Qui - Colle per la famiglia

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Qui - Colle per la famiglia
L’ATTENZIONE ALLE PERSONE SEPARATE O DIVORZIATE
E
L’ESPERIENZA DEI PERCORSI DI CONDIVISIONE
Un lavoro in collaborazione con
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Centro Diocesano di Pastorale Familiare di Verona
Colle per la Famiglia – Opera don Calabria, Verona
Consultorio Familiare Verona Sud
Consultorio Familiare La Rete di Cerea, Verona
Novembre 2012
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Indice
1. INTRODUZIONE
2. UNA CHIESA CHE SA ACCOGLIERE
3. LE SITUAZIONI DIFFICILI E IRREGOLARI
a. I separati
b. I divorziati non risposati
c. I divorziati risposati
d. Gli sposati solo civilmente
e. I conviventi
4. I CAMMINI DI ACCOMPAGNAMENTO
a. Accoglienza, ascolto e accompagnamento
b. Formazione degli operatori
5. L’ESPERIENZA DEI GRUPPI DI CONDIVISIONE A VERONA
a. Premessa
b. Obiettivi
L’ESPERIENZA DEL CENTRO DI PASTORALE FAMILIARE, OPERA DON
CALABRIA, CONSULTORIO FAMILIARE VERONA SUD
5.1
a. Metodologia
b. Modalità di partecipazione
c. L’esperienza
d. Aspetti teorici e metodologici
5.2 L’ESPERIENZA DEL CONSULTORIO FAMILIARE LA RETE DI CEREA
6. DALLA VIVA VOCE DEI PARTECIPANTI
7. ALTRI PERCORSI DI CONDIVISIONE
a. La Mediazione Familiare
b. I Gruppi Di Parola
8. CONCLUSIONI
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9. BIBLIOGRAFIA
Autori
Hanno contribuito alla realizzazione di questo fascicolo:
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Suor Maria Bottura, Piccole Suore Sacra Famiglia, Consultorio
Familiare La Rete di Cerea, psicologa psicoterapeuta
Dott. Piero Dalle Vedove, Centro di Pastorale Familiare, Verona
Mons. Franco Fiorio, Diocesi di Verona
Padre Mario Giusti, Padri Carmelitani, Verona
Dott.ssa Maria Grazia Rodella, Colle per la Famiglia, Opera don
Calabria, mediatrice familiare, psicopedagogista e counsellor
Dott.ssa Michela Soardo, Consultorio Familiare Verona Sud,
mediatrice familiare e pedagogista
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1. INTRODUZIONE
La situazione delle famiglie divise in seguito a separazione, divorzio o nuova
unione, è oggi una delle problematiche umane, sociali e pastorali più evidenti
dal momento che incidono fortemente sulla vita di un numero di persone in
continuo aumento.
La situazione è così diffusa, complessa e problematica che né la Società, nelle
sue varie espressioni, né la Chiesa possono assumere un atteggiamento di
rassegnazione a tale riguardo, ma, al contrario, sono chiamate a mettere in
atto tutta una serie di attenzioni e di interventi specifici, che non possono che
essere multidisciplinari (scienze umane e azioni pastorali) e multisettoriali (rete
tra enti promotori).
Buone prassi, sia nell’ambito “pubblico” che “privato” non mancano.
Questa pubblicazione, dopo una breve presentazione delle principali indicazioni
teologiche e pastorali, riporta alcune linee di intervento “pratiche” basate su
esperienze concretamente vissute con chi vive in queste situazioni, nella
speranza che possano essere utili per il “lavoro” di tanti operatori di pastorale,
e non solo, che nelle comunità parrocchiali o associative si trovano con sempre
maggior frequenza a incontrare persone che vivono in situazioni di crisi
familiari, di separazione, di divorzio o nelle cosidette “famiglie ricostituite”.
Questo contributo è il frutto delle esperienze nate dalla collaborazione tra il
Centro di Pastorale Familiare di Verona, l’Opera Don Calabria, il
Consultorio Familiare di Verona Sud e il Consultorio Familiare La Rete
di Cerea.
2. UNA CHIESA CHE SA ACCOGLIERE
La situazione delle persone separate, divorziate o che vivono nuova unione sta
a cuore, e non da ora, alla Chiesa. Numerosi sono, infatti, i documenti e le
citazioni che si possono riportare al riguardo, partendo, ad esempio, dal
Documento della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) del 1979 (La pastorale
dei divorziati risposati e di chi vive in situazioni matrimoniali irregolari o
difficili), passando per la Familiaris Consortio del 1981, il Direttorio di Pastorale
Familiare del 1993, l’altro documento CEI Il volto missionario delle parrocchie
in un mondo che cambia del 2004, fino ad arrivare ai nostri giorni con la lettera
del Cardinale Tettamanzi Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito e alcuni
interventi di Papa Benedetto XVI, l’ultimo dei quali durante il VII Incontro
Mondiale delle Famiglie di Milano 2012.
Per maggiori approfondimenti al termine di questa pubblicazione è indicata
un’ampia bibliografia.
Qui sono riportati solo dei brevi passaggi di alcuni dei testi citati.
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“La Chiesa istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini, e soprattutto i
battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che – già congiunti col
vincolo matrimoniale sacramentale – hanno cercato di passare a nuove nozze.
Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi
di salvezza.
Insieme col sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli
affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si
considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto
battezzati, partecipare alla sua vita […]. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi,
si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella
speranza" (Familiaris Consortio, n. 84).
“Sono situazioni che pongono un problema grave e indilazionabile alla
pastorale della Chiesa, la quale deve professare la propria fedeltà a Cristo e
alla sua verità come condizione e misura di un autentico amore materno anche
verso i divorziati risposati [...]. Ogni comunità cristiana eviti qualsiasi forma di
disinteresse o di abbandono e non riduca la sua azione pastorale verso i
divorziati risposati alla sola questione della loro ammissione o meno ai
sacramenti […]. Nella certezza che i divorziati risposati sono e rimangono
cristiani e membri del popolo di Dio e come tali non sono del tutto esclusi dalla
comunione con la Chiesa, anche se non sono nella “pienezza” della stessa
comunione ecclesiale, si mettano in atto forme di attenzione e di vicinanza
pastorale" (Direttore di Pastorale Familiare, n. 213).
“La comunità esprima vicinanza e si prenda cura anche dei matrimoni in
difficoltà e delle situazioni irregolari, aiutando a trovare percorsi di
chiarificazione e sostegno per il cammino di fede. Nessuno si senta escluso
dalla vita della parrocchia: spazi di attiva partecipazione possono essere
individuati tra le varie forme del servizio della carità anche per coloro che, in
ragione della loro condizione familiare, non possono accedere all’Eucaristia o
assumere ruoli connessi con la vita sacramentale e con il servizio della Parola”
(Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 9).
“La Chiesa non vi ha dimenticati! Tanto meno vi rifiuta o vi considera indegni
[…]. Per la Chiesa e per me Vescovo, siete sorelle e fratelli amati e desiderati”
[…]. Essa “non vi guarda come estranei che hanno mancato a un patto, ma si
sente partecipe delle domande che vi toccano intimamente” […], consapevole
che la scelta di interrompere la vita matrimoniale, quindi, “non può mai essere
considerata una decisione facile e indolore”, che “è anche per la Chiesa
motivo di sofferenza e fonte di interrogativi pesanti: perché il Signore permette
che abbia a spezzarsi quel vincolo che è il 'grande segno' del suo amore totale,
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fedele e indistruttibile?” (Card. D. Tettamanzi, Il Signore è vicino a chi ha il
cuore ferito).
“[…] In realtà, questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi
sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo semplici ricette. La sofferenza è
grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare queste
persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio. Io direi che molto
importante sarebbe, naturalmente, la prevenzione, cioè approfondire fin
dall’inizio l’innamoramento in una decisione profonda, maturata; inoltre,
l’accompagnamento durante il matrimonio, affinché le famiglie non siano mai
sole ma siano realmente accompagnate nel loro cammino. E poi, quanto a
queste persone, dobbiamo dire che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e
sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una
comunità cattolica, di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere
amate, accettate, che non sono «fuori» anche se non possono ricevere
l’assoluzione e l’Eucaristia: devono vedere che anche così vivono pienamente
nella Chiesa. Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia
un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto
importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati. Poi è
anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se
realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo. Anche senza la
ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a
Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino
la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione
della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa,
perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del
Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico,
ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della
nostra fede. Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente
accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che proprio così servono
la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Grazie per il vostro impegno. (Benedetto
XVI, Festa delle testimonianze, Incontro Mondiale delle Famiglie, Milano, 2012).
L’aumento del numero dei fallimenti matrimoniali sta cambiando
progressivamente la mentalità della nostra società, creando anche negli stessi
cristiani una sorta di assuefazione e di impotenza nei confronti di queste
situazioni, tanto che alla fine esso finisce per essere accettato come
un’evoluzione sociale ineluttabile e un segno dei tempi. Tale atteggiamento può
indurre ad abbassare l’obiettivo e ad annacquare il progetto cristiano sul
matrimonio e sulla famiglia.
E’ necessario, invece, riconfermare anche oggi che la stabilità della famiglia è
un valore imprescindibile per un reale “ben-essere” delle persone e della
società nel suo insieme.
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L’attenzione alla famiglia non deve, tuttavia, diventare un’ideologia, un mito
che ignora la realtà, perciò è indispensabile che questa attenzione sia
concretizzata nella stima e nella fiducia rivolta a ogni famiglia concreta.
Dietro ogni matrimonio che è in crisi o che fallisce c’è sempre un percorso di
grande sofferenza; quando una persona arriva alla separazione e al divorzio vi
arriva sempre logorata da dolore e da tentativi falliti. E di fronte alla sofferenza
non ci si deve mai porre in una posizione di giudizio ma anzitutto di ascolto e di
condivisione. Ogni situazione è complessa e non può essere capita
immediatamente: chi ci sta davanti ha bisogno di ascolto e di comprensione
prima ancora che di consigli.
È necessario pertanto accostarsi a tutte le situazioni di sofferenza coniugale o
familiare "in punta di piedi": con una grande disponibilità ad ascoltare, con il
desiderio di capire. Ogni situazione non va presa genericamente come "un
caso", ma va letta come "la storia di una persona".
Il principio ispiratore generale affermato dal Direttorio è quello della "carità
nella verità":
"carità" dice attenzione alla persona, "verità" dice attenzione al valore e al
significato di una scelta fondamentale che quella persona ha compiuto
consapevolmente.
Questo deve essere il binario su cui impostare ogni tipo di cammino pastorale.
E’ necessario, pertanto, evitare un duplice errore, quello del rigorismo,
puntando solo sulla verità senza carità che esprime solo un giudizio severo e di
condanna, e, dal lato opposto, quello del lassismo, cioè parlando solo di carità
senza verità, che giustifica la persona lasciandola nella sua situazione.
L’attenzione alle persone non può essere praticata non tenendo conto della
verità, in quanto la verità del messaggio cristiano non è tanto una verità
dottrinale, ma una verità esistenziale.
3. LE SITUAZIONI DIFFICILI E IRREGOLARI
Il Direttorio di Pastorale Familiare descrive le varie situazioni di crisi familiari,
raggruppandole in cinque tipologie: le prime due si caratterizzano come
‘difficili’, in quanto esse, di per sé, non sono in contrasto con la realtà del
matrimonio cristiano, ma mettono le persone in una seria difficoltà a
mantenere gli impegni del loro matrimonio. Si tratta dei separati e dei
divorziati non risposati che vogliono comunque mantenere fede al loro
precedente legame. Le altre tre situazioni sono definite come ‘irregolari’
perché in contrasto con i valori del matrimonio cristiano. Si tratta dei divorziati
risposati, degli sposati solo civilmente e dei conviventi.
La definizione di irregolarità va usata con cautela e non va in alcun modo
equivocata; essa non esprime un giudizio morale sulle persone
soggettivamente considerate, ma solo per definire, da un punto di vista
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oggettivo, lo stato di vita in cui le persone vivono che è in contrasto con
l’ideale cristiano del sacramento del matrimonio, i cui cardini sono l’unità, la
fedeltà, l’indissolubilità, la fecondità (Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 2397 . 2398). La irregolarità, quindi, non è definita in rapporto alle persone,
ma in relazione alla loro situazione di vita.
a) I separati (Direttorio di Pastorale Familiare, 207-209). Di fronte a gravi
difficoltà di convivenza la Chiesa ammette, come estremo rimedio, la
separazione fisica e la fine della coabitazione. La condizione di separati
non compromette, di per sé, la testimonianza del valore
dell’indissolubilità matrimoniale. La loro situazione, quindi, non preclude
la piena comunione con la Chiesa e l’ammissione ai sacramenti.
b) I divorziati non risposati (Direttorio di Pastorale Familiare, 210-212). Dal
punto di vista cristiano, il divorzio non può essere ammesso, tuttavia esso è
tollerato, senza che costituisca una colpa morale, quando «rimane l’unico
modo possibile di assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la
tutela del patrimonio» (n. 212). Essendo equiparabile alla separazione,
l’accesso ai sacramenti dei divorziati non risposati non è escluso, ma ammesso
alle condizioni di coscienza richieste.
c) I divorziati risposati (Direttorio di Pastorale Familiare, 213-220). La
situazione dei divorziati che sono passati a seconde nozze (famiglie
ricostituite), è certamente la più complessa dal punto di vista pastorale, e
purtroppo spesso si pone tutta l’attenzione soltanto o unilateralmente a questa
situazione trascurando le altre. Queste persone anche se vivono in una
oggettiva situazione di irregolarità «sono e rimangono cristiani e membri del
popolo di Dio e come tali non sono del tutto esclusi dalla comunione con la
Chiesa, anche se non sono nella “pienezza” della stessa comunione ecclesiale»
(n. 215).
La posizione ecclesiale di queste persone è certamente complessa per quanto
riguarda l’assunzione di ruoli nella comunità e soprattutto per una loro
ammissione alla riconciliazione sacramentale e alla comunione eucaristica che
la Chiesa ritiene tuttora preclusa. Da parte loro, però, queste persone, «pur
sapendo di essere in contrasto con il Vangelo, continuano a loro modo la vita
cristiana, a volte manifestando il desiderio di una maggior partecipazione alla
vita della Chiesa e ai suoi mezzi di grazia. Sono situazioni che pongono un
problema grave e indilazionabile alla pastorale della Chiesa» (DPF n. 216).
d) Gli sposati solo civilmente (Direttorio di Pastorale Familiare, 221-226). La
Chiesa riconosce al matrimonio civile celebrato da cattolici, che da essa si sono
temporaneamente o definitivamente allontanati, la positività di alcuni valori
che esso contiene. Per la Chiesa, però, si tratta di «una situazione
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inaccettabile». Pastoralmente si tratta di attivare, per coloro che intendono
riallacciare una rapporto con la Chiesa un dialogo che miri a far riscoprire il
significato del matrimonio e la necessità di scelte e comportamenti in coerenza
con il Battesimo, e di conseguenza a ‘regolarizzare’ la propria situazione
mediante la celebrazione sacramentale del matrimonio. È necessario procedere
però con prudenza pastorale, evitando soluzioni sbrigative e burocratiche ma
sollecite a rispondere in profondità al cammino di conversione. Di fatto, il
matrimonio civile, anche se dotato di pubblico riconoscimento e impegno, per
la Chiesa, è equiparabile alla convivenza e, finché permane questa situazione,
è precluso l’accesso ai sacramenti.
e) I conviventi (Direttorio di Pastorale Familiare, 227-230). Per tanti la
convivenza ha il carattere di un matrimonio ‘ad esperimento’. Molte di essi,
infatti, dopo qualche anno di prova, confluiscono nella celebrazione del
matrimonio religioso. Non è raro oggi trovare, tra coloro che partecipano ai
corsi di preparazione alla celebrazione religiosa del matrimonio, un numero
consistente di conviventi.
Il fatto della convivenza sollecita, dal punto di vista pastorale, l’attivazione di
una specifica pastorale del fidanzamento che accompagni i futuri sposi
dall’inizio della loro relazione d’amore, e non soltanto alla fine, quando già tutto
è stato deciso.
4) I CAMMINI DI ACCOMPAGNAMENTO
Il Cardinale Dionigi Tettamanzi nella sua Lettera “Il Signore è vicino a chi ha
il cuore ferito” si rivolge agli sposi in situazione di separazione, divorzio e
nuova unione, dichiarando «Vorrei con tutti voi aprire un dialogo per
condividere un poco le gioie e le fatiche del nostro comune cammino; per
provare ad ascoltare qualcosa del vostro vissuto quotidiano; per lasciarmi
interpellare da qualcuna delle vostre domande; per confidare i sentimenti e i
desideri che nutro nel mio cuore nei vostri confronti».
Questo è un evidente invito a costruire per e con queste persone delle
comunità cristiane accoglienti, capaci di ascoltare, accogliere e affrontare
con delicatezza i problemi che derivano dalle diverse situazioni, predisponendo
veri
cammini
di
condivisione,
fatti
di
accoglienza,
ascolto,
accompagnamento e di formazione degli operatori di pastorale familiare.
a. Accoglienza, ascolto e accompagnamento
Il compito dell’accoglienza e dell’ascolto è importante perché riguarda il primo
contatto con la persona e la continuazione dei rapporti di confidenza e di
sostegno. E’ un ruolo che non disconosce la verità, ma dà il primato alla carità,
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atteggiamento, questo, che ispira e accompagna ogni fase del servizio di
accoglienza. In questo atteggiamento si possono distinguere due fasi:
Prima fase – come ascoltare
a) evitare ogni atteggiamento di superiorità (per presunta competenza), di
insegnamento, consiglio, curiosità, studio, giudizio o pregiudizio;
b) assumere atteggiamenti incoraggianti quali: fare il vuoto in sé, dimenticare i
propri problemi, le persone che ci stanno a cuore, concentrare l’attenzione
unicamente verso la persona che ci sta dinanzi, interpretare in bene, lasciar
parlare senza interrompere, comprendere, mettersi nei panni dell’altro.
Le domande vanno poste con la massima discrezione e prudenza.
Seconda fase – come rispondere
a) farsi uno con la persona che abbiamo davanti, cioè immedesimarci nel suo
dolore, rilevare quanto di vero e di buono ha detto l’altro, anche se non
possiamo approvare tutto quanto ci viene detto;
b) servire, cioè mettersi a disposizione concretamente per i problemi dell’altro,
sia quelli spirituali che quelli pratici (alloggio, economia, burocrazia, assistenza
legale, psicologica, pedagogica, mediazione familiare); fare il possibile per un
“pronto soccorso” in prima persona e poi, se è il caso, suggerire un servizio
specialistico e professionale,
c) accompagnare in un cammino di crescita, cercando di non aggravare, ma
sanare le ferite.
Questi atteggiamenti nel loro insieme permettono, con molta delicatezza, di
fare domande e di dare suggerimenti per un cammino di:
1) rasserenamento, cioè non vedere solo le colpe del partner ma riconoscere
anche le proprie; non guardare al passato, di chiunque sia la colpa, ma attivarsi
per affrontare il presente nel migliore dei modi; sentire che la propria
sofferenza e solitudine sono un invito ad appoggiarsi a Dio e a confidare in Lui;
sentire che, qualunque sia la situazione dopo la separazione, si fa sempre parte
della Chiesa, che ci ama e accoglie;
2) perdono per il partner, se sussiste rancore;
3) riconciliazione col partner, se c’è possibilità e opportunità;
4) fedeltà al sacramento del matrimonio, vivendo nella solitudine, anche se
controcorrente.
b) Formazione degli operatori
L’atteggiamento fondamentale che dovrebbe caratterizzare tutti gli operatori
pastorali (sacerdoti, consacrati/e, laici) è quello dell’ascolto. Non bisogna mai
dimenticare che l’accoglienza inizia sempre con l’ascolto: ascoltare con il cuore
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per mettersi in relazione con la persona e per capire cosa c’è nel suo cuore,
dove ha radice la sua sofferenza, il suo bisogno di comprensione e di simpatia.
Nei confronti delle crisi di coppia è indispensabile, poi, lavorare per una
conversione di mentalità in modo che esse non siano viste necessariamente
solo come un evento fallimentare, ma piuttosto un passaggio spesso naturale
del cammino di coppia e una possibile occasione di crescita.
Per questo motivo è importante la formazione degli operatori pastorali e la
messa in atto di strutture e servizi capaci di accogliere e accompagnare le
coppie in difficoltà; un intervento tempestivo quando la crisi è nelle fasi
iniziali può avere il risultato di consolidare la relazione di coppia.
È indispensabile assicurare una formazione adeguata dei sacerdoti, sia nella
fase della preparazione in seminario che lungo il cammino della vita
sacerdotale: una formazione umana che li renda capaci di relazioni autentiche
e di amicizia, in grado di capire i bisogni; è importante però anche una
formazione specifica che li prepari a capire i problemi della relazione di coppia
e della vita familiare.
Una attenzione maggiore va posta su molte situazioni coniugali per capire dove
ci possono essere le condizioni per un riconoscimento di nullità del
matrimonio. Spesso infatti la fragilità della relazione ha le sue radici nella
mancanza, fin dall’inizio, di uno dei requisiti essenziali del matrimonio (ad
esempio la libertà, la maturità necessaria, la disponibilità alla procreazione,
ecc.). Gli operatori pastorali devono conoscere quali sono le condizioni più
comuni che possono rendere nullo alla radice il matrimonio.
Più a monte, va operata, sul piano pastorale generale, una "conversione alla
comunione". In una comunità che vive relazioni intense, le difficoltà di coppia
o le situazioni particolari possono meglio venire assorbite e trovare risposte di
solidarietà, di sostegno e di aiuto.
In questi ultimi anni molto utili sono risultati i gruppi di condivisione a
sostegno delle persone separate o divorziate.
Alcune di queste persone sentono il bisogno di un accompagnamento specifico
che le motivi e le sostenga nel loro percorso di riconciliazione, con sé stesse,
con il coniuge, con la Chiesa.
E’ importante che le persone separate, divorziate o che hanno contratto una
nuova unione si sentano di far pare della comunità cristiana, facendo sentire
anche in modo concreto che la “Chiesa non li ha dimenticati” (Card. D.
Tettamanzi, Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito).
Esse, se desiderano vivere l’impegno cristiano personale e comunitario, vanno
invitate a far parte dei gruppi operativi della comunità, quali Caritas,
Giustizia e Pace, commissione economica, gruppi di preghiera, di animazione
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del tempo libero e altre iniziative, come quelle di formazione (es. gruppi
familiari parrocchiali o percorsi in parallelo alla catechesi dei figli, etc.). Esse
vanno aiutate a capire che la loro esclusione dalla comunione sacramentale,
anche se può essere vissuta dolorosamente specialmente dalle persone più
sensibili, non è motivo per escludersi dalla ricchezza delle relazioni e delle
attività comunitarie.
5. L’ESPERIENZA DEI GRUPPI DI CONDIVISIONE A VERONA
a) Premessa
Come la Chiesa universale e italiana, anche quella veronese è da molti anni
impegnata sul fronte della vicinanza, accoglienza e accompagnamento delle
persone separate o divorziate.
Questa attenzione è stata ampiamente raccolta, approfondita e condivisa
durante l’ultimo Sinodo Diocesano, da cui sono emerse conferme e precise
indicazioni.
Nel Libro Sinodale si afferma, ad esempio, che la famiglia è “un tema che
chiede oggi alla comunità cristiana una particolare capacità di ascolto per
acquisire metodi e modi in grado di annunciare la buona novella…” (n. 60), con
un atteggiamento che non ci porti a “prendere la scorciatoia del giudizio
impaziente, ma piuttosto di lasciarci coinvolgere nell’urgenza di rielaborare la
comprensione dei valori di fondo della famiglia…” (n. 70).
L’invito a dar vita o ampliare iniziative riguardo le persone che vivono in
situazioni difficili o irregolari è contenuta nel Progetto Pastorale postsinodale, dove esplicitamente si chiede “ad ogni comunità, attraverso la
programmazione del proprio Consiglio Pastorale Parrocchiale, di attivare
concreti servizi di attenzione alle coppie in difficoltà. Potrà essere un
collegamento maggiore con i consultori, o l’avvio di gruppi di mutuo aiuto per
coppie di separati/divorziati/risposati o altre forme di aiuto da studiarsi in
collaborazione con il Centro di Pastorale Familiare che potrà fornire tutte le
indicazioni necessarie per questo aspetto, come per gli altri che riguardano la
pastorale familiare” (PPS, PAG. 21).
Da queste indicazioni, continuando e ampliando iniziative già in atto, cercando
collaborazioni e di favorire un lavoro in rete ,all’interno della commissione
situazioni irregolari, sono scaturite le recenti proposte per le esperienze dei
Gruppi di condivisione che sono il principale oggetto di questa pubblicazione.
b) Obiettivi
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L’esperienza si è posta come obiettivo generale l’accompagnamento umano e
cristiano delle persone separate e divorziate al fine di creare uno spazio di
confronto libero dal giudizio, rompere il silenzio e farle uscire dall’isolamento
nel quale queste persone si vengono spesso a trovare.
Gli obiettivi più specifici hanno riguardato la possibilità per ogni partecipante di
condividere la propria storia, di prendere coscienza dei motivi della
separazione, di condividere emozioni e stati d’animo vissuti, di affrontare il
dolore, di togliere dal cuore risentimenti e astiosità, di perdonare e accettare la
propria situazione per farne occasione di un cammino umano e spirituale,
dialogando anche su alcune problematiche comuni (come restare genitori,
come crescere i figli, come affrontare i problemi economici, la relazione con i
parenti, le questioni legali, etc.).
5.1
L’ESPERIENZA DEL CENTRO DI PASTORALE, DON CALABRIA,
CONSULTORIO FAMILIARE VERONA SUD
a) Metodologia
La metodologia ha previsto che la partecipazione al gruppo fosse aperta a tutti
(separati, divorziati,
anche risposati o conviventi), compreso coloro che
mantenevano la fedeltà al sacramento del matrimonio cristiano, ma anche ai
non praticanti.
I gruppi di condivisione si basano sulle regole dell’auto mutuo aiuto e non sono
gruppi di psicoterapia, per cui se qualche partecipante era già in un cammino
di psicoterapia poteva continuarlo.
Per favorire il clima di dialogo e di condivisione il numero massimo di
partecipanti al gruppo è stato previsto di 14 persone.
Il gruppo è stato condotto da due facilitatori, una mediatrice familiare laica e
un religioso, esperti nelle tematiche della famiglia. Il loro ruolo non era
direttivo, ma rassicurante, facilitante la comunicazione e la dinamica della
partecipazione.
La cadenza degli incontri è stata, a seconda delle situazioni, una volta ogni due
o tre settimane, la sera dalle 20.30 alle 22.00 o dalle 18 alle 20.
La sede degli incontri era accogliente e prevedeva la possibilità di un facile
scambio di opinioni, di “guardarsi in faccia”, di utilizzare, quando necessario,
una lavagna a fogli su cui i facilitatori fissavano idee, pareri, sentimenti
espressi, sintesi del confronto.
Ad ogni partecipante è stato chiesto un modesto contributo economico per il
sostegno delle spese.
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b) Modalità di partecipazione
Per la partecipazione agli incontri è stato previsto un primo colloquio d’entrata
del partecipante con i due facilitatori per capire le aspettative e le motivazioni
del richiedente, per conoscere almeno a grandi linee la sua storia familiare,
l’eventuale presenza di figli, la situazione al momento presente (rapporto con il
coniuge e con i figli, rapporto con la fede, eventuali difficoltà legali,
economiche, relazionali…), per presentare l’attività e il senso del gruppo di
condivisione, gli obiettivi e le modalità del percorso.
Nel corso del colloquio sono state presentate le regole: puntualità, impegno per
la presenza, premura di avvertire per eventuali assenze, riservatezza, rispetto
reciproco della privacy sui contenuti espressi,
raccontarsi quando lo si
desidera, partire da sé, parlare in prima persona, avere un atteggiamento non
valutativo, in situazione di disagio affrontare il problema in gruppo e con le
persone direttamente coinvolte, quando si decide di terminare la propria
esperienza in gruppo comunicarlo alle altre spiegando il motivo della propria
scelta, possibilità per i partecipanti di incontrarsi al di fuori del gruppo. Si
presentavano anche altre attività possibili da condividere nel corso
dell’esperienza, quali, ad esempio: visione di film, lettura di libri e articoli,
partecipazione ad eventi esterni organizzati in proprio (es. cene) o da altri (es.
convegni sul tema).
c) L’esperienza
Il primo colloquio è risultato fondamentale per la buona riuscita del gruppo.
Esso ha permesso di dare indicazioni a persone che avevano altri obiettivi, di
chiarire a coppie in crisi o in fase di separazione che la proposta non andava
confusa con altre esperienze (es. mediazione familiare o terapia di gruppo), di
individuare in alcuni casi situazioni di persone con problematiche psichiatriche
o forte depressione, per cui il gruppo non poteva rappresentare, almeno in
questa fase della loro situazione, una risposta adeguata.
Per quanto riguarda l’andamento del gruppo, ogni incontro è stato impostato
sulla durata di un’ora e mezza.
I primi incontri hanno avuto l’obiettivo di costituire il gruppo, con la
presentazione dei partecipanti, la condivisione delle loro storie e i contenuti da
affrontare.
Progressivamente, grazie all’atmosfera che si è venuta a creare tra i
partecipanti, l’esperienza del gruppo ha via via assunto un tono sempre più
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amichevole, tanto da desiderare di condividere una cena insieme all’ultimo
incontro.
La disposizione in cerchio ha favorito una partecipazione attiva.
All’inizio di ogni incontro si riassumevano i contenuti dell’incontro precedente
in modo da riprendere il filo del discorso, offrendo una cornice che fungeva da
contenitore ma che si sviluppa sempre con modalità creative, lasciando spazio
agli stessi membri del gruppo di condividere un episodio, un avvenimento, un
problema che si era posto loro in settimana. Questo approccio ha permesso un
largo coinvolgimento e una forte immedesimazione nel problema, con
affermazioni spontanee del tipo “anche a me è capitata una cosa simile e in
quel momento ho fatto così, poi però ho capito che …”.
Questa metodologia ha permesso ai partecipanti al gruppo di sostenersi a
vicenda spontaneamente, di incoraggiarsi, di contribuire a ridimensionare le
sensazioni di solitudine e di inefficacia.
Il gruppo, perciò, è da intendersi semistrutturato, con alcune tematiche di base
che sono state messe in programma dai facilitatori (la comunicazione
funzionale, il punto di vista maschile e femminile sulla relazione di coppia,
l’autostima, il ruolo genitoriale, il rapporto con il passato e l’ex coniuge, la
solitudine, la posizione della Chiesa, i pregiudizi e le opportunità di crescita)
non in modo predeterminato e fisso, ma proponendo ad hoc degli spunti di
riflessione a partire dai vissuti personali riferiti spontaneamente.
Molto utile ed efficace è stato l’utilizzo della lavagna a fogli mobili, visibile a
tutti, che ha permesso di annotare sul momento le riflessioni del gruppo sui
vari argomenti discussi, oppure rappresentare graficamente alcuni esempi o
fissare alcune frasi, concetti, emozioni: è stato come ritrovare, ogni volta, gli
appunti di viaggio, un’agenda che permette di costruire un sapere comune,
grazie alla quale nulla va perduto e l’esperienza individuale viene valorizzata.
L’esperienza della conduzione a due è stata senz’altro positiva, sia per i
facilitatori che per il gruppo stesso. La mediatrice familiare si focalizzava
maggiormente sugli aspetti psico-socio-educativi dei contenuti espressi,
occupandosi inoltre anche degli aspetti più prettamente organizzativi e di
collegamento; l’attenzione del sacerdote si è soffermata soprattutto sulle
tematiche inerenti la fede, il rapporto con la Chiesa, la dottrina sul matrimonio
cristiano.
I due facilitatori, comunque, sono stati “sullo stesso piano”, per cui nella
pratica i due ruoli sono stati molto sfumati, flessibili e complementari.
15
Verso la conclusione del primo anno è stato somministrato ai partecipanti un
questionario che verificava com’era stata l’esperienza del gruppo e la
possibilità di proseguire per un secondo anno.
Analogamente, ai partecipanti del secondo anno è stato proposto un
questionario specifico di valutazione dell’esperienza, di considerazione dei
punti di forza e di debolezza di quanto vissuto, di corrispondenza con le
aspettative, di richieste per il futuro.
Dall’esame dei questionari è emerso con evidenza la positività dell’esperienza
nel suo complesso, dell’aiuto che la partecipazione al gruppo di condivisione ha
rappresentato per la loro vita, sia sotto l’aspetto umano che spirituale. Da molti
è stata avanzata la richiesta di proseguire un’esperienza di condivisione che in
forme diverse dalla formula del gruppo permetta comunque a loro di continuare
a fare un cammino di crescita.
d) aspetti teorici e metodologici
Iniziare a parlare dell’esperienza del gruppo di condivisione per persone
separate e/o divorziate sottintende parlare di famiglia come luogo e tempo di
mediazioni: la famiglia è il tessuto primordiale dell’esperienza umana in cui si
realizzano relazioni di mediazione fra l’individuo e la comunità, fra la natura e
la cultura, fra sfera pubblica e sfera privata. Perciò, l’esperienza della
separazione fa emergere rilevanti criticità in questi tre fondamentali ambiti,
con conseguenze a livello personale e dei legami.
Affrontare l’evento della separazione, pur nelle accezioni speciali di ciascuna
storia, significa mettere in discussione questi livelli di interazione, spostando
l’attenzione ora su un versante, ora sull’altro e richiede alle persone coinvolte
di occuparsi (spesso di pre-occuparsi) di trovare nuovi equilibri in tempi
ragionevoli, poiché i vissuti più ricorrenti sono di disordine, delusione, rabbia,
frustrazione. La ricerca delle persone è frequentemente rivolta ad una
situazione di maggior serenità, di tranquillità, di chiarezza di sapere cosa fare e
cosa dire: sono questi i bisogni ricorrenti delle persone incontrate in colloqui
informali e in contesti di consulenza e mediazione familiare.
Considerando questi aspetti, si è ipotizzato che proprio l’esperienza del gruppo,
con le sue potenzialità del confronto e della condivisione, potesse costituire
una valida e funzionale risposta alla richiesta sempre crescente di aiuto da
parte di chi si separa: da una parte, per il corrispondente numero crescente di
separazioni, dall’altra per una aumentata consapevolezza rispetto al
riconoscimento della validità di poter usufruire di servizi e professionisti che si
adoperano per offrire contenimento e sostegno in questa delicata transizione
della propria storia personale e famigliare.
Individuo e comunità
16
Come la famiglia rappresenta la fondamentale relazione di mediazione tra la
persona e la dimensione sociale, poiché l’individuo non può esistere se non
legato ad altri individui, in una rete fittissima di relazioni (si parla infatti di
socializzazione, identità, ruoli…concetti che presumono legami), così la
separazione dal coniuge enfatizza l’esistenza e la vitalità di queste dinamiche.
Il tema della solitudine è riapparso in molteplici momenti del gruppo.
L’esclusione o l’autoesclusione da situazioni di vita sociale, accompagnato,
talvolta, da un transitorio stato depressivo, di ansia, di preoccupazioni per il
futuro, di rabbia, tanto da scatenare reazioni di difesa e manifestazioni di
chiusura e scarsa fiducia (nel proprio modo di sentire e negli altri). Spesso il
livello
dell’autostima
personale,
prima
commisurato
dal
ruolo,
dall’approvazione sociale, dal benessere sperimentato all’interno delle mura
domestiche, viene messo a dura prova.
Il gruppo, da questo punto di vista, rappresenta una vera ancora di
salvezza, dal momento che si ha la certezza che le persone del cerchio hanno
percorso, con modalità analoghe, le medesime tappe e, si presume, possano
capire meglio di altri lo stato d’animo, i pensieri, i bisogni, nel continuo
confronto di somiglianze e differenze. Gradualmente, si percepisce meno
l’essere semplicemente “individuo”, si aumenta la consapevolezza di essere
persone in relazione, che vivono in una rete di relazioni, con tutte le
conseguenze che ne derivano. Si tocca con mano che gli altri sono una risorsa
e si può finalmente percepire se stessi come una risorsa per gli altri: abbiamo
utilizzato spesso la metafora del viaggio, pensando agli altri partecipanti del
gruppo come a dei compagni di viaggio, ciascuno portatore di un bagaglio,
disposto a condividere con gli altri qualcosa che porta con sé (anche paure,
solitudine, sensazione di non farcela, senso di colpa, di inadeguatezza) ma
anche la capacità di sdrammatizzare, l’incisività, l’ascolto empatico e così via...
La metafora del viaggio è stata utilizzata anche in piccole parentesi di
esercitazioni individuali dove i partecipanti sono stati invitati ad acquisire
coscienza rispetto ai pesi, ai bagagli, alle zavorre che talvolta si portano (o si
trascinano in modo ignaro) da una situazione all’altra, da una relazione
all’altra, dalla famiglia al lavoro e viceversa: a volte tutti questi “bagagli” non
sono indispensabili, anzi, talvolta altre persone o situazioni ci caricano di pesi
che non spettano oppure non sappiamo delegare laddove è la scelta più
adeguata. In questa esperienza del “viaggio”, di un percorso intrapreso
insieme, fatto di tappe intermedie (spesso l’incoraggiamento è di compiere un
passo alla volta, mettere in discussione qualche aspetto della propria vita e
della propria fede, senza estremizzare, senza annullare, annullarsi) occorre
attrezzarsi di una bussola, un orientamento valoriale che permette, finalmente,
di recuperare la direzione chiara da seguire, attraverso l’essenziale. Sempre
ragionando in questi termini, del rapporto tra individuo e comunità, è stata
utilizzata l’analogia con il puzzle; ogni membro del gruppo ha trovato il proprio

17
nome all’interno di una porzione di puzzle colorato ed è chiaro il messaggio di
unione e condivisione di ciascuno rispetto agli altri: cosa succede se il tuo
posto viene meno? O se viene occupato da altri? Si è cercato di rendere
“visibile” l’interdipendenza di una parte con il tutto e viceversa, così è nel
gruppo, così è in ogni famiglia.
E’ emerso più volte durante gli incontri il tema del tempo, una dimensione che
sembra irreale, percepito spesso in modo negativo, come un avversario da
temere, piuttosto che un prezioso alleato che aiuta a relativizzare e a
funzionare come un balsamo per tante ferite, dato che esistono innegabili
analogie tra la separazione ed altre esperienze di lutto.

Il gruppo, anche in questo caso, attraverso 20 incontri distribuiti su due
anni, ha ammesso, a conclusione del percorso, che il tempo aiuta ad elaborare
la sofferenza, rendendola meno acuta, meno ingombrante, meno
immobilizzante, restituendo maggior fiducia nelle scelte fatte, maggior
distensione nella gestione dei figli, anche permettendo di avere aspettative
realistiche nei confronti dell’altro genitore. Raccontare all’interno del gruppo
pezzi di storia personale, riferire, dal punto di vista personale, le motivazioni
che hanno condotto la propria coppia alla separazione, decifrare insieme con
gli altri elementi ridondanti tra passato e presente, consente di creare una
cornice più definita del quadro della propria vita: tutti questi passaggi non
potrebbero essere elaborati nella solitudine, senza il confronto.
La presenza dei figli (si precisa che non tutti i partecipanti del gruppo hanno
figli, ma tutti hanno partecipato alle discussioni con grande coinvolgimento) e
tutti gli aspetti educativi a loro legati, comprese le difficoltà di gestione della
quotidianità nelle situazioni di conflitto più acceso, ha condotto le discussioni
del gruppo a momenti di riflessione profonda. I dilemmi più importanti ed
urgenti riguardano spesso i figli che, siano piccoli o adolescenti e a volte già
adulti, portano nella loro storia personale questo distacco tra i genitori.

All’interno del gruppo ci siamo soffermati a lungo a riflettere sui possibili
bisogni dei figli (di tranquillità, di non essere coinvolti nelle discussioni dei
genitori e, a maggior ragione, nelle faccende legali, di mantenere legami
significativi con il genitore non convivente e le famiglie d’origine, devono
essere spesso rassicurati, incoraggiati) e di come sia possibile andare incontro
a questi bisogni, al senso di inadeguatezza che pervade talvolta le iniziative dei
genitori, il dilemma tra quantità e qualità del tempo trascorsa con i figli, le
divergenze educative rese ancor più complicate da una comunicazione spesso
difficoltosa. Di nuovo, le persone del gruppo anche attraverso un ascolto
empatico, hanno mostrato comprensione, immedesimazione, incoraggiamento,
vicinanza, dando, soprattutto, preziosi consigli pratici. Per situazioni un po’ più
specifiche e delicate, si invitano le persone a trattare il problema in un contesto
18
di consulenza individuale o, ancora meglio, in un percorso di mediazione
familiare con l’altro genitore.
L’accompagnamento delle persone in situazione di separazione all’interno della
Chiesa era tra gli obiettivi ipotizzati nella proposta del gruppo.
A partire dai colloqui individuali preliminari si è riscontrato un interesse e, allo
stesso tempo, molti interrogativi sui temi inerenti il matrimonio cristiano, la
separazione e le sue conseguenze, alcuni dubbi di fede.
Con alcune fatiche, anche il tema della fede è stato affrontato nel
contesto degli incontri di gruppo, soprattutto il problema della sacralità del
vincolo matrimoniale, l’accostamento all’Eucarestia, il ruolo della coscienza
personale, i tentativi di capire come la Chiesa si pone di fronte alle persone
separate, con o senza nuove convivenze (le cosiddette situazioni “irregolari”),
con la guida del sacerdote, il confronto con la Parola e altri testi scritti. Ci sono
stati stimoli provenienti dalla vita quotidiana che hanno aperto il confronto su
tali aspetti: la somministrazione dei Sacramenti dei figli, che ha significato per i
genitori separati accompagnare nella preparazione, nel catechismo, nel
tentativo o meno del coinvolgimento dell’altro genitore, facendo emergere le
difficoltà di fede, che non hanno ricevuto risposte esaustive o definitive, ma
hanno permesso comunque una ricerca più fiduciosa e un’apertura al confronto
con la Parola, che è già momento profondo di Comunione.

Una porzione importante della vita delle persone è il rapporto con la
famiglia d’origine, vissuto talvolta in modo contradditorio, talora come
risorsa, talora come peso. Le persone riferiscono, all’indomani della
separazione, di aver sperimentato la propria famiglia come risorsa
preziosissima di supporto psicologico, materiale, economico, organizzativo,
soprattutto se in presenza di figli piccoli; talvolta, invece, hanno sofferto
notevolmente per aver sperimentato la famiglia in posizione di giudice severo,
negando la crisi, perciò la separazione, accentuando i sensi di colpa, di debito
affettivo, di aspettative deluse, di vergogna. In alcuni casi le famiglie d’origine
sono state uno tra i più rilevanti motivi che hanno portato alla separazione dei
coniugi, sia per storie familiari difficili, complesse e problematiche, sia per
l’evidente attaccamento che spesso molti genitori hanno nei confronti dei figli
adulti, a loro volta genitori, impedendo loro di crescere come persone
autonome e responsabili.

Il gruppo, da questo punto di vista, ha accolto con interesse ed
entusiasmo i contenuti proposti ed è valsa la pena soffermarsi con il gruppo ad
elaborare, all’indomani della separazione, i vissuti emotivi e i valori trasmessi a
livello generazionale, le dinamiche osservate nel proprio nucleo famigliare
originario. Ci siamo serviti del genogramma e dello stemma famigliare
(utilizzati abitualmente all’inizio del percorso di mediazione familiare secondo
19
l’approccio transizionale simbolico), rappresentando un’ipotetica famiglia, ma
con caratteristiche con cui ci si immedesima facilmente, arricchita di
descrizioni, caratteristiche personali, di valori, di scelte ecc. E’ stato uno spunto
che ha aperto un’ampia discussione ricca di considerazioni, domande, critiche
e autocritiche che hanno permesso di rivedere, seppur in modo lieve (occorre
far attenzione di non toccare livelli intimi e vulnerabili che rimangono
“scoperti”, per cui il contesto del gruppo non è idoneo), le proprie radici, la
dote valoriale, i modelli ereditati. Più di un partecipante ha esternato che sono
aspetti molto importanti, di cui ci deve essere consapevolezza prima del
matrimonio, verso cui vanno educate le giovani generazioni, non come
garanzia assoluta della riuscita di un buon matrimonio, ma per avere strumenti
idonei nell’approccio umano alla cura della relazione.
Natura e cultura
Affrontare ai giorni d’oggi, nel contesto italiano e, nello specifico, in terra
veronese la separazione significa riflettere su una situazione culturale
incoraggiante all’individualismo, all’apparire, al soddisfacimento immediato dei
bisogni con politiche poco lungimiranti sul fare famiglia, l’essere famiglia,
vivere i tempi in famiglia. Le persone del gruppo hanno tentato di
sdrammatizzare, con un alone di amarezza, sui numeri impietosi: “i pregiudizi
della gente sono meno influenti di un tempo”, “i figli sembrano risentirne
meno”, “in classe non è l’unico”, ecc.

Il gruppo è stato invitato a riflettere sui pregiudizi, sulle aspettative e
sulla categoria dell’ovvio. Che cosa è ovvio debba fare una buona madre, un
buon padre? Una buona madre separata e un buon padre separato? Le
sorprese non sono mancate. Ci siamo accorti dopo una serie di esempi e
discussioni che, l’ovvietà del chi fa cosa, è soggettiva, personale, circoscrivibile
al proprio sentire e alla cultura del nostro tempo.
Tra l’eredità che ciascuno riceve dalla propria famiglia e ogni esperienza
culturale esterna, il linguaggio e la comunicazione hanno un ruolo
costitutivamente insostituibile: padroneggiare uno strumento così prezioso
dev’essere un impegno condiviso, a partire dalla coppia e dalla famiglia
nell’esercizio dei compiti educativi. Comunicare porta in sé il significato di
“mettere in comune” e se, a chiunque, una coppia in salute richiama quella in
cui ci si parla, ci si ascolta, si condivide un progetto, degli interessi (quante
volte si fa riferimento alla condivisione, alla complicità, alla comprensione!),
quanto poi come elemento spesso onnipresente delle crisi coniugali si fa
riferimento alla “mancanza di dialogo” o ai silenzi assordanti, ai litigi fini a se
stessi. Questo scarto va colmato, con un’attenta e costante educazione al
dialogo.
20

Con il gruppo abbiamo sperimentato alcune esercitazioni e metodologie
per comprendere il proprio modo di ascoltare e comunicare, apprendere alcune
metodologie di comunicazione più funzionale. A volte le parole hanno un peso
enorme, nel costruire e coltivare o, al contrario, ostacolare e distruggere i
rapporti umani. Abbiamo perciò sempre utilizzato la lavagna a fogli mobili, per
fissare concetti, frasi, parole, schemi, esercizi di gruppo: quando, a distanza di
due o tre settimane le persone del gruppo ritrovano le parole dette in
precedenza, non è possibile ignorarle! Permette di vedere i passi fatti, le
riflessioni, ridimensionare, completare, espandere un concetto espresso
precedentemente. Ad ogni incontro veniva dato a ciascun partecipante un
foglio di collegamento con una sintesi dei contenuti dell’incontro precedente
(molto utile anche per coloro che fossero stati assenti) e alcune indicazioni e
spunti di riflessione per iniziare la serata. Anche lo scambio degli indirizzi email
è stato utile: rimane un veicolo di scambi comunicativi immediati, anche per
creare un collegamento tra un incontro ed il successivo. L’insostituibile
potenzialità di una comunicazione efficace è stata a lungo oggetto dei nostri
incontri, con risvolti anche comici, quando abbiamo analizzato lo stile maschile
e femminile, le modalità dell’uomo e della donna di vivere le relazioni, la
coppia, l’essere genitore e la gestione dei conflitti, in primis (oltre ad altri
risvolti della femminilità e della mascolinità).
Sfera pubblica e privata
Il matrimonio, così come è concepito e vissuto, nella normalità, contempla
diverse fasi di preparazione e celebrazione, in cui è vistoso l’elemento
“pubblico”, ovvero la partecipazione corale di famiglia, parenti, amici e, così
pure, è pubblica l’assunzione di diritti e oneri di fronte alla società e alla
comunità cristiana. La famiglia stessa è soggetto di mediazioni sociali continue
(scuola, mass media, servizi, mondo del lavoro…). Al contempo, è molto intima
la vita che si snoda, dal momento della celebrazione del rito, all’interno delle
mura domestiche, dove si cerca in continuazione il senso di appartenenza alla
propria famiglia. Quando avviene una separazione, cosa accade in questa
duplice dimensione di pubblico e privato? La ritualità dell’evento separazione è
spesso limitata a documenti e carte bollate, con altri segnali legati alla casa,
agli arredi, al trasloco di almeno uno dei due membri della coppia. Eppure,
anche se con risvolti talvolta drammatici, è un passaggio cruciale della vita di
una persona e di una famiglia.
Il gruppo consente una ritualità dell’evento critico della separazione
(riconducibile, di nuovo, al tema della solitudine) ed un contenimento degli
aspetti emotivi più distruttivi. Proprio in quanto gruppo, svolge una funzione
simbolica dell’elemento “pubblico” e, al contempo, con un graduale senso di

21
appartenenza, si struttura un clima di fiducia “famigliare” in cui si ha la
sicurezza della riservatezza dei contenuti espressi. Le persone del gruppo che
hanno vissuto il momento del distacco anni prima, esprimono, attraverso la
narrazione e un distacco maggiore, comprensione e accoglienza verso chi si
trova in piena tempesta emotiva, vi è una trasmissione consapevole
dell’esperienza vissuta. Con queste modalità, grazie alle differenti esperienze
degli appartenenti al gruppo, è possibile intravedere un passaggio dai sensi di
colpa diffusi all’assunzione di responsabilità nei confronti delle scelte fatte e, a
maggior ragione, verso un impegno costante per i figli.
5.2
L’ESPERIENZA DEL CONSULTORIO FAMILIARE LA BUSSOLA DI
CEREA
L’esperienza
del
Consultorio
familiare
di
Cerea
nei
confronti
dell’accompagnamento delle persone separate è nata alcuni anni fa, quando
abbiamo cominciato ad offrire percorsi di gruppo per i figli di separati, accanto
ai quali sono stati programmati momenti di scambio e confronto per le mamme
e per i papà, che si incontravano naturalmente in due momenti diversi.
L’obiettivo di questi momenti era quello di un confronto sugli aspetti della
relazione con i figli, ma i partecipanti hanno ben presto messo in campo anche
i loro personali vissuti riguardo la separazione. Successivamente abbiamo
accolto l’invito del Centro di Pastorale Familiare e abbiamo organizzato un
gruppo di condivisione per persone che vivono situazioni matrimoniali “difficili”,
indipendentemente dalla presenza e dall’età dei figli.
In entrambi i casi abbiamo dovuto fare i conti con la fatica e la riluttanza delle
persone a partecipare ad incontri di gruppo, a fronte invece di una forte
richiesta di dialogo “a tu per tu” che rappresentasse un aiuto e un sostegno
nell’affrontare il disagio personale da parte di chi vive situazioni di separazione,
in particolare da parte di chi è stato lasciato. Al gruppo hanno infatti
partecipato con costanza solo persone che avevano già affrontato un percorso
personale con uno degli psicologi del Consultorio, maturando in quel contesto
la possibilità di condividere la propria esperienza con altri.
Potremmo sintetizzare la richiesta di chi arriva al Consultorio con l’espressione:
“Aiutatemi a reagire, a trovare il modo di sopravvivere al fallimento del mio
matrimonio, a ritrovare una progettualità, un senso per la mia vita”. Ciò che
immediatamente si percepisce è infatti la sensazione di fallimento e di perdita
di senso che blocca la persona, spesso alle prese con sentimenti contrastanti.
Questa domanda non sempre è però esplicita, e renderla tale è spesso il primo
obiettivo con cui ci poniamo accanto a queste persone.
Dietro ad ogni matrimonio che fallisce c’è sempre un percorso di grande
sofferenza: l’amore per definizione fin dal suo nascere domanda stabilità, e il
percorso della separazione è sempre faticoso e carico di dolore, un vero e
22
proprio lutto da elaborare. Quello che ci viene chiesto è di non banalizzare
questo percorso, questa sofferenza, magari in nome di un generico “buonismo”
che finisce per non prendere sul serio la persona con il suo sentire più
profondo, ma di metterci a servizio della ricerca di senso per la vita.
Riflettendo sulla nostra esperienza, quindi su tutte le persone che in questi anni
si sono presentate in consultorio con una storia di separazione, abbiamo
individuato alcune situazioni ricorrenti, che potremmo condensare in tre
“fotografie”.
La prima è quella di persone che non si rassegnano alla separazione, persone
logorate dalla fatica dei tentativi falliti di ricomporre la coppia, e che talvolta
stanno ancora lottando, seppure in modo ambiguo e ambivalente, per cercare
di riconquistare il coniuge, nonostante i passi fatti anche sul piano legale
esprimano chiaramente l’irreversibilità della separazione.
Dialoghiamo con persone che ci dicono di non voler più rivedere il coniuge, ma
che poi ci chiedono l’appuntamento possibilmente quando lui è nei paraggi, o
che ci rivelano di continuare a cercarlo e ad incontrarlo. Prendere coscienza
dell’ambivalenza dei propri sentimenti è spesso il primo passo che ci sembra
necessario, per aiutare la persona ad accettare la realtà e ad investire le
energie in modo costruttivo, a ridefinire la propria identità trovando una
stabilità nel modo di porsi di fronte all’altro; tutte condizioni senza le quali è
impossibile aprirsi alla prospettiva di una vita comunque positiva e guardare a
sé come a persone che hanno un futuro, e che possono decidere che futuro
avere.
Rompere un matrimonio è sempre un lutto, che comporta sentimenti di perdita,
soprattutto quando la separazione è subita: si perde il compagno di vita, si
perdono i sogni, i progetti, gli obiettivi della vita; si perde una parte di sé. Ci
siamo trovati di fronte a persone che, ancora immerse nel “caos di sentimenti”
di lutto, si sono lanciate in nuove storie, con l’illusione che il nuovo
investimento affettivo potesse placare il dolore della perdita, riempire il vuoto,
ma che poi si sono ritrovate in situazioni fallimentari simili alle precedenti,
perché non si erano date il tempo e il modo di imparare nulla dall’esperienza
vissuta. Questo vale in particolare quando ci sono di mezzo i figli, cosa che
impone la ridefinizione di un rapporto in cui non si è più coniugi ma si continua
a essere genitori.
La seconda fotografia è quella di persone fortemente risentite, “arrabbiate” con
il coniuge, frustrate di fronte a tutte le difficoltà che la vita da separati
presenta. Il bersaglio su cui si concentra la loro collera può essere molto vario:
il terreno della lotta è rappresentato talvolta dall’affidamento dei figli, dal
rapporto con i figli stessi di cui si cerca l’alleanza, dalla dimensione economica,
dall’assegnazione della casa e dei beni, dal rapporto con i suoceri o con gli
amici (ci siamo trovati ad es. di fronte a persone in difficoltà perché
quotidianamente incontravano l’ex marito/moglie sul lavoro, dovendo
23
condividere il mondo dei colleghi), ma in sintesi si riconosce sempre la stessa
dinamica in cui la persona cerca “vendetta”, o rivendica ad oltranza i propri
diritti, cercando di svalutare il coniuge. Anche qui c’è un primo passo da fare:
aiutare la persona a prendere coscienza della propria rabbia, e talvolta del
proprio contributo personale, per quanto involontario, al fallimento dell’unione,
perché la rabbia possa essere ridimensionata, perché vengano abbandonati i
sentimenti di vendetta, e l’aggressività sia trasformata in impegno per
costruire un nuovo equilibrio.
In genere all’avvio dell’esperienza dell’incontro di gruppo premettiamo almeno
un incontro personale con il conduttore, allo scopo di chiarire la motivazione
reale e profonda che ha spinto la persona a partecipare al gruppo. E’ in questo
colloquio che ci si trova talvolta di fronte a questa rabbia non risolta: abbiamo
incontrato persone che venivano per dimostrare al coniuge la loro superiorità,
oppure persone che cercavano primariamente uno sfogo alla propria rabbia, o
la possibilità di raccontare la loro versione dei fatti e i soprusi di cui erano state
vittime, soprusi talvolta molto reali e dolorosi, ma raccontati in un modo ancora
piuttosto lontano da una rappacificazione interiore e con l’altro, che lasciava
trasparire conflitti ancora aperti e ferite non rimarginate. Pur comprendendo e
accogliendo il dolore e la sofferenza di queste persone, abbiamo ritenuto che
non fosse opportuno farle partecipare al gruppo, perché facilmente lo
avrebbero trasformato in campo di battaglia, cercando alleanze o
monopolizzando la situazione. A loro abbiamo offerto piuttosto la possibilità di
incontri personali che potessero rappresentare un aiuto ad elaborare il vissuto,
attualmente bloccato sulla dimensione della rabbia, in prospettiva di un
eventuale futuro inserimento nel gruppo.
Una terza fotografia delle persone che incontriamo dopo la separazione è
quella di chi è triste, depresso, si colpevolizza per l’accaduto ed è incapace di
reagire. In realtà si tratta di persone ancora arrabbiate, sebbene le modalità e
la direzione dell'arrabbiarsi siano decisamente diverse dalla fotografia
precedente. La situazione di solitudine pesa molto, a volte si trasforma anche
in sofferenza fisica, ma capita che venga riconosciuta solo quando si tratta di
far fronte alle difficoltà dei o con i figli. Queste persone spesso ci contattano
proprio a partire dalle difficoltà di relazione o di gestione dei figli. Sappiamo che
uno dei compiti più ardui, ma imprescindibili, di due persone che si separano è
quello di ridefinire il legame di coppia, per continuare ad essere buoni genitori,
ma questo richiede una notevole maturità della persona, capacità di mantenere
una buona stima di sé nonostante l’accaduto, e di considerare primariamente i
bisogni dei figli anziché i propri. Senza una sufficiente consapevolezza e stima
delle proprie capacità genitoriali, le normali e comprensibili difficoltà educative
si trasformano in problemi insormontabili. A questo proposito abbiamo
l’esperienza di persone che, dopo aver partecipato agli incontri della “scuola
24
per genitori”, hanno chiesto un confronto personale ed un aiuto a ritrovare le
risorse dopo una separazione.
In sintesi ci pare di poter rileggere l’esperienza fin qui fatta all’interno del
Consultorio come l’incontro con il bisogno delle persone di trovare prima di
tutto un posto accogliente. La prima richiesta che raccogliamo è quella di non
essere giudicati, ma piuttosto capiti, ascoltati, sostenuti. Forse per questo
sperimentiamo la fatica ad accettare il percorso di gruppo: le situazioni sono
complesse, le persone sentono di aver bisogno di capire loro stesse cosa sia
accaduto, prima di raccontarlo ad altri, e questo ha bisogno di tempo e di uno
spazio di ascolto che non può essere condiviso con nessuno.
Citando Emery, possiamo affermare che bisogna che le persone “si sentano
tristi perché hanno perduto il loro matrimonio, si sentano in collera per tutto
quello che è successo, e tuttavia conservino ancora qualche tenero ricordo del
passato e qualche rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è
stato”1. Tenere insieme questi sentimenti contrastanti non è impresa semplice,
e il percorso non può essere affrettato.
Solo quando il vissuto legato all’esperienza della separazione è stato elaborato,
quando si è in parte sbloccato il mondo emotivo più profondo e trovato un certo
equilibrio, solo allora la persona è pronta a porsi domande che non riguardano
più tanto il passato, che non sono più tentativi di colmare il vuoto della perdita,
di trovare appoggio per le difficoltà contingenti o risarcimento per i torti subiti,
ma domande che aprono al futuro, alla speranza di una vita “piena”, piena di
senso e di possibilità.
Ed è nel dare voce a queste domande di futuro che assume un ruolo
fondamentale il gruppo, come condivisione delle stesse fatiche, incertezze e
speranze, come luogo dove far emergere anche la domanda di salvezza. Per
molti cristiani i sacramenti sono intesi come le uniche ed esclusive mediazioni
del rapporto con Dio e con la Chiesa. Di conseguenza l’esclusione è vissuta
come esclusione dalla Chiesa e dalla salvezza, e quindi sperimentata come una
forma di condanna senza appello ad un “non futuro”; nel gruppo e nel dialogo è
possibile invece guardare a se stessi come persone in ricerca e aprirsi alle
numerose possibilità di comunione e di partecipazione che la Chiesa offre.
Il gruppo è quindi un punto di arrivo e una nuova partenza: arrivo dopo avere
chiuso alcuni conti con il passato, e partenza verso la possibilità di un futuro.
Nel gruppo, dove sono presenti sia lo psicologo che aiuta a rivedere certe
dinamiche e ad immaginarne di nuove, sia il sacerdote, “esperto” della
relazione con Dio, è possibile fare esperienza di una Chiesa che si prende cura
dell’uomo e che propone percorsi di speranza che sappiano “contenere” anche
l’esperienza dolorosa del fallimento, che può così trasformarsi in occasione di
crescita.
1
R.E. EMERY, Il divorzio. Rinegoziare le relazioni familiari, trad. it. Franco Angeli, Milano, 1998,
pag. 54-55.
25
6. DALLA VIVA VOCE DI ALCUNI PARTECIPANTI
Dai questionari raccolti durante il percorso di uno dei gruppi, abbiamo scelto
alcune testimonianze:
“ Ho scelto di sposarmi perché credo nella famiglia Cristiana e desideravo
mettere al mondo dei figli. Lui si presentava molto bene e sembrava più
motivato di me. In realtà era la sua maschera per farsi solo servire e riverire,
con l’atteggiamento di colui che è sempre a posto e ha la capacità di farmi
sentire sempre inadeguata senza farmi mai capire il perché. E’ un gioco
psicologico terribile; continuavo a darmi da fare di più, ma non bastava mai.
Lavorava fuori casa tutto il giorno, mangiava al ristorante, tornava sempre
tardi la sera con la scusa che era sempre per il lavoro. In realtà non ero io che
non andavo bene, era lui che non voleva l’impegno della famiglia e voleva solo
essere libero di divertirsi. Questo gioco lo ha portato a bere sempre di più,
anche se ingenuamente io non me ne accorgevo ( sempre per la mia stupida
buona fede, sottomissione, paura della chiesa, di mia madre, ecc.). Sempre più
usava forme cattive di espressioni volgari nei confronti di tutta la mia famiglia.
Ho fatto di tutto per avvicinarlo a specialisti e luoghi adatti per aiutare lui e
tutta la mia famiglia, ma secondo lui l’unica matta ero io. Ho lasciato anche un
posto di lavoro molto buono e dopo gli ultimi terribili tre/quattro anni, ho
trovato uno psicologo che mi ha rimesso in sesto, così sono riuscita a fare il
passo per la separazione. Purtroppo ho trovato aiuto nella chiesa solo dopo che
io ho deciso con un medico psicologo. Prima i preti mi dicevano di portare
pazienza. Adesso ho trovato sacerdoti che sanno guardare la realtà della vita
soprattutto guardando il rispetto e la dignità della persona. Per il mio futuro mi
impegno innanzitutto a crescere meglio possibile i miei figli, dando loro la
possibilità di studiare fino all’Università secondo le loro aspirazioni; hanno già
sofferto molto e spero di non vederli più soffrire. Adesso sono sereni e questo
fa stare bene anche me, almeno fino a quando non cammineranno da soli nella
loro vita. Un giorno spero di incontrare un compagno con il quale condividere
tranquillamente le mie giornate, mi piacerebbe moltissimo viaggiare. Chissà!
Ringrazio con tutta me stessa i conduttori del gruppo... ! avete dato una mano
a Dio a manifestarsi come realmente E’! Un grande abbraccio”
Ag. “La mia partecipazione a questo gruppo si è rivelata molto positiva. Ho
trovato giovamento sia per un fattore psicologico sia nel comportamento mio
con i miei figli e la mia ex moglie. Positivo anche il rapporto avuto con gli altri
del gruppo, che con le loro esperienze mi hanno fatto maturare e non
chiudermi nel mio stato depressivo. Ringrazio tutti specialmente i facilitatori ...
Grazie a tutti, un altro anno con il gruppo mi darà ancora più sicurezza “
26
R. “E’ un incontro di persone che stanno attraversando un periodo “buio” della
propria vita, dove si possono trovare delle risposte e trovare un aiuto per
vivere o vedere la propria situazione sotto un’altra prospettiva. Condividere
insieme questo momento vuol dire non sentirsi soli ma compresi senza giudizi,
e magari leggere tra le righe che puoi farcela usando la propria forza che
sembra mancare ma che è già dentro in ognuno di noi “
At. “Al termine di questa esperienza voglio ringraziare tutti. In primis i nostri
due straordinari promotori e guide. Grazie per averci donato il vostro tempo e
la vostra fatica, non solo fisica, che un simile impegno ha richiesto Vi sono
grato per la delicatezza e l’umiltà con cui avete guidato i nostri incontri. Ho
fatto tesoro della vostra esperienza professionale e umana, ma quello che
sicuramente mi porterò nel cuore è il vostro amore per dei fratelli in difficoltà e
l’amore per quella culla della pace che è la famiglia. E infine, grazie a tutti voi,
anime altrettanto belle e ricche di vera umanità. Non ci ha fatto incontrare la
passione per il golf o il tifo per una squadra, ma il desiderio di capire, di capire
cosa stiamo vivendo capire come possiamo amare ed essere amati. E’ il
desiderio che, spesso inconsapevolmente, ha tutta l’umanità ma noi se siamo
qui è perché siamo chiamati a un amore più grande e questa stanza è il posto
giusto per ricominciare. Appeso qui c’è un Gesù crocifisso al quale abbiamo
aperto il cuore, offriamo a Lui le nostre difficoltà, le nostre quotidiane
contrarietà, le nostre lacrime. Si muteranno in gioia quando avremmo fatto
l’esperienza dell’immenso Amore che lui ha per noi e per tutti i fratelli. Spero di
poter continuare questo cammino insieme a tutti voi e al Signore e Lui che è
l’Amore ci doni la sua pace. Vi abbraccio tutti ciao”.
7. ALTRI PERCORSI DI CONDIVISIONE
a) La mediazione familiare
La mediazione familiare è un percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e
dopo la separazione o il divorzio, che ha come obiettivo quello di offrire agli ex
coniugi un contesto strutturato e protetto, in autonomia dall’ambiente
giudiziario, dove poter raggiungere accordi concreti e duraturi su alcune
decisioni, come l’affidamento e l’educazione dei minori, i periodi di visita del
genitore non convivente, la gestione del tempo libero, la divisione dei beni.
L’intervento viene effettuato con entrambi i partner e, quando il mediatore lo
ritenga necessario, anche con i figli, riconoscendo il ruolo attivo che essi
svolgono all’interno della dinamica familiare.
Il fulcro di ogni processo di mediazione è lo spostamento delle persone da una
contrapposizione di posizioni a una collaborazione per generare risposte
efficaci per la soluzione di un problema. Per effettuare questo spostamento
occorre superare le posizioni iniziali e iniziare un percorso di analisi degli
interessi. È solo dall’identificazione delle esigenze, dei bisogni che sono sottesi
27
alle posizioni che si può identificare un problema a cui cercare una risposta.
E’ un percorso che si struttura in varie tappe e il tutto deve essere svolto in un
tempo definito (10 -14 incontri, in un lavoro che dura circa tre-sei mesi).
Il mediatore familiare lavora per favorire la riorganizzazione delle relazioni
familiari: la famiglia è in un momento di crisi in cui effettivamente alcuni
legami si rompono, altri si creano, ma il legame genitoriale durerà sempre.
Proprio per conservare integro questo legame bisogna aiutare i membri della
coppia ad affrontare la faticosa impresa di scindere il ruolo di coniuge da quello
genitoriale, trovando delle modalità e degli accordi affinché questo ruolo venga
esercitato nel miglior modo possibile. Per far questo occorre che il mediatore
sia capace di mantenere sempre al centro dell’interesse i figli con i loro bisogni,
anche se questi ultimi non possono essere disgiunti da quelli dei loro genitori.
Per compiere un percorso di mediazione è necessario che la coppia abbia già
preso la decisione di separarsi e che si siano mossi in tal senso.
I colloqui prevedono la costante presenza di entrambi i membri della coppia e
del mediatore.
Il mediatore si pone in una posizione di neutralità o, meglio, di equidistanza da
entrambi i genitori, deve essere capace di empatia con l’uno e con l’altro in
modo da riportare equilibrio ogni volta che una parte tenta di sovrastare l’altra,
scardinando il clima di contrapposizione e di disputa.
La mediazione familiare non può essere coatta, può essere suggerita,
consigliata e le persone devono potersi rivolgere liberamente alla mediazione.
Il mediatore familiare è tenuto al segreto professionale. Egli non può
testimoniare in tribunale rispetto alle informazioni ottenute dall’uno o dall’altro
membro della coppia
Non è tenuto a dare informazioni sull’esito della
mediazione né agli avvocati né tantomeno al giudice. Egli opera affinché i
partner elaborino in prima persona una soddisfacente soluzione per sé e per i
propri figli, partendo dal presupposto che nessuno meglio dei genitori può
sapere quel che è bene per i propri figli.
Tuttavia, quando si è travolti da sentimenti di rabbia, disperazione, impotenza,
è difficile vedere una soluzione positiva. Il mediatore deve allora far emergere,
dietro la corazza delle posizioni, la dimensione di bisogno e di desiderio, che
permetta ai genitori di confrontarsi sul futuro dei loro figli permettendo di
giungere a delle concrete soluzioni.
Quali sono, allora, i vantaggi della mediazione?
Aiuta a superare la logica di un vincente e di un perdente; fa riscoprire le
proprie risorse e acquisire stima di sé; procura un’atmosfera positiva di
discussione di cui beneficiano i figli; riduce i rischi di vedere i genitori utilizzare
i figli come moneta di scambio nel corso della negoziazione a seguito della
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separazione; riduce l’ansia di fronte all’ignoto assicurando alla coppia il
controllo del proprio avvenire; permette di restituire ai genitori le decisioni
riguardanti i loro figli e il loro avvenire.
Procura, infine, un’intesa adatta ai bisogni specifici di ogni famiglia e mette
basi positive se nel futuro gli accordi dovessero essere rivisti.
Il valore della mediazione familiare sta quindi nel fatto che dà fiducia ai
genitori, riconoscendoli capaci di occuparsi in prima persona dei loro figli,
restando protagonisti e responsabili delle scelte relative alla loro famiglia.
Permette di mantenere vivi i legami dopo la separazione in un clima di
reciproco rispetto e, infine, rappresenta un’occasione positiva di diffusione di
una cultura della responsabilizzazione della famiglia anche nei momenti di
crisi.
Per concludere. si può affermare che la mediazione familiare e’ utile in tutte le
fasi del processo di separazione, anche se è opportuno che venga utilizzata il
più precocemente possibile. Essa non ha lo scopo di eliminare il conflitto e di
negare i motivi di rabbia o le cause della sofferenza, ma di accompagnare le
persone in un difficile passaggio fornendo loro un luogo ed un tempo dove sia
possibile preservare quello che di positivo è stato distribuito nel legame tra i
membri della famiglia e valorizzare le competenze genitoriali. E’ quindi un
percorso di prevenzione per il presente e futuro benessere dei figli.
b) I gruppi di parola
La mediazione familiare è un percorso focalizzato, prima di tutto, sulla coppia
genitoriale, in una delicata fase di transizione della vita famigliare, oltre che sui
legami e i rapporti intergenerazionali.
Accade, sovente, che i genitori che intraprendono un percorso di mediazione
familiare, chiedano aiuto su come e quando parlare ai figli della separazione,
quali parole usare, quanto addentrarsi nelle spiegazioni, come proteggerli dalle
sofferenze, come affrontare con loro i cambiamenti.
Chi accompagna le persone in situazione di separazione e divorzio è messo
spesso a confronto con queste richieste, più o meno esplicite: ci si interroga di
continuo sull’opportunità che il mediatore possa incontrare i figli (bambini o
adolescenti) all’interno del percorso di mediazione e su come sia appropriato
realizzare questo incontro e questo tipo di ascolto. Il mediatore pondera, a
seconda delle circostanze e degli obiettivi (oltre che del proprio modello di
formazione), l’opportunità o meno di coinvolgere i figli in tale percorso, con
tutte le attenzioni del caso.
Vi sono situazioni particolarmente “a rischio” per i figli, laddove rimangono
“incastrati” nei conflitti degli adulti, nei loro silenzi carichi di tristezza, rabbia,
confusione; non riescono spesso a decifrare i comportamenti dei genitori che
costituiscono, per i figli (e dovrebbero continuare a costituire), la fonte primaria
di sicurezza, attaccamento e amore, indispensabili per una crescita serena ed
29
equilibrata. Ci sono, ancora, situazioni in cui gli stessi adulti sono in una
condizione di grande sofferenza emotiva e psicologica, oppure vivono in uno
stato depressivo o ansioso, tanto da non riuscire, in questa fase, a trasmettere
la calma sufficiente per affrontare i mutamenti in atto, caricando i figli, seppur
involontariamente, di sofferenze e frustrazioni.
E’ proprio in tutti questi contesti che si profila l’importanza di proporre un
“contenitore” sufficientemente sicuro che permetta di incontrare, accogliere ed
ascoltare bambini e ragazzi che stanno, a loro volta, vivendo la separazione dei
genitori. Tali “contenitori” sono chiamati Gruppi di Parola.
Cos’è un Gruppo di Parola?
È un luogo con caratteristiche idonee per lo scambio e il sostegno di bambini e
ragazzi i cui genitori sono separati o divorziati. Si offre uno spazio ed un tempo
definito in cui possono esprimere la loro rabbia e il loro dolore, mettere parola a
sentimenti, inquietudini, paure, confrontandosi con altri coetanei cui è capitata
una vicenda simile e rendersi conto che la divisione di mamma e papà è un
percorso lungo e complesso, che fa soffrire ma del quale si può parlare e che
soprattutto può essere superato riconquistando la serenità.
In questo spazio i bambini raccontano liberamente cosa sanno della
separazione, come si difendono e come affrontano le conseguenze. Escono
dall’isolamento e trovano una rete di scambio e sostegno tra pari.
All’interno del gruppo, attraverso stimoli opportunamente predisposti dai
conduttori del gruppo (uno oppure due), i bambini possono esprimere
emozioni, difficoltà, ragionamenti, timori che stanno vivendo, con la parola, il
disegno, la scrittura, la lettura e i giochi di ruolo; possono porre delle domande
e ricevere risposte, conferme, informazioni.
Innanzitutto il conduttore (o i conduttori, che sono professionisti esperti di
famiglie separate e/o ricostituite opportunamente formati) organizza la
composizione del gruppo, non senza prima aver ricevuto il consenso da
entrambi i genitori. Ogni gruppo è costituito da un minimo di 4 ad un massimo
di 8 o 10 bambini (a seconda del numero dei conduttori). I bambini devono
essere in età scolare, poiché devono saper leggere e scrivere, per poter
partecipare alle attività proposte. Non ci possono essere più di due fratelli in
ogni gruppo. La suddivisione dei bambini e ragazzi partecipanti al gruppo
avviene per fascia di età, dai 6 agli 11 anni oppure dagli 11 ai 14 anni.
Gli incontri sono quattro, a cadenza settimanale, di due ore ciascuno.
Il percorso coinvolge direttamente anche i genitori, ai quali è dedicato un
tempo nell’ultimo incontro per uno scambio tra genitori e figli e alla fine del
percorso, se lo desiderano possono avere un colloquio individuale con il
conduttore/i del Gruppo di Parola.
Gli incontri avvengono in una stanza accogliente che disponga di sedie, tavoli,
tappeti, cuscini, materiale vario di cancelleria, libri per bambini.
Gli obiettivi e le finalità più importanti di questi gruppi sono:
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 abbattere il muro dell’isolamento, favorendo un contatto con altri
bambini che vivono o che hanno vissuto la separazione dei loro genitori;
 permettere al bambino di avere uno spazio per imparare a riconoscere le
proprie sensazioni e ad esprimere le proprie emozioni per poterle
affrontare più adeguatamente;
 permettere al bambino di informarsi per capire meglio quanto accade e di
imparare a liberarsi dalle conflittualità in cui si può venire a trovare;
 diminuire i propri timori di fronte ai sensi di colpa e di responsabilità
correlati alla separazione;
 sostenere il bambino nelle tappe del cambiamento;
 favorire quei meccanismi che consentono al bambino una maggior
adattabilità al suo vissuto aiutandolo a trovare delle risorse e invitandolo
ad un maggiore dialogo con i genitori e con gli adulti che lo circondano.
La diffusione e l’adesione sempre maggiore ai Gruppi di Parola è motivo
costante di riflessione.
La Parola ci fonda come soggetti fin dalla nascita.
Dare un nome a un bambino è consegnargli un’identità. Perciò, riconoscere,
comprendere e nominare ciò che avviene intorno a sé, a partire dall’ambiente
famiglia, è un passaggio cruciale per la sua crescita, diventa un modello per il
suo progettarsi come persona ed il suo modo di vivere le relazioni.
Nel Gruppo di Parola i bambini vivono un’esperienza comune, una storia unica.
Alcuni non hanno voglia di parlare di separazione, ma ascoltano bambini che
raccontano la propria storia. Hanno la possibilità, in gruppo, di trovare insieme
le parole che mancavano, di elaborare insieme strategie per sentirsi meno soli,
meno tristi; si sostengono a vicenda, ridimensionando i sensi di colpa e le
paure legate alla quotidianità. Possono parlare a ruota libera di argomenti su
cui spesso vengono tacciati (la speranza che i genitori tornino insieme, i dubbi
che i genitori pensino più ai nuovi fidanzati che a loro, il timore di non essere
abbastanza leali con il genitore non convivente ecc.)
E’ importante che i bambini possano parlare. Il bambino ascoltato è
riconosciuto: gli permette di scaricare il peso che porta sulle spalle, ridurre gli
ambiti di preoccupazione, gestire meglio emozioni ed eventuali ansie.
La “confidenzialità” è una regola all’interno del gruppo; i bambini sanno che
non devono svelare i segreti degli altri bambini, non devono ridere delle parole
dette dagli altri, si ascolta quando gli altri parlano.
I Gruppi di Parola sono gruppi di sostegno e scambio e non di psicoterapia; essi
possono essere annoverati negli interventi di prevenzione: sono strumenti di
prevenzione al disagio psicosociale, in un lavoro di riorganizzazione dei legami,
poiché fanno leva, prima di tutto, sulle potenzialità insite nella socializzazione e
nel senso di appartenenza al gruppo di pari.
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Nel gruppo, infatti, i bambini possono vivere un’esperienza emotiva che
modifica, consolida e rafforza funzioni del sè: il controllo delle emozioni e le
capacità di adattamento migliorano.
Il Gruppo permette, infine, di sviluppare un’azione comune per agire sulla
realtà piuttosto che subirla, ogni membro del gruppo sente di aver bisogno
dell’altro per raggiungere gli obiettivi. Queste dinamiche sono analoghe, con le
dovute proporzioni, a quanto si è già detto del gruppo di condivisione per gli
adulti: il gruppo, infatti, diventa “terzo” e permette di mettere della distanza
con la propria storia.
L’operatore, oltre a condurre gli incontri, cerca di stimolare i bambini ed i
ragazzi con spunti semplici e chiari, utilizzando metafore e giochi che attirino
l’interesse dei partecipanti (l’uso della scatola dei segreti, il racconto da finire,
il disegno da completare, la lettera ai genitori…) garantendo la riservatezza,
talvolta l’anonimato, in modo che davvero i ragazzi possano esprimere ciò che
provano e che vorrebbero dire riguardo un evento difficile da accettare, da
capire, da elaborare; deve incoraggiare le competenze dei bambini, quelle dei
genitori e delle persone del loro ambiente di riferimento; deve ricercare le
risorse interne ed esterne sulle quali il bambino può contare, può appoggiarsi,
capire con chi sono in relazione, avere un ruolo di facilitatore o di protezione,
senza scivolare su livelli interpretativi o giudicanti.
8. CONCLUSIONI
Le esperienze dei gruppi di condivisione condotte in questi anni a Verona,
supportate da un ampia bibliografia, hanno dimostrato che i gruppi possono
essere luoghi dove le battaglie, le guerre e le ferite vengono condivise. Questo
attenua la rabbia, l’aggressività, fa sentire meno soli, dà un senso e un
significato al dolore e aiuta a ricostruire, a progettare.
Per tutti ma, soprattutto, per i credenti il fallimento del proprio matrimonio, con
conseguente separazione o divorzio, è un dramma in quanto all’aspetto umano
si aggiunge quello spirituale, con il forte rischio di venirsi a trovare davanti ad
una Chiesa e ad una società che rischiano di essere “più giudicanti” che
“accoglienti”.
I Gruppi di condivisione, insieme ad altre esperienze di accoglienza e ascolto,
come la mediazione familiare e i gruppi di parola possono essere una “buona
prassi” per dare alle persone coinvolte in questi situazioni motivi di speranza.
Queste tecniche fanno entrare in una filosofia di vita che aiuta ad affrontare la
conflittualità quotidiana non in un’ottica di prevaricazione sull’altro (“ho
ragione io!”), ma in un’ottica di comprensione e accoglienza dell’altro come
persona con la sua storia e le sue motivazioni. È, in definitiva, un pensiero che
aiuta a guardare al mondo non come “campo di battaglia” ma come un
possibile “campo di pace”.
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Certo, le tecniche si possono migliorare, ci sono senz’altro spazi che ancora
devono essere sviluppati, approfonditi, ampliati, ma il punto di partenza,
ovvero la mano accogliente con cui sono state aperte le porte agli amici del
gruppo, può diventare contagioso: come le chiusure generano altre chiusure,
così le aperture creano passaggi, ponti, spazi aperti che, a loro volta, suscitano
calore, fiducia, speranza!
Qualsiasi percorso, compreso quello di fede, se intrapreso con profondità e
impegno è faticoso: se fatto insieme, in una Chiesa che cammina insieme, ogni
persona riesce a trovare il senso e la forza per raggiungere mete importanti,
anche quella di “trasmettere il valore famiglia” alle giovani generazioni,
nonostante tutto.
9. BIBLIOGRAFIA
a) Separazione e divorzio
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