
settimana non vide nemmeno
un cliente. Ma era una cosa
chesiaspettava,quindinonsi
lasciòscoraggiare.Nonaveva
detto a nessuno dei suoi
conoscenticheavrebbeaperto
un locale. Non aveva fatto
pubblicità
né
appeso
all’esterno
un’insegna
appariscente. Semplicemente
attendeva che qualcuno
scoprisse quel bar aperto da
poco in fondo a una stradina
laterale, e lo trovasse di suo
gusto. Gli restavano ancora
un po’ dei soldi della
liquidazione, e la moglie,
dallaqualesistavaseparando
legalmente, non pretendeva
gli alimenti. Lei ormai
convivevaconl’excollegadi
Kino, quindi l’appartamento
diKasaidoveavevanoabitato
insieme non serviva piú.
L’avevano venduto, avevano
estinto il mutuo, e diviso a
metà fra loro la somma
restante. Kino decise di
sistemarsi nell’alloggio sopra
il bar. Per qualche tempo
potevatirareavanti.
Nellocaledeserto,Kinosi
gustava finalmente il piacere
di ascoltare la musica o di
leggere quanto voleva.
Accolse la solitudine e il
silenzio
con
molta
naturalezza, come il terreno
arido assorbe la pioggia.
Metteva spesso sul giradischi
un assolo al piano di Art
Tatum.
Si
addiceva
perfettamente
alle
sue
condizioni di spirito in quel
momento.
Per qualche ragione, non
provavanécolleranérancore
verso la moglie e il suo ex
collega che se l’era portata a
letto. Naturalmente all’inizio
lo shock era stato forte, ma
bene o male era riuscito a
rimuovere quel pensiero, e
dopo un po’ di tempo era
arrivato alla conclusione che
«tanto non ci poteva fare
niente». Era una fine
annunciata. In vita sua non
aveva mai ottenuto nulla,
prodotto nulla. Non era
capace di rendere felice
nessuno, e ovviamente
neppure se stesso. E poi
cos’era la felicità? A quel
puntoKinononlosapevapiú.
Dolore e collera, delusione e
rassegnazione…
erano
emozionichenonriuscivapiú
a provare veramente. Quello
cheriuscivaamalapenaafare
era crearsi un luogo a cui
ancorarsi,perimpedirealsuo
cuore, che delle emozioni
avevapersolaprofonditàeil
peso, di andare alla deriva.
«Kino», quel piccolo locale
nascosto in fondo a una
stradina,
era
la
manifestazione concreta di
quel luogo. Col risultato che
eradiventatounpostodoveci
si sentiva stranamente a
proprioagio.
Prima ancora degli esseri
umani, a scoprire quanto si
stava bene da «Kino» era
stato un gatto randagio dal
pelo grigio. Era un giovane
maschio con una bella coda
lunghissima. Sembrava che
gli piacesse particolarmente
uno scaffale incavato in un
angolo del locale, perché si
metteva sempre a dormire
raggomitolato
lí.
Kino
cercava di non occuparsene
troppo.Probabilmentevoleva
solo essere lasciato in pace.
Una volta al giorno gli dava
da mangiare e gli cambiava
l’acqua. Altre cose per lui
non ne faceva. Gli aveva
soltanto aperto una gattaiola
inmodochepotesseentraree
uscire liberamente. Ma il
gatto,chissàperché,preferiva
passare dalla porta come le
persone.
Poteva anche darsi che
quel gatto avesse portato con
sé un flusso positivo. Perché
gli
avventori,
seppur
gradualmente, cominciarono
ad arrivare. Ad attirarli era
l’atmosfera di quella villetta
in fondo alla strada –
l’insegnapocoappariscentee
ilmagnificosalicevecchiodi
anni, il giovane titolare
taciturno… e gli lp che
giravano sul piatto dello
stereo, il menu che contava
pochi piatti leggeri ma
semprediversi,ilgattogrigio
acciambellatoinunangolo…
Alcuni clienti venivano con
regolaritàeavolteportavano
con sé altra gente. Kino era
ancora
lontano
dal
guadagnarebene,mariusciva
almeno a rientrare del costo
dell’affitto.Perluierapiúche
sufficiente.
L’uomo dalla testa rasata
eraentratoperlaprimavolta
nel locale circa due mesi
dopo l’apertura. E ne
passaronoaltridueprimache
Kino venisse a sapere il suo
nome. Si chiamava Kamita.
«Siscrivecongliideogrammi
che significano “divinità” e
“risaia” 1, ma non si legge
Kanda, si legge Kamita»,
aveva detto. Non stava
parlandoconKino,però.
Quella sera pioveva. Non
tanto, quel che bastava per
chiedersi se convenisse
prenderel’ombrelloono.Nel
locale,oltreaKamita,c’erano
due uomini vestiti di scuro
che erano venuti insieme.
Erano circa la sette e mezza.
Kamita, come sempre, aveva
occupato lo sgabello tutt’in
fondo al bancone e leggeva
bevendo White Label. I due
uomini invece erano seduti a
un tavolo e bevevano vino.
Quandoeranoentratiavevano
tirato fuori una bottiglia di
Médoc da un sacchetto di
carta e avevano chiesto se
potevano berla lí, pagando
cinquemila yen per il
disturbo. Dato che non c’era
la fila, Kino, non avendo
motivodirifiutare,dissedisí.
Aveva stappato la bottiglia e
portato loro due bicchieri da
vino.Insiemeaunpiattinodi
snack. Non era un gran
disturbo.Ilproblemaerachei
due
fumavano
in
continuazione, e Kino, cui il
fumo dava fastidio, non era
molto contento della loro
presenza. Visto che non
c’eranoaltriclienti,sisedette
su uno sgabello ad ascoltare
unlpdiColemanHawkinsin
cuierainclusaJoshuaFitthe
BattleofJericho.L’assolodel
contrabbassista Major Holley
erastraordinario.
I due uomini all’inizio
bevevano
chiacchierando
amichevolmente, ma a un
certo punto qualcosa scatenò
una discussione. Di cosa
parlassero, Kino non riusciva
a capirlo, ma sembravano
avere opinioni opposte su un
determinato
argomento
perché a poco a poco, fallito
ogni tentativo di trovare un
compromesso,
si
infiammaronoaunpuntotale
che trasformarono quella che
era stata una discussione
educata in un vero e proprio
litigio. A un certo punto uno
dei due si alzò, e nella foga
sollevò da un lato il tavolino
facendo cadere a terra il
posacenere pieno di sigarette
e uno dei bicchieri, che si
ruppe in mille pezzi. Kino
andòaprenderelascopa,pulí
il pavimento, portò un altro
posacenere e un altro
bicchiere.
Kamita–inquelmomento
Kino non sapeva ancora che
si chiamasse cosí – non
faceva niente per nascondere
quantotrovasseriprovevoleil
comportamento arrogante dei
due uomini. Benché non
avesse cambiato espressione,
conleditadellamanosinistra
continuavaatamburellaresul
bancone, come un pianista
che provi una chiave
interessante. È necessario
metter fine a questa lite,
pensò Kino. Era uno di quei
casi in qui doveva assumersi
lui la responsabilità della
situazione. Tornò al tavolino
dei due uomini, si scusò, e
chiese loro gentilmente di
abbassareiltonodivoce.
Uno dei due sollevò lo
sguardo su di lui. Nei suoi
occhic’erairritazione.Sialzò
inpiedi.Finoaquelmomento
Kinononciavevafattocaso,
ma era grande e grosso. Non
eccessivamente alto, ma con
un torace ampio e braccia
spesse. Avrebbe potuto
facilmente essere un lottatore
sumo. Probabilmente non
avevamaipersounazuffafin
da quando era bambino. E
noneraabituatoasentirsidire
quel che doveva fare. Kino,
quandofrequentavalafacoltà
di Educazione fisica, ne
aveva visti parecchi, di tipi
cosí. Non erano il genere di
persona con cui si può
discuteretranquillamente.
L’uomo
che
lo
accompagnava era molto
meno grosso. Mingherlino, il
coloritolivido,avevaunviso
astuto. Dava l’impressione di
essere
bravissimo
a
manipolareglialtri.Anchelui
sialzò.OraKinoerainpiedi
di fronte ai due. Sembrava
avesserodecisodisospendere
momentaneamente
la
discussioneeoccuparsidilui.
Comeperincantosembròche
il loro respiro si fosse
sincronizzato. Quasi che
entrambi sapessero quale
piega avrebbero preso gli
avvenimenti.
– Come ti permetti di
interrompere la gente quando
parla, tu? – chiese quello
grosso.
Entrambi
indossavano
vestiti in apparenza costosi,
cheaunesamepiúattentosi
sarebbero
probabilmente
rivelati di qualità mediocre.
Forse non erano dei veri e
propri yakuza, ma ci
andavano vicino. In ogni
caso, né l’uno né l’altro
sembravano il genere di
persona che svolge un
mestiereonesto.Ilpiúgrosso
aveva i capelli a spazzola, il
piú basso – che li aveva tinti
castani – li portava legati in
una specie di coda di cavallo
che ricordava la pettinatura
deisamurai.Kinosapevache
si stava mettendo nei guai. Il
sudore gli colava a rivoli
sottoleascelle.
–Scusate,–feceunavoce
allesuespalle.
Voltandosi, vide che
Kamita era sceso dal suo
sgabelloesieraavvicinato.
– Fatemi il favore di non
prendervela con il gestore, –
disseKamitaindicandoKino.
–Sonoiochel’hopregatodi
chiedervidiabbassareiltono
di voce, eravate molto
rumorosi.Stoleggendoenon
riescoaconcentrarmi.
Kamita aveva parlato a
voce meno alta di quanto
faccia di solito la gente, e
prolungandolepause.Eppure
si aveva l’impressione che
qualcosa, da qualche parte,
avesse lentamente iniziato a
muoversi.
– Sta leggendo e non
riesce a concentrarsi nella
lettura, – ripeté parola per
parola il mingherlino. Come
severificassechenoncifosse
qualche errore di sintassi
nellafrase.
– Non ce l’ha una casa,
lei?–chieseilgrosso.
–Síchecel’ho,–rispose
Kamita.–Abitoquivicino.
– Allora perché non se ne
tornaaleggereacasasua?
– Perché mi piace leggere
qui,–disseKamita.
I due compari si
scambiaronoun’occhiata.
–Melopresti,ilsuolibro,
– fece il mingherlino. –
Glieloleggoio.
– A me piace leggere in
pacedasolo,–disseKamita.
– Perché non sopporto
quando la gente confonde gli
ideogrammi.
–Divertente,questoqui,–
disse il grosso. – Che
ridere…
– Come si chiama, lei? –
chiesel’altro.
–Kamita.Siscrivecongli
ideogrammi che significano
«divinità» e «risaia», ma non
si legge Kanda, si legge
Kamita –. Fu cosí che Kino
venne a sapere il nome di
quell’uomo.
–Loterròamente,–disse
ilgrosso.
– Buona idea. I ricordi in
qualche modo danno forza, –
fuilcommentodiKamita.
– Senta, perché non
andiamo a parlare fuori?
Credo che ci potremo
spiegare meglio, – propose il
mingherlino.
– D’accordo. Andiamo
pure dove vuole. Prima però
dobbiamo pagare il conto,
altrimenti è il gestore che ci
perde.
– Certamente, – disse il
mingherlino.
Kamita chiese il conto a
Kino e lasciò la somma
precisachedoveva,inclusigli
spiccioli, sul bancone. Codadicavallo tirò fuori dal
portafoglio una banconota da
diecimila yen e la gettò sul
tavolino.
– Con questo siamo a
posto anche per il bicchiere
rotto,no?
– È piú che sufficiente, –
risposeKino.
– Un bar da poveracci, –
feceilgrosso.
–Ilrestononlovogliamo,
usalo per comprare dei
bicchieri da vino decenti, –
disseaKinoCoda-di-cavallo.
– In quelli che ci hai dato,
anche il vino di qualità fa
schifo.
– Sí, proprio un bar da
poveracci,–ripetéilgrosso.
– Infatti, questo è un bar
da poveracci dove vengono
dei poveracci, – gli disse
Kamita.–Nonèadattoavoi.
Cenesonoaltri,dibaradatti
a voi. Non chiedetemi dove,
però…
– Ma dice cose divertenti,
questo qui, – fece il tipo
grosso.–Cheridere…
– Rida piú tardi, per
favore, quando ci ripenserà
con calma, – gli rispose
Kamita.
–Inognicaso,nontoccaa
lei dirci dove dobbiamo
andare e dove no, – fece
Coda-di-cavallo. Poi tirò
fuori la lingua per leccarsi
lentamente
le
labbra.
Sembravaunserpentedavanti
aunapreda.
L’uomo grosso aprí la
portaeuscí,seguitodaCodadicavallo. Il gatto dovette
percepire
l’atmosfera
minacciosa, perché scappò
fuorimalgradolapioggia.
– Tutto a posto? – chiese
KinoaKamita.
– Non c’è motivo di
preoccuparsi, – rispose lui
con un accenno di sorriso
sulle labbra. – Lei resti qui,
signorKino,nonfaccianiente
e attenda che io ritorni. Non
cimetteròmolto–.Poiuscíe
chiuselaporta.
Pioveva ancora, piú forte
diprima.Kinoandòasedersi
suunosgabelloeaspettòche
il tempo passasse, come gli
era stato detto di fare. Non
c’era pericolo che entrassero
altri clienti. Fuori c’era un
silenzio sinistro, non si
sentiva il minimo rumore. Il
libro che Kamita stava
leggendo, come un cane ben
addestrato,erarimastoaperto
sul bancone in attesa del suo
padrone. Trascorsi dieci
minuti, la porta si aprí e
Kamitaentrò,solo.
– Potrebbe prestarmi un
asciugamano, per favore? –
chiese.
Kino gliene porse uno
pulito. Kamita lo usò per
strofinarsi la testa bagnata,
poilanuca,lafaccia,einfine
lemani.
–Laringrazio.Oraètutto
a posto. Quei due non si
faranno rivedere. E non le
darannopiúalcunfastidio.
– Ma… che cosa è
successo?
Kamita scosse piano la
testa.Comeperdire:«Meglio
chenonlosappia».Poitornò
a sedersi al suo posto, bevve
quel che restava del suo
whisky e riprese a leggere
comesenullafosse.Primadi
andareviachieseilconto,ma
Kino gli ricordò che aveva
giàpagato.
– Ah, è vero, – fece lui
quasiconl’ariadiscusarsi;si
tirò
su
il
colletto
dell’impermeabile, mise in
testailcappelloalargatesa,e
uscí.
Quando se ne fu andato,
Kino uscí a sua volta e fece
ungironeidintorni.Tuttoera
tranquillo. Non passava
anima viva. Non c’erano
tracce di rissa, non si vedeva
sangue. Cosa poteva mai
essere successo? Tornò nel
bar e rimase in attesa di
clienti. Ma non venne
nessuno fino all’ora di
chiusura. Non tornò neppure
il gatto. Kino si versò in un
bicchiere un doppio White
Label, ci mise la stessa
quantità d’acqua, due piccoli
pezzi di ghiaccio e lo
assaggiò.Nonavevaungusto
speciale. Era quello che era.
Ma quella sera Kino aveva
bisognodibere.
Da studente, una volta, in
una via laterale di Shinjuku
avevaassistitoaunlitigiofra
untipochedovevaessereuno
yakuza e due giovani
impiegati. Lo yakuza era un
uomo
di
mezza
età
dall’aspetto
malandato,
mentre i due giovani
sembravano molto piú in
forma. Erano un po’ brilli,
motivo per cui avevano
sottovalutato
l’avversario.
Probabilmente conoscevano
qualche rudimento di boxe.
Ma a un certo punto lo
yakuza aveva stretto una
mano a pugno e senza dire
una parola, con uno scatto
repentino, li aveva colpiti
senza che quelli nemmeno lo
vedessero arrivare. E quando
erano a terra li aveva presi
furiosamente a calci con la
suola delle scarpe di cuoio.
Dalrumore,c’eradasupporre
che avesse spezzato loro
diverse ossa. Poi l’uomo si
era allontanato a piedi come
se nulla fosse. Questo è un
professionista, aveva pensato
Kino quella volta. Uno che
non diceva una parola di
troppo, decideva in anticipo
le mosse, e colpiva
velocissimo, prima che
l’avversario avesse il tempo
di prepararsi. Lo stendeva,
poi infieriva su di lui senza
pietà. E se ne andava. Un
dilettante non aveva nessuna
chancedibatterlo.
Kinoimmaginòlascenain
cui Kamita in pochi secondi
metteva fuori combattimento
quei due uomini. A pensarci
bene,dalsuoaspettofisicosi
poteva immaginare che fosse
unpugile.Inognicaso,Kino
non aveva modo di sapere
cosa fosse successo in quella
sera di pioggia. Né di
chiederespiegazionialui.Piú
si lambiccava il cervello, piú
ilmisterosiinfittiva.
Una settimana dopo
quell’episodio, Kino andò a
letto con una cliente. Era la
prima donna con la quale
aveva un rapporto da quando
si era separato dalla moglie.
Doveva avere una trentina
d’anni o poco piú. Non la si
poteva definire veramente
bella,maavevalunghicapelli
lisci,ilnasocorto,equalcosa
che attirava gli sguardi. Nel
mododiparlareedimuoversi
aveva un ineffabile languore
e sul viso un’espressione
indecifrabile.
Era già venuta diverse
voltenelbardiKino.Sempre
insieme a un uomo piú o
meno della sua età. L’uomo
aveva degli occhiali dalla
montatura di tartaruga e il
mentoornatodaunabarbetta
in stile beatnik. Capelli
lunghi, niente cravatta…
dall’aspetto non sembrava un
normale impiegato. Lei
indossava sempre tubini
attillati che mettevano in
risaltoilsuobelcorposnello.
Sedevano ogni volta al
bancone e scambiavano
qualche parola di tanto in
tanto mentre bevevano un
cocktail.Nonrestavanomaia
lungo.
Kino
aveva
immaginato che venissero a
berequalcosaprimadiandare
a letto. Oppure il contrario,
dopo aver fatto l’amore.
Difficile dirlo. Comunque
fosse, nel loro modo di bere
c’era qualcosa che per
associazione di idee faceva
venire in mente un rapporto
sessuale.Unrapportolungoe
intenso. Entrambi erano
stranamente
inespressivi,
soprattutto lei, che Kino non
avevamaivistoridere.
La donna ogni tanto gli
parlava. Sempre a proposito
della musica che in quel
momento usciva dalle casse.
Il nome dei musicisti, la
selezione dei pezzi, cose del
genere… Amava il jazz, e
possedeva anche lei una
piccolacollezionedidischiin
vinile,disse.
– Mio padre a casa
ascoltava spesso questo tipo
di musica. Io preferisco cose
piú moderne, ma anche
questa non mi dispiace, mi
mettenostalgia.
Dalle sue parole era
difficile capire se a darle
nostalgia fosse la musica o il
ricordo del padre. Ma Kino
nonchiesespiegazioni.
Adirelaverità,cercavadi
limitare le chiacchiere con
quella donna. Perché l’uomo
che l’accompagnava non
sembrava gradire troppa
confidenza. L’unica volta in
cui aveva avuto con lei una
vera conversazione sulla
musica (avevano scambiato
informazioni sui negozi di lp
disecondamanoeparlatodel
mododimaneggiareidischi),
l’uomo gli aveva lanciato
occhiate fredde e sospettose.
E Kino desiderava tenersi
possibilmentelontanodaquel
genere di grane. Tra tutte le
emozioni umane, non ce ne
sonodipeggioridellagelosia
e dell’orgoglio. Kino aveva
soffertoacausaditutteedue.
Ognitantosichiedevasenon
avesse in lui qualcosa che
faceva emergere di continuo
quel lato oscuro delle
persone.
Tuttavia, quella volta lei
venne sola. Non c’erano altri
avventori.Eraunaseraincui
pioveva senza sosta. Quando
aprílaporta,l’ariadellanotte
siingolfònellocaleportando
l’odore della pioggia. La
donna si sedette al bancone,
ordinò un brandy e chiese di
metterle un disco di Billie
Holiday. – Uno dei primi, se
possibile, – disse. Kino posò
sul piatto dello stereo un
vecchio lp della Columbia
checomprendevaGeorgiaon
My Mind. Lo ascoltarono
insieme, in silenzio. Poi lei
chiesedigirarlosullatoB,e
Kinoeseguí.
La donna bevve tre
bicchieri
di
brandy,
mettendoci parecchio tempo,
e nel frattempo ascoltò
diversi vecchi dischi. Erroll
Garner in Moonglow, Buddy
DeFranco in I Can’t Get
Started. All’inizio Kino era
convinto
che
avesse
appuntamento con il solito
tipo, ma l’ora di chiusura si
avvicinava, e dell’uomo non
si vedeva l’ombra. Quanto a
lei, non dava veramente
l’impressione di aspettarlo.
La prova: non guardava mai
l’orologio. Ascoltava la
musica, seguiva i suoi
pensieri,ognitantobevevaun
sorso di brandy. Sembrava
cheilsilenziononlamettesse
a disagio. E il brandy è un
genere d’alcol cui il silenzio
si addice. Lo si fa oscillare
leggermente, se ne osserva il
colore, se ne annusa
l’aroma… e intanto si fa
passare il tempo. Lei
indossava
un
leggero
cardiganblusuunabitonero
a mezze maniche. Alle
orecchie aveva dei piccoli
orecchinidiperle.
–Oggiilsuoamicononè
venuto? – si decise a
chiederle Kino poco prima
dellachiusura.
– No, oggi non viene.
Perché sta in un posto molto
lontano, – rispose lei; poi si
alzò dal suo sgabello, si
avvicinò
al
gatto
addormentato e con la punta
delle dita cominciò ad
accarezzarlo con dolcezza
sulla schiena. Il gatto seguitò
adormiresenzabadarle.
– D’ora in poi, non
abbiamointenzionedivederci
piú, – proseguí lei come se
volessedareunaspiegazione.
O forse stava parlando al
gatto.
In ogni caso, Kino non
sapeva come rispondere. Al
di là del bancone, continuò
semplicemente a riordinare,
senza dire una parola. Pulí il
ripiano della cucina, lavò gli
utensili e li ripose in un
cassetto.
– Come dire… – riprese
leismettendodiaccarezzareil
gatto e tornando verso il
bancone: i suoi tacchi alti
risuonavanosulpavimento.–
Sa, la nostra non è una
relazionechesipossadefinire
normale.
– Non si può definire
normale…
–
ripeté
pedestrementeKino.
La donna finí di bere il
brandy che restava nel
bicchiere.
– C’è una cosa che vorrei
mostrarle, signor Kino, –
disse.
Di qualsiasi cosa si
trattasse, Kino non aveva
alcunavogliadivederla.Non
era obbligato a farlo. Lo
sapeva
benissimo
fin
dall’inizio. Eppure in quel
momento non riuscí a
pronunciare le parole che
avrebbedovuto.
Leisitolseilcardiganelo
posòsuunosgabello.Portòle
manidietrolanucaetirògiú
la cerniera del vestito. Poi
voltò la schiena verso Kino.
Poco al di sotto della stringa
del reggiseno, si vedevano
alcunipiccolilividi.Eranodi
un grigio carbone sbiadito, e
lalorodisposizioneirregolare
faceva pensare a una
costellazione invernale. Una
serie di scure stelle spente.
Potevano essere i segni
lasciatidaun’eruzionedovuta
a una malattia contagiosa. O
lecicatricidiunaferita.
Perlunghiminutiladonna
mostrò a Kino la schiena
nuda, senza parlare. Il
grigiore dei lividi faceva uno
strano contrasto col bianco
splendente del reggiseno
nuovo. Kino la guardava in
silenzio,comequalcunoacui
siastatafattaunadomandadi
cuinoncapisceilsignificato.
Non riusciva a distogliere gli
occhi dalla sua schiena.
Finalmenteladonnatiròsula
cernieraesivoltò.Sirimiseil
cardiganecomeperprendere
temposirassettòicapelli.
– Mi hanno spento delle
sigarette sulla pelle, – disse
connaturalezza.
Kino rimase un attimo
senza parole. Però doveva
direqualcosa.
– Chi le ha fatto una cosa
delgenere?–lechieseconla
gola
improvvisamente
asciutta.
Lei non rispose. Né dava
segno di volerlo fare.
D’altronde Kino non aveva
bisogno di aspettare la
risposta.
–Chissàsepossoprendere
ancoraunbrandy…–dissela
donna.
Kinoleriempídinuovoil
bicchiere. Lei ne bevve un
sorso e assaporò il calore
dell’alcol che lentamente
scendeva fino in fondo al
petto.
– Sa, signor Kino, – disse
poi.
Kino,
che
stava
asciugando un bicchiere, si
fermò e alzò il viso a
guardarla.
– Ne ho altri, di questi
segni, – concluse lei con
indifferenza.–Inpostiunpo’
imbarazzantidamostrare.
Per quale moto del cuore
quellaseraavevainiziatouna
relazioneconlei,Kinononlo
ricordava. Che quella donna
avesse qualcosa di speciale,
l’avevasentitofindall’inizio.
Qualcosachesilenziosamente
avevamessoinallarmeilsuo
istinto:conquestaqui,meglio
non lasciarsi coinvolgere piú
di tanto. Oltretutto c’erano
quelle tracce di bruciature di
sigaretta sulla schiena. Kino
era un uomo prudente di
natura. Quando provava il
bisogno di un corpo
femminile,potevarivolgersia
una professionista. Pagava, e
la cosa finiva lí. Inoltre lei
nonerailsuotipo.
Quella sera però, quella
donna provava l’intenso
desiderio di fare l’amore con
un uomo – nella fattispecie
con Kino. Il suo sguardo
mancava di profondità, solo
lesueiridieranostranamente
dilatate.C’eradeterminazione
in esse, un luccichio che non
consentiva
tentennamenti.
Kino non era riuscito a
resistere a tanta energia. Non
neavevalaforza.
Chiuse il bar e salí con la
donna la scala che portava al
piano di sopra. Nella camera
da letto illuminata lei si sfilò
in fretta il vestito, si tolse la
biancheriaintimaegliapríil
suo corpo. Gli fece vedere
quei
posti
«un
po’
imbarazzanti da mostrare».
D’istinto, Kino distolse gli
occhi. Per un attimo, poi
guardò. Non capiva quale
sentimento potesse spingere
un uomo ad azioni tanto
crudeli, e una donna a
sopportare tanto dolore, né
aveva voglia di capirlo. Era
qualcosa che distava anni
luce dal suo mondo, il
paesaggio desolato di un
pianetasterile.
Ladonnaglipreselamano
elaportòsullecicatricidelle
bruciature.Glielefecetoccare
tutte una per una. Ne aveva
anche vicino ai capezzoli,
vicinoalsesso.Guidatedalla
mano di lei, le dita di Kino
seguirono quei segni scuri e
induriti. Come quando con
unamatitasitracciaunalinea
cheuniscedeipuntinumerati,
finché appare una figura. Il
perimetro di quei segni gli
ricordava qualcosa, ma alla
fine non riuscí a collegarlo a
nulla.Poiladonnaglitolsei
vestitiefecesessoconluisui
tatami della stanza. Senza
conversazioni né preliminari,
senza prendere il tempo di
spegnere la luce o tirar fuori
il futon. Gli spinse la lingua
tra le labbra, gli conficcò le
unghienellaschiena.
Come due belve affamate,
sotto la luce accesa, senza
parlarsi,iduesisaziaronopiú
volte della carne bramata.
Fecero l’amore in tanti modi
e tante posizioni, senza quasi
fermarsi. Smisero quando
fuori
dalla
finestra
cominciava ad albeggiare: si
infilarono nel futon e si
addormentarono come se
venissero trascinati via dalle
tenebre. Poco prima di
mezzogiorno, quando Kino
aprí gli occhi, la donna se
n’era già andata. Aveva
l’impressionediaverfattoun
sogno
tremendamente
realistico. Ma non era stato
unsogno.Sullaschienaaveva
ancora i segni profondi delle
unghie di lei, sul petto quelli
dei suoi morsi, e il pene che
lei gli aveva stretto forte era
ancoradolorante.Sulcuscino
bianco c’erano alcuni lunghi
capelli neri che disegnavano
deimulinelli,enellelenzuola
erarimastounintenso,strano
odore.
In seguito, lei era tornata
ancora diverse volte al bar.
Sempreinsiemeall’uomocon
la barbetta. Si sedevano al
bancone,
bevevano
un
cocktaildopol’altroparlando
tranquillamente, e se ne
andavano. La donna ogni
tanto scambiava qualche
parola con Kino, di solito
riguardoallamusica.Dalsuo
tono noncurante, si sarebbe
dettochenonricordassenulla
di quella notte. In fondo ai
suoi occhi però c’era la luce
di un intenso desiderio. Kino
la poteva vedere. C’era e
brillavacomeunalanternain
fondo a una galleria buia,
senzapossibilitàdidubbio.A
Kino quella luce intensa
faceva tornare in mente il
dolore provato quando lei gli
aveva conficcato le unghie
nellaschienaostrettoforteil
pene, il movimento rotatorio
della sua lunga lingua, e
l’insolito, intenso odore
rimasto nel futon. Gli diceva
che non avrebbe mai potuto
dimenticare.
Mentre Kino e la donna
parlavano, l’uomo che era
con
lei
osservava
attentamente, con l’occhio di
un lettore esperto in grado di
leggere fra le righe,
l’atteggiamento di Kino,
l’espressione del suo viso.
Tra quell’uomo e quella
donnasiintuival’esistenzadi
unasortadifeelingvischioso,
appiccicaticcio. Sembravano
condividere,
loro
due
soltanto, un pesante segreto.
Kino, come sempre, non
riuscivaacapiresevenissero
al bar prima di fare sesso o
dopo. Ma da una delle due
alternative non si scappava,
su questo non aveva dubbi.
Inoltre, altro dettaglio che
trovava strano, né l’uno né
l’altrafumavano.
Prima o poi la donna,
probabilmenteinunanottedi
pioggia tranquilla, sarebbe
venuta da sola. Sarebbe
venutaquandol’uomoconla
barbetta si fosse trovato «in
un posto molto lontano».
Kinolosapeva.Glielodiceva
quella luce intensa che le
vedevainfondoagliocchi.Si
sarebbe seduta al bancone,
avrebbe bevuto in silenzio
diversi brandy, in attesa che
arrivasse l’ora di chiusura.
Poi sarebbe salita con lui al
primo piano, si sarebbe
svestita, avrebbe dischiuso il
suo corpo sotto la lampada e
mostrato i segni delle
bruciature recenti. Insieme
avrebbero di nuovo fatto
sessocomeduebestie.Senza
pensare a nulla, finché non
fosse arrivata l’alba. Prima o
poi sarebbe successo, ma
chissà quando… Il momento
l’avrebbe deciso lei. A quel
pensiero,Kinosentivalagola
seccarsi. E una sete che, per
quanta acqua bevesse, non
potevaplacare.
Verso la fine dell’estate il
divorzio divenne finalmente
ufficiale,einquell’occasione
per la prima volta Kino
incontrò
l’ex
moglie.
Restavano diverse questioni
da sistemare, e l’avvocato di
lei aveva fatto sapere a Kino
che la signora desiderava
parlargli a quattr’occhi.
Decisero di vedersi al bar di
lui,primadell’apertura.
Risolti in fretta tutti i
problemi (Kino non si era
opposto a nessuna delle
richiestepresentategli),gliex
marito e moglie firmarono i
documenti. Lei indossava un
abitoazzurroeavevaicapelli
molto piú corti di prima.
Sembrava anche piú serena e
inmiglioricondizionifisiche.
Avevapurepersoquelfilodi
grasso che all’epoca aveva
iniziato ad accumulare sulle
braccia. Insomma, aveva
iniziato una vita nuova e
probabilmente piú piena. Si
guardò attorno e disse che
quel bar era davvero un bel
locale, che in qualche modo
rifletteva la personalità di
Kino: tranquillo e pulito,
aveva
un’atmosfera
rilassante. Seguí un breve
silenzio. «Ma privo di
qualcosa
che
faccia
veramente vibrare il cuore»,
Kino immaginò che volesse
aggiungere.
– Bevi qualcosa? – le
chiese.
– Un sorso di vino rosso,
senehai.
Kino prese due bicchieri
da vino e vi versò dello
Zinfandel della Napa Valley.
Bevvero in silenzio. Non era
il caso di brindare alla
conclusione della pratica di
divorzio.Ilgattosiavvicinòe
saltòsulleginocchiadiKino,
cosa che faceva raramente.
Lui lo accarezzò dietro le
orecchie.
– Devo chiederti scusa, –
disselei.
–Dicosa?–chieseKino.
– Di averti ferito. Perché
sei rimasto ferito, no?
Almenounpo’…
– Be’, sí… – fece Kino
dopo una pausa. – Sono
anch’io un essere umano,
quindisonovulnerabile.Setu
mi abbia ferito tanto o poco,
però,nonsapreidirlo.
– Se ho voluto vederti, è
perché trovavo doveroso
scusarmi.
Kinoannuí.
–Tutiseiscusata,eioho
accettatoletuescuse.Quindi
possiamo anche archiviare
l’argomento.
– Avrei voluto confessarti
tutto prima che accadesse
quello che è accaduto, ma
nonneavevoilcoraggio.
– Sí, ma comunque la si
rigiri, l’esito sarebbe stato lo
stesso,no?
– È vero, – ammise lei. –
Però, se ti avessi parlato…
invece ho aspettato, ho
aspettato, ed è finita nel
peggioredeimodi.
Kino portò in silenzio il
bicchiere alle labbra. Se
doveva essere sincero, cosa
fosse successo quella volta
nonseloricordavaquasipiú.
La sua memoria non riusciva
ametterenelgiustoordinegli
eventi.
Come
l’indice
sottosopradiunlibro.
– Non è colpa di nessuno,
–disse.–Forsesarebbestato
meglio che io non fossi
tornato a casa con un giorno
d’anticipo. Oppure che ti
avessi
avvisata
prima.
Avremmoevitatoquelfinale.
Lamoglienondissenulla.
–Daquantotempodurava
larelazioneconlui?
–Preferireinonparlarne.
– Vuoi dire che è meglio
cheiononlosappia?
Leitacque.
–Già,forsehairagione,–
riconobbe Kino, riprendendo
acarezzareilgatto.Ilgattosi
mise a fare le fusa, era la
primavoltachesuccedeva.
–Forsenontoccherebbea
me darti questo consiglio, –
disse la donna che era stata
sua moglie, – ma faresti
meglio a dimenticare tutto al
piúpresto,iniziareunanuova
storiaconun’altrapersona.
– Mah, chissà… – rispose
Kino.
– Sicuramente da qualche
parte c’è una donna adatta a
te. Non penso che avrai
difficoltà a trovarla. Io non
sono stata capace di
diventarlo, e ti ho fatto una
cosa crudele. Ne sono
veramente desolata. Ma tra
noi due, fin dall’inizio, era
come… come dei bottoni
sfasati rispetto alle asole. Tu
sei una persona che può
trovarelafelicitàinmodopiú
semplice.
«Dei
bottoni
sfasati
rispetto alle asole», pensò
Kino.
Guardò il vestito azzurro
cheleiindossava.Datochele
sedeva di fronte, non poteva
sapere come si chiudesse
sulla schiena. Non riuscí a
fare a meno di rivedere col
pensieroilcorpochesarebbe
apparso tirando giú la
cerniera o slacciando i
bottoni. Un corpo che ormai
non gli apparteneva piú. Che
nonpotevapiúnéguardarené
toccare. Poteva soltanto
immaginarlo.Masechiudeva
gliocchi,sullaschienabianca
e liscia di lei vedeva infiniti
segni scuri lasciati da
bruciature, segni che si
contorcevano irrequieti come
unosciamediinsettiviviesi
muovevano strisciando in
tante direzioni. Per scacciare
quella fantasia sinistra, Kino
scosse leggermente il capo
due o tre volte. Un
movimentodicuisuamoglie
sembrò comprendere il
significato.
Posòcondolcezzalamano
suquelladiKino.
– Ti chiedo perdono, –
disse.–Davvero.
Quando venne l’autunno,
prima sparí il gatto, poi
cominciarono a comparire i
serpenti.
Prima che Kino si
accorgesse che il gatto non
c’era piú, passarono alcuni
giorni. Perché quel randagio
senzanomevenivanellocale
soltanto quando ne aveva
voglia, e succedeva spesso
che per un po’ di tempo non
sifacessevedere.Igattisono
creature che tengono molto
alla
loro
libertà.
Probabilmente trovava del
cibo anche in altri posti.
Quindi non c’era da
preoccuparsi se per una
settimana o una decina di
giorni
non
compariva.
Quando la sua assenza si
prolungò oltre le due
settimane,
però,
Kino
cominciò a inquietarsi. Non
era mica finito sotto una
macchina, per caso? Passate
tre settimane, capí che non
sarebbemaipiútornato.
Kino a quel gatto si era
affezionato. Gli dava da
mangiare,gliavevapreparato
una cuccia, e cercava di
disturbarlo il meno possibile.
Anche il gatto sembrava
legato a lui, e per essere
gentile, o per non mostrarsi
ostile,loricompensavaconla
sua presenza. Era come se
svolgesse il ruolo di nume
protettore del locale. Finché
c’era lui, tranquillamente
addormentato in un angolo,
sembrava che non potesse
accaderenientedibrutto.
Piú o meno all’epoca in
cuisparíilgatto,iniziaronoa
farsivederedeiserpenti.
Il primo era marrone
scuro.
Piuttosto
lungo.
Avanzavacontorcendosisotto
il salice che faceva ombra al
giardino.
Kino
stava
prendendo dalla tasca la
chiave di casa, una busta
piena di vettovaglie su un
braccio, quando lo vide.
Vedere un serpente in pieno
centro di Tōkyō non è una
cosa che capiti tutti i giorni.
Ne fu un po’ sorpreso, ma
non
vi
diede
molta
importanza.
Tuttavia due giorni dopo,
verso mezzogiorno, quando
dall’interno aprí la porta per
prendereilgiornale,scorseun
altro serpente, di nuovo sotto
il salice. Questo aveva un
colore bluastro. Era piú
piccolodelprimoed’aspetto
viscido… Percependo la
presenza di Kino, si bloccò,
alzòleggermentelatestaelo
guardò in faccia (perlomeno,
questa era l’impressione che
dava). Mentre Kino si
chiedeva perplesso cosa fare,
il serpente abbassò la testa e
sparí nell’ombra con un
guizzo. Kino non poté fare a
meno di provare un senso di
repulsione.Perchéilserpente
sembravaconoscerlo.
Futregiornidopochevide
il terzo, quasi nello stesso
posto dei primi due. Questo
era molto piú corto, e di
colore nerastro. Kino non
sapevanulladiserpenti.Però
intuí che era estremamente
pericoloso.
Con
ogni
probabilità il suo morso era
letale, ma come verificarlo?
L’aveva visto soltanto per
pochi secondi. Perché anche
questo serpente, avvertita la
suapresenza,sieradileguato
nell’erba. Tre serpenti in una
settimana erano davvero
troppi. Stava succedendo
qualcosa,daquelleparti.
Telefonò a sua zia a Izu.
Dopo averle raccontato
brevemente come andavano
le cose, le chiese se avesse
maivistodeiserpentiintorno
aquellavillettadiAoyama.
– Dei serpenti? – ripeté la
zia sbalordita. – Quelli…
quelli che strisciano, vuoi
dire?
Kinolespiegòcheperben
tre volte aveva visto dei
serpentinelgiardinodicasa.
–Cihovissutomoltianni,
lí,manonricordodiavermai
vistounserpente,–risposela
zia.
– Quindi non è normale,
vero? Vederne tre di fila in
unasettimana…
– No che non lo è. Per
niente. Può darsi che sia un
segno premonitore, che stia
per arrivare un forte
terremoto.
Gli
animali
sentono in anticipo quando
sta per succedere qualcosa, e
si comportano in modo
anomalo.
–Intalcaso,èmegliofare
scortadicibo,–disseKino.
– Sí, meglio. Tanto,
vivendo a Tōkyō, puoi star
sicuro che prima o poi un
terremotoarriva.
– Ma è normale che i
serpenti si preoccupino tanto
deiterremoti?
La zia gli disse che non
sapeva assolutamente di cosa
si preoccupassero i serpenti.
E naturalmente non ne aveva
ideanemmenoKino.
– Però sono animali furbi,
– disse la zia. – Nella
mitologia antica, spesso
fanno da guida agli esseri
umani. Stranamente, è una
cosa che si ritrova in miti e
leggende di tutto il mondo.
Ma per capire se portano in
unadirezionebuonaocattiva,
è necessario seguirli. Cioè in
molticasipuòesserealtempo
stesso sia l’una che l’altra
cosa.
–Sonoambigui,insomma,
–feceKino.
–Appunto.Iserpentisono
pernaturaanimaliambigui.E
il piú grande e furbo di tutti,
per non venire ucciso
nasconde il cuore da un’altra
parte. Cosí, se lo vuoi
ammazzare,devientrarenella
sua tana quando lui non c’è,
trovareilsuocuorechebatte
e tagliarlo in due. Va da sé
chenonèunacosafacile.
Kino era impressionato da
quanto estese fossero le
conoscenzedellazia.
– Lo diceva qualche
giorno fa alla televisione un
professoredinonsopiúquale
università.
Sul
canale
nazionale
c’era
un
programma
in
cui
paragonavano i miti del
mondo. Ti insegnano un
sacco di cose utili, alla
televisione.Lagentesbagliaa
parlarne male. Dovresti
guardarla di piú anche tu,
quandohaitempo.
Da quella conversazione
con sua zia, Kino aveva
capito almeno una cosa: che
vedere tre serpenti diversi in
una settimana non era
normale.
A mezzanotte chiuse il
locale e salí al primo piano.
Feceilbagno,lesseunpo’…
erano quasi le due quando
spense la luce. In quel
momento ebbe l’impressione
di essere circondato da
serpenti.Avevanoaccerchiato
la
casa
in
numero
incalcolabile. Riusciva a
percepirli acquattati nel
giardino. A notte fonda tutto
taceva nel quartiere, l’unico
rumore che si sentisse ogni
tanto era la sirena di qualche
ambulanza. I serpenti si
avvicinavano strisciando, gli
sembrava di sentirli. Per
impedire loro di entrare in
casa, chiuse la gattaiola
inchiodandocisopraun’asse.
Almeno per il momento,
non sembravano voler fare
nulla di male a Kino. Si
accontentavano di circondare
silenziosamente,
ambiguamente,
quella
villetta. Ecco forse il motivo
percuiilgattogrigiononera
piú venuto! Anche la donna
con i segni delle bruciature
sembrava sparita. Nelle sere
di pioggia Kino temeva di
vederla entrare da sola, e al
tempo stesso, nel segreto del
suo cuore, lo sperava. Anche
questaeraunacosaambigua.
Unasera,pocoprimadelle
dieci, ricomparve Kamita.
Ordinò una birra, bevve un
doppio White Label, e
mangiòpersinodegliinvoltini
di verza. Non era mai
successo che venisse cosí
tardi,echesifermassetantoa
lungo. A tratti alzava gli
occhi dal libro che stava
leggendo e si metteva a
fissareilmurodifronteasé.
Sembrava assorto in qualche
pensiero. Comunque attese
l’ora di chiusura, quando
l’unicoclienterimastonelbar
eralui.
–SignorKino,–dissecon
voce diversa, come se avesse
fatto
le
dovute
considerazioni,
–
sono
davvero desolato che sia
successaunacosadelgenere.
– Una cosa del genere? –
ripetéKinosorpreso.
– Che lei debba chiudere
questo locale. Anche solo
temporaneamente.
Kino lo guardò a bocca
aperta.Chiudereillocale?
Kamita diede un’occhiata
attorno, per assicurarsi che
noncifossepiúnessuno.Poi
guardòKinoinfaccia.
– Sbaglio, o il significato
delle mie parole non le è
ancorachiaro?
– Infatti. Non capisco di
cosaleistiaparlando.
– A me piaceva, questo
posto, – riprese Kamita col
tono di chi dà una
spiegazione.–Potevoleggere
indisturbato, e anche la
musica
era
di
mio
gradimento. Ero molto
contento quando lei l’ha
aperto in questa strada. Ma
purtroppo pare che siano
venuteamancaremoltecose.
– Molte cose? – Che
significato
avevano,
concretamente,quelleparole?
Kino non capiva. L’unica
cosa che gli veniva in mente
era una ciotola col bordo un
po’sbeccato.
– Anche quel gatto grigio
non tornerà piú, vero? –
chieseKamitasenzadareuna
risposta.–Almenoperunbel
po’.
– Non torna perché qui
mancanodellecose?
Di nuovo Kamita non
risposealladomanda.
Kinoasuavoltasiguardò
intorno attentamente, ma non
notò nulla di anormale.
Semplicemente il locale
sembravaaveremenoenergia
vitale e colore del solito,
anche dopo l’orario di
chiusura.
– Lei non è il genere di
persona
che
fa
intenzionalmente qualcosa di
scorretto. Questo lo so bene.
Maaquestomondoastenersi
dal far male non sempre
basta. Ci sono persone che
credonodicavarselaevitando
diagire.Micapisce?
No, Kino non ci capiva
niente.Lodisse.
– Ci pensi bene, – fece
Kamita guardandolo dritto
negli occhi. – È un problema
grave che ha bisogno di una
riflessione profonda. Un
problema cui non è facile
trovareunarisposta.
– Cioè, sta dicendo che il
problema si è verificato non
perchéioabbiafattoqualcosa
di scorretto, ma perché non
ho fatto la cosa giusta. Un
problemacheriguardaquesto
locale, oppure la mia
persona…
Kamitaannuí.
– Le cose stanno proprio
cosí.Manonhointenzionedi
darelacolpasoloalei.Anche
io avrei dovuto rendermi
conto della situazione molto
prima. C’è stata negligenza
anchedapartemia.Nonsono
soltanto io a sentirmi a mio
agio in questo posto, sono
sicuro che tutti ci si trovano
bene.
–Maioadessocosadovrei
fare?–chieseKino.
Kamita taceva, le mani
infilate
nelle
tasche
dell’impermeabile.
– Chiuda il locale per un
certoperiodo,vadalontano,–
disse poi. – Per il momento,
pare che non ci sia molto
altro che lei possa fare. Se
conosce qualche bonzo
insigne, si faccia recitare dei
sutra e gli chieda degli
amuleti
da
affiggere
tutt’intorno alla casa. Di
questi tempi però non se ne
trovano
facilmente,
di
personecosí.Quindièmeglio
che lei se ne vada da qui
prima delle prossime piogge.
Scusi l’indiscrezione, ma ha
soldi a sufficienza per
intraprendere un lungo
viaggio?
– Be’, dipende dalla
durata,maperqualchetempo
dovreifarcela,–disseKino.
– Tanto meglio. A quello
che succederà dopo, ci
penserà quando sarà il
momento.
–Sí,mascusi…leichiè?
–IosonosoltantoKamita.
Si scrive con gli ideogrammi
di «divinità» e «risaia», ma
nonsileggeKanda.Abitonel
quartieredamoltianni.
– Signor Kamita, c’è una
cosa che vorrei chiederle, –
disse Kino d’impulso. – Lei
percasohavistodeiserpenti
da queste parti, negli ultimi
tempi?
A quella domanda Kamita
nonrispose.
–Mihacapitobene,vero?
– disse invece. – Vada
lontano e si sposti di
frequente, mi raccomando.
Un’altra cosa: ogni lunedí e
ogni giovedí mi mandi una
cartolinaillustrata.Cosísaprò
cheleièsanoesalvo.
–Unacartolinaillustrata?
–Sí,unaqualunque,basta
che sia del posto dove si
trova.
– Ma a chi devo
indirizzarla?
–AsuaziaaIzu.Manon
scrivailnomedelmittente,e
niente messaggi, nemmeno
unrigo.Scrivasoloilnomee
l’indirizzo del destinatario.
Non lo dimentichi, è molto
importante.
–Leièamicodimiazia?–
chiese Kino al colmo dello
stupore,guardandol’uomo.
– Sí, la conosco bene. A
dire la verità, è lei che si è
rivolta a me a titolo
precauzionale. Mi ha chiesto
di tenerla d’occhio, in modo
chenonlesuccedessenulladi
brutto.Maparecheiononsia
stato all’altezza delle sue
aspettative.
Insomma, chi diavolo era
quell’uomo,cosavoleva?Ma
se non era lui a spiegarglielo
di sua iniziativa, Kino non
avevamododisaperlo.
–Quandoriterròchepotrà
tornare, glielo farò sapere.
Nel frattempo, si tenga
lontano da qui. Sono stato
chiaro?
Quella notte, Kino fece i
bagagli in vista del viaggio.
«È meglio che lei se ne vada
da qui prima delle prossime
piogge». Un avviso troppo
brusco,
senza
una
spiegazione.Enessunalogica
nel susseguirsi degli eventi.
Kino
però
credeva
fermamente alle parole di
Kamita. Era una storia
assurda, ma per qualche
motivo non dubitava che
fosse vera. Il discorso di
Kamita aveva una strana,
irrazionale
forza
di
persuasione. Infilò dei vestiti
di ricambio e alcuni effetti
personali in una sacca di
medie dimensioni. La stessa
che portava con sé quando si
spostavaperlavoro,all’epoca
in cui era impiegato nella
ditta di articoli sportivi.
Sapeva bene cosa fosse
necessario e cosa no, per un
lungoviaggio.
Sul far dell’alba affisse
con una puntina da disegno
un foglio di carta sulla porta
delbar:Chiedoscusapernon
aver avvisato prima, ma il
locale al momento è chiuso.
«Vada lontano», aveva detto
Kamita.Mainpraticanongli
venivainmentenessunposto.
Doveva dirigersi a nord? A
sud? Non sapeva nemmeno
quello,diconseguenzadecise
di seguire lo stesso percorso
che faceva spesso quando
vendeva scarpe da corsa.
Prese un autobus delle linee
interregionali e andò a
Takamatsu.Avevaintenzione
difareungiroperloShikoku,
poipassarenelKyūshū.
A Takamatsu si fermò in
un modesto hotel vicino alla
stazioneevipassòtregiorni.
Girovagò per la città, vide
diversifilm.Icinemadurante
la giornata erano quasi vuoti,
e proiettavano pellicole
mediocri. Al calar della sera
tornava in albergo e
accendeva la televisione.
Guardava soprattutto il
programma educativo che gli
avevaconsigliatosuazia,ma
non
ottenne
nessuna
informazione che avrebbe
potuto essergli utile. Il
secondo giorno – un giovedí
–, comprò una cartolina
illustrata in un minimarket,
l’affrancò e la spedí alla zia.
Ci scrisse sopra soltanto il
nome e l’indirizzo, come gli
avevadettoKamita.
La sera del terzo giorno
pagò i servizi di una
prostituta. Il numero di
telefono glielo diede un
tassista. Era una ragazza
giovane, sui vent’anni, e
aveva un bel corpo liscio e
snello. Ma fare sesso con lei
fu insipido dall’inizio alla
fine. Era soltanto un mezzo
per placare la libido, ma a
direlaveritànonplacòunbel
niente. Al contrario, a cose
fatte Kino aveva piú sete di
prima.
«Ci pensi bene, – aveva
detto Kamita. – È un
problema grave che ha
bisogno di una riflessione
profonda». Ma per quanto si
scervellasse,
Kino
non
riusciva a capire in cosa
consistesseilproblema.
Quella notte pioveva. Non
molto forte, era la tipica
pioggiaautunnalechesembra
non dover smettere mai.
Senza pause e senza
variazioni d’intensità, come
una monotona confessione
ripetuta piú volte. Kino non
ricordava nemmeno quando
era iniziata, quella pioggia
che portava con sé soltanto
unafreddaapatia.Nonaveva
nessuna voglia di uscire con
l’ombrello per cercare un
ristorante. In realtà poteva
anche fare a meno di cenare.
Ilvetrodellafinestraaccanto
al letto era coperto di
goccioline d’acqua che si
rinnovavano di continuo.
Kino non riusciva a staccare
gli occhi dai minimi
mutamenticheavvenivanosu
quel vetro, perso in pensieri
sconclusionati. Al di là si
estendeva la città con le sue
strade buie. Da una
bottiglietta si versò del
whisky in un bicchiere, vi
aggiunse la stessa quantità
d’acqua minerale e bevve.
Senza ghiaccio. Non se la
sentiva
nemmeno
di
trascinare i piedi fino al
distributore di ghiaccio in
corridoio. La sensazione
tiepida del liquido era in
perfetta sintonia con la
fiacchezza che aveva in
corpo.
Una volta si fermò in un
business hotel 2 vicino alla
stazione di Kumamoto. Il
soffitto era basso, il letto
stretto, e tutto nella stanza –
televisore, vasca da bagno,
frigorifero – era molto
piccolo. Lí dentro aveva
l’impressione di essere
diventato un gigante. Ma
quella mancanza di spazio
non l’opprimeva. Rimase
chiuso in camera tutta la
giornata.Ancheacausadella
pioggia,nonmisemaiilnaso
fuori, se non per andare al
minimarket piú vicino, dove
comprò una bottiglietta di
whisky, acqua minerale e dei
cracker. Steso sul letto
leggeva, quando si stufava
guardava la televisione, poi
riprendevaaleggere…
A Kumamoto rimase tre
giorni. In banca gli restava
ancoradenaroasufficienza,e
volendo avrebbe potuto
fermarsi in alberghi migliori.
Ma nella situazione in cui si
trovava, sentiva che quel
generedipostoerapiúadatto
alui.Standosenetranquilloin
unapiccolastanza,nonaveva
bisogno di preoccuparsi di
niente e gli bastava stendere
la mano per raggiungere la
maggiorpartedellecose.Era
una
situazione
che
apprezzava. Se avesse anche
potuto ascoltare la musica,
non gli sarebbe mancato piú
nulla. Teddy Wilson, Vic
Dickenson,BuckClayton…a
volte gli veniva un desiderio
indolente di ascoltare quei
musicisti jazz d’altri tempi.
Una tecnica sicura, accordi
semplici, la gioia genuina di
suonare,
l’ottimismo
addirittura prodigioso… Ciò
che Kino desiderava in quei
momenti era proprio quella
musica,unamusicacheormai
non esisteva piú. Ma la sua
collezione di dischi era
lontana, era rimasta in un
posto lontano. Gli venne in
mente il suo bar ormai
chiuso, buio e silenzioso. Il
grande salice in fondo alla
stradina. Immaginò i clienti
che arrivavano, leggevano il
foglio attaccato alla porta, e
se ne andavano rassegnati. E
ilgatto,dov’erafinito?Anche
sefossetornato,vedendoche
non c’era piú possibilità di
entrare e uscire, sarebbe
andatoviadeluso.Echissàse
quei misteriosi serpenti
accerchiavano ancora zitti
zittilacasa…
Di fronte a quella stanza
all’ottavo piano c’era un
palazzo di uffici. Era un
edificioaltoestrettocostruito
con
materiali
scadenti,
attraverso le cui finestre, al
piano corrispondente al suo,
Kino poteva vedere diverse
persone lavorare dal mattino
alla sera. Qua e là le
veneziane erano tirate giú,
quindi la visuale era
frammentaria
e
non
permetteva di capire in quale
settore operasse quella ditta.
C’erano uomini in giacca e
cravatta che entravano e
uscivano,
donne
che
battevano sulla tastiera dei
computer, rispondevano al
telefono,mettevanoinordine
dei documenti. Non era uno
spettacolo che lo attraesse
particolarmente. Anche le
facce e il modo di vestire di
quellepersoneeranodeltutto
banali. Se Kino le guardava
per ore senza stancarsi, era
solo perché non aveva
nient’altrodafare.Malacosa
che trovava strana, anzi, che
lo riempiva di stupore, era
che quella gente a volte
sembrava
veramente
divertirsi. C’era anche chi
ognitantosifacevaunabella
risata.Assurdo!Cosac’eradi
tanto piacevole nel lavorare
per tutto il giorno in quello
squallido ufficio, svolgendo
mansioni che Kino non
riusciva
a
immaginare
interessanti? Quel posto era
depositario di un importante
segretoaluiincomprensibile?
A quel pensiero Kino si
sentivaunpo’inquieto.
Ma era tempo di pensare
alla località successiva. «Si
sposti di frequente, mi
raccomando»,gliavevadetto
Kamita. Per qualche ragione
misteriosa, però, Kino era
riluttante a staccarsi da
quell’angusto business hotel
di Kumamoto. C’erano posti
dove gli sarebbe piaciuto
andare? Paesaggi che gli
sarebbepiaciutovedere?Non
gli veniva in mente nulla. Il
mondo era un immenso
oceano privo di punti di
riferimento, e Kino una
barchetta che aveva perso
carta nautica e ancora.
Quando apriva la cartina del
Kyūshū per cercare di capire
doveavrebbepotutodirigerei
suoi passi, veniva preso da
una leggera nausea, come se
avesse il mal di mare.
Sdraiato sul letto leggeva,
ogni tanto alzava il capo e
osservava la gente al lavoro
nell’ufficio di fronte. Man
mano che il tempo passava
perdeva peso e sentiva la
pelle
diventare
quasi
trasparente.
Il giorno prima, lunedí,
aveva comprato al negozio
dell’albergo una cartolina
raffigurante il castello di
Kumamoto,viavevascrittoil
nomeel’indirizzodisuazia,
e incollato un francobollo.
Poi con la cartolina in mano
era rimasto a lungo a
osservare, sovrappensiero, la
fotografia del castello. Il
genere di veduta perfetto per
una cartolina. Una fortezza
che si stagliava maestosa
contro il cielo azzurro e
nuvole bianche sullo sfondo.
Anche detto Ginnan-jō. Uno
deitrepiúimportanticastelli
in Giappone, diceva la
didascalia. Per quanto lo
guardasse, Kino non riusciva
atrovareunpuntodicontatto
fra quel castello e se stesso.
Allora voltò la cartolina, e
nello spazio bianco scrisse
d’impulso due righe per la
zia: Come stai? Come va la
tua schiena? Io sto ancora
girovagando da solo. A volte
ho l’impressione di essere
diventato
per
metà
trasparente. Come se si
potessero vedere le mie
viscere, come se fossi una
seppiaappenapescata.Maa
partequesto,stobene.Prima
opoipensodipassaredaIzu.
Kino.
Non sapeva quale moto
dell’animo l’avesse spinto in
quelmomentoascriverequel
messaggio.
Kamita
gliel’aveva
severamente
proibito. «Solo il nome e
l’indirizzo del destinatario,
nient’altro!
Non
lo
dimentichi», gli aveva detto.
Ma Kino non era riuscito a
trattenersi.
Doveva
ricollegarsi in qualche modo
alla realtà. Altrimenti non
sarebbepiústatosestesso.La
sua
mano,
quasi
automaticamente,
aveva
riempito di ideogrammi
minuscoli e precisi il piccolo
spazio bianco. Prima di
cambiare idea, era subito
andato a infilare la cartolina
nellabucaperleletterevicino
all’albergo.
Quando aprí gli occhi, la
sveglia digitale sul comodino
segnavale2e15delmattino.
Qualcuno bussava alla porta
della stanza. Non erano colpi
forti, erano brevi, duri e
concisicomequellichedàun
bravo carpentiere dalle
braccia robuste quando
conficcaunchiodonellegno.
Inoltrelapersonachebussava
sembrava sapere bene che
quei colpi arrivavano alle
orecchiediKino.Sapevache
lo tiravano fuori dal sonno
profondo delle prime ore del
mattino, da una breve,
compassionevole pausa di
riposo,
per
riportare,
instancabili e crudeli, la sua
coscienzaallapienalucidità.
Kino sapeva chi era, chi
gli chiedeva con tanta
ostinazionediusciredalletto
eaprirelaporta.Esapevache
non poteva aprire la porta
dall’esterno. Solo lui, Kino,
potevafarlo,dall’interno.
Ancora una volta, quella
visita era la cosa che piú
desiderava, e al tempo stesso
piútemeva.Proprioinquesto
consiste
l’ambiguità,
nell’occupare lo spazio fra
due estremi. «Perché sei
rimastoferito,no?Almenoun
po’…», gli aveva chiesto sua
moglie.Leavevarispostoche
anche lui era un essere
umano, quindi vulnerabile,
come tutti. Ma non era vero.
O perlomeno era una mezza
bugia. Non era rimasto ferito
abbastanza, non quanto
avrebbe dovuto, ammise
Kino. Invece di soffrire
veramente, aveva represso le
sensazioni essenziali. Aveva
evitato di affrontare di petto
la realtà per risparmiarsi un
gravedolore,colrisultatoche
si era svuotato di ogni
capacità
di
provare
sentimenti. Cosí i serpenti si
erano impossessati di quella
cavità e avevano cercato di
nascondere lí il loro gelido
cuore.
«Non sono soltanto io a
sentirmiamioagioinquesto
posto,sonosicurochetuttici
si trovano bene», erano state
le parole di Kamita.
Finalmente Kino capiva cosa
avevavolutodirgli.
Si tirò il piumone sulla
testa, chiuse gli occhi e si
tappòleorecchieconlemani,
per rifugiarsi nel suo piccolo
mondo angusto. Non vedo
nulla e non sento nulla, disse
a se stesso. Ma era tutto
inutile. Poteva anche fuggire
in capo al mondo e sigillarsi
le orecchie con l’argilla:
finché fosse stato in vita,
finché avesse conservato un
barlume di coscienza, il
rumore di quei colpi lo
avrebbe perseguitato. Non
venivano dati alla porta di
una camera d’albergo, ma a
quella del suo cuore. Era un
suono cui nessuno poteva
sfuggire. E fino all’alba –
ammessochearrivasseancora
un’alba – dovevano passare
lungheore.
Dopo un tempo che non
riuscí a calcolare, a un certo
punto si accorse che i colpi
eranocessati.Lastanzaeradi
nuovo silenziosa come la
faccia in ombra della luna.
Kino però, sempre nascosto
sotto il piumone, non si
mosse. Non doveva essere
imprudente. Soffocando ogni
segnodellasuapresenza,tese
le orecchie e nel silenzio
cercò di percepire qualche
indizio
funesto.
Quel
«qualcuno» dall’altra parte
della porta non era tipo da
arrendersi cosí facilmente.
Tanto piú che non aveva
fretta. In cielo non c’era la
luna, solo l’ombra nera di
costellazioni estinte. Ancora
per qualche tempo il mondo
apparteneva a «quelli lí».
«Quelli lí» avevano tante
modalità diverse. Le loro
richieste potevano prendere
molte forme. Potevano
estendere le loro radici scure
fino a raggiungere il centro
della terra. Con pazienza,
mettendocituttoiltempoche
ci voleva, erano in grado di
trovare il punto debole che
permetteva di spezzare anche
larocciapiúdura.
Come
Kino
aveva
immaginato,icolpiripresero.
Questa
volta
però
provenivanodaun’altraparte.
Anche la vibrazione del
suonoeradifferente.Ederano
molto piú vicini di prima, li
sentiva letteralmente accanto
al suo orecchio. Sembrava
che quel «qualcuno» si
trovassefuoridallafinestradi
fianco
al
letto.
Era
probabilmente aggrappato al
muro di quel palazzo di otto
piani,
con
la
faccia
schiacciata contro il vetro
bagnato dalla pioggia, e
continuava
a
picchiare
ostinatamente.Nonc’eraaltra
spiegazione.
Ilritmoperòerasemprelo
stesso. Due volte di seguito,
unapiccolapausa,ealtredue
volte. E questa sequenza si
ripetevasenzasosta.Ilsuono
si alzava, poi di nuovo si
abbassava.Comeilbattitodel
cuorequandosihapaura.
Le tende erano rimaste
aperte.
Prima
di
addormentarsi, Kino aveva
osservatoalungolegoccedi
pioggia sul vetro. Se ora
avesse sporto la testa dal
piumone,
immaginava
cos’avrebbe visto nel buio
fuori dalla finestra. Anzi no,
non lo immaginava. Doveva
cancellare quel moto della
mente
che
era
l’immaginazione. In ogni
caso, non doveva vedere
«quellilí».Perché,perquanto
vuoto, il suo cuore in quel
momento gli apparteneva
ancora.Conservavaancoraun
po’dicaloreumano,sebbene
fievole.
Alcuni
ricordi
personali,
come
alghe
avvinghiate a un palo sulla
spiaggia, attendevano in
silenzio che arrivasse l’alta
marea. Alcuni pensieri, se
recisi,avrebberoversatofiotti
di sangue rosso. Non era
ancora tempo di mandare il
suocuoreavagareinqualche
postoassurdo.
«Si scrive con gli
ideogrammi che significano
“divinità” e “risaia”, ma non
si legge Kanda, si legge
Kamita. Abito qui vicino»,
avevadettoKamita.
«Loterròamente»,aveva
rispostol’uomogrosso.
«Buona idea. I ricordi in
qualchemododannoforza».
Era possibile che Kamita,
inqualcheforma,fosselegato
al vecchio salice in giardino,
pensò tutt’a un tratto Kino.
Quell’albero aveva protetto
luielapiccolacasa.Anchese
non ne comprendeva la
logica, appena quell’idea gli
attraversò il cervello, subito
tuttalastoriagliparvetrovare
unsenso.
Rivide il salice dalla
fronda lussureggiante che
arrivavaquasiatoccareterra.
In estate proiettava sul
piccolo giardino un’ombra
fresca. Nei giorni di pioggia
innumerevoli
goccioline
argentate brillavano sui rami
flessibili. Quando l’aria era
immobile restava in silenzio,
assorto
in
profonda
meditazione, mentre nelle
giornate ventose agitava
senza speranza il cuore
irrequieto. Piccoli uccelli
venivanoaposarsisudilui,si
parlavano con le loro voci
acute tenendosi abilmente in
equilibrio,poiriprendevanoil
volo. Dopo che gli uccellini
se n’erano andati, i rami
oscillavano a destra e a
sinistraconariacontenta.
Rannicchiato sotto le
coperte come un insetto, a
occhi
chiusi,
Kino
semplicemente pensava al
salice. Rievocava il suo
colore, la sua forma, il suo
ondeggiare.
E
intanto
aspettava l’arrivo dell’alba.
Non poteva far altro che
resistere in questo modo, in
attesa che a poco a poco il
cieloschiarisse,cheicorviei
passeri iniziassero la loro
giornata.Nonpotevafaraltro
che aver fede in tutti gli
uccelli del mondo. Tutti
quelli che avevano ali e
becco. Nel frattempo non
doveva svuotare il suo cuore
nemmeno per un attimo.
Perché il vuoto, quel vuoto
assoluto che si generava,
attirava«quellilí».
Quando il salice non
bastava, Kino pensava al
gatto randagio, magro e
grigio. Ricordava che gli
piacevano le alghe scottate
sulla fiamma, le mangiava
sempre. Pensava a Kamita
cheleggevatuttoconcentrato,
seduto al bancone, ai giovani
atleti che allo stadio si
allenavanointensamentenella
corsa di media lunghezza, a
My
Romance
suonato
magnificamente al sassofono
da Ben Webster (a metà del
disco c’erano due graffi che
facevano saltare la puntina).
«I ricordi in qualche modo
danno forza». Poi rivide la
sua ex moglie, con i capelli
corti e il vestito nuovo
azzurro.Kinosperavachelei
conducesse in un altro luogo
una vita sana e felice. Che
non dovesse mai portarsi
addosso delle ferite. Gli
aveva
chiesto
scusa
guardandolo in faccia, e lui
aveva accolto le sue scuse.
Ma non doveva solo
dimenticare, doveva anche
perdonare.
Tuttavia il tempo non
sembrava scorrere in modo
regolare. Il suo fluire era
intralciato dal peso della
libido che aveva l’odore del
sangue,
e
dall’ancora
arrugginita del rimorso. Lí il
tempononeraunafrecciache
volava in linea retta.
Continuava a piovere, le
lancette dell’orologio erano
disorientate, gli uccelli erano
ancora
profondamente
addormentati, impiegati delle
poste
senza
volto
selezionavano in silenzio le
cartoline illustrate, sua
moglie faceva oscillare i bei
seni nel vuoto, qualcuno
bussava ostinatamente al
vetro della finestra. Con
infinita regolarità, come se
volesseattrarloinunlabirinto
dalle insinuazioni profonde.
Toctoc,toctoc.Eancoratoc
toc. «Non distogliere gli
occhi, guarda me», gli
mormorava
all’orecchio
qualcuno.
Questa
è
l’immaginedeltuocuore.
I rami del salice
continuavano a oscillare alla
brezza della prima estate. In
una piccola stanza situata in
fondo all’anima di Kino,
qualcuno tendeva una mano
verso la sua e cercava di
posarvela sopra. Sempre a
occhi chiusi, lui la sentiva
calda e morbida… Era
qualcosa che aveva a lungo
dimenticato. Per tanto tempo
neerastatoseparato.Sí,sono
stato ferito, e molto
profondamente, disse Kino
rivolto a se stesso. E cosí le
lacrime arrivarono. In quella
piccolastanzabuia.
Nel frattempo la pioggia
continuava a bagnare il
mondosenzafermarsi.
1
Rispettivamente kami e ta
[N.d.T.].
2 Albergo modesto, in stile
occidentale, la cui clientela è
costituita
principalmente
da
viaggiatori di commercio e
impiegati che si spostano per
lavoro[N.d.T.].
Samsainnamorato
Quando si svegliò, nel
letto, si accorse di essere
diventato Gregor Samsa. Era
supino e guardava il soffitto.
Gli ci volle un po’ di tempo
per abituarsi alla penombra
della stanza. Il soffitto non
aveva niente di speciale. In
origine doveva essere bianco
o crema, ma negli anni
polvere e sporcizia l’avevano
fatto diventare color latte
cagliato.
Non
aveva
decorazioni
o
altre
caratteristiche visibili. Né
pretese,
né
messaggi.
Svolgeva senza problemi il
suo ruolo strutturale di
soffitto,enonparevaaspirare
adaltro.
Su una parete della stanza
(quellaasinistradalpuntodi
vista di Samsa) c’era un’alta
finestra, ma era bloccata
dall’interno. In sostituzione
delle tende di cui una volta
doveva essere provvista,
erano state inchiodate in
sensoorizzontale,lungotutto
iltelaio,diverseassidilegno.
Fra un’asse e l’altra delle
fessure di alcuni centimetri –
non era chiaro se lasciate
intenzionalmente o no –
facevano entrare il sole del
mattino, che tracciava sul
pavimento delle strisce di
luce parallele. Perché la
finestra era stata sbarrata in
modo cosí drastico? Difficile
dirlo. Per impedire che
qualcuno entrasse? Oppure
per impedire che qualcuno
uscisse? Ma qualcuno chi?
Samsa stesso? O forse stava
arrivando
un
qualche
tornado?
Sempresupino,muovendo
solo la testa e gli occhi,
Samsa si guardò attorno. A
parte il letto su cui era
sdraiato, nella stanza non
c’erano
mobili.
Niente
armadi,tavoliosedie.Nessun
quadrooorologioospecchio
appeso alle pareti. Non si
vedevaalcuntipodilampada.
E sul pavimento, fin dove
arrivava il suo campo visivo,
non c’erano tappeti o
moquette. Un semplice e
nudo parquet. La carta da
parati aveva decorazioni
minute, ma era talmente
vecchia e sbiadita che nella
penombra–maforsesarebbe
statolostessoinpienaluce–
era impossibile capire che
cosarappresentassero.
Sulla parete di fronte alla
finestra,alladestradiSamsa,
c’eraunaporta.Conunpomo
di ottone annerito qua e là.
Forseinoriginequellastanza
era stata usata come camera
da letto. L’atmosfera era
quella. Ma al momento ogni
traccia di chi l’aveva
occupata era stata cancellata.
Erarimastosoloilletto,posto
nel centro. Ma senza coperte
olenzuola,trapunteocuscini.
Soltanto
un
vecchio
materasso.
Samsa non riusciva a
immaginare dove si trovasse,
né cosa dovesse fare. Capiva
a malapena una sola cosa:
ormai era un essere umano
che si chiamava Gregor
Samsa. Come faceva a
saperlo? Forse qualcuno
gliel’aveva
sussurrato
all’orecchio mentre dormiva?
«Il tuo nome è Gregor
Samsa».
E poi… chi era, prima?
Checos’era,prima?
Se cominciava a seguire
questo pensiero, però, la sua
coscienza a poco a poco si
offuscava.Einfondoallasua
testa si alzava una colonna
scura di zanzare che
diventavasemprepiúspessae
densa, si spostava verso le
parti piú molli del suo
cervello producendo un
leggero brusio. Samsa smise
subito di pensare. Per lui,
riflettereafondosuqualcosa,
in quel momento era uno
sforzotroppogrande.
In ogni caso, doveva
imparare a muoversi. Non
poteva restare per sempre
supino a guardare il soffitto.
Era troppo vulnerabile. Se
avessesubítounattaccodaun
avversarioinquellaposizione
–adesempiodapartediuno
stormodiuccellirapaci–non
avrebbe avuto possibilità di
sopravvivere. Per iniziare,
mosse un dito. Le sue mani
ne avevano cinque per una,
dieci lunghe dita in tutto.
Erano dotate di numerose
articolazioni, che rendevano
complicato combinare i
movimenti. Come se non
bastasse,tuttoilsuocorpoera
intorpidito, quasi fosse
immerso in un liquido
vischioso e pesante, al punto
che gli era difficile
trasmettere
forza
alle
estremità.
Tuttavia, chiudendo gli
occhi e concentrandosi al
massimo,
provando
e
riprovando, a poco a poco
riuscí a muovere le dita di
entrambe le mani. E anche,
seppur
lentamente,
a
comprendere
come
funzionavanolearticolazioni.
Il controllo delle dita portò
gradualmenteall’attenuazione
dell’irrigidimento
che
bloccava il suo corpo. Però
subentrò – come scure rocce
sinistre appaiono al ritiro
della marea – un dolore
intensoesemprepiúforte.
Gli ci volle del tempo per
capirecheerasolofame.Una
fame spaventosa, una fame
chenonavevamaiprovatoin
vita sua, o perlomeno non ne
aveva memoria. Era come se
per una settimana intera non
avesse mangiato il minimo
frammento di cibo; come se
nel suo corpo si fosse aperta
una voragine. Tutte le ossa
gemevano, i muscoli si
contraevano, gli organi
interni erano in preda a
spasmi.
Non potendo sopportare
oltre quel dolore, Samsa
puntò i gomiti contro il
materasso e a poco a poco si
tirò su. La sua spina dorsale
scricchiolò diverse volte.
Quanto tempo era rimasto
sdraiato su quel letto? Ogni
parte del suo corpo, di fronte
alla necessità di alzarsi, di
cambiare posizione, alzava
grida
di
protesta.
Ciononostante, incurante del
dolore, concentrando tutte le
sue forze, Samsa riuscí a
mettersisedutosulletto.
Quant’era
brutto!
Guardandoilsuocorponudo,
toccando le parti che non
vedeva,nonpotéfareameno
ditrovarsiorrendo.Ecomese
non bastasse, era sprovvisto
di qualsiasi mezzo di difesa.
Una pelle bianca e liscia
(coperta da una peluria poco
piú che simbolica), il ventre
privo di protezione, un
organo sessuale dalla forma
assurda, soltanto quattro arti
lunghi e sottili, fragili vene
affioranti che sembravano
cordebluastre,uncollolungo
efragilechepotevaspezzarsi
comeunfuscello.Unagrossa
testa deforme, con un fascio
dipelilunghieduriincimae
ai lati due orecchie sporgenti
che
sembravano
due
conchiglie. Sono davvero io,
questo qui?, non poté fare a
meno di chiedersi Samsa.
Dovrei sopravvivere con
questocorpocosíirrazionale,
assurdo, cosí vulnerabile?
Perchénonsonodiventatoun
pesce? Perché non sono
diventato un girasole? Un
pesceoungirasoleavrebbero
avuto un senso. Piú senso di
GregorSamsa,perlomeno.
A quel punto mise giú le
gambeeposòaterralepiante
dei piedi. Il pavimento era
molto piú freddo di quanto
avesse immaginato, una
sensazione che lo colse di
sorpresa. Dopo una serie di
tentativifalliti,urtandodiqua
e di là, finalmente riuscí a
mettersi in piedi. Aggrappato
con una mano al bordo del
letto, per qualche istante
rimase fermo in quella
posizione. Sentiva la testa
pesante e non riusciva a
tenereilcollodritto.Ilsudore
gli colava sotto le ascelle, i
genitali per lo sforzo si
contrassero.Dovetterespirare
a fondo alcune volte per
rilassareimuscoli.
Quando si fu bene o male
abituato a stare in piedi,
dovette
esercitarsi
a
camminare. Ma camminare
implicava una serie di
movimenti che costituivano
una vera e propria tortura.
Avanzare
spostando
alternativamente la gamba
destra e la sinistra era sotto
ogni punto di vista un atto
irrazionale e contrario alle
leggi della natura, mentre la
posizionetroppoaltadeisuoi
occhi rispetto al suolo lo
faceva vacillare: per trovare
l’equilibrio, per imparare a
coordinare le articolazioni
delle anche e delle gambe,
all’inizio dovette fare uno
sforzo sovrumano. A ogni
passo in avanti provava un
terrore tale che le ginocchia
gli tremavano violentemente
edovevaappoggiarsialmuro
conunamano.
Tuttavianoneraunmotivo
sufficiente per restare per
sempre in quella stanza.
Aveva bisogno di trovare del
cibo e mangiare, altrimenti i
morsi della fame avrebbero
finito col consumare la sua
carneedistruggerlo.
Lentamente,
tenendosi
aggrappato al muro, avanzò
verso la porta. Pur non
avendo alcun modo di
misurareiltempo,sapevache
ci stava mettendo ore. Era
l’estrema
sofferenza
a
dargliene la sensazione reale.
Ciononostante, man mano
che si muoveva, imparava a
poco a poco a usare
articolazioni e muscoli. La
velocità era molto ridotta e i
movimenti goffi. Non poteva
fare a meno di un sostegno.
Eppure in qualche modo il
suocorpo,purcontuttelesue
difficoltà, forse poteva
funzionare.
Toccòilpomodellaporta,
provò a tirarlo. La porta non
si mosse. Lo spinse, ma non
serví a nulla. Allora provò a
girarlo verso destra. La porta
si aprí verso l’interno con un
lieve cigolio. Non era chiusa
a chiave. Samsa si affacciò e
guardò fuori. Nel corridoio
non si vedeva l’ombra di un
essere umano. Il silenzio era
assoluto, come in fondo al
mare. Mise la gamba sinistra
oltrelasogliaesenzalasciare
il pomo si sporse in avanti
con la metà superiore del
corpo. Poi portò la gamba
destra accanto alla sinistra.
Tenendosi saldamente al
muro, avanzò nel corridoio a
piedinudi.
C’erano quattro porte,
inclusa quella da cui lui era
appena uscito. Porte tutte
uguali, di legno scuro. Cosa
cipotevamaiesserealdilà?
Qualche persona? Aveva una
gran voglia di aprirle e
guardare.
Perché
forse
avrebbe
potuto
capire
qualcosadellasuastranissima
condizione. Trovare una
parvenza di filo logico.
Invecepassòdavantiaquelle
porte cercando di non farsi
sentire.Primadisoddisfarela
curiosità, doveva calmare la
fame. Riempire al piú presto
la voragine che si era aperta
nelsuocorpo.
E sapeva benissimo dove
andarepermetterelemanisu
qualcosadicommestibile.
Basta seguire l’odore,
pensò Samsa fiutando l’aria.
Odore di cibo caldo. Di cibo
cucinato.Fluttuavainsilenzio
attraverso l’aria in particelle
infinitesimali e veniva a
solleticare le sue narici. Le
informazioni
percepite
dall’olfatto
venivano
trasmesse al suo cervello,
creandoun’anticipazionecosí
vivida, un desiderio cosí
violento, che sentiva le
budellatorcersicomesefosse
nelle mani di un efferato
inquisitore. La bocca gli si
riempídisaliva.
Perraggiungereilluogoin
cui si originava quell’odore,
però, doveva scendere una
rampa di scale. Per lui già
camminare in piano era
un’impresa ardua, figurarsi
fare quei diciassette gradini!
Sarebbe stato un incubo.
Aggrappandosi al corrimano,
iniziò la discesa. A ogni
scalino il peso del suo corpo
gravava sulle sue fragili
caviglie, diverse volte ebbe
l’impressione di perdere
l’equilibrio e stare per
rotolare giú. In quella
posizione innaturale, tutte le
sue ossa e i suoi muscoli
urlavanodaldolore.
Intanto, Samsa pensava ai
pesci e ai girasoli. Se fosse
stato un pesce o un girasole,
avrebbe
potuto
vivere
tranquillo fino alla fine dei
suoi giorni senza bisogno di
salire e scendere delle scale.
Perché invece era costretto a
compiere movimenti tanto
innaturali e pericolosi? Non
avevasenso.
Dopo essere arrivato bene
o male in fondo a quei
diciassette gradini, Samsa si
raddrizzò, e usando le poche
forze rimastegli avanzò nella
direzione da cui proveniva
l’odore di cibo. Attraversò
una hall dal soffitto molto
alto ed entrò nella sala da
pranzo, la cui porta era
aperta. Qui, su un grande
tavolorotondo,eranodisposti
diversi piatti pieni di cose da
mangiare. Intorno c’erano
cinque sedie vuote, nella
stanzanonc’eranessuno.Dai
piatti si levava ancora un
poco di vapore. Il vaso di
vetro posto nel mezzo
conteneva una dozzina di
gigli bianchi. La tavola era
apparecchiataperquattro,ma
nessuno sembrava aver
toccatoleposateoitovaglioli
immacolati. Come se delle
persone fossero state sul
punto di fare colazione, ma
qualcosa di imprevisto le
avesse spinte ad alzarsi e
scappare.
Questa
era
l’impressione che avevano
lasciato.Enondovevaessere
passato molto tempo da
quandoerasuccesso.
Cos’era
accaduto?
Dov’erano andati, tutti
quanti?
O
piuttosto,
dov’erano stati portati?
Sarebberotornatiperfinirela
lorocolazione?
Samsa però non poteva
permettersi di soffermarsi su
questi pensieri. Si lasciò
cadere sulla sedia piú vicina,
afferrò con le mani il cibo
disposto sul tavolo e
cominciò a mangiare, senza
usare né posate, né
tovagliolo. Divorò il pane
senza metterci burro o
marmellata,
addentò
tutt’interaunagrossasalsiccia
bollita,masticòunuovosodo
contuttalabuccia,simisein
bocca manciate di verdure
marinate e purè di patate
ancora caldo. Masticò ogni
cosa insieme e mandò giú
tutto quanto bevendo l’acqua
direttamentedallacaraffa.
Ilgustonongliimportava.
Buono o cattivo, aspro o
dolce, per Samsa non faceva
alcuna
differenza.
L’essenziale era riempire il
buco che aveva nello
stomaco. Mangiava assorto,
come se lottasse contro il
tempo. Al punto che una
volta, per addentare quello
chetenevainmano,sisbagliò
esimorseledita.Pezzettidi
cibo erano sparsi dappertutto
sultavolo,unpiattodiportata
caddealsuoloesiruppe,ma
luinoncibadò.
Il tavolo presentava uno
spettacolo
indecoroso.
Sembrava che un grosso
stormo di cornacchie fosse
entrato dalla finestra aperta e
sifossedisputatalevivandea
colpi di becco, poi fosse
volato via lasciando i resti
sparsi ovunque. Quando
Samsa, dopo aver mangiato
tutto quello che poteva,
finalmente tirò il fiato, sul
tavolononrestavaquasinulla
di commestibile. Aveva
risparmiatosoltantoigiglinel
vaso. Se di cibo non ce ne
fosse stato a sufficienza,
probabilmente
avrebbe
divorato anche quelli. Tale e
tantaerastatalasuafame.
Dopo, rimase a lungo
seduto dove si trovava, lo
sguardo perso nel vuoto.
Mentre respirava a fondo, le
mani sul tavolo, fra le
palpebresocchiuseguardavai
fiori bianchi nel vaso. Un
senso di sazietà lo invase
lentamente, come la marea
che arriva a coprire la
spiaggia.Lavoraginenelsuo
corpo andava colmandosi e
togliendo
gradualmente
spazio alla sensazione di
vuoto.
Samsa prese allora una
caraffa di metallo e si versò
del caffè in una tazza di
ceramica bianca. L’aroma
forte del caffè gli ricordò
qualcosa. Non era un ricordo
immediato,
ma
una
reminiscenza che gli arrivava
in modo indiretto, per fasi
successive. Come se si
trovasse nel futuro e
rivedesse quello che stava
vivendoadessosottoformadi
ricordo. C’era questa strana
doppia
dimensione,
la
memoria e l’esperienza
presente sembravano corrersi
dietro in un circolo chiuso,
avanti e indietro. Mise
parecchia panna nel caffè,
giròcolditoebevve.Ilcaffè
non si era del tutto
raffreddato.Portòlatazzaalla
bocca e dopo aver fatto una
pausa
bevve
con
concentrazione, un sorso
dopol’altro.Illiquidotiepido
calmò un poco il suo
nervosismo.
Tutt’a un tratto ebbe
freddo. Cominciò a tremare
con violenza. Prima la fame
aveva obnubilato ogni altra
sensazione fisica, ma una
volta riempito lo stomaco, si
era accorto che l’aria del
mattinoerapungente.Ilfuoco
nel camino era spento. E
come se non bastasse, lui era
completamente nudo, piedi
inclusi.
Sapevachedovevatrovare
qualcosadamettersiaddosso.
Cosí non poteva resistere.
Inoltre farsi vedere in quelle
condizioni sarebbe stato
indecente. Poteva arrivare
qualcuno da un momento
all’altro. Le persone che fino
apocoprimasitrovavanolí–
quelle che stavano per fare
colazione
–
sarebbero
probabilmente tornate. Se
l’avessero trovato nudo, gli
avrebbero fatto passare dei
guai.
Per qualche ragione,
Samsa sapeva queste cose.
Noneranonésupposizioniné
cognizioniacquisite,mapura
comprensione. Per quali vie
tale comprensione fosse
arrivata fino a lui, lo
ignorava. Forse si trattava di
un altro di quei ricordi che
ruotavanonellasuatesta.
Si alzò, uscí dalla sala da
pranzo e si diresse verso
l’ingresso. Ormai, seppure in
manieragoffaeconlentezza,
riusciva a procedere sulle
gambe senza bisogno di
appoggiarsiaqualcosa.Nella
hall, in un portaombrelli di
metallo, insieme a un
parapioggia c’erano diversi
bastoni da passeggio. Ne
scelseunodilegnoverniciato
di nero, in modo da potersi
sostenerementrecamminava.
La sensazione del solido
manico contro il palmo era
sufficiente a rassicurarlo e
dargli fiducia. E nel caso
fosse stato attaccato dagli
uccelli, se ne sarebbe servito
comediun’armadidifesa.In
piedi davanti alla finestra,
scrutò all’esterno attraverso
unospiragliofraletendinedi
pizzobianco.
Lacasadavasuunastrada.
Non una strada molto larga,
però, e quasi deserta. Vide
solo poche persone che
camminavano
frettolosamente.
Tutte
indossavano degli abiti, di
foggiaecoloridiversi.Erano
quasi esclusivamente uomini,
ma passarono anche un paio
di donne. Gli uomini e le
donne erano vestiti in modo
differente.Aipiedicalzavano
scarpedirigidocuoio.Alcuni
avevano lucidi stivali. Le
suole
delle
scarpe
producevanounrumoresordo
sulselciatodiciottolirotondi.
Tutti avevano un cappello in
testa. Ognuna di queste
persone sembrava trovare del
tutto naturale camminare su
due gambe e non mostrare i
genitali. Samsa si spostò
davanti al grande specchio
della hall e confrontò il suo
aspettoconquellodellagente
che passava per la strada. Si
trovò brutto e miserabile,
dava un’impressione di
debolezza. Aveva la pancia
sporca di grasso e di salsa, i
pelipubicipienidibricioledi
pane. Cercò di spazzarle via
conlamano.
Devo trovare qualcosa da
mettermi addosso, pensò di
nuovo.
Poi si girò ancora una
volta verso la strada, cercò
conlosguardogliuccelli.Ma
nonnevide.
Al pianterreno c’erano la
hall, la sala da pranzo, una
cucina, e un salotto. Ma
verosimilmente in nessuna di
questestanzeavrebbescovato
dei vestiti. Non era lí che le
persone li toglievano e li
indossavano.
Dovevano
tenerlialprimopiano.
Si fece coraggio e tornò
su. Inaspettatamente, trovò
moltopiúfacilesalirelescale
che scenderle. Tenendosi al
corrimano, fermandosi ogni
tanto per riprendere fiato,
fece quei diciassette gradini
in un tempo relativamente
breve,senzaprovarenépaura
néaffanno.
Per sua fortuna – occorre
dirlo–nessunadelleporteera
chiusa a chiave. Bastava
girare il pomo e spingere,
perché si aprissero verso
l’interno. Al primo piano le
stanzeeranoquattro,eaparte
quella in cui si era svegliato,
fredda e spoglia, erano
confortevoli e ammobiliate.
Avevano letti provvisti di
lenzuola e coperte pulite,
armadi, scrivanie, lampade e
tappetidaimotivicomplicati.
Eranoordinateebentenute.I
libri erano allineati sugli
scaffali, e sui muri erano
appesi quadri incorniciati di
paesaggi dipinti a olio. Tutti
raffiguravano
bianche
scoglieremarine,concandide
nuvolesimiliaciambelleche
vagavano nel cielo. I vasi di
vetro erano pieni di fiori dai
colori vivaci. Non c’erano
finestre bloccate da ruvide
tavoledilegno.Dalletendine
di pizzo filtrava una luce
morbida che era come una
benedizione. Sembrava che
suognilettoqualcunoavesse
dormito fino a poco prima.
Sui cuscini restava ancora
l’incavolasciatodallatesta.
Nell’armadio della stanza
piú grande, Samsa trovò una
specie di veste da camera
della sua taglia. Piú o meno
poteva andare. Gli altri
indumenti, non riusciva a
immaginare in che modo si
dovessero
indossare
e
combinare insieme, era
troppo complicato. C’erano
tanti bottoni, era difficile
distinguere l’alto dal basso,
capire cosa andasse sotto e
cosa sopra. Ciò che doveva
imparare, riguardo ai vestiti,
era troppo. In confronto, la
vestaglia era molto piú
sempliceepratica,nonaveva
ornamenti
superflui
e
sembravaproprioadattaalui.
Il tessuto, blu scuro, era
leggero e morbido, piacevole
sulla pelle. Trovò anche un
paiodipantofoledellostesso
colore.
Infilò la vestaglia sul
corpo nudo, e dopo molti
tentativi falliti riuscí a
stringere la cintura intorno
alla vita facendo il nodo
davanti. Poi, con quella
palandrana addosso e le
pantofole ai piedi, si guardò
allo specchio. Perlomeno era
meglio che andare in giro
nudo. Se avesse potuto
osservarebeneinchemodosi
vestivano le altre persone, di
sicuro avrebbe capito anche
lui la maniera giusta di
indossare gli abiti. Nel
frattempo,
doveva
accontentarsi
di
quella
vestaglia. Non si poteva dire
che fosse sufficientemente
calda,maserestavaincasalo
avrebbe piú o meno riparato
dal freddo. E soprattutto
quello che lo rassicurava era
il fatto che la sua pelle tanto
vulnerabile non fosse piú
esposta agli attacchi degli
uccelli.
Quando
squillò
il
campanello, Samsa stava
sonnecchiando nel lettone
(era il piú grande di tutti)
nella stanza piú vasta della
casa, sotto la trapunta.
Avvolto in quel caldo
involucro di piume si sentiva
bene, come all’interno di un
uovo. Aveva sognato. Cosa,
non lo ricordava. Ma era un
sogno piacevole, luminoso.
Proprio in quel momento il
trillo del campanello era
risuonato in tutta la casa,
cacciando via il sogno e
riportando Samsa alla fredda
realtà.
Si alzò, riannodò bene la
cintura della vestaglia, infilò
le pantofole blu, prese il
bastone verniciato di nero e
scese lentamente le scale
tenendosi al corrimano. Ci
riuscí molto piú facilmente
della prima volta. Ma il
pericolo di rotolare giú
sussisteva. Occorreva fare
estrema attenzione. Scese i
gradini uno per uno,
guardandobenedovemetteva
i piedi. Nel frattempo il
campanello continuava a
suonare senza sosta in modo
assordante. Chi lo premeva
doveva essere una persona
impaziente,eostinata.
Arrivato al piano di sotto,
tenendoilbastonebenstretto
nella mano sinistra, aprí la
porta d’ingresso. Bastava
girare il pomo e tirare verso
l’interno.
Al di là della soglia vide
una donna. Una donna molto
piccola. Un miracolo che
fosse arrivata con la mano
fino al campanello. A
guardarlabene,però,nonera
affatto
bassa.
Anzi,
probabilmente era di statura
normale, ma stava tutta
piegatainavantiacausadella
schiena curva. Con un
elasticoavevalegatoicapelli
sulla nuca, in modo che non
le ricadessero sulla faccia.
Capellicastanoscuro,emolto
folti. Indossava una lunga
gonna che le copriva le
caviglieeunagiaccaditweed
malandata. Intorno al collo
avevaunasciarpadicotonea
righe. Non portava cappello.
Le scarpe erano solide,
allacciate fino alle caviglie.
Doveva avere ventidue o
ventitre anni. C’era ancora
qualcosa di infantile in lei.
Gli occhi erano grandi, il
nasopiccolo,lelabbraunpo’
piegate all’ingiú, come una
luna sottile. Le sopracciglia
dritte e nere le davano
un’espressionesospettosa.
– Questa è casa Samsa,
vero? – chiese, girando la
testainmododaguardarloda
sotto in su. Poi si contorse
tutta.Comequandolaterrasi
scuoteduranteunterremoto.
–Sí,esatto,–disseSamsa
dopo aver esitato un po’.
Visto che lui era Gregor
Samsa, quella doveva essere
casa Samsa. Chi poteva
trovarequalcosadaobiettare?
La ragazza tuttavia non
parve soddisfatta. Corrugò la
fronte. Probabilmente aveva
percepitonellavocediluiuna
lieveesitazione.
– Sicuro? È proprio casa
Samsa? – chiese in tono
severo. Come avrebbe fatto
un guardiano esperto davanti
aunpoveraccio.
– Sono Gregor Samsa, –
disseluicontuttalacalmadi
cui fu capace. Su questo era
certodinonsbagliarsi.
–Be’,intalcaso…–fece
la ragazza. Poi sollevò a
fatica una grossa borsa nera
posata ai suoi piedi. Una
vecchia
borsa
logorata
dall’uso,
probabilmente
ereditata da qualcuno. –
Alloraprocediamo–.Esenza
attenderelarispostaentròper
primaincasa.
Samsa chiuse la porta. La
ragazza,
in
piedi
nell’ingresso,losquadròdalla
testa ai piedi, considerando
con aria sospettosa la
vestagliaelepantofole.
–Parecheiol’abbiatirata
giú dal letto, – disse poi in
tonogelido.
– Oh, non ha importanza,
– fece lui, rendendosi conto,
dallo sguardo sconcertato di
lei, di quanto fosse
inadeguato
il
suo
abbigliamento.
– Mi scusi se mi presento
cosí, – disse, – il fatto è che
perunaseriedicircostanze…
La ragazza non fece
commenti.
–Allora?–chiesesecca.
–Alloracosa?
– Allora, questa serratura
chenonfunziona?
–Unaserratura?
– Sí, la serratura rotta –.
Fin dall’inizio la ragazza
aveva rinunciato a reprimere
l’irritazione nel tono della
voce. – Mi è stato chiesto di
venire ad aggiustare una
serraturarotta.
–Ah,già,–feceSamsa.–
Laserraturarotta…
Sisforzavadisperatamente
di riflettere. Ma appena si
concentrava, di nuovo in
fondo al suo cervello si
formavaunascuracolonnadi
zanzare.
– A me, riguardo a questa
serratura rotta, non hanno
dettonulla,–rispose.–Forse
è una delle porte al primo
piano.
La ragazza contrasse il
viso e storcendo il collo
guardòSamsadasottoinsu.
– Forse? – ripeté in tono
ancora piú gelido. Poi,
inarcando un sopracciglio: –
Unadelleporte?
Samsasiaccorsediessere
arrossito. Si vergognava di
non sapere nulla riguardo a
quella serratura. Si schiarí la
gola, ma le parole non gli
venivano.
– Signor Samsa. I suoi
genitori adesso non sono in
casa?Credosiamegliocheio
parliconloro.
– No, sono usciti per fare
una commissione, – disse
Samsa.
–Come,sonousciti?–La
ragazza era sbalordita. – Che
commissione dovevano fare,
col caos che c’è in questo
momento?
–Nonloso,maquandomi
sonoalzato,incasanonc’era
piúnessuno,–spiegòSamsa.
–Cosedapazzi!–dissela
ragazza. Poi fece un lungo
sospiro. – Eppure erano stati
avvisatichequalcunosarebbe
venutostamattinaaquest’ora,
perlariparazione.
–Sonomortificato.
Per qualche secondo lei
rimase in silenzio. Poi
abbassò
lentamente
le
sopracciglia, e guardò il
bastone nero che Samsa
tenevanellamanosinistra.
– Ha dei problemi alle
gambe, signor Gregor? –
chiese.
–Unpochino,–fulavaga
rispostadilui.
Di nuovo la ragazza si
contorse tutta, pur restando
piegata in avanti. Samsa non
capivachesensoochescopo
avessero quei gesti. Ma non
potevafareamenodiprovare
un’istintiva simpatia per
quellacomplessasequenzadi
movimenti.
– Be’, non ci possiamo
fare nulla, – disse la ragazza
rassegnata. – In ogni caso
andiamo su e diamo
un’occhiata alla serratura di
quelle porte. Considerato che
hoattraversatoilponteesono
venutafinqui,dall’altrocapo
della città, nel bel mezzo di
questopandemonio.Hoquasi
rischiato la vita. Sarebbe il
colmo che me ne andassi
senzafarenulla.«Ah,nonc’è
nessuno? Be’, fa niente: sarà
per un’altra volta…» Non è
d’accordo?
«Nel bel mezzo di questo
pandemonio»? Di cosa stava
parlando? Samsa non ne
aveva idea. Era successo
qualcosa di grave? Decise di
nonchiederespiegazioni.Era
meglio
non
mostrare
ulteriormente
ignoranza.
la
sua
Sempre piegata in due,
tenendolapesanteborsanera
conlamanodestra,laragazza
si arrampicò su per le scale:
sembrava quasi strisciare
come un insetto. Samsa,
aggrappato al corrimano, la
seguiva lentamente. Vederla
camminare sollevava in lui
unavaga,empaticanostalgia.
Arrivataalprimopiano,la
ragazza si fermò e osservò a
turnolequattroporte.
– Ha detto che dev’essere
una di queste ad avere la
serraturarotta,vero?–chiese.
DinuovoSamsaarrossí.
– Sí, una di queste, –
rispose.
Poi,
esitando,
aggiunse: – Potrebbe essere
l’ultimainfondoasinistra–.
Era quella della stanza vuota
e disadorna dove si era
svegliatoquellamattina.
– Potrebbe essere… –
ripeté la ragazza in un tono
inespressivo che faceva
pensare a un falò spento. Si
voltòeguardòSamsa.
– Già, potrebbe… – fece
lui.
–SignorGregorSamsa,sa
che è divertente parlare con
lei?
Un
vocabolario
ricchissimo, proprietà di
linguaggio… – disse in tono
tagliente. Poi fece un altro
sospiro. – Comunque sia, –
aggiunse rinunciando al
sarcasmo, – cominciamo da
lí, dall’ultima in fondo a
sinistra.
Andò fino alla porta e
provò a girare il pomo.
Spinseilbattente,chesiaprí.
All’interno, la stanza era tale
e quale l’aveva lasciata
Samsa uscendo. L’unico
mobile era il letto. Piazzato
nel centro dello spazio,
sembrava un’isola deserta in
mezzo a una corrente
oceanica. Sul letto c’era solo
ilmaterasso,pocopulito.Era
lí che lui si era svegliato nei
panni di Gregor Samsa. Non
aveva sognato. Il pavimento
era nudo e freddo. Alla
finestra erano inchiodate assi
di legno. Davanti a quello
spettacolo però la ragazza
non sembrò sorpresa. La sua
reazionelasciavapensareche
di stanze simili ce ne fossero
ovunque,inquellacittà.
Si curvò ulteriormente per
aprire la borsa nera, ne tirò
fuori un panno di flanella
color crema e lo dispiegò sul
pavimento. Poi scelse alcuni
attrezzi e ve li dispose sopra
con ordine. Come un esperto
torturatore che allinea con
cura i suoi sinistri strumenti
davanti alla sua infelice
vittima.
Prese un fil di ferro di
media grandezza, ne inserí
un’estremità nel buco della
serratura e con gesti sicuri lo
mosseintutteledirezioni.Lo
sguardo era attento nei suoi
occhi leggermente socchiusi,
l’udito teso al minimo
rumore. Dopo un po’ scelse
un filo piú sottile e ripeté
l’operazione. L’espressione
contrariata,storselaboccain
una smorfia che ricordava
una di quelle appuntite
sciabole cinesi. Prese una
grossatorciaelettricaeiniziò
a esaminare la serratura con
espressionesevera.
– La chiave ce l’ha? –
chieseaSamsa.
–
No,
non
so
assolutamente dove sia, –
risposeluisincero.
–Ah,GregorSamsa,mifa
venirvogliadimorire!–disse
la ragazza levando gli occhi
alsoffitto.
Dopodiché si disinteressò
di lui, prese un cacciavite fra
gliattrezziallineatisulpanno
einiziòastaccarelaserratura
dallaporta.Isuoigestierano
cauti e attenti, non voleva
rischiare di spanare le viti.
Anche mentre svolgeva
quell’operazione, piú volte si
fermòpercontorcersitutta.
Alle sue spalle Samsa,
guardandolamuoversiinquel
modo, sentí che il suo fisico
reagiva in maniera strana. A
poco a poco una sensazione
dicalorepervaseilsuocorpo,
lesuenaricisidilatarono.La
boccaglisiseccòaunpunto
tale che quando inghiottí la
saliva sentí contro i timpani
un suono sordo. I lobi delle
orecchie per qualche ragione
gli prudevano. E il suo
organo sessuale, che fino ad
alloraerapenzolatoinerte,gli
siindurí,crebbeinspessoree
lunghezza, e cominciò a
sollevarsi verso l’alto. Il che
produsse una protuberanza
sul davanti della vestaglia.
Ma cosa significava tutto
questo? Samsa non ci capiva
niente.
Dopo aver tolto la
serratura, la ragazza la portò
vicino alla finestra per
esaminarla attentamente alla
lucechefiltravafraun’assee
l’altra. La fronte corrucciata,
le labbra serrate in una piega
storta, la frugò con il fil di
ferro e la scosse forte per
sentire che rumore faceva.
Poi sospirò e si voltò verso
Samsa.
–L’internoèrotto,–disse.
– Aveva visto giusto, la
serratura che non funziona è
questa.
–Oh,bene,–fecelui.
– Be’, mica tanto. Non
possoaggiustarlaqui,adesso,
– disse la ragazza. – È un
modello un po’ inusuale.
Devo portarla a casa e farla
vedere a mio padre o a uno
dei miei fratelli maggiori.
Loroforsepotrannoripararla.
Io non ne sono capace. Sto
ancoraimparando,melacavo
soloconleserraturenormali.
– Capisco, – disse Samsa.
Cosíquellaragazzaavevaun
padre e diversi fratelli
maggiori.Etuttiquantierano
fabbri.
–Inrealtàavrebbedovuto
venire uno di loro, ma come
sa bene anche lei, è successo
quel che è successo. Per
questohannomandatome.La
città è tutta un posto di
blocco.
Detto ciò, la ragazza fece
un sospiro che attraversò
l’interosuocorpo.
–Macomehafattoquesta
serraturaarompersiinquesto
modo? – proseguí. – Non so
chi possa essere stato, ma
sembra che qualcuno l’abbia
distrutta
dall’interno
servendosi di uno strumento
apposito.
È
l’unica
spiegazione.
Dinuovosicontorsetutta.
Quando
si
contorceva,
ruotava le braccia come se
praticasse qualche stile
particolare di nuoto. Quel
movimento
affascinava
Samsa. Gli faceva battere il
cuore.
– Posso farle una
domanda? – le chiese di
puntoinbianco.
– Una domanda? – ripeté
la
ragazza
scrutandolo
sospettosa.–Forza,sentiamo,
anche se non riesco a
immaginare…
– Perché ogni tanto si
scuoteinquelmodo?
La ragazza lo guardò a
boccaaperta.
– Mi scuoto? – Per
qualche secondo parve
rifletteresullaquestione.–In
questo modo, vuol dire? –
chiese
eseguendo
il
movimento.
–Sí.
La ragazza lo osservò con
occhi che sembravano due
pietre.
– È per sistemare bene il
reggiseno,–dissepoiseccata.
–Tuttoqui.
– Il reggiseno? – chiese
Samsa. Quella parola non
evocavainluialcunricordo.
–Sí,ilreggiseno.Sacos’è
un reggiseno, no? – disse la
ragazza come se sputasse
fuori le parole. – O trova
strano che una gobba come
melousi?
«Gobba?», pensò Samsa.
Anche quel termine venne
inghiottito nel buio della sua
coscienza.
Cosa
stava
dicendo, quella lí? Non ne
aveva idea. Ma doveva
risponderequalcosa.
– No, non lo trovo affatto
strano,–sidifeseconunfilo
divoce.
– No perché sa, anche io
ho due tette come tutte le
altre, e ho bisogno di tenerle
ferme con un reggiseno. Non
voglio mica sembrare una
mucca,quandocammino,con
le tette che vanno avanti e
indietro.
– Naturalmente, – disse
Samsa, che continuava a non
capircinulla.
– Ma dato che sono
conciata cosí, trovare un
reggisenochesiadattialmio
corpoèimpossibile.Perchéè
unpo’diversodaquellodelle
altredonne.Alloraognitanto
sonocostrettaadagitarmiper
rimettereilreggisenoaposto.
Per me non è facile, sa, in
quanto donna… è molto piú
difficile di quanto lei creda!
In tanti sensi. Ma a lei piace
guardarmi da dietro mentre
mi risistemo? La cosa la
diverte?
– No, no, non è che mi
diverta!Michiedevosoltanto
a che scopo facesse questa
cosastrana.
Ora Samsa sapeva che un
reggiseno serviva a tenere
fermi i seni, e che «gobba»
indicava la forma peculiare
del corpo di lei. Le cose da
imparare riguardo al mondo
in cui si trovava erano
davverotroppe.
– Non è che mi sta
prendendo in giro, per caso?
–chieselaragazza.
–No,affatto.
Lei piegò la testa per
guardarlo. E comprese che
era vero, che non la stava
prendendo in giro. Né
sembrava malintenzionato.
Forse è soltanto un po’
scemo, pensò. Ma sembrava
un ragazzo per bene, ed era
anchepiuttostobello.Doveva
avereunatrentinad’anni.Era
unpo’troppomagro,avevale
orecchie troppo grandi e un
colorito malsano, ma era una
personaeducata.
A quel punto, notò la
protuberanza che tendeva ad
angolorettolaparteinferiore
della vestaglia che lui
indossava.
–Equello,cos’è?–chiese
in tono gelido. – Quel
rigonfiamento?
Samsa abbassò gli occhi a
guardare la montagnola che
sollevava la stoffa. A
giudicare dal tono di lei, era
qualcosa che non si poteva
mostrare decentemente in
pubblico.
– Ah, ecco! Sta pensando
«chissà com’è scopare una
gobba…» La cosa la
incuriosisce,eh?
– Scopare? – chiese
Samsa. Anche quella parola
nonl’avevamaisentita.
–Datochesonopiegatain
avanti, si sta dicendo che
sono in posizione perfetta
perchéleimiscopidadietro.
Giusto? Di tipi come lei, che
hanno di queste perversioni,
ce ne sono parecchi in
circolazione. E tutti sono
convinti che noi ci stiamo
immediatamente. Ma per sua
disgrazianonfunzionacosí.
– Non so bene di cosa
parli,masepercasohofatto
qualcosa che l’ha offesa, mi
dispiace davvero. Non so
come chiederle scusa. Mi
perdoni. Non l’ho fatto per
malizia. Sono stato malato, e
ci sono tante cose che non
afferroancorabene.
La ragazza fece un altro
sospiro.
– Ah, ecco… capisco, –
disse.–Leiconlatestanonci
sta tanto. Solo il pisello le
funziona bene. Non è colpa
sua.
–Miscusi,–ripetéSamsa.
–Be’,falostesso,–disse
la ragazza rassegnata. – Ho
quattro fratelli uno peggio
dell’altro, di queste cose ne
ho viste fino alla nausea fin
da quando ero piccola. Lo
fanno apposta, per farmi
arrabbiare.
Sono
delle
canaglie. Di conseguenza ci
sonoabituata,micreda.
Si
accovacciò
sul
pavimentoperriporreunoper
uno i suoi strumenti, avvolse
la serratura rotta nel panno
color crema e la mise con
curanellaborsanerainsieme
a tutto il resto. Poi prese la
borsaesialzò.
– La serratura la porto a
casa.Lodicaaisuoigenitori.
Se la si può riparare bene,
altrimenti
bisognerà
sostituirlaconunanuova.Ma
inquestomomentoprocurarsi
una serratura nuova non sarà
facile, temo. Quando i suoi
sarannodiritornoglielodica.
Hacapito?Seloricorderà?
Sí,leassicuròSamsa.
La ragazza si avviò
lentamentegiúperlescale,e
Samsa piano piano la seguí.
Le loro due figure che
scendevano uno dietro l’altra
erano in forte contrasto. Lei
eraquasiaquattrogambe,lui
stava piegato all’indietro in
una posizione del tutto
innaturale,
eppure
avanzavano praticamente alla
stessavelocità.Nelfrattempo
Samsa si sforzava di
reprimere «la protuberanza»,
ma con scarso successo.
Tanto piú che a vedere lei
camminare, il cuore gli
batteva sempre piú forte. Il
sangue fresco e vigoroso che
gli circolava nelle vene
teneva decisamente sollevata
lavestaglia.
–Comelehodettoprima,
in realtà sarebbe dovuto
venire mio padre, o uno dei
miei fratelli, – disse la
ragazza sulla porta di casa. –
Malacittàèpienadisoldati,
cisonocarriarmatidatuttele
parti. Ci sono posti di blocco
aogniponte,emoltepersone
sonostatepreseeportatevia.
Quindi gli uomini della mia
famiglianonpotevanouscire.
Se uno viene notato e
arrestato, non si sa quando
farà ritorno. È troppo
pericoloso. Per questo sono
venuta io. Ho attraversato da
sola tutta Praga. A me forse
nessuno fa caso. Conciata
come sono, posso tornare
utileanch’io,avolte.
– Carri armati? – chiese
connoncuranzaSamsa.
– Sí, tantissimi. Dotati di
cannoni e mitragliatrici.
Anche il suo, di cannone, mi
pare bello grosso, – disse la
ragazza
indicando
la
protuberanza. – Quelli però
sono piú grossi e anche piú
aggressivi. Be’, spero che i
suoifamigliaritorninoacasa
saniesalvi.Leisadovesono
andati,tuttiquanti?
Samsascosselatesta.Non
neavevalaminimaidea.
– Senta, non posso
rivederla?–chiesed’impulso.
La
ragazza
piegò
lentamente la testa e lo
guardò da sotto in su con
occhisospettosi.
–Leivorrebberivedermi?
–Sí,mifarebbepiacere.
– Col pisello dritto come
adesso?
Samsa gettò un’occhiata
allaprotuberanza.
– Non so spiegarmi bene,
macredochequestacosanon
abbia alcun nesso con quello
che provo. Forse è un
problemacardiaco.
– Ah, ecco, – fece la
ragazza. – Un problema
cardiaco.Èun’interpretazione
interessante, sa? Una novità
assoluta,perme.
– La verità è che non
possofarciniente.
–Quindinonc’entranulla
conlavogliadiscopare.
– Non sto pensando a
scopare.Davvero.
– Cioè se il pisello le
diventa grosso e duro, non è
perché lei pensa a scopare,
ma perché ha un problema
cardiaco.Èquestochemista
dicendo,vero?
Samsaannuí.
–LogiurasuDio?
– Dio, – ripeté Samsa.
Anche quella parola gli
tornava nuova. Per qualche
secondorimaseinsilenzio.
La
ragazza
scosse
debolmente la testa. Poi
ancora una volta si contorse
intuttiisensipersistemarsiil
reggiseno.
– Lasci perdere Dio, tanto
credochesenesiaandatoda
Praga già da qualche giorno.
Forse
aveva
qualcosa
d’importante da fare. Quindi
lodimentichipure.
–
Allora
possiamo
rivederci? – chiese per la
secondavoltaSamsa.
La ragazza sollevò un
sopracciglio.Poisulsuoviso
apparve
un’espressione
diversa, come se stesse
guardando un paesaggio
lontanoenebbioso.
– Sta dicendo che vuole
davverovedermidinuovo?
Samsafececennodisí.
– E cosa potremmo fare,
insieme?
–Potremmoparlare.
–Parlaredicosa?
–Ditutto.
–Soloparlare?
–Cisonotantecosechele
vorreidomandare.
–Acheproposito?
– Del modo in cui è fatto
questomondo,dilei,dime…
La ragazza rifletté un
momento.
–Nonèchevuolesoltanto
infilare il suo coso dove
sappiamo?
– No, davvero, – disse
Samsa con fermezza. –
Semplicemente
ho
l’impressione che ci siano
tantissime cose di cui
dobbiamo parlare, lei e io.
Dei carri armati, di Dio, dei
reggiseni,delleserrature…
Unaltrosilenziocalòfrai
due. Si udí il rumore di
qualcunochepassavadavanti
acasatirandouncarretto.Un
rumoresinistrochetoglievail
fiato.
– Sí, ma non so… – disse
lei scuotendo lentamente la
testa.Ilsuotonoperònonera
piúfreddocomeprima.–Lei
viene da una famiglia troppo
in alto, rispetto alla mia. I
suoi genitori non saranno
certo contenti che il loro
prezioso figlio si metta con
unaragazzacomeme.Inoltre
adessolacittàèpienadicarri
armati e soldati stranieri.
Chissà cosa succederà, nei
prossimi giorni, nessuno lo
puòsapere.
Naturalmente non lo
sapevanemmenoSamsa.Non
capivanulladelpresenteedel
passato, figurarsi del futuro!
Ignorava persino il modo
giustodiindossareivestiti!
– Comunque sia, fra
qualchegiornotorneròquida
lei, – disse la ragazza. – Per
riportarle la serratura. Gliela
riporto in ogni caso, che si
riesca a ripararla o no. Devo
anche farmi pagare. Se lei
sarà ancora qui, potremo
rivederci.Anchesenonsose
potremoparlareconcalmadi
com’èfattoilmondo.Davanti
ai suoi genitori, però, quella
protuberanza è meglio che
nonlatengainmostra.Nonè
ilgeneredicosachesipossa
far vedere come se nulla
fosse, nessuno le farebbe i
complimenti.
Samsa annuí. Non sapeva
benecomefareanasconderla,
maciavrebbepensatodopo.
– È strano, però, sa? –
disse la ragazza con aria
pensosa. – Mentre tutto sta
crollando, c’è chi si
preoccupa di una serratura
rotta, e chi viene a ripararla.
A pensarci bene, è assurdo,
nontrova?Maforseèmeglio
cosí, dopotutto. Forse è la
cosa giusta da fare. Cioè,
anche se il mondo adesso si
sta sfasciando, la gente,
continuando a occuparsi
onestamentediquestepiccole
cose, forse riuscirà a
mantenere
l’equilibrio
mentale.
La ragazza piegò la testa
di lato e guardò Samsa in
faccia,
un
sopracciglio
sollevato.
– Tra parentesi, –
continuò, – forse non sono
affari miei, ma quella stanza
al primo piano, a cosa è
servita,finora?Nientemobili,
maunaserraturasolidacome
questa. Perché i suoi genitori
erano tanto preoccupati che
fosse rotta? E perché alla
finestra hanno inchiodato
delle spesse assi di legno?
Non è che per caso lei era
rinchiusolídentro?
Samsa non rispose. Se
qualcuno era stato rinchiuso
in quella stanza, poteva
trattarsi solo di lui. Ma per
quale motivo, che necessità
c’eradifarlo?
– Mah, forse non serve a
niente chiederle certe cose.
Ora devo andare. Se tardo a
rientrare
i
miei
si
preoccupano. Preghi che
riesca ad attraversare sana e
salva la città. Che i soldati
non degnino di un’occhiata
una povera ragazza gobba.
Che fra loro non ci sia
qualchepervertitocuipiaccia
fottere una come me. Stanno
già fottendo la città, ed è piú
chesufficiente.
– Pregherò, – rispose
Samsa, anche se non capiva
cosa significasse quella
parola,eneppure«pervertito»
o«fottere».
Poilaragazzauscí,piegata
in due, la pesante borsa di
cuoioneroappesaallamano.
– Ci incontriamo ancora,
vero? – chiese di nuovo
Samsaallesuespalle.
– Se lo desidera
veramente, prima o poi di
sicuro ci rincontreremo, –
disse lei. Ora nella sua voce
c’eraunanotadidolcezza.
– Faccia attenzione agli
uccelli rapaci! – le gridò
dietroGregorSamsa.
Leisivoltòefececennodi
sí. Sulla sua bocca un po’
stortaapparvel’accennodiun
sorriso.
Samsa rimase a guardare
attraversoletendinelafigura
curvadileichesiallontanava
sui ciottoli della strada.
Aveva un’andatura goffa, ma
procedeva sicura e veloce.
Ogni suo gesto gli pareva
seducente. Sembrava un
girino
sulla
superficie
dell’acqua. Ai suoi occhi,
quel modo di camminare
appariva molto piú naturale
che non avanzare in modo
instabilesuduegambe.
Quando non riuscí piú a
vederla, ben presto si rese
conto che il suo organo
genitale era di nuovo piccolo
e
molle.
La
grossa
«protuberanza» a un certo
punto, chissà quando, era
svanita.Il«coso»glipendeva
tra le gambe quieto e
inoffensivo, come un frutto
innocente. I due testicoli
riposavano tranquilli nella
loro sacca. Samsa si
riaggiustò la cintura della
vestaglia, andò a sedersi su
una sedia della cucina e
bevve il caffè che restava,
ormaifreddo.
Le persone che abitavano
in quella casa se n’erano
andate. Non sapeva chi
fossero, ma probabilmente si
trattava dei suoi famigliari.
Per qualche oscura ragione
erano scappati di corsa. E
magarinonsarebberomaipiú
tornati. Il mondo stava per
sfasciarsi… Gregor Samsa
nonsapevacosavolessedire.
Non riusciva a immaginarlo.
Soldati
stranieri,
carri
armati…eratuttounmistero.
Una
cosa
sola
comprendeva
bene:
desiderava incontrare di
nuovo quella ragazza gobba.
Anelava a rivederla. Parlare
con lei per ore, uno di fronte
all’altra. Scoprire insieme, a
poco a poco, il mistero del
mondo. Voleva guardarla da
angoli diversi mentre si
scuotevaperrimettereaposto
il reggiseno. E possibilmente
toccare tutto il suo corpo.
Sentire sotto le dita la
morbidezza e il tepore della
sua pelle. Salire e scendere
con lei, insieme, uno accanto
all’altra,lescaledelmondo.
Gli bastava pensare a lei,
rivedere mentalmente la sua
figura,persentireuncalorein
petto.Ecominciòarallegrarsi
di non essere un pesce o un
girasole. Camminare su due
gambe, indossare dei vestiti,
mangiareusandouncoltelloe
una forchetta… tutto questo
costituiva una seccatura
tremenda, era vero. E al
mondo c’era una quantità
impressionante di cose da
ricordare. Ma se fosse
diventato un pesce o un
girasole,invececheunessere
umano, forse non avrebbe
conosciuto quella strana
sensazionechegliscaldavail
cuore.Cosíglisembrava.
Rimase per molto tempo
seduto a occhi chiusi.
Assaporava tranquillamente
quel calore, come una
personaaccantoaunfalò.Poi
sialzò,preseilbastoneneroe
si diresse verso le scale.
Voleva tornare al piano di
sopra
e
cercare
di
comprendere il modo giusto
di indossare i vestiti. Per il
momento, questo era il suo
compito.
Ilmondoattendevachelui
imparasse.
Uominisenzadonne
Poco dopo l’una, venni
svegliato dal suono del
telefono. Un suono che in
piena notte ha sempre
qualcosadiaggressivo.Come
se qualcuno cercasse di
lacerare il mondo servendosi
diun’armabrutale.Inquanto
membro del genere umano,
dovevofarlosmettere.Quindi
mialzai,andaiinsoggiornoe
sollevailacornetta.
Unuomodallavocebassa
mi diede una notizia: una
donna aveva lasciato per
sempre questo mondo. La
voce era quella del marito.
Perlomeno, cosí si presentò
lui.Midissechelamoglie,il
mercoledí della settimana
precedente,sierasuicidata.E
che comunque stessero le
cose, riteneva doveroso
farmelo sapere. Comunque
stessero le cose. Da quello
chepotevogiudicare,nelsuo
tono non c’era la minima
tracciadiemozione.Comese
dettasse il testo di un
telegramma. Nessuna pausa
fra una parola e l’altra. Una
notizia asettica. Un evento
privo
di
circostanze
accessorie.Punto.
Come
risposi
a
quell’annuncio?
Probabilmente alcune parole
le dissi, ma non ricordo piú
quali. In ogni caso, seguí un
lungo silenzio. Un silenzio
che faceva pensare a una
profonda buca apertasi
improvvisamente nel bel
mezzo della strada, e due
persone ferme sui due lati a
guardarcidentro.Poil’uomo,
senza aggiungere nulla,
riagganciò.
Cautamente,
comequandosiposaperterra
un fragile oggetto d’arte. Io
rimasi in piedi dov’ero, il
ricevitore insulsamente in
mano. Avevo addosso una
maglietta bianca e dei boxer
azzurri.
Quellochenoncapivoera
come facesse lui a sapere di
me. La donna gli aveva fatto
il mio nome dicendogli che
ero un suo ex fidanzato? A
che scopo? E come mai lui
conosceva il mio numero di
telefono, visto che non ero
sull’elenco? Ma soprattutto,
perché quell’uomo si era
sentitoinobbligodichiamare
me per annunciarmi che la
moglie era morta? Non
riuscivo a credere che lei,
nelle sue ultime volontà,
avesselasciatoscrittodifarlo.
Eravamo stati insieme molti
anni addietro. E dopo esserci
lasciati, non ci eravamo piú
rivisti. Nemmeno parlati al
telefono.
Comunque, tutto questo
non aveva importanza. Il
problema era che lui non mi
aveva dato uno straccio di
spiegazione. Sentendo il
dovere di informarmi del
suicidio della moglie, si era
procurato in qualche modo il
mio numero. Ma non aveva
ritenuto necessario darmi
notizie
piú
dettagliate.
Sembrava che il suo scopo
fossestatodipiazzarmiinun
punto intermedio tra la
conoscenzael’ignoranza.Ma
perché? Voleva insegnarmi
qualcosa?
Cosa,adesempio?
Non ci capivo niente.
Andavomoltiplicandoipunti
interrogativi. Come un
bambino che continui a
stampareacasosulquaderno,
uno dopo l’altro, timbri di
gomma.
Di conseguenza ancora
adessononsoperchéleisisia
suicidata, né quale modo
abbia scelto di togliersi la
vita. Anche avessi voluto
indagare, non ne avevo i
mezzi.
Ignoravo
dove
abitasse, e tanto per
cominciare non avevo mai
saputo che si fosse sposata.
Néconoscevo,ovviamente,il
suo nuovo cognome (al
telefono il marito non si era
presentato).Aquandorisaliva
il matrimonio? Aveva dei
figli?
Eppure presi per buono
tutto quello che il marito mi
disse al telefono, non dubitai
mai che non mi avesse detto
la verità. Dopo essersi
separata da me, lei aveva
continuatoaesistereinquesto
mondo,
si
era
(probabilmente) innamorata
di un uomo, l’aveva sposato,
e poi il mercoledí della
settimana precedente, per
qualche ragione, con qualche
mezzo, si era tolta la vita.
«Comunquestesserolecose».
Nella voce di lui c’era in
effetti
qualcosa
di
profondamente legato al
mondo della donna morta.
Nel silenzio della notte,
percepii quel legame. Vidi lo
sfolgorio di un filo teso fino
allospasimo.Inquestosenso
– a prescindere dal fatto che
fosse intenzionale o meno –
telefonarmi all’una del
mattino, da parte di lui, era
stata una scelta giusta. Se mi
avesse chiamato all’una del
pomeriggio,
forse
non
avrebbe ottenuto lo stesso
risultato.
Allafineposaiilricevitore
e tornai a letto. Anche mia
mogliesierasvegliata.
– Chi era? È morto
qualcuno?–michiese.
– No, nessuno. Hanno
sbagliato numero, – dissi.
Con
voce
assonnata,
strascicandoleparole.
Naturalmente lei non ci
credette.Perchénelmiotono
si era insinuata l’ombra della
suicida. Il turbamento che
crea la morte di una persona
ha una fortissima capacità
infettiva. Si manifesta in un
lieve tremore che si propaga
attraversoifilideltelefono,e
diventa una vibrazione nella
voce che fa oscillare il
mondo.Miamoglieperònon
fece commenti. Distesi uno
accanto all’altra nel buio,
seguimmo ognuno i propri
pensieri, tendendo l’orecchio
alsilenzio.
Era la terza, fra le donne
con cui avevo avuto una
relazione, che sceglieva di
darsi la morte. A pensarci
bene, anzi, senza bisogno di
pensarci piú di tanto, era un
tasso di mortalità altissimo.
Stentavo a crederci. Perché
nonèchefossistatocontante
donne… Per quale motivo si
erano tolte la vita una dopo
l’altra, ancora giovani? Cosa
le aveva obbligate a farlo?
Non lo capivo. Purché non
fosse colpa mia, mi dissi.
Purché io non c’entrassi
nulla. Purché non avessero
pensato a me come a un
testimone oculare, o a
qualcuno che registrasse
l’evento.
Lo
speravo
sinceramente.Inoltre…come
dire? Comunque la si rigiri,
lei, la terza donna (per
comodità qui la chiamerò
Emu), non era il genere di
personachesisuicida.Perché
Emu avrebbe sempre dovuto
essere vegliata e protetta dai
robusti marinai del mondo
intero!
Non posso raccontare che
tipo di donna fosse Emu,
dove e quando ci siamo
conosciuti,
quali
cose
abbiamo fatto insieme.
Chiedo scusa, ma se entrassi
nei dettagli creerei dei
problemireali.Probabilmente
mettereiinimbarazzodiverse
persone che sono ancora in
vita. Di conseguenza tutto
quello che posso scrivere, da
partemia,èchemoltotempo
fa, per un certo periodo, ho
avutoconleiunlegameassai
intimo,echeauncertopunto
sono sorti dei motivi per cui
cisiamolasciati.
Aesseresincero,Emueio
ci conoscevamo da quando
avevo quattordici anni. In
realtà non è cosí, ma almeno
quisupponiamochelosia.Ci
siamo incontrati a quattordici
anni in un’aula della scuola
media. Alla lezione di
biologia. Si parlava di
ammoniti o celacanti o
qualcosadelgenere.Emuera
la mia vicina di banco. Io le
avevo chiesto se poteva
prestarmi una gomma da
cancellare, perché avevo
dimenticato la mia, e lei
avevaspezzatoinduelasuae
me ne aveva dato metà.
Sorridendomi. E io in un
attimo,allalettera,meneero
innamorato. Era la ragazza
piúbellacheavessimaivisto.
Perlomeno è quello che
pensai quella volta. È cosí
che voglio considerare Emu.
Ècosícheciincontrammoin
un’aula della scuola media.
Grazie alla mediazione
irresistibile delle ammoniti o
dei celacanti. A questo
pensiero, tante cose trovano
confacilitàunaspiegazione.
Avevo quattordici anni,
ero sano e in forma come un
pesce appena nato, e ogni
volta che soffiava un vento
caldo da ovest avevo
un’erezione.Manoneraleia
farmelo venire duro. Perché
Emueramegliodelventoche
soffiava da ovest. Anzi, era
talmente straordinaria da
sbaragliare tutti i venti, da
qualsiasi direzione venissero.
Noneracertoilcasodiavere
una patetica erezione davanti
a una giovane donna tanto
perfetta. Mai una ragazza mi
avevaispiratotalisentimenti.
Io «sento» che quello è
stato il mio primo incontro
con Emu. In realtà non è
andata esattamente cosí, ma
pensarlo aiuta a dare un filo
logico alla storia. Io avevo
quattordici anni, e lei anche.
Era quella l’età giusta per
incontrarci.
In
una
dimensioneideale.
Peccato che in seguito,
chissà quando, Emu sia
scomparsa. Non la vedevo
piú, dov’era finita? Appena
avevo distolto per un attimo
lo sguardo, qualcosa me
l’aveva portata via. Fino a
pocoprimaeralí,eauncerto
punto mi sono accorto che
non c’era piú. Forse era stata
indotta in modo un po’
subdolo a salire su una nave
direttaaMarsigliaoinCosta
d’Avorio. La mia delusione
erapiúprofondadiqualunque
oceano avesse attraversato.
Piúprofondadiunmaretanto
vastodacelarepiovregiganti
e draghi marini. Cominciai a
detestarelamiapersona.Non
credevo piú a nulla. Ebbene
sí, a tal punto ero affascinato
daEmu.Atalpuntol’amavo.
Atalpuntoneavevobisogno.
Perché mi ero distratto e
avevo guardato da un’altra
parte?
Paradossalmente,daallora
Emu ha continuato a vivere
ovunque.Lavedevoovunque.
Era presente in molti luoghi,
era compresa in molte
dimensioni temporali, in
moltepersone.Eiolosapevo.
Ho messo la metà della
gomma da cancellare in una
bustina di plastica e l’ho
portatasempreconme,come
fosse un tesoro. O un
amuleto. O una bussola. Se
l’avessi tenuta sempre in
tasca,primaopoidaqualche
parte avrei trovato Emu. Ne
ero convinto. Era stata
incantata dalle lusinghe dei
marinai – la sanno lunga, i
marinai –, messa su una
grande nave e portata in un
paeselontano.Perchéerauna
persona che voleva credere
alle cose. Che poteva
spezzare in due una gomma
nuova senza pensarci due
volte e darne la metà a
qualcuno.
Hocercatodiprocurarmia
pocoapocodeiframmentidi
lei prendendoli da gente e da
posti
diversi.
Ma
naturalmente erano soltanto
dei frammenti. Per quanti ne
mettessi
insieme,
tali
restavano. Il nucleo di lei si
era dileguato, come un
miraggio. L’orizzonte non
avevalimite,nésullaterrané
sul mare. Mi spostavo di
continuoperinseguirlo.Sono
andatofinoaBombay,aCittà
del Capo, a Reykjavík, alle
Bahamas. Ho fatto il giro di
tutte le città che avessero un
porto. Ma quando arrivavo,
lei aveva già fatto perdere le
sue tracce. Nel suo letto in
disordine restava ancora un
po’
del
suo
calore.
Appoggiata alla spalliera di
una sedia c’era ancora la
sciarpaamotivistampatiche
portava intorno al collo. Sul
tavolo, un libro aperto alla
pagina che stava leggendo.
Nel bagno le sue calze di
nylon appese ad asciugare.
Ma lei non c’era piú. I
marinai del mondo intero,
tempestivi,avevanofiutatola
mia presenza e l’avevano
portata via di corsa per
nasconderladaqualcheparte.
Naturalmenteaquelpuntoio
non ero piú un adolescente.
Erodiventatomoltopiúforte
eabbronzato.Avevolabarba
piúfoltaesapevodistinguere
una metafora da una
similitudine. Ma una parte di
me non era cambiata, aveva
ancora quattordici anni. E
quella parte di me che
avrebbe avuto per sempre
quattordici anni attendeva
paziente che un dolce vento
daovestvenisseacarezzareil
mio sesso innocente. Perché
lí, nel posto da dove soffiava
quel vento, di sicuro c’era
Emu.
QuestoeraEmuperme.
Non una donna che
potesse sentirsi tranquilla in
unpostosolo.
Ma neanche il genere di
persona che mette fine alla
propriavita.
A essere sincero, ora non
so piú bene cosa volessi dire
qui. Forse intendevo scrivere
dell’essenza di qualcosa, non
di un fatto reale. Ma parlare
di qualcosa di essenziale che
non sia anche reale è come
dare
appuntamento
a
qualcuno sulla faccia in
ombradellaluna.Buiopesto,
nessun segnale visibile.
Inoltre è un luogo troppo
vasto. Quello che vorrei dire
è che Emu era una donna di
cuiavreidovutoinnamorarmi
quando avevo quattordici
anni.Inveceèsuccessomolto
piútardi,eall’epocaanchelei
(purtroppo) ne aveva tanti di
piú. Ci siamo incontrati nel
periodo sbagliato. È come se
avessimo frainteso il giorno
dell’appuntamento.Illuogoe
l’ora erano giusti, il giorno
no.
Eppure anche dentro di
Emu viveva ancora una
quattordicenne. In modo
globale, certamente non
frammentario.Guardandocon
attenzione, potevo vedere
quella ragazzina muoversi
dentro di lei. Quando
facevamol’amore,Emunelle
mie braccia poteva diventare
molto vecchia o molto
giovane.Potevaandareavanti
e indietro all’interno del suo
tempopersonale,lofacevadi
continuo. A me piaceva che
lei fosse cosí. In quei
momenti la stringevo forte a
me,tantodafarlemale.Forse
ci mettevo un po’ troppo
ardore. Ma non ne potevo
fare a meno. Perché non
volevolasciarlaandarevia.
Tuttavia, com’era naturale
che accadesse, a un certo
punto l’ho persa di nuovo.
Per forza, tutti i marinai del
mondo miravano a lei. Non
era possibile che fossi il solo
a proteggerla. A chiunque
succede di distogliere un
attimo lo sguardo. È
necessario dormire, bisogna
andare in bagno. Lavarsi.
Affettare le cipolle e
sbucciare
i
fagioli.
Controllare la pressione nelle
gomme della macchina. Ed è
cosí che alla fine ci siamo
separati. Cioè, lei si è
allontanata da me. C’era di
sicuro l’ombra dei marinai,
dietro. Un’ombra densa,
dotata di vita propria, che si
arrampicava sui muri del
palazzo.Ilbagno,lecipollee
la pressione delle gomme
erano soltanto i frammenti
delle
metafore
che
quell’ombra spargeva come
puntine.
Quando lei se n’è andata,
sono caduto in un abisso di
angoscia di cui nessuno
conosce la profondità. È
qualcosa che nessuno può
sapere.Vistochenemmenoio
me lo ricordo tanto bene.
Quanto ho sofferto? Quanto
dolore ho sentito in petto?
Sarebbe bello che a questo
mondo
esistesse
uno
strumento per misurare in
modo semplice e preciso la
sofferenza. Cosí si potrebbe
poi quantificarla in cifre e
segnareilnumerodaqualche
parte. E se quello strumento
losipotesseteneresulpalmo
della mano, sarebbe perfetto.
Ci penso ogni volta che
regolo la pressione delle
gomme.
E poi lei è morta. L’ho
saputo da una telefonata nel
cuore della notte. Non so
nulla di questa morte – il
luogo, il mezzo, la causa, lo
scopo –, se non che Emu ha
presoladecisioneditogliersi
lavitael’hamessainpratica.
E che ha lasciato in silenzio
(probabilmente)
questo
mondo
reale.
Anche
ricorrendoatuttiimarinaidel
mondo, servendosi di tutte le
loro astute lusinghe, ormai
nonsipuòpiútirarefuori–o
rapire–Emudalmondodelle
tenebre. Anche tu, se tendi
attentamente
l’orecchio
durante la notte, potrai udire,
molto lontano, il canto
funebredeimarinai.
Insieme a lei, ho la
sensazione di aver perso per
sempre il me stesso
quattordicenne. Come se in
una squadra di baseball
mancasse un giocatore. La
parte della mia vita costituita
dal quattordicesimo anno è
stata strappata con tutte le
radici. È stata rinchiusa in
qualcherobustoforzieredalla
serraturacomplicata,ebuttata
in fondo al mare. Forse la
porta del forziere non verrà
piú aperta, per migliaia di
anni. Lo proteggeranno le
ammonitieicelacanti.Anche
quelfantasticoventodaovest
non soffia piú. I marinai del
mondo intero rimpiangono
Emu dal profondo del cuore.
Eanchetutticolorochesono
controimarinai.
Quando sono venuto a
saperedellamortediEmu,ho
sentito che ero diventato il
secondo uomo piú solo e
triste al mondo. L’uomo piú
solo e triste al mondo
naturalmente era suo marito.
Glicedovolentieriilprimato.
Non so che tipo di persona
sia.Nonsoquantianniabbia,
cosafaccia,cosanonfaccia…
nonsoassolutamentenulladi
lui. Di lui conosco soltanto
una cosa, la sua voce bassa.
Ma il fatto che abbia una
voce bassa, concretamente
non mi dice niente della
persona.Chesiaunmarinaio?
Oppure appartenga al gruppo
contrario ai marinai? In
quest’ultimo caso, è un mio
fratello, altrimenti… be’,
anche nel primo caso
condivido i suoi sentimenti,
naturalmente. Mi piacerebbe
poterfarequalcosaperlui.
Peccato che non possa
avvicinarmiaquell’uomoche
è stato suo marito. Non
conosco il suo nome, non so
dove abiti. Può anche darsi
che abbia già perso tutto, il
nome che aveva, il luogo
doveviveva.Perchéèl’uomo
piútristeesoloalmondo.Nel
belmezzodiunapasseggiata
mi sono seduto davanti alla
statuadiununicorno(sitrova
inungiardinoinclusonelmio
percorso
abituale)
e
guardando l’acqua fredda
dellafontanahopensatoalui.
Ho cercato di immaginare
cosa significhi essere l’uomo
piú triste e solo al mondo.
Cosa significhi essere il
secondo uomo piú triste e
soloalmondo,losogiàbene.
Ilprimoperòno.Trailprimo
e il secondo c’è un fosso
profondo. Forse. Profondo, e
anche terribilmente largo.
Tanto che vi si è accatastata
una montagna di uccelli
morti, uccelli che a un certo
punto hanno perso le forze e
non ce l’hanno fatta a volare
daunbordoall’altro.
Un giorno all’improvviso
diventi uno dei tanti uomini
che non hanno una donna.
Quel giorno viene di colpo a
farti visita senza che tu ne
abbia
il
minimo
presentimento, senza il
minimo preavviso, senza
annunciarsi bussando o
schiarendosi la gola. Svolti
l’angolo, e ti accorgi che
ormai sei arrivato lí. Ma non
puoipiútornareindietro.Una
volta girato l’angolo, quello
diventa il tuo solo, unico
mondo. E quel mondo lo
chiami
«uomini
senza
donne». Sí, con un plurale di
geloinfinito.
Quantosiaduroedoloroso
essere uno degli «uomini
senzadonne»,sologliuomini
chehannopersounadonnalo
sanno. Significa perdere quel
fantastico vento da ovest.
Venir derubati per sempre –
migliaia di anni sono forse
vicini all’eternità – del
proprioquattordicesimoanno.
Sentire lontano il canto triste
e sofferente dei marinai.
Mescolarsiconleammonitie
i celacanti in fondo al mare.
Telefonare a qualcuno poco
dopo l’una di notte. Ricevere
latelefonatadiqualcunopoco
dopo l’una di notte. Darsi
appuntamento con uno
sconosciuto in un punto
intermedio tra la conoscenza
e
l’ignoranza.
Mentre
controlli la pressione nelle
gomme,versarelacrimesulla
stradaarida.
Comunquesia,davantialla
statua dell’unicorno prego
perché quell’uomo un giorno
si rimetta in piedi. Prego
perchéfiniscacoldimenticare
i
numerosi
fatti
complementari, ma non ciò
che conta davvero – la
sostanza, la chiamiamo
semplicemente noi. Sarebbe
bene che lui dimenticasse
persino di aver dimenticato.
Losperocontuttoilcuore.È
importante, no? Perché il
secondo uomo piú solo e
triste al mondo sta pregando,
pieno di compassione, per
l’uomo piú solo e triste al
mondo (che non ha mai
nemmenoincontrato).
Maperchéluihachiamato
proprio me? Non lo sto
criticando, però ancora oggi
continuo a pormi questa
basilare domanda. Perché era
al corrente della mia
esistenza? Perché si è
preoccupato
della
mia
persona? Forse la risposta è
semplice. Forse Emu gli
aveva parlato di me. Non c’è
altra spiegazione. Ma non
riesco a immaginare cosa
possa avergli detto. Quale
valore, quale significato
avevo,inquantoexfidanzato,
che lei dovesse rivelare (al
marito, di sua volontà)? Era
qualcosa di grave che ha una
relazioneconlamortedilei?
Lamiaesistenzaproiettauna
qualche ombra sulla sua
scomparsa? Forse ha detto al
marito che io avevo un bel
membro. A letto, il
pomeriggio, a lei piaceva
guardare il mio pene. Lo
teneva sul palmo della mano
con precauzione, come se
ammirasse
un
gioiello
leggendario incastonato in
una corona indiana. «Ha una
forma stupenda», diceva.
Naturalmente non so se sia
veroono.
Èperquestaragionecheil
marito di Emu mi ha
telefonato? Per deferenza
verso il mio pene, all’una
passatadinotte?Figuriamoci!
Nonèconcepibile!Tantopiú
cheilmiopene,daqualunque
punto di vista lo si consideri,
non è niente di speciale.
Tutt’al piú è normale. Ora
che ci penso, non sono mai
stato molto convinto del
sensoesteticodiEmu.Aveva
un senso dei valori originale,
tuttosuo.
Oforse(èunacosachemi
stosoloimmaginando)gliha
detto che una volta in classe,
alle medie, mi ha regalato
metà della sua gomma da
cancellare. Gli ha raccontato
quest’episodio
di
poca
importanza senza alcuna
intenzione
nascosta
o
malevola.Mailmarito,vada
sé, si è ingelosito. Quella
mezzagommacheavevadato
a me, ha suscitato in lui una
gelosiamoltopiúacutachese
Emu fosse andata a letto con
due autobus di marinai. È
naturale,no?Cosavoleteche
siano due autobus di robusti
marinai?Inognicaso,Emue
io
avevamo
entrambi
quattordicianni,eperquanto
mi riguardava, all’epoca
bastavachesoffiasseilvento
da ovest perché avessi
un’erezione. Ricevere da una
ragazza cosí metà di una
gomma che aveva spezzato
per me, era già una cosa
straordinaria. Come offrire a
una tromba d’aria una
dozzina di vecchie capanne
dasfasciare.
Da allora, ogni volta che
passo davanti alla statua
dell’unicorno, mi siedo lí per
qualche minuto e vado col
pensiero agli «uomini senza
donne».Perchéinquelposto?
Perché l’unicorno? Chissà,
magari anche lui fa parte
degli uomini che non hanno
una donna. Sí, perché finora
non
l’ho
mai
visto
accoppiato. Lui – è un
maschio, senza possibilità di
dubbio – sta sempre solo e
protende con forza il suo
cornoappuntitoversoilcielo.
Forse dovremmo farne un
simbolo di solitudine da
portare sulle spalle, in
rappresentanza degli uomini
senza donne. Dovremmo
percorrereinsilenziolestrade
del mondo con un distintivo
raffigurante un unicorno
attaccato al petto o al
cappello. Senza bisogno di
musica, di bandiere, di
volantini lanciati in aria a
migliaia. Forse (so che uso
troppo la parola «forse».
Forse).
È facilissimo diventare
«uomini senza donne». Basta
che tu ami profondamente
una donna, e lei a un certo
punto se ne vada. Nella
maggiorpartedeicasi(malo
sapete già), a rapirle sono
quei campioni di astuzia dei
marinai. Le seducono con le
loro lusinghe e in quattro e
quattr’otto le portano a
Marsiglia o in Costa
d’Avorio.Enoinonpossiamo
farci quasi niente. Oppure le
donne si tolgono la vita di
loro volontà, senza che ci sia
relazione alcuna con i
marinai. Anche riguardo a
quest’eventualità
siamo
impotenti. Lo sono pure i
marinai.
In ogni caso, è cosí che
diventi uno dei tanti uomini
senza una donna. In un
attimo.Eunavoltachelosei
diventato,lalorosolitudineti
siattaccaaddossopersempre,
è un colore che ti entra
dentro, come una macchia di
vino su un tappeto chiaro.
Farla sparire è un lavoro
improbo.Coltempopuòdarsi
che sbiadisca, ma almeno
finché respiri resterà lí,
indelebile. Ha le sue
prerogative di macchia, che
includono a volte il diritto
allaparola.Etudovraivivere
insieme alle sue piccole
variazioni, insieme ai suoi
contorni
che
prendono
significatimutevoli.
In quel mondo, anche la
vibrazione dei suoni è
diversa. Anche il modo di
schiarirsilagola.Elavelocità
a cui cresce la barba. Le
reazioni del commesso di
Starbucks. Persino gli assolo
di Clifford Brown ti
sembrano differenti. E il
modoincuisiapronoleporte
dei
vagoni
della
metropolitana. Andando a
piedi da Omotesandō a
Aoyama1-chōme,ladistanza
nontiparràpiúlastessa.Ese
per caso in seguito incontri
un’altra donna, anche se la
trovimeravigliosa(anzi,tanto
piú se la trovi meravigliosa),
da quel momento inizi a
pensarechelaperderai.Basta
un’ombrachetifacciavenire
in mente i marinai, il suono
della lingua che loro parlano
(greco? estone? filippino?)
permettertiinallarme.Inomi
esotici dei porti del mondo
intero ti spaventano. Perché
sai bene cosa significhi
diventare «uomini senza
donne». Sei un tappeto
persianodaicoloridelicati,su
cui la solitudine è una
macchia
indelebile
di
Bordeaux.Lasolitudineviene
dalla Francia, il dolore alla
ferita dal Medio Oriente. Per
gli uomini che hanno perso
una donna, il mondo è un
grande e doloroso miscuglio,
l’immaginestessadellafaccia
inombradellaluna.
La mia storia con Emu è
durata all’incirca due anni.
Non molto, quindi. Ma sono
stati due anni importanti.
Certo, si potrebbe dire «solo
due anni». Oppure «due
lunghi anni». Dipende dai
punti di vista, naturalmente.
Inoltre parlare di «una storia
con lei» forse è fuori luogo,
in realtà ci vedevamo due o
trevoltealmese.Leiavevale
sueragioni,eiolemie.Epoi,
purtroppo, all’epoca non
avevamoquattordicianni.Per
tutte queste ragioni, tra noi
non ha funzionato. E pensare
checercavoditenerlastretta,
perché non se ne andasse.
L’ombra densa dei marinai
spargeva le puntine aguzze
dellametafora.
Lacosacheancoraadesso
ricordo meglio di Emu è che
amavailgeneredimusicache
si sente negli ascensori.
Quella di Percy Faith, ad
esempio, o di Enrico
Mantovani,
Raymond
Lefèvre,FrankChacksfield…
O anche di Francis Lai, Paul
Mauriat, Billy Boone, la 101
Strings… roba cosí. A lei
quell’innocua musica che io
trovavo un po’ fatalista
piaceva
da
morire.
Trascinantiorchestrediarchi,
sentimentali flauti in legno,
trombe e sassofoni usati con
la sordina, arpe che
accarezzanoilcuore.Melodie
affascinantichenonrischiano
di spezzarsi, belle armonie
gradevoli
come
dolci
zuccherati,registrazioniincui
sisenteun’eco.
Quando in macchina ero
solo, ascoltavo rock o jazz.
DerekandtheDominos,Otis
Redding, i Doors… Ma non
c’era verso di farli sentire a
Emu. Si portava sempre
dietro una busta di carta con
una dozzina di cassette di
musica per ascensore, che
infilavanellostereounadopo
l’altra. Facevamo spesso
lunghi giri senza una meta
stabilita,enelfrattempoEmu
muovevainsilenziolelabbra
seguendo la melodia di 13
jours en France di Francis
Lai. Le sue belle labbra
sensuali dal rossetto chiaro.
Aveva migliaia di cassette di
quel
genere.
E
una
conoscenza
straordinaria
della musica innocua del
mondo intero. Avrebbe
addirittura potuto aprire un
«Museo di musica per
ascensore».
Quando facevamo sesso,
era la stessa cosa. Metteva
sempremusicaperascensore.
Non so quante volte, mentre
facevo l’amore con lei, ho
ascoltatoASummerPlace 1di
Percy Faith. Mi vergogno un
po’ a rivelare questo genere
di cose, ma ancora oggi,
quando
ascolto
quella
canzone, mi eccito. Il mio
respiro si fa affannoso e il
sanguemisalealviso.Credo
di essere il solo uomo al
mondo a eccitarsi ascoltando
l’introduzione di A Summer
Place di Percy Faith, potete
cercare finché volete. Anzi
no,puòdarsichecisiaanche
suo marito. Lasciamo aperta
questa
possibilità.
Me
incluso, ci sono forse solo
due uomini al mondo che si
eccitano
ascoltando
l’introduzione di A Summer
Place di Percy Faith. Ecco,
cosívameglio.Cosívabene.
Spazio.
– Sai, a me piace tanto
questogeneredimusica,–mi
ha detto un giorno Emu. –
Puòdarsichesiaunproblema
dispazio.
–Unproblemadispazio?
– Sí, perché mentre la
ascolto ho l’impressione di
trovarmi in un grande spazio
vuoto. Uno spazio davvero
immenso, privo di divisioni.
Niente pareti, niente soffitto.
Quando sono lí, non è
necessario che pensi a
qualcosa, non è necessario
che dica qualcosa, che faccia
qualcosa. È sufficiente che
chiuda gli occhi e mi
abbandoni al meraviglioso
suono degli archi. Lí non
esistonomalditesta,sensodi
freddo, mestruazioni, periodo
d’ovulazione… Tutto è
infinitamente
bello,
confortevole, sicuro… non
esistono tentennamenti. Non
possodesiderarenulladipiú.
– È come stare in
paradiso?
– Sí. Sono sicura che in
paradiso si sente in
sottofondolamusicadiPercy
Faith. Senti, perché non mi
accarezziancoralaschiena?
–Sí,certo,–hodetto.
–
Sei
bravo,
ad
accarezzarelaschiena.
Henry Mancini e io ci
scambiamo
un’occhiata
furtiva. Con un lieve sorriso
agliangolidellabocca.
Ormai ho perso anche la
musica per ascensore. Lo
penso, guidando, ogni volta
che sono solo in macchina.
Vorrei che mentre aspetto
fermo a un semaforo una
ragazza che non conosco
all’improvviso aprisse la
portiera, si sedesse accanto a
me, senza dire niente, senza
nemmeno guardarmi, e
infilasse nello stereo della
macchina, senza chiedere il
permesso, la cassetta di 13
joursenFrance.Melosogno
addirittura. Ma naturalmente
certe cose non succedono.
Tanto per cominciare, ormai
non ho piú uno stereo a
cassette.
Nella
mia
automobile attuale ascolto la
musica collegando l’iPod a
un cavo usb. E naturalmente
lí dentro non ci sono la 101
StringseFrancisLai.Cisono
i Gorillaz e i Black Eyed
Peas.
Questo significa perdere
una donna. E a volte perdere
una donna significa perderle
tutte.
Cosí
diventiamo
«uomini senza donne». E
naturalmenteperdiamoleloro
schiene seducenti. E anche
Percy Faith, Francis Lai e la
101 Strings. Le ammoniti e i
celacanti. Mentre ascoltavo
HenryMancinidirigereMoon
River,carezzavolaschienadi
Emu seguendo il ritmo di
quella
musica
soave.
«Waiting ’round the bend, |
My huckleberry friend…»
Eppuretuttoquestoèsvanito.
È rimasto soltanto un pezzo
di gomma da cancellare, e,
lontano, il canto sconsolato
deimarinai.El’unicornoche
tende verso il cielo il suo
corno solitario, sul bordo
dellafontana.
SperocheEmuoraascolti
ASummerPlaceinparadiso–
oinunpostodelgenere.Che
una musica immensa e senza
barriere la tenga teneramente
fra le braccia. Che lí dove si
trova non si sentano i
JeffersonAirplane(noncredo
che Dio sia tanto crudele). E
mentresifacullaredaiviolini
che suonano in pizzicato A
Summer Place sarebbe bello
cheognitantopensasseame.
Ma è chiedere troppo. Prego
perché Emu viva felice,
tranquilla, insieme a quella
musica
per
ascensore
immortale, anche senza di
me.
Inquantounodegliuomini
senza donne, lo spero dal
profondo del cuore. È tutto
quello che posso fare. Per il
momento.Forse.
1 Tema del film omonimo, del
1959,diDelmerDaves(initaliano
Scandaloalsole)[N.d.T.].
Il libro
Eseundemonedallefattezze
femminilifacessedituttoper
venire a letto con noi? E se
un marito decidesse di
diventare amico dell’amante
dellamoglie?
E se Gregor Samsa si
svegliasse una mattina
trasformato in un essere
umano?
Sette storie d’amore e di
mistero. Perché d’amore e
mistero è fatta la vita, e
nessuno sa raccontarla come
MurakamiHaruki.
«Se la letteratura fosse come
laboxe,Murakamiavrebbeil
donopiúprezioso:lacapacità
di sferrare un colpo da ko
quando l’avversario meno se
loaspetta».
«CorrieredellaSera»
«Murakami Haruki ha la
freschezza di chi narra il
mondo ricominciando da
capoepermettendosiinfinite
variazioni: non è uno
scrittore, ma una serie di
scrittoriracchiusiinuno».
«laRepubblica»
UnamattinaGregorSamsasi
sveglia in un letto e scopre
con orrore di essersi
trasformato in un essere
umano. Non ricorda nulla
dellasuavitaprecedente.Che
fine ha fatto lo spesso
carapace che lo proteggeva?
E perché adesso è ricoperto
da questa sottile, delicata
pelle rosa? Chi, o cosa, era
prima di quel risveglio?
Insomma, adesso Samsa
dovrà adattarsi alla nuova e
«mostruosa» condizione di
uomo. Quando però alla sua
portabussaunaragazzailcui
fisico è deformato da
un’enorme gobba, Samsa
dovrà fare i conti con
qualcos’altro di sconosciuto:
ildesiderioel’erotismovisto
con gli occhi nuovi di chi sa
andareoltreleapparenze.
Habara, il protagonista di
«Shahrazād», è un uomo
solo, confinato in una casa
nella quale gli è vietato ogni
contatto col mondo. Non
sapremo mai perché, e in
fondo non è importante:
quello che sappiamo è che il
suo unico svago sono le
visite regolari di una donna
misteriosacheloriforniscedi
libri, musica, film… e sesso.
Ma soprattutto gli racconta
delle storie, proprio come
facevaShahrazād.Einqueste
storie Habara si tuffa come
un bambino, finalmente
libero.Ecco,èproprioquesto
che vive il lettore di
Murakami: la sensazione di
inoltrarsiinunaltrouniverso,
di essere «come una lavagna
pulita con uno straccio
umido,
libero
da
preoccupazioni e brutti
ricordi». Almeno fino alla
storiasuccessiva.
Nove anni dopo I salici
ciechi
e
la
donna
addormentata,
Murakami
Haruki regala ai suoi lettori
una nuova raccolta di
racconti, sette distillati della
sua arte e dei suoi temi: il
fantastico che irrompe nel
quotidiano, la nostalgia per
ciò che non è stato, ma
soprattutto la ricerca della
felicitàtrauominiedonne.
L’autore
MurakamiHarukiènatoa
Kyōto nel 1949 ed è
cresciuto a Kōbe. È stato
insignito di numerosi
premi, tra cui il Franz
Kafka Prize e il Jerusalem
Prize.PressoEinaudisono
disponibili: Dance Dance
Dance, La ragazza dello
Sputnik,
Underground,
TuttiifiglidiDiodanzano,
Norwegian Wood (Tokyo
Blues), L’uccello che
girava le Viti del Mondo,
La fine del mondo e il
paese delle meraviglie,
Kafkasullaspiaggia,After
Dark,
L’elefante
scomparsoealtriracconti,
L’arte di correre, Nel
segnodellapecora,Isalici
ciechi e la donna
addormentata, i due
volumi che raccolgono la
trilogiadi1Q84,Asuddel
confine, a ovest del sole,
Ritratti in jazz, L’incolore
Tazaki Tsukuru e i suoi
anni di pellegrinaggio e
Sonno.
Dello stesso
autore
Laragazzadello
Sputnik
Underground
DanceDanceDance
TuttiifiglidiDio
danzano
NorwegianWood.
Tokyoblues
L’uccellochegiravale
VitidelMondo
Lafinedelmondoeil
paesedellemeraviglie
Kafkasullaspiaggia
AfterDark
L’elefantescomparsoe
altriracconti
L’artedicorrere
Isaliciciechiela
donnaaddormentata
Nelsegnodellapecora
1Q84.Libro1e2
1Q84.Libro3
Asuddelconfine,a
ovestdelsole
Ritrattiinjazz
L’incoloreTazaki
Tsukurueisuoiannidi
pellegrinaggio
Sonno
Titolooriginale
(Onnano
inaiotokotachi)
©2014MurakamiHaruki.Allrightsreserved
OriginallypublishedbyBungeishunjūLtd.,
Tōkyō
(KoisuruSamsa):©2013
MurakamiHaruki.Allrightsreserved
OriginallypublishedinJapanin2013inthe
anthology
:TenSelectedLove
Stories
(KoiShikute:TenSelectedLoveStories)by
Chūōkōron-Shinsha,Inc.,Tōkyō
©2015GiulioEinaudieditores.p.a.,Torino
Incopertina:©DanielEgneus/SaraGentile.
ElaborazionegraficadiFabrizioFarina.
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