presentazione - Il Pensiero Scientifico Editore
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PREFAZIONE PRESENTAZIONE La scoperta del “continente inesplorato” dei disturbi mentali nella medicina generale ed i suoi effetti sullo stile di lavoro degli psichiatri nella comunità “Facilia sic putant omnes quae jam facta, nec de salebris cogitant, ubi via strata” (“Dopo che qualcosa è stato fatto, tutti pensano sia facile, né si ricordano le asperità del cammino dopo che la strada è stata tracciata”). Michael Shepherd iniziava con questa citazione latina, nel 1973, la sua presentazione al volume di B. Cooper e H.G. Morgan Epidemiological Psychiatry, il primo testo di psichiatria epidemiologica mai pubblicato. Voleva così sottolineare il fatto che si può produrre innovazione sia quando si pubblicano nuovi, originali risultati della ricerca scientifica, sia quando, per la prima volta, si ordina il materiale e le conoscenze disponibili per fare il punto, in modo organico, in un determinato settore. Potremmo utilizzare oggi questo stesso dictum per ricordare il lavoro da lui svolto, insieme ai suoi collaboratori, negli anni ’60. Con una ricerca epidemiologica per quei tempi IX DISTURBI PSICHIATRICI E CURE PRIMARIE esemplare svelò infatti, per la prima volta, l’ampiezza e la rilevanza dei disturbi mentali osservabili tra i pazienti che si recavano per una visita negli ambulatori dei medici di famiglia (Shepherd et al., 1966). Quello studio venne programmato ed eseguito in una piccola unità di ricerca multidisciplinare, la General Practice Research Unit, al primo piano dell’Institute of Psychiatry di Londra, grazie ad un finanziamento ottenuto dal Ministero della Salute britannico. A pochi passi di distanza, nello stesso Istituto, John Wing ed i suoi collaboratori erano impegnati invece in ricerche epidemiologiche, se si vuole più tradizionali, condotte negli ospedali e nei servizi psichiatrici e nei pazienti in carico a quei servizi. Michael Shepherd dimostrò con la sua indagine che, in realtà, la maggior parte dei disturbi mentali esistenti nella popolazione generale non arrivava all’osservazione di quei servizi specialistici, ma si fermava a monte, negli ambulatori dei medici di famiglia. Era dunque lì, a monte, che bisognava investire più risorse, per migliorare la qualità dell’assistenza psichiatrica. Nel volume che riportava i risultati di quella ricerca, Shepherd scrisse infatti: “Administrative and medical logic alike (...) suggest that the cardinal requirement for the improvement of the mental health services is not a large expansion of psychiatric agencies, but rather a strengthening of the family doctor in his therapeutic role” (Shepherd et al., 1966). Veniva suggerito, dunque, un cambiamento di direzione, o almeno una strategia più articolata e complessa, proprio in un momento nel quale si programmava un’espansione della psichiatria di comunità, vale a dire uno spostamento su larga scala dell’assistenza, dal manicomio ai servizi psichiatrici specialistici del territorio. Quella indagine aveva avuto tra l’altro il merito di allargare lo sguardo e l’interesse professionale e scientifico degli psichiatri (fino ad allora occupati ad osservare, classificare e X PRESENTAZIONE trattare esclusivamente ciò che vedevano nei manicomi e nei loro ambulatori) al mondo circostante, alla medicina di comunità, ed in particolare ai servizi di medicina generale ed ai pazienti che li utilizzavano. Essa apriva dunque una nuova strada alla ricerca ed alla pratica psichiatrica e Shepherd segnava un punto a suo favore, nella continua e talora acuta competizione (caratterizzata però da un fair play e da un senso dello humour che sarebbe difficile osservare nelle “scuole” che talora si confrontano nel nostro Paese), con il suo collega John Wing. Ricordo che entrambi erano allievi di Sir Aubrey Lewis, il fondatore dell’Institute of Psychiatry ed uno dei grandi maestri della psichiatria europea moderna e che spesso si contendevano “il palcoscenico” nella psichiatria accademica, al di qua ed al di là dell’Atlantico, oltre che l’attenzione e l’ammirazione di molti giovani psichiatri in formazione, dentro e fuori il Regno Unito, per i quali entrambi rappresentavano modelli di riferimento importanti. Per anni quelle due Unità, dirette l’una da Shepherd e l’altra da Wing (la seconda si chiamava Social Psychiatry Unit ed era finanziata dal Medical Research Council), hanno continuato a competere all’interno dello stesso Istituto, producendo evidenze importanti, ciascuna per la propria strada, seguendo i propri filoni di ricerca. Ma l’innovazione, concettuale e pratica, prodotta dalla prima, per quanto concerne ad esempio l’organizzazione dei servizi sanitari e sociali, la tassonomia psichiatrica, la formazione degli psichiatri e dei medici di medicina generale, è stata di dimensioni e di significato enormi. Nella monografia che riportava i principali risultati del loro studio Shepherd e collaboratori concludevano dicendo: “Ciò che in origine ci si aspettava fosse una piccola isola di morbilità psichiatrica si è rivelato poi un grande continente inesplorato” (Shepherd et al., 1966). Questi fatti sono noti. È passato tuttavia sufficiente tempo per tentare ora un’analisi per così dire più organica di quei XI DISTURBI PSICHIATRICI E CURE PRIMARIE fatti e delle circostanze che li hanno determinati ed accompagnati. Mi pare interessante, in particolare, analizzare tre aspetti di quel lavoro di Michael Shepherd: l’aspetto, per così dire, tecnologico e metodologico, con le evoluzioni che esso ha poi avuto, l’aspetto delle implicazioni di quell’indagine epidemiologica (e delle successive ricerche condotte nello stesso setting) sul consumo degli psicofarmaci e sulle politiche promozionali dell’industria farmaceutica e infine l’aspetto delle relazioni tra “clima culturale” e scelta dei filoni di ricerca in psichiatria. L’analisi del primo aspetto ci rimanda alla tecnologia della ricerca psichiatrica ed in particolare della ricerca epidemiologica della seconda metà degli anni ’60. Bisogna ricordare non solo il setting nel quale quella ricerca fu condotta, ma anche le metodologie, gli strumenti e le tecniche di analisi statistica dei dati che allora erano disponibili a Londra. Per quanto riguarda il setting quello studio fu possibile in quanto nel Regno Unito, da alcuni anni, era stato organizzato un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che aveva proprio nella medicina generale, diffusa e ben organizzata su tutto il territorio, uno dei suoi punti di forza. Negli Stati Uniti, o in alcuni Paesi europei come la Francia, la Germania e la stessa Italia, quella ricerca non sarebbe stata possibile. D’altra parte gli strumenti di ricerca utilizzati, essenzialmente questionari ed interviste semi-strutturati, erano relativamente semplici. Senza nulla togliere alla sua importanza “storica” (era un innovativo studio longitudinale che consentì di seguire circa 15.000 pazienti di 46 condotte mediche, per un anno), dobbiamo ricordare come esso prendesse in considerazione solo la patologia emotiva riconosciuta dai medici di medicina generale; dunque solo una parte della patologia esistente. Era prevedibile, e sarebbe stato successivamente ben documentato, che non tutti i pazienti con disturbi psichici e non tutti i disturbi psichici presenti venivano (e vengono) riconosciuti dai medici di medicina generale. Inoltre mancava un’accurata XII PRESENTAZIONE misura della correttezza di quel riconoscimento: in altri termini non era stata considerata (e quindi valutata) l’esistenza dei falsi negativi né quella dei falsi positivi. Si deve a Sir David Goldberg, uno dei collaboratori di Michael Shepherd, il merito di avere messo a punto, alcuni anni dopo, i metodi e gli strumenti (tra cui il General Health Questionnaire - GHQ, e la Clinical Interview Schedule - CIS) per valutare correttamente, utilizzando i criteri di uno psichiatra clinico, la patologia psichiatrica esistente nella medicina generale (morbilità “totale”) e di aver reso così possibile il confronto con quella identificata dai medici di medicina generale (morbilità “riconosciuta” o “cospicua”). Non si tratta di un merito di poco conto, visto che da questo confronto ha preso spunto, tra l’altro, una gran quantità di studi e di programmi di intervento finalizzati ad identificare le variabili che condizionano un corretto riconoscimento e quelle che determinano il successo dei programmi formativi per il miglioramento delle capacità diagnostiche e terapeutiche dei medici di medicina generale. Per quanto riguarda il secondo aspetto della nostra analisi retrospettiva, mi pare oggi particolarmente interessante e chiarificante, per comprendere il contributo fornito dalle ricerche di Michael Shepherd, il confronto tra quanto avveniva all’interno della ricerca epidemiologica da un lato ed in altri settori contigui come la psicofarmacologia dall’altro. Quest’ultima disciplina si caratterizzava e si caratterizza per la continua ricerca di nuovi farmaci da mettere a disposizione degli psichiatri e dei pazienti; ma anche per la sua tendenza all’espansione del mercato. Questa tendenza è divenuta particolarmente impetuosa negli ultimi 20 anni, in quanto economicamente troppo gratificante per essere messa in secondo piano rispetto a qualsivoglia altra considerazione. Per comprendere bene il lavoro di Shepherd occorre, allora, fare al riguardo qualche riflessione. XIII DISTURBI PSICHIATRICI E CURE PRIMARIE Quando Shepherd inviò all’Oxford University Press il manoscritto della monografia che riportava i risultati del suo studio non poteva prevedere l’impatto che quell’indagine avrebbe avuto nella pratica e nella ricerca psichiatrica. La monografia fu pubblicata nel 1966 e fu accolta in realtà in modo tiepido dalla comunità scientifica. L’impatto cominciò a rendersi manifesto invece dopo qualche anno, tanto che la casa editrice si decise a pubblicare una seconda edizione del libro (da tempo esaurito) solo nel 1981, cioè 15 anni dopo l’uscita della prima (Shepherd et al., 1981). In ogni caso l’impatto fu essenzialmente scientifico. Se quella ricerca pionieristica fosse pubblicata oggi l’impatto sarebbe caratterizzato anche, anzi principalmente, da un immediato e forte interesse commerciale da parte dell’industria farmaceutica. Quei dati dimostravano infatti, per la prima volta, una diffusione ed un’estensione non note (e forse dall’industria allora neanche sospettate) della patologia psichiatrica potenzialmente trattabile con psicofarmaci. In altri termini dimostravano la possibilità di un allargamento senza precedenti del mercato. Quella ricerca era stata resa possibile, come si è detto, da un grant del Department of Health inglese. Era stata dunque finanziata con denaro pubblico. Un’esperienza difficilmente ripetibile oggi, nonostante alcuni recenti e lodevoli sforzi di fondazioni di ricerca e di enti governativi, fuori e dentro il nostro Paese, finalizzati a finanziare ricerche indipendenti, comprese quelle farmacologiche. Penso in questo momento all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ed ai suoi bandi di ricerca, a sostegno della ricerca indipendente, una possibilità di finanziamento disponibile solo da un paio d’anni. La psicofarmacologia, nel 1966, era una disciplina consolidata, ma che allora si riteneva dovesse interessare solo coloro che si occupavano dei malati ricoverati negli ospedali psichiatrici o dei pazienti che frequentavano gli ambulatori specialistici. Dunque nessuna casa farmaceutica pensò allora di XIV PRESENTAZIONE finanziare studi simili, che eventualmente replicassero i dati di Shepherd, e neanche di diffondere “a tamburo battente” i risultati di quella ricerca. In che misura ciò sarebbe ancora possibile oggi? Quale “contaminazione” commerciale, nel processo di descrizione ed interpretazione “secondarie”, da parte di terzi, dei dati scientifici originali prodotti da Shepherd dovremmo oggi assimilare e digerire in piccole o grandi dosi? A quel tempo non si ebbe alcuna contaminazione e quei dati rimasero disponibili per il libero dibattito tra psichiatri, medici di famiglia ed amministratori ed il dibattito avvenne, ma in modo abbastanza limitato. Non ci furono comunque dépliant colorati, né supplementi speciali di riviste scientifiche, né conferenze e “meeting con l’esperto” in grandi alberghi, con l’usuale corollario di cocktail party e di cene sponsorizzate, né tanto meno talking show alla televisione. Ma le ricerche proseguirono e la General Practice Research Unit, che il Ministero della Salute inglese ha continuato a sostenere e finanziare per altri 20 anni, ha pubblicato circa 400 articoli scientifici su riviste prestigiose ed ha formato decine di ricercatori (psichiatri, psicologi, sociologi, statistici) e di clinici provenienti da varie parti del mondo. Ovviamente la “contaminazione” è puntualmente avvenuta dopo, ed avviene tuttora, ogni qual volta si presentano “nuovi” (e non sempre originali) dati sulla prevalenza dei disturbi mentali nella medicina generale e sul loro trattamento, con l’enfasi sul trattamento farmacologico che le ben note esigenze commerciali impongono. Il confronto tra quanto avveniva all’interno di quel settore di ricerca e quanto andava determinandosi nel settore della psicofarmacologia è illustrato bene dalla risposta di Michael Shepherd ad una domanda di David Healy nel corso dell’intervista che rilasciò nel giugno 1995, sei settimane prima di morire e che è stata tradotta in italiano e pubblicata su Epidemiologia e Psichiatria Sociale (fascicolo 1, n. 12, 2003). Sarà utile riportare qui alcuni stralci: XV DISTURBI PSICHIATRICI E CURE PRIMARIE David Healy: “Passiamo alla depressione nella medicina generale il cui profilo Lei per primo e più di ogni altro ha fatto emergere. Ha mai pensato che tutto quello che ha fatto, in qualche modo, è stato creare un mercato per l’industria ed espandere la dimensione del mercato di antidepressivi? C’è un modo di evitare di creare un mercato per l’industria?” Michael Shepherd: “Bene, mi sta facendo una domanda che deve essere inserita di nuovo in un contesto più ampio. Quello che dice è assolutamente vero. Il retroscena, in breve, fu che mi ero interessato a ciò che ora viene chiamato epidemiologia dei disturbi mentali, definizione che a quel tempo non era usata (...). Quando cominciai, tutte le persone con cui parlavo mi consideravano come quello che buttava il suo tempo. Ciò che fu presto chiaro era che, lungi dal perdere tempo, io ero, dica come vuole, inciampato nell’orribile fatto che gli psichiatri sapevano poco dei disturbi mentali, perché non avevano visto più che una minuscola porzione di quei disturbi. Questo creò ogni sorta di difficoltà, glielo posso garantire. Quando cominciammo a pubblicare, agli inizi del 1960, penso che per lo scarso impatto che l’evento ebbe avrei potuto pubblicare in serbo-croato. La mia ricerca fu estremamente importante per le persone che lavoravano nella sanità pubblica, per i bio-statistici e per le persone interessate alla politica sanitaria. La cosa che non capirono è che il mio interesse personale era interamente rivolto a raccogliere informazioni sulla natura e sulla distribuzione dei disturbi mentali ma, come con difficoltà sottolineai nella monografia che scrivemmo successivamente, la cosa aveva implicazioni vaste. Non me ne presi cura. Quello non era il mio lavoro. La cosa che feci dopo fu ringraziare Dio che fossimo stati lasciati così in disparte, perché ciò significò che nessuno prese la cosa seriamente. Avevo sufficienti finanziamenti dal Ministero della Sanità (...). Ci concessero finanziamenti per circa 15 anni, durante i quali lavorammo veramente da soli. Eravamo appoggiati freddamente dagli psichiatri, che erano terrificati dalle implicazioni del XVI PRESENTAZIONE nostro lavoro. Eravamo ignorati dai medici di base, che erano presi da Michael Balint da una parte e dall’industria farmaceutica dall’altra. Noi andammo avanti ed in quel periodo riuscii a mettere in piedi un’Unità di Ricerca ed a pubblicare 400 articoli originali, e ciò mentre sembrava che fossimo nel vuoto. Dopo, nel 1980, la bolla scoppiò, quando divenne chiaro che tutta la politica dei servizi psichiatrici si stava sgretolando in mille pezzi, a causa dei terribili errori fatti negli ospedali psichiatrici. Come succede sempre con il governo e con le amministrazioni pubbliche, loro si guardarono attorno e c’era un lavoro di quasi 20 anni, con basi solide, impersonale e che semplicemente dava la dimensione del problema, la sua natura e soprattutto l’estensione del fenomeno della depressione. Il risultato fu una marea di pubblicità e, successivamente, il lavoro fu estrapolato dal setting nel quale era stato condotto e girato e rigirato più volte (...). L’altro giorno qualcuno mi ha chiesto spiegazioni di tutto questo, e mi ha chiesto come mi sentivo. Mi sento come l’apprendista stregone, che esce dal suo laboratorio, poi ritorna e trova il caos dappertutto. È così ovunque. Se Lei mi dice: “Lei sa di essere il responsabile di tutto ciò?”, e non mi fa certo un complimento, io devo risponderle che non è colpa mia – io non sono il responsabile di tutto questo. Quello che noi abbiamo fatto è stato rendere evidente il problema. Abbiamo sviluppato i metodi, abbiamo fatto numerosi studi, li abbiamo poi ripetuti e abbiamo istruito una generazione di persone, non solo qui ma in tutto il mondo, che ha apprezzato il nostro lavoro.” Per quanto riguarda infine il terzo aspetto, quello delle relazioni esistenti tra l’atmosfera culturale prevalente e la ricerca scientifica in psichiatria, esso deve essere considerato alla luce dei primi due, anche se presenta un profilo specifico. Schwab (1988) ha pubblicato qualche tempo fa una rassegna critica nella quale, facendo in particolare riferimento alla situazione negli USA, dimostrava come la ricerca psichiatrica ad impronta psicosociale fosse stata influenzata, XVII DISTURBI PSICHIATRICI E CURE PRIMARIE nel corso degli anni, da variabili come il prevalente “climate of opinion” oltre che dall’interesse dei singoli ricercatori. Da parte nostra vogliamo ricordare le continue tendenze alle oscillazioni che spingono il pendolo alternativamente dal settore biologico a quello psicosociale e poi, indietro, a quello biologico. Ebbene gli studi di Shepherd e l’apertura del velo che nascondeva agli occhi degli psichiatri i disturbi mentali presenti nella medicina generale, coincisero con un’espansione dell’interesse per la ricerca psicosociale e per la psichiatria epidemiologica. Solo 10-15 anni dopo, lasciando da parte l’interesse che fu manifestato tardivamente dall’industria farmaceutica, la quale avrebbe a quel punto potuto finanziare studi di questo tipo, con il risorgere impetuoso della psichiatria biologica e con tutta l’attenzione dedicata alla genetica, una ricerca indipendente come quella di Shepherd non sarebbe stata forse possibile. Resta a questo punto da chiedersi. Cosa è successo, in tutti questi anni, nei rapporti tra psichiatria e medicina generale? In Italia il filone di ricerche e l’interesse per queste attività di collaborazione tra psichiatria e medicina generale sono cominciati solo all’inizio degli anni ’80. Nel 1985 il gruppo di Verona ha pubblicato il primo studio di standardizzazione della versione italiana del GHQ (Fontanesi et al., 1985), eseguito nella medicina di base, poi ripetuto in altro campione (Bellantuono et al., 1987) ed anche il primo studio di standardizzazione del GHQ effettuato nella popolazione generale (Lattanzi et al., 1988). Messi a punto gli strumenti (oltre il GHQ anche la CIS è stata tradotta e preparata in versione italiana), sono state eseguite, sempre a Verona, le prime indagini su larga scala per valutare la prevalenza dei disturbi psichici nella medicina di base e le sue caratteristiche (per una revisione di questa letteratura vedi in Bellantuono e Tansella, 1989, Bellantuono et al., 1992; Piccinelli et al., 1998), seguite da altre ricerche e da esperienze formative. Al gruppo di XVIII PRESENTAZIONE Verona si sono presto affiancati altri gruppi, tra i quali quelli di Reggio Emilia e di Bologna, che si sono distinti per la messa a punto di progetti di collaborazione tra servizi specialistici e servizi di primary care che hanno avuto notevole risonanza anche a livello internazionale (Berti-Ceroni et al., 1992; Asioli et al., 1996; Berardi et al., 1996). L’interesse per questo filone di studi (i disturbi psichici nella medicina generale) e per le esperienze di collaborazione tra servizi psichiatrici specialistici e servizi di base (esperienze di “convergenze operative”) si era nel frattempo diffuso in molti altri Paesi al di fuori del Regno Unito, sia in quelli dotati di un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) sia in quelli, compresi gli Stati Uniti d’America, che ne erano privi (Simon e Ludman, 2000). Infatti se l’esistenza di un SSN facilita o meglio rende necessario un collegamento organico ed efficace tra servizi di primo livello e servizi specialistici, l’interesse per le ricerche e le pratiche suggerite dal lavoro pionieristico di Michael Shepherd si è diffuso anche nei Paesi dotati di una diversa organizzazione sanitaria, con un frequente bypass dei servizi di base e con consultazione diretta degli specialisti da parte dei pazienti. Ciò perché a nessuno poteva sfuggire l’importanza di un miglioramento della performance dei servizi intermedi (quelli cioè situati tra la popolazione generale ed i servizi specialistici) che, rispetto a questi ultimi hanno, in tutto il mondo, costi assai più contenuti. La prevalenza dei disturbi psichici è tale che nessun Paese potrebbe affrontare il costo del loro trattamento, se esso venisse affidato solo a specialisti psichiatri e psicologi. Inoltre, a prescindere dalle questioni economico-finanziarie, è oggi chiaro quanto sia sbagliato separare e trattare in modo distinto e segmentale gli aspetti medici e gli aspetti psicologici-psichiatrici (quando questi ultimi non sono particolarmente gravi o complicati) delle patologie che presentano i pazienti che si rivolgono ai medici di base o agli altri ambulatori internistici e chirurgici degli ospedali generali (Tansella e Thornicroft, 1999). XIX DISTURBI PSICHIATRICI E CURE PRIMARIE Dopo la fase descrittiva degli studi epidemiologici di prevalenza (fase a), le ricerche in questo settore si sono indirizzate dapprima verso il fenomeno del riconoscimento dei disturbi da parte dei medici di famiglia (fase b). Successivamente hanno da un lato approfondito il ruolo dei fattori psicologici e sociali sia nel riconoscimento sia nel trattamento di questi disturbi, in vari setting della primary care (Del Piccolo et al., 1998, 2000), dall’altro hanno valutato l’efficacia degli interventi e dei progetti formativi diretti ai medici di base (Tiemens et al., 1999; Kroenke et al., 2000; Bower e Sibbald, 2000) (fase c). Infine, le ricerche più recenti stanno confermando che, per migliorare la qualità e l’efficacia delle risposte da dare ai pazienti in carico ai medici di medicina generale che hanno anche disturbi mentali, e soprattutto per migliorare l’esito dei trattamenti forniti nella medicina di base, è necessaria un’azione più complessa di quella immaginata all’inizio (fase d). Oggi sappiamo che non è sufficiente il training dei medici di medicina generale, finalizzato a migliorare le loro abilità a riconoscere i sintomi, né un semplice collegamento tra servizi di base e servizi psichiatrici specialistici. È necessario invece articolare specifici e flessibili programmi di “collaborative care” tra servizi di medicina generale e servizi psichiatrici, come molte ricerche, dedicate in particolare al trattamento della depressione, hanno in questi ultimi anni convincentemente dimostrato (Goldberg e Gournay, 2000; von Korff e Goldberg, 2001; Bower et al., 2006; Gilbody et al., 2003, 2006; Barbui e Tansella, 2006). Possiamo ricorrere ad una metafora per chiarire questa evoluzione nella ricerca e nella pratica dei rapporti tra servizi di medicina generale e servizi psichiatrici. Come sanno i distillatori di grappa e gli intenditori, ma anche buona parte di coloro che apprezzano questo drink, la grappa di migliore qualità è “il corpo”, cioè quella che si distilla subito dopo la fase iniziale (“la testa”) e prima di quella finale (“la coda”). Invece, per migliorare la qualità delle risposte da dare ai numerosi XX PRESENTAZIONE pazienti della medicina generale che presentano disturbi mentali, tutte e tre le fasi sono ugualmente importanti. Negli anni ’70 ci si è concentrati sul “corpo” del processo (il riconoscimento dei sintomi e dei disturbi). Ora sappiamo che è essenziale, per migliorare quel riconoscimento, insegnare innanzitutto ai medici, prima dei sintomi da identificare, come stabilire una buona relazione terapeutica e come condurre le interviste con tutti i loro pazienti (“la testa” del processo). Altrettanto importante, anzi decisivo, è infine costruire un modello di collaborazione-consulenza e talora di presa in carico congiunta tra servizi di base e servizi specialistici (la “coda” del processo). Questo volume curato da Fabrizio Asioli e da Domenico Berardi, due esperti “storici” di questo importante campo della ricerca e della pratica psichiatrica, porta un contributo aggiornato e moderno al dibattito. Si tratta di un contributo di qualità, basato su esperienze dirette effettuate sul campo e su riflessioni attente, condotte per anni, insieme a Colleghi italiani ed inglesi che hanno, come loro, dedicato molto tempo e molte energie a sviluppare questo essenziale settore della medicina pubblica. Michele Tansella Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Sezione di Psichiatria e Psicologia Clinica, WHO Collaborating Centre for Research and Training in Mental Health and Service Evaluation, Università degli Studi, Verona. Bibliografia Asioli F, Chiari C, Grassi E (1996). 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