presentazione - Il Pensiero Scientifico Editore

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PREFAZIONE
PRESENTAZIONE
La scoperta del “continente inesplorato” dei disturbi
mentali nella medicina generale ed i suoi effetti
sullo stile di lavoro degli psichiatri nella comunità
“Facilia sic putant omnes quae jam facta, nec de salebris
cogitant, ubi via strata” (“Dopo che qualcosa è stato fatto, tutti
pensano sia facile, né si ricordano le asperità del cammino
dopo che la strada è stata tracciata”). Michael Shepherd iniziava con questa citazione latina, nel 1973, la sua presentazione al volume di B. Cooper e H.G. Morgan Epidemiological
Psychiatry, il primo testo di psichiatria epidemiologica mai
pubblicato. Voleva così sottolineare il fatto che si può produrre innovazione sia quando si pubblicano nuovi, originali risultati della ricerca scientifica, sia quando, per la prima volta, si
ordina il materiale e le conoscenze disponibili per fare il
punto, in modo organico, in un determinato settore.
Potremmo utilizzare oggi questo stesso dictum per ricordare il lavoro da lui svolto, insieme ai suoi collaboratori, negli
anni ’60. Con una ricerca epidemiologica per quei tempi
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esemplare svelò infatti, per la prima volta, l’ampiezza e la
rilevanza dei disturbi mentali osservabili tra i pazienti che si
recavano per una visita negli ambulatori dei medici di famiglia (Shepherd et al., 1966). Quello studio venne programmato ed eseguito in una piccola unità di ricerca multidisciplinare, la General Practice Research Unit, al primo piano
dell’Institute of Psychiatry di Londra, grazie ad un finanziamento ottenuto dal Ministero della Salute britannico. A pochi
passi di distanza, nello stesso Istituto, John Wing ed i suoi
collaboratori erano impegnati invece in ricerche epidemiologiche, se si vuole più tradizionali, condotte negli ospedali e
nei servizi psichiatrici e nei pazienti in carico a quei servizi.
Michael Shepherd dimostrò con la sua indagine che, in
realtà, la maggior parte dei disturbi mentali esistenti nella
popolazione generale non arrivava all’osservazione di quei
servizi specialistici, ma si fermava a monte, negli ambulatori dei medici di famiglia. Era dunque lì, a monte, che bisognava investire più risorse, per migliorare la qualità dell’assistenza psichiatrica.
Nel volume che riportava i risultati di quella ricerca,
Shepherd scrisse infatti: “Administrative and medical logic
alike (...) suggest that the cardinal requirement for the improvement of the mental health services is not a large expansion
of psychiatric agencies, but rather a strengthening of the
family doctor in his therapeutic role” (Shepherd et al., 1966).
Veniva suggerito, dunque, un cambiamento di direzione, o
almeno una strategia più articolata e complessa, proprio in un
momento nel quale si programmava un’espansione della psichiatria di comunità, vale a dire uno spostamento su larga
scala dell’assistenza, dal manicomio ai servizi psichiatrici
specialistici del territorio.
Quella indagine aveva avuto tra l’altro il merito di allargare lo sguardo e l’interesse professionale e scientifico degli psichiatri (fino ad allora occupati ad osservare, classificare e
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trattare esclusivamente ciò che vedevano nei manicomi e nei
loro ambulatori) al mondo circostante, alla medicina di comunità, ed in particolare ai servizi di medicina generale ed ai
pazienti che li utilizzavano. Essa apriva dunque una nuova
strada alla ricerca ed alla pratica psichiatrica e Shepherd
segnava un punto a suo favore, nella continua e talora acuta
competizione (caratterizzata però da un fair play e da un
senso dello humour che sarebbe difficile osservare nelle “scuole” che talora si confrontano nel nostro Paese), con il suo collega John Wing. Ricordo che entrambi erano allievi di Sir
Aubrey Lewis, il fondatore dell’Institute of Psychiatry ed uno
dei grandi maestri della psichiatria europea moderna e che
spesso si contendevano “il palcoscenico” nella psichiatria accademica, al di qua ed al di là dell’Atlantico, oltre che l’attenzione e l’ammirazione di molti giovani psichiatri in formazione, dentro e fuori il Regno Unito, per i quali entrambi rappresentavano modelli di riferimento importanti.
Per anni quelle due Unità, dirette l’una da Shepherd e l’altra da Wing (la seconda si chiamava Social Psychiatry Unit ed
era finanziata dal Medical Research Council), hanno continuato a competere all’interno dello stesso Istituto, producendo evidenze importanti, ciascuna per la propria strada,
seguendo i propri filoni di ricerca. Ma l’innovazione, concettuale e pratica, prodotta dalla prima, per quanto concerne ad
esempio l’organizzazione dei servizi sanitari e sociali, la tassonomia psichiatrica, la formazione degli psichiatri e dei
medici di medicina generale, è stata di dimensioni e di significato enormi. Nella monografia che riportava i principali
risultati del loro studio Shepherd e collaboratori concludevano dicendo: “Ciò che in origine ci si aspettava fosse una piccola isola di morbilità psichiatrica si è rivelato poi un grande
continente inesplorato” (Shepherd et al., 1966).
Questi fatti sono noti. È passato tuttavia sufficiente tempo
per tentare ora un’analisi per così dire più organica di quei
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fatti e delle circostanze che li hanno determinati ed accompagnati. Mi pare interessante, in particolare, analizzare tre
aspetti di quel lavoro di Michael Shepherd: l’aspetto, per così
dire, tecnologico e metodologico, con le evoluzioni che esso ha
poi avuto, l’aspetto delle implicazioni di quell’indagine epidemiologica (e delle successive ricerche condotte nello stesso setting) sul consumo degli psicofarmaci e sulle politiche promozionali dell’industria farmaceutica e infine l’aspetto delle
relazioni tra “clima culturale” e scelta dei filoni di ricerca in
psichiatria.
L’analisi del primo aspetto ci rimanda alla tecnologia della
ricerca psichiatrica ed in particolare della ricerca epidemiologica della seconda metà degli anni ’60. Bisogna ricordare non
solo il setting nel quale quella ricerca fu condotta, ma anche le
metodologie, gli strumenti e le tecniche di analisi statistica
dei dati che allora erano disponibili a Londra. Per quanto
riguarda il setting quello studio fu possibile in quanto nel
Regno Unito, da alcuni anni, era stato organizzato un Servizio
Sanitario Nazionale (SSN) che aveva proprio nella medicina
generale, diffusa e ben organizzata su tutto il territorio, uno
dei suoi punti di forza. Negli Stati Uniti, o in alcuni Paesi
europei come la Francia, la Germania e la stessa Italia, quella ricerca non sarebbe stata possibile. D’altra parte gli strumenti di ricerca utilizzati, essenzialmente questionari ed
interviste semi-strutturati, erano relativamente semplici.
Senza nulla togliere alla sua importanza “storica” (era un
innovativo studio longitudinale che consentì di seguire circa
15.000 pazienti di 46 condotte mediche, per un anno), dobbiamo ricordare come esso prendesse in considerazione solo la
patologia emotiva riconosciuta dai medici di medicina generale; dunque solo una parte della patologia esistente. Era prevedibile, e sarebbe stato successivamente ben documentato,
che non tutti i pazienti con disturbi psichici e non tutti i
disturbi psichici presenti venivano (e vengono) riconosciuti
dai medici di medicina generale. Inoltre mancava un’accurata
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misura della correttezza di quel riconoscimento: in altri termini non era stata considerata (e quindi valutata) l’esistenza
dei falsi negativi né quella dei falsi positivi.
Si deve a Sir David Goldberg, uno dei collaboratori di
Michael Shepherd, il merito di avere messo a punto, alcuni
anni dopo, i metodi e gli strumenti (tra cui il General Health
Questionnaire - GHQ, e la Clinical Interview Schedule - CIS)
per valutare correttamente, utilizzando i criteri di uno psichiatra clinico, la patologia psichiatrica esistente nella medicina generale (morbilità “totale”) e di aver reso così possibile
il confronto con quella identificata dai medici di medicina
generale (morbilità “riconosciuta” o “cospicua”). Non si tratta
di un merito di poco conto, visto che da questo confronto ha
preso spunto, tra l’altro, una gran quantità di studi e di programmi di intervento finalizzati ad identificare le variabili
che condizionano un corretto riconoscimento e quelle che
determinano il successo dei programmi formativi per il
miglioramento delle capacità diagnostiche e terapeutiche dei
medici di medicina generale.
Per quanto riguarda il secondo aspetto della nostra analisi
retrospettiva, mi pare oggi particolarmente interessante e
chiarificante, per comprendere il contributo fornito dalle
ricerche di Michael Shepherd, il confronto tra quanto avveniva all’interno della ricerca epidemiologica da un lato ed in
altri settori contigui come la psicofarmacologia dall’altro.
Quest’ultima disciplina si caratterizzava e si caratterizza per
la continua ricerca di nuovi farmaci da mettere a disposizione
degli psichiatri e dei pazienti; ma anche per la sua tendenza
all’espansione del mercato. Questa tendenza è divenuta particolarmente impetuosa negli ultimi 20 anni, in quanto economicamente troppo gratificante per essere messa in secondo
piano rispetto a qualsivoglia altra considerazione. Per comprendere bene il lavoro di Shepherd occorre, allora, fare al
riguardo qualche riflessione.
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Quando Shepherd inviò all’Oxford University Press il
manoscritto della monografia che riportava i risultati del
suo studio non poteva prevedere l’impatto che quell’indagine avrebbe avuto nella pratica e nella ricerca psichiatrica.
La monografia fu pubblicata nel 1966 e fu accolta in realtà
in modo tiepido dalla comunità scientifica. L’impatto cominciò a rendersi manifesto invece dopo qualche anno, tanto che
la casa editrice si decise a pubblicare una seconda edizione
del libro (da tempo esaurito) solo nel 1981, cioè 15 anni dopo
l’uscita della prima (Shepherd et al., 1981). In ogni caso l’impatto fu essenzialmente scientifico. Se quella ricerca pionieristica fosse pubblicata oggi l’impatto sarebbe caratterizzato anche, anzi principalmente, da un immediato e forte interesse commerciale da parte dell’industria farmaceutica.
Quei dati dimostravano infatti, per la prima volta, una diffusione ed un’estensione non note (e forse dall’industria
allora neanche sospettate) della patologia psichiatrica
potenzialmente trattabile con psicofarmaci. In altri termini
dimostravano la possibilità di un allargamento senza precedenti del mercato. Quella ricerca era stata resa possibile,
come si è detto, da un grant del Department of Health inglese. Era stata dunque finanziata con denaro pubblico.
Un’esperienza difficilmente ripetibile oggi, nonostante alcuni recenti e lodevoli sforzi di fondazioni di ricerca e di enti
governativi, fuori e dentro il nostro Paese, finalizzati a
finanziare ricerche indipendenti, comprese quelle farmacologiche. Penso in questo momento all’Agenzia Italiana del
Farmaco (AIFA) ed ai suoi bandi di ricerca, a sostegno della
ricerca indipendente, una possibilità di finanziamento
disponibile solo da un paio d’anni.
La psicofarmacologia, nel 1966, era una disciplina consolidata, ma che allora si riteneva dovesse interessare solo coloro che si occupavano dei malati ricoverati negli ospedali psichiatrici o dei pazienti che frequentavano gli ambulatori specialistici. Dunque nessuna casa farmaceutica pensò allora di
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finanziare studi simili, che eventualmente replicassero i dati
di Shepherd, e neanche di diffondere “a tamburo battente” i
risultati di quella ricerca. In che misura ciò sarebbe ancora
possibile oggi? Quale “contaminazione” commerciale, nel processo di descrizione ed interpretazione “secondarie”, da parte
di terzi, dei dati scientifici originali prodotti da Shepherd
dovremmo oggi assimilare e digerire in piccole o grandi dosi?
A quel tempo non si ebbe alcuna contaminazione e quei dati
rimasero disponibili per il libero dibattito tra psichiatri,
medici di famiglia ed amministratori ed il dibattito avvenne,
ma in modo abbastanza limitato. Non ci furono comunque
dépliant colorati, né supplementi speciali di riviste scientifiche, né conferenze e “meeting con l’esperto” in grandi alberghi, con l’usuale corollario di cocktail party e di cene sponsorizzate, né tanto meno talking show alla televisione. Ma le
ricerche proseguirono e la General Practice Research Unit,
che il Ministero della Salute inglese ha continuato a sostenere e finanziare per altri 20 anni, ha pubblicato circa 400 articoli scientifici su riviste prestigiose ed ha formato decine di
ricercatori (psichiatri, psicologi, sociologi, statistici) e di clinici provenienti da varie parti del mondo. Ovviamente la “contaminazione” è puntualmente avvenuta dopo, ed avviene tuttora, ogni qual volta si presentano “nuovi” (e non sempre originali) dati sulla prevalenza dei disturbi mentali nella medicina generale e sul loro trattamento, con l’enfasi sul trattamento farmacologico che le ben note esigenze commerciali
impongono.
Il confronto tra quanto avveniva all’interno di quel settore
di ricerca e quanto andava determinandosi nel settore della
psicofarmacologia è illustrato bene dalla risposta di Michael
Shepherd ad una domanda di David Healy nel corso dell’intervista che rilasciò nel giugno 1995, sei settimane prima di
morire e che è stata tradotta in italiano e pubblicata su
Epidemiologia e Psichiatria Sociale (fascicolo 1, n. 12, 2003).
Sarà utile riportare qui alcuni stralci:
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David Healy: “Passiamo alla depressione nella medicina generale il cui profilo Lei per primo e più di ogni altro ha fatto
emergere. Ha mai pensato che tutto quello che ha fatto, in qualche modo, è stato creare un mercato per l’industria ed espandere la dimensione del mercato di antidepressivi? C’è un modo
di evitare di creare un mercato per l’industria?”
Michael Shepherd: “Bene, mi sta facendo una domanda che
deve essere inserita di nuovo in un contesto più ampio. Quello
che dice è assolutamente vero. Il retroscena, in breve, fu che
mi ero interessato a ciò che ora viene chiamato epidemiologia
dei disturbi mentali, definizione che a quel tempo non era
usata (...). Quando cominciai, tutte le persone con cui parlavo
mi consideravano come quello che buttava il suo tempo. Ciò
che fu presto chiaro era che, lungi dal perdere tempo, io ero,
dica come vuole, inciampato nell’orribile fatto che gli psichiatri sapevano poco dei disturbi mentali, perché non avevano
visto più che una minuscola porzione di quei disturbi. Questo
creò ogni sorta di difficoltà, glielo posso garantire. Quando
cominciammo a pubblicare, agli inizi del 1960, penso che per
lo scarso impatto che l’evento ebbe avrei potuto pubblicare in
serbo-croato. La mia ricerca fu estremamente importante per
le persone che lavoravano nella sanità pubblica, per i bio-statistici e per le persone interessate alla politica sanitaria. La
cosa che non capirono è che il mio interesse personale era
interamente rivolto a raccogliere informazioni sulla natura e
sulla distribuzione dei disturbi mentali ma, come con difficoltà sottolineai nella monografia che scrivemmo successivamente, la cosa aveva implicazioni vaste. Non me ne presi cura.
Quello non era il mio lavoro. La cosa che feci dopo fu ringraziare Dio che fossimo stati lasciati così in disparte, perché ciò
significò che nessuno prese la cosa seriamente. Avevo sufficienti finanziamenti dal Ministero della Sanità (...). Ci concessero finanziamenti per circa 15 anni, durante i quali lavorammo veramente da soli. Eravamo appoggiati freddamente
dagli psichiatri, che erano terrificati dalle implicazioni del
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nostro lavoro. Eravamo ignorati dai medici di base, che erano
presi da Michael Balint da una parte e dall’industria farmaceutica dall’altra. Noi andammo avanti ed in quel periodo riuscii a mettere in piedi un’Unità di Ricerca ed a pubblicare 400
articoli originali, e ciò mentre sembrava che fossimo nel
vuoto. Dopo, nel 1980, la bolla scoppiò, quando divenne chiaro
che tutta la politica dei servizi psichiatrici si stava sgretolando in mille pezzi, a causa dei terribili errori fatti negli ospedali psichiatrici. Come succede sempre con il governo e con le
amministrazioni pubbliche, loro si guardarono attorno e c’era
un lavoro di quasi 20 anni, con basi solide, impersonale e che
semplicemente dava la dimensione del problema, la sua natura e soprattutto l’estensione del fenomeno della depressione.
Il risultato fu una marea di pubblicità e, successivamente, il
lavoro fu estrapolato dal setting nel quale era stato condotto
e girato e rigirato più volte (...). L’altro giorno qualcuno mi ha
chiesto spiegazioni di tutto questo, e mi ha chiesto come mi
sentivo. Mi sento come l’apprendista stregone, che esce dal
suo laboratorio, poi ritorna e trova il caos dappertutto. È così
ovunque. Se Lei mi dice: “Lei sa di essere il responsabile di
tutto ciò?”, e non mi fa certo un complimento, io devo risponderle che non è colpa mia – io non sono il responsabile di tutto
questo. Quello che noi abbiamo fatto è stato rendere evidente
il problema. Abbiamo sviluppato i metodi, abbiamo fatto
numerosi studi, li abbiamo poi ripetuti e abbiamo istruito una
generazione di persone, non solo qui ma in tutto il mondo, che
ha apprezzato il nostro lavoro.”
Per quanto riguarda infine il terzo aspetto, quello delle
relazioni esistenti tra l’atmosfera culturale prevalente e la
ricerca scientifica in psichiatria, esso deve essere considerato alla luce dei primi due, anche se presenta un profilo specifico. Schwab (1988) ha pubblicato qualche tempo fa una rassegna critica nella quale, facendo in particolare riferimento
alla situazione negli USA, dimostrava come la ricerca psichiatrica ad impronta psicosociale fosse stata influenzata,
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nel corso degli anni, da variabili come il prevalente “climate
of opinion” oltre che dall’interesse dei singoli ricercatori. Da
parte nostra vogliamo ricordare le continue tendenze alle
oscillazioni che spingono il pendolo alternativamente dal settore biologico a quello psicosociale e poi, indietro, a quello biologico. Ebbene gli studi di Shepherd e l’apertura del velo che
nascondeva agli occhi degli psichiatri i disturbi mentali presenti nella medicina generale, coincisero con un’espansione
dell’interesse per la ricerca psicosociale e per la psichiatria
epidemiologica. Solo 10-15 anni dopo, lasciando da parte l’interesse che fu manifestato tardivamente dall’industria farmaceutica, la quale avrebbe a quel punto potuto finanziare
studi di questo tipo, con il risorgere impetuoso della psichiatria biologica e con tutta l’attenzione dedicata alla genetica,
una ricerca indipendente come quella di Shepherd non sarebbe stata forse possibile.
Resta a questo punto da chiedersi. Cosa è successo, in tutti
questi anni, nei rapporti tra psichiatria e medicina generale?
In Italia il filone di ricerche e l’interesse per queste attività
di collaborazione tra psichiatria e medicina generale sono
cominciati solo all’inizio degli anni ’80. Nel 1985 il gruppo di
Verona ha pubblicato il primo studio di standardizzazione
della versione italiana del GHQ (Fontanesi et al., 1985), eseguito nella medicina di base, poi ripetuto in altro campione
(Bellantuono et al., 1987) ed anche il primo studio di standardizzazione del GHQ effettuato nella popolazione generale
(Lattanzi et al., 1988). Messi a punto gli strumenti (oltre il
GHQ anche la CIS è stata tradotta e preparata in versione
italiana), sono state eseguite, sempre a Verona, le prime indagini su larga scala per valutare la prevalenza dei disturbi psichici nella medicina di base e le sue caratteristiche (per una
revisione di questa letteratura vedi in Bellantuono e Tansella,
1989, Bellantuono et al., 1992; Piccinelli et al., 1998), seguite
da altre ricerche e da esperienze formative. Al gruppo di
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Verona si sono presto affiancati altri gruppi, tra i quali quelli
di Reggio Emilia e di Bologna, che si sono distinti per la messa
a punto di progetti di collaborazione tra servizi specialistici e
servizi di primary care che hanno avuto notevole risonanza
anche a livello internazionale (Berti-Ceroni et al., 1992; Asioli
et al., 1996; Berardi et al., 1996).
L’interesse per questo filone di studi (i disturbi psichici
nella medicina generale) e per le esperienze di collaborazione
tra servizi psichiatrici specialistici e servizi di base (esperienze di “convergenze operative”) si era nel frattempo diffuso in
molti altri Paesi al di fuori del Regno Unito, sia in quelli dotati di un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) sia in quelli, compresi gli Stati Uniti d’America, che ne erano privi (Simon e
Ludman, 2000). Infatti se l’esistenza di un SSN facilita o
meglio rende necessario un collegamento organico ed efficace
tra servizi di primo livello e servizi specialistici, l’interesse
per le ricerche e le pratiche suggerite dal lavoro pionieristico
di Michael Shepherd si è diffuso anche nei Paesi dotati di una
diversa organizzazione sanitaria, con un frequente bypass dei
servizi di base e con consultazione diretta degli specialisti da
parte dei pazienti. Ciò perché a nessuno poteva sfuggire l’importanza di un miglioramento della performance dei servizi
intermedi (quelli cioè situati tra la popolazione generale ed i
servizi specialistici) che, rispetto a questi ultimi hanno, in
tutto il mondo, costi assai più contenuti. La prevalenza dei
disturbi psichici è tale che nessun Paese potrebbe affrontare
il costo del loro trattamento, se esso venisse affidato solo a
specialisti psichiatri e psicologi. Inoltre, a prescindere dalle
questioni economico-finanziarie, è oggi chiaro quanto sia sbagliato separare e trattare in modo distinto e segmentale gli
aspetti medici e gli aspetti psicologici-psichiatrici (quando
questi ultimi non sono particolarmente gravi o complicati)
delle patologie che presentano i pazienti che si rivolgono ai
medici di base o agli altri ambulatori internistici e chirurgici
degli ospedali generali (Tansella e Thornicroft, 1999).
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Dopo la fase descrittiva degli studi epidemiologici di prevalenza (fase a), le ricerche in questo settore si sono indirizzate
dapprima verso il fenomeno del riconoscimento dei disturbi da
parte dei medici di famiglia (fase b). Successivamente hanno
da un lato approfondito il ruolo dei fattori psicologici e sociali
sia nel riconoscimento sia nel trattamento di questi disturbi,
in vari setting della primary care (Del Piccolo et al., 1998,
2000), dall’altro hanno valutato l’efficacia degli interventi e
dei progetti formativi diretti ai medici di base (Tiemens et al.,
1999; Kroenke et al., 2000; Bower e Sibbald, 2000) (fase c).
Infine, le ricerche più recenti stanno confermando che, per
migliorare la qualità e l’efficacia delle risposte da dare ai
pazienti in carico ai medici di medicina generale che hanno
anche disturbi mentali, e soprattutto per migliorare l’esito dei
trattamenti forniti nella medicina di base, è necessaria un’azione più complessa di quella immaginata all’inizio (fase d).
Oggi sappiamo che non è sufficiente il training dei medici di
medicina generale, finalizzato a migliorare le loro abilità a
riconoscere i sintomi, né un semplice collegamento tra servizi
di base e servizi psichiatrici specialistici. È necessario invece
articolare specifici e flessibili programmi di “collaborative
care” tra servizi di medicina generale e servizi psichiatrici,
come molte ricerche, dedicate in particolare al trattamento
della depressione, hanno in questi ultimi anni convincentemente dimostrato (Goldberg e Gournay, 2000; von Korff e
Goldberg, 2001; Bower et al., 2006; Gilbody et al., 2003, 2006;
Barbui e Tansella, 2006).
Possiamo ricorrere ad una metafora per chiarire questa
evoluzione nella ricerca e nella pratica dei rapporti tra servizi
di medicina generale e servizi psichiatrici. Come sanno i distillatori di grappa e gli intenditori, ma anche buona parte di coloro che apprezzano questo drink, la grappa di migliore qualità
è “il corpo”, cioè quella che si distilla subito dopo la fase iniziale (“la testa”) e prima di quella finale (“la coda”). Invece, per
migliorare la qualità delle risposte da dare ai numerosi
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pazienti della medicina generale che presentano disturbi mentali, tutte e tre le fasi sono ugualmente importanti. Negli anni
’70 ci si è concentrati sul “corpo” del processo (il riconoscimento dei sintomi e dei disturbi). Ora sappiamo che è essenziale,
per migliorare quel riconoscimento, insegnare innanzitutto ai
medici, prima dei sintomi da identificare, come stabilire una
buona relazione terapeutica e come condurre le interviste con
tutti i loro pazienti (“la testa” del processo). Altrettanto importante, anzi decisivo, è infine costruire un modello di collaborazione-consulenza e talora di presa in carico congiunta tra servizi di base e servizi specialistici (la “coda” del processo).
Questo volume curato da Fabrizio Asioli e da Domenico
Berardi, due esperti “storici” di questo importante campo
della ricerca e della pratica psichiatrica, porta un contributo
aggiornato e moderno al dibattito. Si tratta di un contributo
di qualità, basato su esperienze dirette effettuate sul campo e
su riflessioni attente, condotte per anni, insieme a Colleghi
italiani ed inglesi che hanno, come loro, dedicato molto tempo
e molte energie a sviluppare questo essenziale settore della
medicina pubblica.
Michele Tansella
Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica,
Sezione di Psichiatria e Psicologia Clinica,
WHO Collaborating Centre for Research and Training
in Mental Health and Service Evaluation,
Università degli Studi, Verona.
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