L`isola contesa

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L`isola contesa
L’isola contesa.
Geografie della differenza in Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni
di Matteo Meschiari
“These are the colors of Africa,” he said.
The blood that flowed from the zebra’s mouth was dark red and clotted.
J. Kilgo, Colors of Africa1
Per chi abbia studiato l’epica e le molteplici dinamiche dell’oralità su testi
e tra a popoli a noi lontani, e cioè lontani da quell’antropologia della modernità
che ci contraddistingue da almeno due secoli, parlare di tonalità epica nella
letteratura contemporanea ha in definitiva poco senso o, se ce l’ha, è piuttosto
nell’accezione metaforica e meta-letteraria della teoria dei generi narrativi. A
rigore, infatti, l’epica si tiene ben distinta dal romanzo, mentre ogni tentativo del
secondo di appropriarsi della prima viene ricondotto un po’ sbrigativamente al
luogo critico, fin troppo comune, della polifonia e del postmoderno. Perché se
l’epica è la «rappresentazione poetica di un’azione mediante narrazione, che
colloca il nostro animo nello stato della contemplazione sensibile più viva e più
generale »,2 e cioè è un racconto di cose memorabili, di gesti il cui sapore storico
di fondo, reale o alterato, è un elemento rilevante della fruizione; se la dimensione
eroica nella vera epopea era ottenuta non per astrazione e separazione dalla realtà
quotidiana, ma per immaginazione drammatica; allora, ciò che oggi in letteratura
sembra quasi impossibile da riprodurre, è proprio quell’aristocratica simplicitas e
quell’eccellenza di cose consuete che sono il carattere immanente dell’epopea.3
Per questo si parla non a caso di eclissi dell’eroico e, non senza un certo gusto per
l’ossimoro, di epopea ‘borghese’, un residuo che serpeggia ormai solo
nell’onnivoro genere del romanzo e che ha smarrito il contesto etnologico in cui
1
J. Kilgo, Colors of Africa, Athens, University of Georgia Press, 2003, p. 9.
E. Raimondi, Scienza e letteratura, Torino, Einaudi, 1978, p. 142.
3
Vedi M. Meschiari, F. Benozzo, Scrivere paesaggi. Lettera di due poeti agli autori di fine
Novecento, «Intersezioni», XIV, 1994.
2
1
la macchina epica poteva espletare la sua funzione di coesione collettiva e di
conferma identitaria. Ma torniamo alla definizione completa di Raimondi:
Al contrario dello scrittore lirico, se per lirico si intende ciò che si contrappone all’epico in
quanto raffigurante solo l’istante, il poeta dell’epicità produce una disposizione emotiva che
può prolungarsi per tutta l’esistenza attraverso una serie vastissima di eventi unificati in una
sola grande azione. [...] Volendo allora raccogliere in una formula conclusiva i dati
dell’esplorazione analitica, la poesia epica si può definire come una rappresentazione poetica
di un’azione mediante narrazione, che colloca il nostro animo nello stato della contemplazione
sensibile più viva e più generale.4
Mentre l’epica narra un’azione unitaria e stende gli eventi raccolti su una
superficie ampia e articolata di tempo, la lirica si concentra in un punto, e fa
dell’istante il proprio argomento fondamentale: anche nella descrizione del
mondo esterno l’emotività di chi scrive sembra occupare il posto di maggior
rilievo, laddove l’epica lascia tacere il più possibile il narratore e guarda ai
sentimenti dei personaggi come a oggetti non dissimili da ogni altro elemento del
paesaggio. Il romanzo, invece, è un racconto di avvenimenti la cui concatenazione
è affidata a fattori diversi da quelli interni all’evento, e cioè si fonda su intrecci
ascrivibili alla sola perizia letteraria dell’autore: per quanto il “tempo grande”
possa scorrere con dilatamenti e contrazioni tutt’intorno al suo tessuto,
impregnandolo anche di autentica storicità, lo sguardo si perde lungo
innumerevoli piste, e la narrazione si sfrangia in rivoli accidentali, decorativi,
istantanei, e in senso lato lirici. Nulla di più lontano dall’epica: tanto nella
monade lirica quanto nella polifonia romanzesca si è perso quel sapore di “destino
collettivo” in “ampi spazi” che è il valore più autentico dell’epopea delle origini.
Eppure non è un caso che, tra tutti i generi e con i più raffinati strumenti
ermeneutici di cui la critica dispone, si continui a usare l’attributo “epico” per
connotare l’essenza più profonda di testi come Il partigiano Johnny di Beppe
Fenoglio5 o come la Border Trilogy di Cormac McCarthy.6 A tutti i meta-discorsi
su epica e romanzo nella modernità sembra infatti mancare un elemento
essenziale che balza all’occhio anche del lettore meno avvertito, una coordinata
senza la quale la stessa ambizione epica si affloscerebbe in una squallida
4
E. Raimondi, La violenza del nuovo, op. cit., pp. 141, 142.
B. Fenoglio, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 1968.
6
C. McCarthy, All the Pretty Horses, New York, Vintage Books, 1993; The Crossing, New York,
Vintage Books, 1995; Cities of the Plains, New York, Alfred A. Knopf, 1998.
5
2
caricatura di se stessa: la terra. Come ha chiarito infatti Lambros Couloubaritsis,
il genos e il topos, sono le due coordinate-chiave che le civiltà arcaiche
adottavano per circoscrivere il mondo conosciuto, ed è proprio attraverso di esse
che una comunità poteva situarsi nel tempo e nello spazio, e dunque sentirsi
sorretta da una duplice appartenenza, storica e geografica, cronologica e
topologica.7 Tutta l’epica delle origini non fa astrazione da questi due elementi, e
forse la critica contemporanea, prima che appoggiarsi alla teoria letteraria dei
generi, dovrebbe aprirsi a uno scavo degli archetipi antropologici, per tentare di
verificare l’ipotesi di una sopravvivenza o di un riemergere dell’epica nella
narrativa occidentale più recente.8
Questo lungo preambolo, che in definitiva mira a circoscrivere le
coordinate metodologiche dell’analisi che segue, necessita tuttavia di un’altra
appendice, prima di passare allo studio della struttura geografica, topologica e
ideologica del romanzo di Atzeni. Prima del topos, infatti, bisogna individuare il
genos di un’opera che di fatto non resta isolata negli anni Novanta del Novecento,
e che inserisce la Sardegna di Passavamo sulla terra leggeri in un arcipelago
letterario più vasto. Nel 1990, infatti, viene pubblicato Omeros di Derk Walcott, e
nel 1992 Texaco di Patrick Chamoiseau, due testi che alla fine del XX secolo
sembrano riscoprire un registro epico che non è un mero rifacimento
postmoderno, ma che si vuole come la voce autentica e in primo grado di una
coscienza collettiva della differenza. Omeros è un poema epico di quasi ottomila
versi che canta, sul palinsesto dell’Iliade, la storia di due pescatori del Mar dei
Caraibi:
Ho cantato il quieto Achille, figlio di Afolabe,
che non è mai salito in un ascensore,
che non aveva passaporto, perché l’orizzonte non lo richiede,
che mai mendicò né prese in prestito, e non fu cameriere di nessuno,
la cui fine, quando verrà, sarà una morte per acqua
7
L. Couloubaritsis, Aux origines de la philosophie européenne. De la pensée archaïque au
néoplatonisme, Paris-Bruxelles, De Boeck Université, 1995, pp. 29-39.
8
Vedi ad esempio G. Sommavilla, Peripezie dell’epica contemporanea, Milano, Jaka Book, 1983;
F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal “Faust” a “Cent’anni di solitudine”,
Torino, Einaudi, 1994; P. Baroni, C. Isoldi, E. Rialti, M. Zupo (ed), Uno sguardo fino al mare.
J.R.R. Tolkien: le parole dell’epica contemporanea, Rimini, Il Cerchio, 2004. Con taglio più
antropologico, vedi A. Scurati, Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale.
Antichità epica. Modernità romanzesca. Contemporaneità televisiva, Roma, Donzelli, 2003.
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(non è cosa per questo libro, che resterà a lui sconosciuto
e non letto). Ho cantato la sola strage
che gli portò gioia, figlia della necessità: quella
della pesca, ho cantato i solchi della sua schiena al sole.
Ho cantato la nostra vasta nazione, il Mar dei Caraibi.9
Chi canta è Omeros, l’aedo alter ego di Walcott, mentre in Texaco è MarieSophie Laborieux a raccontare a Chamoiseau, semplice «marqueur de parole»,
l’epopea antillese della Martinica. E l’autore, quasi facendo eco all’epilogo di
Walcott, conclude così il suo libro:
Je réorganisai la foisonnante parole de l’Informatrice […]. Puis, j’écrivis de mon
mieux ce Texaco mythologique, m’apercevant à quel point mon écriture trahissait le
réel. Elle ne transmettait rien du souffle de l’Informatrice, ni même n’évoquait sa
densité de légende. Pourtant [j’était encouragé] à poursuivre le marquage de cette
chronique magicienne. Je voulais qu’il soit chanté quelque part, dans l’écoute des
générations à venir, que nous nous étions battus avec l’En-ville, non pour le
conquérir (lui qui en fait nous gobait), mais pour nous conquérir nous-mêmes dans
l’inédit créole qu’il nous fallait nommer – en nous-mêmes pour nous-mêmes –
jusqu’à notre pleine autorité.10
Come Walcott osserva che l’unica strage perpetrata dal «quieto» Achille è la
strage innocente del pescatore che è rimasto libero dentro, che non ha accettato la
corruzione del modello occidentale, così Chamoiseau osserva che se anche la
riconquista della terra è ormai impossibile, la vera libertà dei Creoli deve passare
attraverso una riconquista identitaria della memoria, della lingua e della
coscienza. L’intreccio tra “luogo” e “popolo” crea dunque in entrambi un discorso
narrativo che oppone alla globalizzazione capitalista una resistenza amara delle
identità locali e, al di là di ogni discorso di genere, i due autori si incontrano nel
bisogno di tramandare (“cantare” dicono entrambi) la grande storia collettiva di
una gente che ha scoperto la propria differenza nella dialettica, certo perdente,
con la macchina coloniale e neo-coloniale.
9
D. Walcott, Omeros, trad. it. a cura di A. Molesini, Milano, Adelphi, 2003, pp. 542-543: «I sang
of quiet Achille, Afolabe’s son, / who never ascended in an elevator, / who had not passport, since
the horizon needs none, // never begged nor borrowed, was nobody’s waiter, / whose end, when it
comes, will be a death by water / (which is not for this book, which will remain unknown / and
unread by him). I sang the only slaughter / that brought him delight, and that from necessity – / of
fish, sang the channels of his back in the sun. / I sang our wide country, the Caribbean Sea».
10
P. Chamoiseau, Texaco, Paris, Gallimard, 1992, pp. 497-498.
4
L’idea di un invasore etnico, e soprattutto economico, portatore di un
modello insostenibile che snatura l’essenza di una cultura originaria, che calpesta
la micro-storia dei senza nome, che cancella la differenza in favore di
un’omologazione perpetrata con volgarità retorica in nome dell’integrazione e del
progresso, è un’idea che in quegli stessi anni sembra toccare anche l’Italia, dove
le “aree periferiche” del quadro geopolitico e culturale italiano cominciano a dare
segni di una nuova irrequietezza creativa.11 E qui bisogna capire che il modello
coloniale di cui si parla è più sottile e metaforico, non si riferisce direttamente a
una politica di sfruttamento o di oppressione, ma si è innestato come discorso
critico laddove si cerchi di definire, nel bene o nel male, un parametro di
differenziazione.
Nello stesso anno in cui esce postumo Passavamo sulla terra leggeri di
Atzeni, Maurizio Maggiani pubblica Il Coraggio del pettirosso, una narrazione
profondamente poetica condotta sul duplice filo di una memoria storica e
geografica, un racconto interiore che si divide tra due terre e due sogni, le Alpi
Apuane e Alessandria d’Egitto, gli anarchici di fine Ottocento e gli Apui
dell’epoca pre-romana. Come Walcott e Chamoiseau, Maggiani racconta
un’utopia e una scomparsa inesorabile e malinconica, e come loro prova a dar
voce, ma più in secondo grado, più discretamente, a un “noi” senza storia. Chi
parla è un altro aedo in minore, Ruben Battistini, tipografo e anarchico, che
racconta al protagonista Saverio, la “vera” storia del loro comune paese d’origine:
Carlomagno [è] da sempre giudicato un luogo piuttosto speciale e in qualche modo
differente. Lo è innanzitutto la gente, che insieme gode e soffre della sua singolarità.
[…] Alcuni dicono che è stata la Via a separarci da tutti quanti, dicono altri che
invece siamo diversi da sempre, diversi da tutti nella nostra valle, perché siamo i soli
resti di quello che è stato il popolo Apuo prima di Roma e del console Aurelio.12
Il passaggio a un “noi” collettivo è spontaneo, naturale, e per un esule che ha visto
tagliate le sue radici storiche e geografiche, il processo di identificazione con gli
antenati mitici è un altro modo per sentirsi localizzato qui e ora nel presente. Il
primo Novecento ad Alessandria d’Egitto e il III secolo a.C. nelle Apuane sono
collegati proprio da quel “noi”, che è indice di appartenenza e di consapevolezza
11
Vedi ad esempio la prima narrativa di C. Abate, Il ballo tondo, Milano, Mondadori, 2005 (già
Marietti 1991).
12
M. Maggiani, Il coraggio del pettirosso, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 45.
5
della differenza. Ma a un certo punto riemerge la voce del primo narratore,
Saverio, e Maggiani sembra avvertire il lettore sul modo in cui bisogna prestare
ascolto al racconto di Ruben:
A questo punto mi era chiaro che Ruben non parlava più con me. […] la sua voce
aveva ora il tono profondo e marcato di uno che recitasse un poema, qualcosa che ha
dimenticato di sapere a memoria e gli torna su man mano che lo declama.13
Nella prosa, nella trama del romanzo, si sta cioè insinuando un tono sinceramente
epico, che solo in superficie è prosa, e che invece è canto delle radici etniche. 14
Ma oltre che canto del genos è anche canto del topos, di un radicamento al luogo
che è l’origine stessa e più profonda della differenza:
Per il tempo a venire, con tutto quello che è successo, Carlomagno è sempre rimasto
di qua dalla Via e da ogni altra cosa. Dalla parte di là, nella piana ricca e aperta al
mare, sulle colline meridiane, lungo i seni grassi del fiume così dolce, tutto il resto
del mondo, di qua dalla strada, oltre gli acquitrini e i bozzi, schiacciato sui
contrafforti delle montagne di pietra di marmo, Carlomagno. Solo loro.15
Con Passavamo sulla terra leggeri Sergio Atzeni inventa un’epopea sarda dal
2400 a.C. al XIV secolo della nostra era, facendo del romanzo una vera “isola”
letteraria nel panorama narrativo italiano, ma entrando in un arcipelago di
corrispondenze forti. L’idea di fondo del romanzo, infatti, ripete il modello
strutturale adottato dagli autori contemplati fin qui: il racconto si sdoppia tra una
prima persona singolare, l’“io” del narratore che riceve il racconto, e una prima
persona plurale, il “noi” collettivo del popolo sardo. In questo caso, Atzeni da un
lato e Antonio Seztu dall’altro, un adulto che si ricorda bambino e un aedo
misconosciuto che trasmette a quest’ultimo la “vera” storia dei Sardi:
Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante,
immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte.
Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola.16
13
Ibidem, p. 46.
Maggiani stesso parla di “epopea” e di “epica della contemporaneità” per definire le narrazioni
orali che affiancano molto da vicino la sua attività di romanziere. Vedi ad esempio la sua
improvvisazione orale L'ultimo giorno del grande assedio della città di Tuzla, tenuta al Monastère
de Saorge il 16 ottobre 2004.
15
Maggiani, Il coraggio, op. cit., p. 50. Corsivo nel testo.
16
S. Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Milano, Mondadori, 1996, p. 7. Per una presentazione
generale del romanzo, vedi G. Cerina, Prefazione, in S. Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri,
14
6
Ascoltai la storia il 12 agosto 1960 nella cucina di casa Setzu, a Morgongiori, fra le
tre del pomeriggio e il tredicesimo rintocco di mezzanotte, quando Antonio Setzu
pronunciò l’ultima parola.17
Avevo otto anni, non sapevo nulla della vita, avevo ascoltato la storia, non l’avevo
capita, anche ora che lo dico non so che senso abbia. […] a otto anni ero abituato a
essere guardato con sospetto, con diffidenza, con paura – molto tempo dopo,
scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con
sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti
perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e
perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici
sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di
bagassa, istrangios e eversori.18
Anche in Atzeni la differenza è subito ascritta alla doppia coordinata del genos e
del topos, del sangue e della terra, ma quello che bisogna notare è che Atzeni sta
parlando qui di una diversità al cubo, quella di un Sardo mal compreso tra i Sardi,
quella del Sardo mal compreso dai non Sardi, e infine quella dello scrittore sardo
che non è di casa né in Sardegna né sul continente. Per rendersene conto bisogna
infatti riconoscere che Passavamo sulla terra leggeri nasce in un contesto più
largo di quello della letteratura sarda, e per farlo basta leggere in parallelo alcune
frasi del suo romanzo e di Texaco:
Nous avions l’impression d’avancer contre le vents. Ce dernier gardiennait son
domaine. A chaque débouché au-dessus d’une ravine, il nous cueillait avant le
paysage. Plus pur. Plus sauvage.19
Nous allions. Les mornes n’étaient pas si vides que ça. Partout, de ci, de là, mais de
plus en plus rares à mesure des montées, l’antique vie surgissait. Ruines d’anciennes.
Grand-cases. Solages de chapelle. Canaux de pierres mortes.20
Nous avions couru de Saint-Pierre. Certains l’avaient quitté au seul son d’estomac de
l’énorme Soufrière. D’autres préférèrent attendre la cendrée de leurs yeux. Des
morts sans âge étaient venus toucher quelques-uns d’entre nous pour leur montrer la
mer comme nécessaire chemin.21
Echappées de Saint-Pierre. Nous étions allés loin. Nous avions raciné tout au long de
la Trace. Peupler l’Alma, peupler la Médaille, Fonds Boucher, les abords de Colson,
les pentes de Balata.22
Nuoro, Ilisso, 2003, pp. 7-32.
17
Ibidem, p. 17.
18
Ibidem, pp. 17-18.
19
Chamoiseau, Texaco, op. cit., p. 161.
20
Ibidem, p. 161.
21
Ibidem, p. 207.
22
Ibidem, p. 207.
7
Ed ecco Atzeni:
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, […] come acqua che scorre, salta giù
dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici
delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli
fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in
vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.23
Esplorammo un tratto d’isola e scegliemmo per vivere un luogo che riuniva molte
buone cose: era esposto a oriente sulla costa d’occidente, accanto alla montagna,
dove avremmo potuto rifugiarci e difenderci in caso di nemici.24
Ventuno sopravvivemmo e dovemmo imparare a coltivare i frutti e le erbe, a
catturare e mungere le pecore e le capre. Coi giunchi lunghi, neri, resistenti, che
trovammo nelle paludi a meridione dell’approdo, facemmo le nostre case.25
Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli
uomini cornuti, guardiani dell’isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva
leggere e scrivere. Passavamo sulla terra leggeri come acqua.26
Si potrebbe pensare che le somiglianze nel legame tra azione e luoghi, nel tono
asciutto e visivo, nella forza icastica dello stile, nelle riprese formulari, nella
paratassi che governa la sintassi del periodo come la macro-sintassi del testo,
nella struttura a frammenti (a lasse epiche, si è quasi tentati di dire), siano una
fortuita coincidenza, un parto poligenetico, e sarebbe plausibile se non fosse che
Atzeni è stato proprio il traduttore italiano di Texaco per Einaudi.27 E allora si
capisce come al cuore dell’invenzione di Passavamo sulla terra leggeri ci sia un
rapporto intertestuale che aiuta immediatamente il suo autore a non inciampare
nei rischi di una produzione regionalistica a tutto tondo e, ciò che conta ancora di
più, il dialogo con Chamoiseau sorregge Atzeni nella sua volontà di affidare alla
geografia insulare un doppio messaggio ideologico: come la terra si oppone al
mare e come al sottosuolo si oppone la superficie, così la cultura sarda si oppone
alla “colonizzazione” e alla “superficialità” del continente. Con un non banale
23
Atzeni, Passavamo, op. cit., p. 28.
Ibidem, p. 14.
25
Ibidem, p. 17.
24
26
Ibidem, p. 39.
P. Chamoiseau, Texaco, traduzione italiana di S. Atzeni, Torino, Einaudi, 1994. Sui rapporti tra
Chamoiseau e Atzeni, vedi M. Bestini, Tradurre la parole de nuit: Sergio Atzeni e Texaco di
Patrick Chamoiseau, in «La grotta della vipera», LXXV (1996); M. Pala, Cercando scritture
meticce. L’analogia postcoloniale tra la Barbagia e i Caraibi, in G. Marci, G. Sulis (ed), Trovare
racconti mai narrati, dirli con gioia, Convegno di studi su Sergio Atzeni, Cagliari 25-26
novembre 1996, Cagliari, CUEC, 2000.
27
8
processo di metaforizzazione dell’antico, Atzeni rappresenta le differenze
storiche, culturali e politiche contemporanee, mentre attraverso il registro epico, e
con immagini e forme modellate su una “poetica dello spazio” insulare, sottolinea
la coscienza della nuova “linea sarda” di fronte alla norma letteraria nazionale.
Adone Brandalise ha osservato che la poesia «rinvia il paesaggio al luogo
della sua formazione che è l’esercizio compositivo della poesia stessa», perché la
poesia di fronte al paesaggio «deve sottrarlo all’identificazione con una
oggettività puramente patita, deve salvare i suoi significati».28 In altre parole, il
paesaggio come prodotto di uno sguardo reale e mentale, una volta che sia entrato
nel dominio della visione, entra anche automaticamente nel dominio della
riflessione, e se da un lato si carica di un sovrasenso estetico, etico ed ideologico,
dall’altro rinvia alla sua stessa origine, cioè a quel gesto poetico dello sguardo e
della scrittura che lo ha colto in tutta la sua complessità stratificata. Per questo
l’insularità dei paesaggi di Atzeni risponde in pieno alla dialettica bachelardiana
che rende conto di ogni differenza, e che ne è anzi la radice ontologica:
Dehors et dedans forment une dialectique d’écartèlement et la géométrie évidente de
cette dialectique nous aveugle dès que nous la faisons jouer dans des domaines
métaphoriques. Elle a la netteté tranchante de la dialectique du oui e du non qui
décide de tout. On en fait, sans y prendre garde, une base d’images qui commandent
toutes les pensées du positif et du négatif.29
Eppure il panorama è più complesso di così, e lo sviluppo più autentico
dell’intuizione di Bachelard è fornito da Deleuze e Guattari, nella nota
opposizione tra spazio liscio e spazio striato:
L’espace lisse et l’espace strié, – l’espace nomade et l’espace sédentaire, – l’espace
où se développe la machine de guerre et l’espace institué par l’appareil d’Etat, – ne
sont pas de même nature.30
[…] ce qui occupe l’espace lisse, ce sont les intensité, les vents et les bruit, les
forces et les qualités tactiles et sonores, comme dans le désert, la steppe ou les
glaces. Craquement de la glace et chant des sables. Ce qui couvre au contraire
l’espace strié, c’est le ciel comme mesure et les qualités visuelles mesurables qui en
découlent.31
28
A. Brandalise, Soglie e confini. Etiche ed estatiche del paesaggio veneto, in Id., Oltranze.
Simboli e concetti in letteratura, Padova, Unipress, 2002, pp. 113-123, p. 118.
29
G. Bachelard, La poétique de l’espace, Paris, PU F, 1957, 2004, p. 191.
30
G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, Paris, Editions de Minuit, 1980, p. 592.
31
G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, op. cit., p. 598.
9
In altre parole, sul ceppo topologico, et(n)ico e morale (dentro/fuori; noi/loro;
bene/male) si viene a innestare un’opposizione ideologica più complessa
(nomos/logos; nomade/stanziale; libertà/stato di diritto) che trova poi un ulteriore
sviluppo sul terreno estetico:
L’espace lisse, haptique et de vision rapprochée, a un premier aspect : c’est la
variation continue de ses orientations, de ses repères et de ses raccordements ; il
opère de proche en proche. Ainsi le désert, la steppe, la glace ou la mer, espace local
de pure connexion. […] Les orientations n’ont pas de constante, mais changent
d’après les végétations, les occupations, les précipitations temporaires. Les repères
n’ont pas de modèle visuel qui puisse les échanger entre eux, et les réunir dans une
classe d’inertie assignable à un observateur immobile externe. Au contraire, il sont
liés à autant d’observateurs qu’on peut qualifier de « monades », mais qui sont plutôt
des nomades entretenant entre eux des rapports tactiles. […] Ces questions
d’orientation, de repérage et de raccordement sont mises en jeu par les pièces les
plus célèbres de l’art nomade […].32
Come il paesaggio fisico e il paesaggio mentale arrivano a un certo punto a
sovrapporsi e a specchiarsi a vicenda, così lo spazio topologico e lo spazio del
testo si legano in una serie ininterrotta di rimandi. È per questo che il “teatro”
insulare, con la dialettica terra/mare a cui Atzeni affida la struttura più profonda
del romanzo, diventa un universo stratificato.33 Ed è per questo che il lettore
avvertito non potrà leggere l’isola solo in base alle coordinate bachelardiane, ma
dovrà far risuonare in essa anche una sorta di geofilosofia deleuziana. 34 La
Sardegna rappresentata in Passavamo sulla terra leggeri parla anzitutto di se
stessa, ma rinvia anche all’a priori emotivo e intellettuale che l’ha originata:
mescolanza di spazio liscio e spazio striato, luogo di opposizione ma anche di
con-fusione tra i due termini, è la Sardegna della terra e del mare (geologia), è la
Sardegna della mente (geopoetica), e soprattutto è la Sardegna del testo (geografia), è dunque, in definitiva, il romanzo stesso, che si organizza a sua volta
come una specie di isola nel mare, un portolano-paesaggio che prima che letto va
“consultato”, e in cui i parametri codificati del tempo e dello spazio si attenuano.
Anziché fornire la lista dei luoghi del romanzo in cui si potrebbe
procedere a una lettura stratificata del binomio terra/mare, può bastare una rapida
analisi del brano che illustra meglio questa complessità topologica:
32
Ibidem, pp. 615-616.
Su letteratura sarda e insularità, vedi M. Marras, L’insularité dans la littérature narrative sarde
du XXe siècle, Toulouse, Éd. universitaires du Sud, 1998.
34
Vedi M. Antonioli, Géophilosophie de Deleuze et Guattari, Paris, L’Harmattan, 2003.
33
10
Dal villaggio di Mu, nelle paludi, videro una nave avvicinarsi. Portarono sulla riva
cristalli di sale, punte levigate di pietra nera, uova di pesce salate e secche, capre da
latte e agnelli saltellanti, quel che compravano i rari naviganti dando in cambio
pietre di vari colori, tessuti, anfore e gioielli. Ma non erano i soliti naviganti. Erano
uomini uccelli. Sbarcarono a decine. Sul corpo avevano piume, invece delle braccia
avevano ali. Erano armati di asce e reti. Sorridevano. Vedendo le reti Sul, una
bambina di sei anni, convinse i fratelli, Air, Zte e Lus, di sette, nove e undici anni, a
fuggire e nascondersi nel bosco sul monte.35
L’inizio dell’episodio degli uomini-uccello schiera da subito i due termini della
contrapposizione: palude e mare da un lato contro bosco e monte dall’altro. Dal
primo viene il pericolo, dal secondo la salvezza. Ma l’oggetto-chiave che rende
ambigua l’opposizione e assieme la complica è la rete, in una scena che a ragione
risveglia la diffidenza della bambina. La rete brandita da uccelli sembra un sogno
archetipico: lo strumento di cattura è in possesso dell’animale che, nel normale
ordine delle cose, dovrebbe invece esserne la vittima. Ma la rete è anche connessa
al mare, alla pesca, e il capovolgimento tra cacciatore e cacciato riflette quello
innaturale di uomini-uccelli che si sostituiscono ai pesci, e che minacciano una
vendetta delle specie contro l’uomo. Dunque dal mare viene il nemico, ma in
quella forma peculiare di pericolo che è il sovvertimento delle regole e dell’ordine
delle cose. È allora interessante notare che l’opposizione si estende anche al
catalogo dei beni di scambio: da un lato i prodotti essenziali della terra (anche le
uova di pesce sono seccate e sottratte all’elemento liquido), dall’altro i beni
superflui, frutto di una cultura tecnologicamente più avanzata. Dal mare, dallo
spazio liscio, viene ciò che l’isola non ha, una ricchezza aggiunta, un’arte
nomade, ma anche il disordine e la macchina di guerra:
Sfruttando lo stupore della gente di Mu si gettarono sui giovani e li catturarono con
le reti. Presero i vecchi, li trascinarono sugli scogli e li sbatterono come fossero
fuscelli, spaccando la testa, le braccia, le gambe. Radunarono i bambini capaci e
incapaci di camminare, gli strapparono le gambe perché non fuggissero e li
calpestarono come se vendemmiassero […]. In due notti e tre giorni tutti i villaggi
seppero la notizia. Dieci genti guidate da Ur El decisero di combattere. Dieci,
guidate da Mir decisero di fuggire nelle foreste inesplorate, sui monti. Ur El fu
ucciso. I suoi o uccisi o fatti schiavi.36
35
36
Atzeni, Passavamo, op. cit., p. 18.
Ibidem, pp. 18-19.
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La guerra si gioca in riva al mare, e ai S’ard s’impone una scelta drastica tra due
mondi: la divisione manichea della gente dell’isola porta all’estinzione della sua
metà, mentre quella che si salva pone tra sé e il mare la massima distanza
possibile: non solo via dalla riva verso il centro dell’isola, ma in alto in montagna
e poi in basso nel cuore della stessa:
Mir guidò le dieci genti fino al cuore dell’isola. Trovò un monte cavo. Per accedere
alla cavità dovemmo infilarci in una fessura larga il torace di uomo e lunga venti
braccia. Un pendio ci portò alle viscere della terra, dove non cresce più erba, dove
non arriva luce, sotto i sentieri e le vigne. […] Al termine del cammino sotterraneo
trovammo un cerchio di terra con un raggio di dieci braccia. A metà della notte
vedemmo la luna da una fessura della roccia, alt sopra le nostre teste. La luna
illuminò il cerchio. Mir disse nell’antica lingua «t’Is kal’i». La frase diventò nome
del luogo.37
L’ingresso nel mondo ctonio coincide con una duplice agnizione: la scoperta del
sito di Tiscali, sorta di onphalos dell’isola, e la sua nominazione nella lingua
antica. Atzeni pone dunque questo luogo a origine e destino dei S’ard, e così
facendo ne stabilisce gli attributi storici e culturali, ma anche psicologici e
caratteriali, all’insegna di un legame primigenio con la terra e sotto la benedizione
notturna della luna.38 Tiscali costituisce insomma un’isola nell’isola, ne è la
metonimia, è un “dentro” contro il “fuori”, un “noi” contro il “loro”, oppone la
verticalità di una terra cava all’orizzontalità del mare, è luogo di difesa e non di
offesa, è nascondersi nella notte piuttosto che agire di giorno, e infine, per
impedire future divisioni, è fondazione della norma contro lo stato di anarchia:
Mir dichiarò sacro il monte della salvezza e disse: «Qui i padri delle genti devono
riunirsi in caso di attacco nemico per decidere che fare, sotto la protezione di Is. In
caso di discordia fra i padri uno di loro, il giudice, sotto la protezione di Is districa il
torto della ragione con sentenza inappellabile immediata»39
Il cuore dell’isola diventerebbe così lo spazio striato che si contrappone allo
spazio liscio del mare, se Deleuze non ci mettesse in guardia da ogni divisione
troppo manichea:
37
Ibidem, pp. 19-20.
In base all’appendice del romanzo su La lingua degli antichi, «t’Is kal’i» significa
«[luogo?]benedetto dalla Luna».
39
Atzeni, Passavamo, op. cit., p. 20.
38
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Mais tantôt nous pouvons marquer une opposition simple entre les deux sortes
d’espaces. Tantôt nous devons indiquer une différence beaucoup plus complexe, qui
fait que les termes successif des oppositions considérées ne coïncident pas tout à
fait. Tantôt encore nous devons rappeler que les deux espaces n’existent en fait que
par leurs mélanges l’un avec l’autre : l’espace lisse ne cesse pas d’être traduit,
transversé dans un espace strié ; l’espace strié est constamment reversé, rendu à un
espace lisse.40
Atzeni, diviso tra isola e continente, consapevole della ricchezza che viene da una
pluralità etnica e culturale, sardo ed europeo allo stesso tempo, subito dopo aver
fissato i termini dell’opposizione li complica dall’interno, e cerca in questo una
complessità meticcia. I S’ard sconfiggono i nemici, ma al tempo stesso ne
assimilano la diversità culturale:
Trovammo quattro ik vivi. Tre donne e un uomo. Li curammo. Conoscevamo erbe
capaci di guarire le loro ferite. Non sapevano mettere più di quattro parole in fila né
disegnare forme sulla sabbia né contare oltre undici né coltivare la terra né mungere
il bestiame né costruire capanne né intagliare pietre. Sapevano combattere e
navigare, usare il fuoco e fare i cerchi che mettevano dentro la pelle. Sapevano
catturare e addomesticare i cavalli. Rszr, una delle donne straniere, aveva un oggetto:
la scorza dura e bucata di un frutto sconosciuto unita a un bastone grazie a un’erba
collante. Dalla scorza al bastone un giunco fine infilato agli estremi in due piccoli
cerchi lignei rotanti grazie ai quali si tendeva o diventava molle. Battendo e
strisciando sul giunco teso un giunco fine, Rszr traeva suoni. Per notti intere
restammo a ascoltarla. Mai avevamo udito nulla di simile. Sembrava il vento fra gli
alberi e la voce dei falchi, l’onda del mare che rifluisce in riva sui sassi e il frusciare
delle bisce nell’erba.41
Il brano propone ancora una volta l’opposizione tra i due mondi, quello legato alla
terra, con le attività e i prodotti propri di una civiltà sedentaria, e quello nomade,
legato al mare, al movimento e alla guerra. Eppure la scena trova una naturale
composizione nella descrizione della melodia, che non a caso propone una nuova
alleanza cosmica tra gli elementi del paesaggio, dall’aria dei falchi, alle onde del
mare, alla terra dell’erba e degli alberi. Proprio lo spazio liscio che porta all’isola
il disordine, reca l’armonia di una musica inaudita: i termini opposti si
complicano di sfumature impreviste, e si riconciliano nell’arte.
Con l’episodio archetipico degli uomini-uccello, Atzeni schiera allora tutte
le coordinate necessarie per la struttura del libro, struttura che con variazioni,
giochi di specchi, attenuazioni o ispessimenti, continua a innestarsi su un
dualismo topologico, elementare e al tempo stesso complesso. Ma l’ultimo brano
40
41
Deleuze, Guattari, Mille plateaux, op. cit., pp. 592-593.
Atzeni, Passavamo, op. cit., p. 24.
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offre anche uno spunto ulteriore, che può portare l’analisi sul terreno dello stile.
La descrizione dettagliata dello strumento musicale è infatti affidata alla tecnica
di straniamento, che inserisce nella prosa nominale del racconto un registro
diverso. Atzeni vuole forse mostrare come l’incontro tra culture porti a una
complicazione del pensiero, che da sintetico si fa analitico, ma in senso più
strettamente letterario sta solo cominciando a complicare il tessuto polifonico
della narrazione. Come Tiscali è un’isola nell’isola, un’isola composta da altre
isole che i paesaggi, i toponimi e gli eventi puntuali schierano come un mosaico
di cronotopi, così lo spazio del testo si organizza ripetendo la forma
dell’arcipelago, un arcipelago di episodi e di stili, dalla cronaca alla leggenda, dal
mito all’epopea, dalla favola alla storia, passando attraverso gradi della lingua e
della parola che oscillano sempre tra i due poli del liscio e dello striato, del
plurale e dell’uniforme, dell’eccesso e della misura.
Anche per questo la lingua del testo fa pensare alle contrazioni e alle
dilatazioni dell’oralità, una componente strettamente connessa all’epopea delle
origini. Ma come per l’epica è stato necessario ricalibrare lo strumento critico per
evitare i trabocchetti di una teoria dei generi troppo astratta, così bisogna chiarire
in che termini si può parlare oggi di oralità nel romanzo. Atzeni, come
Chamoiseau, manipola saggiamente certi stratagemmi stilistici che danno una
parvenza di oralità, come ad esempio l’anafora, la paratassi, l’ellissi, il refrain, la
ripetizione formulare, la ripresa epica, e procede a una abile cancellazione di dati
onomastici e cronologici certi per ricostruire una genealogia fuori tempo,42 ma se
di oralità si tratta è un’oralità riprodotta in secondo grado, che non ha nulla a che
vedere con la genesi letteraria del testo che la inscena. D’altronde lo dice
chiaramente Chamoiseau:
J’eus un instant envie de la filmer car il m’était de plus en plus sensible que l’audiovisuel offrait de nouvelles chances à l’oraliture, et permettait d’envisager une
civilisation articulée sur l’écriture et la parole. Mais cela demandait un matériel
considérable ; je craignis de susciter des silences mortuaires, des figements du geste,
des dénaturations de sa parole aimantée par l’œil d’une camera.43
42
Vedi M. Marras, “Passavamo sulla terra leggeri” tra memoria e presente, insularità e
universalità, in Sergio Atzeni ecc., Cagliari, 2005 (in stampa).
43
Chamoiseau, Texaco, op. cit., p. 496.
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Sotto un leggero travestimento narrativo, l’autore afferma in modo consapevole
che solo la scrittura, e non la voce, può esorcizzare il silenzio. Una volta morta
Marie-Sophie Laborieux, è infatti la presunta trascrizione e riorganizzazione dei
nastri magnetici e dei quaderni che s’impone pesantemente al «Marqueur de
paroles»: molto più di un semplice scriba, Chamoiseau sovrappone la propria
antropologia moderna, quella di Gütemberg, a un modo della parola che, come
tutto il mondo delle isole, ha perduto in definitiva la sua libertà. Lo stesso Atzeni,
attraverso le parole finali di Antonio Setzu, conclude il suo libro così:
Potrai aggiungere spiegazioni nuove dei fatti antichi narrati nella storia che ti è
affidata e raccontare avvenimenti memorabili del trentennio della tua custodia,
purché con chiarezza e concisione. Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita
della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.44
La storia finisce qui anche per il lettore, con una ricomposizione finale della
frattura tra narrazione e narrazione della narrazione, ma le due parti in fin dei
conti non combaciano, perché la “sospensione dell’incredulità”,45 che sempre si
attiva nel mezzo di un buon romanzo, a libro chiuso si spegne, e anche l’epica
svanisce nel disincanto ironico della finzione.
Lille-Avignon, novembre 2005
44
Atzeni, Passavamo, op. cit., p. 211.
Prendo l’espressione da J.R.R. Tolkien, On Fairy-Stories, in Id., The Monsters and the Critics
and Other Essays, London, Allen & Unwin, 1983, pp. 109-161.
45
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