1|2012 - Esperienze d`Impresa

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1|2012 - Esperienze d`Impresa
1|2012
1|2012
Nuove modalità di dialogo banca-impresa: il ruolo
degli asset familiari CARMEN GALLUCCI - GABRIELLA NAVE ROSALIASANTULLI|LA FILANTROPIA INFLUENZA LE SCELTE DEGLI
INDIVIDUI? CONSIDERAZIONI ALLA LUCE DI UN ESPERIMENTO
DI ULTIMATUM GAME | MARIO TESTA - ANTONIO D’AMATO | UN
MODELLO DI SIMULAZIONE PER LA QUANTIFICAZIONE DEI
BENEFICI DELLA FIDUCIA NELLE SUPPLY CHAIN DISTRETTUALI
| ANTONIO CAPALDO - ILARIA GIANNOCCARO | La genesi dei
sistemi territoriali vitali. L’Accordo di Reciprocità
“Piana del Sele-Paestum” MARCO PELLICANO - MARIA V.
CIASULLO - GIULIA MONETTA | Il contributo dei certificati
bianchi al miglioramento dell’efficienza energetica
in italia STEFANIA SUPINO - ORNELLA MALANDRINO - DANIELA
SICA | Capacità di innovazione, clima organizzativo
e distanza culturale: un’analisi esplorativa nel
contesto dell’industria farmaceutica bice della piana
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ESPERIENZE D’IMPRESA
1/2012
NUOVE MODALITÀ DI DIALOGO
BANCA-IMPRESA:
IL RUOLO DEGLI ASSET FAMILIARI*
• CARMEN GALLUCCI
PROFESSORE ASSOCIATO DI FINANZA AZIENDALE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
• GABRIELLA NAVE
PHD STUDENT IN MARKETING E COMUNICAZIONE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
• ROSALIA SANTULLI
PHD STUDENT IN MARKETING E COMUNICAZIONE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
Sommario: 1. Premessa; 2. Le scelte finanziarie delle imprese familiari; 3. L’evoluzione
della relazione impresa familiare-sistema creditizio; 4. Il valore delle imprese familiari
nella prospettiva degli intermediari finanziari; 5. La comunicazione economicofinanziaria per la valorizzazione dei family asset; 6. Conclusioni.
ABSTRACT
In light of the numerous legislative measures that, over time, have affected the banking
sector with obvious implications on the relationship with the firms, this paper intends
to propose some reflections on the connection between banks and family businesses.
This type of firms, preferring the bank borrowing, cannot ignore new ways of dialogue
to establish with banking system, which give an increasingly weight to intangible asset.
Therefore this paper aims to highlight what are the family asset and how these have
to be communicated to strengthen the relationship with the bank .
KEY WORDS Family business | leverage | relationship lending | family asset | family
risk.
1. Premessa
Negli ultimi anni si sta assistendo alla transizione da un modello economico-finanziario basato sull’attività bancaria ad un processo che pone al
centro dei meccanismi di finanziamento-investimento il mercato. È, infatti, sempre maggiore l’interesse mostrato dalle imprese nei confronti
–––––––––––
*
Il lavoro, benché frutto di riflessioni comuni agli Autori, può essere così attribuito: il
paragrafo 2 a Gabriella Nave, i paragrafi 3 e 4 a Carmen Gallucci, il paragrafo 5 a Rosalia
Santulli. La premessa e le conclusioni sono comuni agli Autori.
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del mercato dei capitali e degli strumenti in esso negoziati, frutto della
consapevolezza acquisita dalle stesse riguardo alla necessità di ricorrere ad
un canale diretto nel reperimento di risorse, della diffusione di strumenti
e meccanismi innovativi, e soprattutto dei numerosi interventi legislativi
finalizzati ad una regolamentazione omogenea dell’intero sistema. All’interno di questi sistemi economico-finanziari open market, fondati cioè
prevalentemente sui circuiti diretti, le imprese possono reperire capitali sia
a titolo di rischio sia col vincolo del debito, senza l’intermediazione di operatori finanziari (Oriani, 1999). Tale pratica risulta ampiamente diffusa nei
Paesi anglosassoni, dove i mercati finanziari sono in grado di sostenere i
meccanismi di domanda e di offerta di capitali e di garantire il finanziamento del settore produttivo minimizzando i costi dell’intermediazione
(Kregel, 1996), diversamente da altri contesti socio-economici, tra cui l’Italia. Nel nostro Paese, infatti, prevale ancora un sistema negoziated loan
market (Valentinuz, 2000), all’interno del quale l’acquisizione e l’erogazione di capitali sono svolte principalmente da intermediari di estrazione
bancaria, che talvolta rappresentano gli unici interlocutori. Tale scelta, se
è vero che preclude alle imprese la possibilità di accedere al mercato finanziario, permette loro, grazie alla presenza di un intermediario, di costruire un rapporto personale all’interno del quale le condizioni contrattuali
possono essere di volta in volta modificate a seconda delle circostanze e
delle esigenze degli operatori (Demattè et al., 1993), a differenza delle
transazioni impersonali che avvengono nei circuiti finanziari diretti.
In Italia, la diffusione di un circuito finanziario “bancocentrico” è riconducibile agli interventi in materia di legislazione tributaria, che hanno contribuito ad incrementare il ricorso delle imprese al credito bancario, ma
soprattutto alla struttura e alla cultura tipicamente familiare che contraddistingue il nostro tessuto imprenditoriale.
Alla luce di quanto sin qui esposto e in considerazione anche dei numerosi
interventi legislativi che hanno trasformato il settore bancario, sia sul piano
del riassetto proprietario e operativo, sia sul piano della gestione del rischio
che, con l’avvicendarsi degli Accordi di Basilea, spinge sempre più verso
una maggiore attenzione e ponderazione degli asset intangibili, il presente
lavoro intende proporre alcune riflessioni sul rapporto banca-imprese familiari. Quest’ultime, contraddistinte da risorse firm e family specific, non
possono trascurare di instaurare con il sistema bancario nuove modalità di
dialogo meglio in grado di enfatizzarle, al fine di rafforzare la relazione
con tale sistema e ridurre quell’asimmetria informativa, generatrice di maggiori costi e, quindi, causa di distruzione di valore.
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NUOVE MODALITÀ DI DIALOGO BANCA-IMPRESA: IL RUOLO DEGLI ASSET FAMILIARI
2. Le scelte finanziarie delle imprese familiari
Le imprese familiari rivestono, tanto nelle economie avanzate, quanto nei
Paesi in via di sviluppo, una posizione di primario rilievo1. Esse rappresentano, infatti, circa il 70% delle imprese mondiali (Family Firm Institute) e
il 60% di quelle europee. In Italia, in particolare, il capitalismo familiare2
si attesta intorno all’82% (Family Business International Monitor, 2008),
contribuendo in maniera rilevante alla crescita del PIL e alla creazione di
nuovi posti di lavoro (AUB, 2011)3.
La letteratura manageriale italiana (Gnan e Montemerlo, 2008; Corbetta
e Montemerlo, 2009; Montemerlo, 2009; Tardivo e Cugno, 2011), riconoscendo nel family business l’essenza del tessuto imprenditoriale del nostro Paese, nel tempo, ha delineato alcuni suoi tratti distintivi. L’elemento
che più di ogni altro è risultato contraddistinguerle e differenziarle dalle
non-family è rappresentato dall’interazione tra il sistema famiglia e il sistema impresa, sintetizzato nel concetto di family involvement (Montemerlo, 2009; Corbetta, 2010), che si sostanzia nella presenza dei membri
della famiglia nella proprietà e nel governo dell’impresa (Structure-based
Approach), nonché nella capacità degli stessi di influenzare obiettivi e decisioni di lungo periodo (Intention-based Approach) (Litz, 1995; Weasthead, 1997). Tale caratteristica è foriera di una serie di vantaggi
riconducibili ad una maggiore flessibilità aziendale, derivante dalle elevate
capacità di adattamento che contraddistinguono la gestione; alla predisposizione a creare un “humus fertile” per la nascita e lo sviluppo di rapporti interpersonali; ad uno spiccato orientamento ad attirare risorse
fondamentali sia umane che materiali (Del Giudice, 2011); e ad un’elevata
autonomia decisionale, legata alla scarsa apertura del capitale a terzi soggetti esterni alla famiglia e alla tendenza all’autofinanziamento (Bracci,
2007). Relativamente a quest’ultimo punto è, infatti, noto che le imprese
familiari manifestino una spiccata avversione alla perdita del controllo
aziendale (Berger e Udell 1998; Miglietta, 2009) e per questo privilegino,
nella composizione della struttura finanziaria, elemento tanto propulsivo
quanto depressivo delle potenzialità di sviluppo del business (D’Amato,
2009), il ricorso al reinvestimento degli utili non distribuiti. Tale scelta,
resa possibile dalle ridotte dimensioni che generalmente contraddistinguono le imprese familiari4, consente loro di godere di una certa indipendenza economica e di una maggiore libertà di azione, in quanto esenti
da pressioni esterne derivanti dal mercato azionario (Bracci, 2007). Tale
autonomia può talvolta rivelarsi uno svantaggio, allorquando il patrimonio familiare risulti insufficiente a supportare la crescita e lo sviluppo del-
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l’impresa di famiglia ed emerga, quindi, la necessità di reperire ulteriori
fonti di finanziamento. In tale circostanza, l’utilizzo del capitale di rischio
è limitato5 (Gualandri e Schwizer, 2008) a causa, da un lato, della miopia
che caratterizza i possibili investitori, portati a misurare il grado di affidabilità di un’azienda quasi esclusivamente in funzione delle sue disponibilità patrimoniali e reddituali, tralasciando le reali opportunità
imprenditoriali; dall’altro, di una reticenza mostrata dal capitalismo familiare all’apertura verso l’esterno. Pertanto, le imprese familiari scelgono
prevalentemente di fronteggiare le problematiche e le necessità di carattere finanziario aumentando l’esposizione debitoria. La voce “debiti” rappresenta, infatti, circa il 50% del passivo ed è prevalentemente indirizzato
verso il sistema bancario (Preda, 2011). Risulta, inoltre, sbilanciato verso
il breve termine e frazionato in una pluralità di rapporti bancari; la quota
a medio termine privilegia invece la forma del mutuo, rendendo marginale
il ruolo dei prestiti obbligazionari (Miglietta, 2009).
Si assiste così al prevalere di un modello di proprietà chiusa in cui il patrimonio dell’imprenditore si fonde con quello dell’impresa e la struttura finanziaria diventa uno strumento utilizzato dalla famiglia per garantirsi il
controllo su un insieme esteso di attività (Marseguerra, 2004).
Di fronte ai propri bisogni finanziari, sembrerebbe quindi che le imprese
familiari seguano un ordine gerarchico (Pecking Order Theory) riconducibile
all’esistenza di asimmetrie informative (Ang, 1991; Watson e Wilson, 2002;
Hall et al., 2004; Miglietta, 2009). Esse, infatti, nel perseguire la struttura
finanziaria ottimale, si affidano ad uno schema gerarchico ben preciso,
privilegiando il finanziamento interno e optando per il finanziamento
esterno solo laddove necessario, ricorrendo dapprima al debito e solo in
ultima istanza all’emissione di azioni (Domenichelli, 2008). È chiaro che
l’adozione della teoria dell’ordine di scelta nell’individuazione delle fonti
di finanziamento, da parte delle imprese familiari, non comporta l’esistenza
di una combinazione ottimale tra debito e capitale netto, ma è meglio
spiegata dalla volontà della famiglia di mantenere il controllo e la flessibilità dell’azienda. Le imprese familiari, infatti, sperimentando più elevati
costi transazionali e comportamentali nell’aumentare l’equity esterna, mostrano un’avversione all’apporto di capitali provenienti dall’esterno, derivante anche dal timore di cadere in un’acquisizione ostile.
In conclusione, l’evidenza suggerisce che le imprese familiari italiane risultano sottocapitalizzate e indebitate prevalentemente verso il sistema
creditizio6 e privilegiano fonti di finanziamento tradizionali che coinvolgono il patrimonio familiare in termini di garanzie reali.
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NUOVE MODALITÀ DI DIALOGO BANCA-IMPRESA: IL RUOLO DEGLI ASSET FAMILIARI
3. L’evoluzione della relazione impresa familiare-sistema creditizio
Le imprese familiari, tendenzialmente chiuse al capitale di rischio, trovano,
quindi, da sempre nel sistema bancario la principale fonte di finanziamento. Il loro rapporto con il mercato creditizio è stato tradizionalmente
caratterizzato da relazioni di credito frammentate, secondo un modello in
cui era assente la banca di riferimento. La relazione esclusiva con una o
due banche rappresentava, infatti, negli anni passati un fenomeno alquanto raro7: più spesso l’impresa preferiva ricorrere al multiaffidamento
(Ruozi, 1997), fenomeno caratterizzato dall’instaurarsi di un legame con
più banche. Tale pratica era motivata, da un lato, dalla necessità espressa
dalle imprese di ottenere maggior credito, dall’altro, dalla decisione delle
banche di costruire un attivo diversificato al fine di limitare il rischio specifico di controparte: il multiaffidamento poteva, cioè, risultare la soluzione
migliore per finanziare un maggior numero di progetti e raggiungere un
maggior grado di diversificazione. Naturale conseguenza di tale prassi è
stata la diffusione di modelli transazionali, concentrati sulla economicità
della singola relazione, secondo una logica di mercato, piuttosto che sulla
creazione di una relazione intensa con l’impresa (Boot e Thakor, 2000);
nonché l’instaurarsi di legami deboli e frammentati tra banche e imprese,
che si traducevano in una parcellizzazione della relazione (De Cecco e Ferri,
1994) e nella difficoltà evidente per gli istituti di credito di beneficiare di
vantaggi informativi nei rapporti con i clienti. La diffusione del modello
del transactional-banking (Detragiache et al., 2000; Belcredi, 2001) è stato,
inoltre, agevolato dalla particolare configurazione che ha caratterizzato il
mercato del credito italiano fino agli anni ’90: altamente frammentato e
dominato dalla proprietà pubblica, nella concezione dell’attività creditizia
come pubblico servizio (Pace, 2009). Il processo di privatizzazione ha investito, infatti, il settore bancario solo a partire dagli inizi degli anni Novanta, attraverso l’emanazione della nuova legge bancaria che ha sancito
la natura d’impresa dell’attività bancaria e il principio della despecializzazione (Castaldi, 1997), consentendo alle banche di addentrarsi in nuovi
orizzonti operativi e di effettuare operazioni considerate in passato proibite
a causa, per l’appunto, della specializzazione, rendendole competitive rispetto agli intermediari stranieri (Mottura, 1986).
In quegli anni si avvertiva, infatti, la necessità di una riforma dell’intero
quadro normativo in materia creditizia, fermo alla legge bancaria del 1936,
che avrebbe dovuto facilitare un cambiamento del modello di relazione
tra banche e imprese (Campanella, 2011). Le riforme legislative, introdotte
alla fine degli anni Novanta, sono sembrate andare in quella direzione,
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CARMEN GALLUCCI -GABRIELLA NAVE -ROSALIA SANTULLI
comportando una profonda trasformazione della struttura creditizia e finanziaria (Rossi e Tarantola Ronchi, 1998): diffusione delle piccole banche
sui mercati locali del credito, come conseguenza della rimozione di vincoli
alla costituzione di nuove banche; concentrazione delle grandi banche in
gruppi di rilevanti dimensioni.
Il processo di diffusione e concentrazione del sistema creditizio è stato,
inoltre, accompagnato dall’evolversi della regolamentazione inerente la
stabilità del sistema bancario, nell’ambito della quale un ruolo di rilievo
hanno assunto gli Accordi di Basilea, finalizzati ad offrire una disciplina
unitaria al sistema creditizio a livello internazionale. A partire da Basilea I,
che già nel 1988 aveva sancito l’introduzione di un meccanismo di collegamento tra patrimonio della banca e rischio presente nella sua attività,
per la tutela dell’istituto, dei risparmiatori e del sistema finanziario nel suo
complesso, il Comitato ha poi cercato, nel tempo, di regolamentare l’attività delle banche con conseguenti riflessi nei rapporti delle stesse con le
imprese. In particolare, con l’Accordo di Basilea II, che superava un evidente
limite del precedente accordo, sintetizzabile nella presenza di un sistema
di ponderazioni equivalenti per tutte le esposizioni della banca, si è palesata un’opportunità di rinnovo e miglioramento del sistema bancario fondata sull’ampliamento delle relazioni tra banche e imprese. Basilea II ha
spinto, infatti, le banche a dedicare più attenzione ai meccanismi di valutazione e gestione dei rischi e ad adottare sofisticati sistemi per la selezione
dei crediti e la determinazione dei tassi di interesse coerenti con il profilo
di rischio dei prestatori di fondi. Ha introdotto, inoltre, due approcci differenti per la determinazione del rischio di credito: il New Standardized
Approach, basato su rating esterni e su tecniche di mitigazione dei rischi
attraverso una più articolata struttura di ponderazioni; e gli Internal Ratings-Based Approaches (IRBA), basati sulle valutazioni quantitative e qualitative del rischio, sviluppate internamente dalle singole banche.
L’istituzionalizzazione di quest’ultimo è stata ribadita anche in Basilea III,
nel legiferare ulteriormente il rapporto tra banche e imprese.
Gli accordi, pur rivolgendosi alle banche, in qualità di soggetti passivi, indirettamente hanno investito e investono tuttora le imprese, in quanto
sempre più orientati a premiare quelle più meritevoli. Ciò pone le imprese
dinanzi alla consapevolezza di essere sottoposte ad un giudizio di merito
creditizio che non dipende più solo dall’intimità della singola relazione di
mercato, bensì dal rigore di un processo valutativo alla base del calcolo
del capitale di vigilanza (Caselli, 2005).
In tale prospettiva, le imprese familiari hanno dinanzi a sé l’onere di costruire e sviluppare competenze finanziarie sia in termini di pianificazione
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NUOVE MODALITÀ DI DIALOGO BANCA-IMPRESA: IL RUOLO DEGLI ASSET FAMILIARI
e controllo, che di comunicazione. Mentre le prime determinano le condizioni oggettive (patrimoniali, monetarie e reddituali), sulla cui base viene
assegnato il rating da parte degli intermediari finanziari, le seconde influenzano il processo di conoscenza del valutatore, contribuendo a ridurre
la probabilità che le percezioni di quest’ultimo siano significativamente
diverse dalla realtà (D’Amato, 2009). La corretta rappresentazione dell’attivo e del passivo nei bilanci e la netta separazione tra il patrimonio familiare e quello aziendale costituirebbero, ad esempio, strumenti utili alle
imprese per un’efficace comunicazione economico-finanziaria, oltreché
due aspetti rilevanti che le norme dell’Accordo richiedono necessariamente
(Di Mascio, 2007). Disporre, inoltre, di sistemi di rating volontari, rappresenterebbe un vantaggio ulteriore nel dialogo con le banche, a patto, però,
che le imprese si assicurino che le analisi degli istituti di credito non si arrestino esclusivamente ai flussi informativi desumibili dai dati quantitativi,
ma indaghino anche gli aspetti qualitativi, meglio esprimibili attraverso la
costruzione di una relazione diretta. Ciò sembra risultare più semplice nel
rapporto con gli istituti di minori dimensioni che hanno preferito non
adottare modelli di rating basati sull’analisi di hard information, optando
per modelli standard, meno evoluti e costosi, che lasciano un maggiore
spazio alla valutazione degli aspetti qualitativi del merito creditizio, ossia
di quei fattori che rendono i family business più competitivi (Campanella,
2011). Le banche locali, infatti, nate dal processo di diffusione del sistema
creditizio, avendo un centro decisionale più prossimo alle piccole imprese
locali, utilizzano informazioni qualitative raccolte mediante contatti diretti
(soft information), a differenza delle banche di rilevanti dimensioni8. Esse,
difatti, adottano un approccio relazionale (relationship lending) fondato
su frequenti e intensi rapporti con le imprese, consolidando una conoscenza personale e di lungo periodo (Bhattacharya e Thakor, 1993; Berger
e Udell, 1994; Boot, 2000; Boot e Thakor, 2000; Yafeh e Yosha, 2001; Ongena e Smith, 2001; Elsas, 2005).
Gli Accordi hanno, inoltre, trasformato il rapporto delle imprese familiari
con gli istituti di credito, spingendole a ridurre la multibancarizzazione e
ad accrescere la propensione all’investimento, e spronandole a chiedere
alle banche servizi sempre più mirati alle loro specifiche esigenze (Di Mascio, 2007); le banche, di risposta, si sono attivate per soddisfare tali richieste attraverso l’offerta di servizi innovativi di corporate/private e
investment banking. Inoltre, nella volontà di costruire un percorso di fidelizzazione di medio/lungo termine, propongono alle famiglie imprenditoriali offerte composite, anche attraverso la realizzazione di strutture
dedicate, quali i family office, in grado di rispondere a tutte le esigenze
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derivanti dalla trinomia impresa-famiglia-patrimonio (Tardivo e Cugno,
2011). Al fine di distinguersi in un mercato in cui l’offerta di prodotti e
servizi bancari viene percepita come indifferenziata e sposando una prospettiva relationship lending, alcune banche9, nel concreto, si sono attivate
nella formazione di professionisti e nell’implementazione di progetti interamente dedicati ai family business, sottolineando la rilevanza che questa
particolare tipologia d’impresa ha per gli istituti creditizi.
4. Il valore delle imprese familiari nella prospettiva degli intermediari
finanziari
La valutazione da parte degli intermediari finanziari sull’abilità delle imprese familiari a creare valore per le differenti entità sistemiche rilevanti,
nonché sulla loro capacità di sopravvivere nel tempo, non può prescindere
da un’indagine approfondita delle condizioni di validità della coordinazione economica in atto, nel dinamico comporsi di aspetti strutturali e sistemico-relazionali.
Orbene, è chiaro che tali riflessioni dovranno interessare, da un lato, la
struttura operativa dell’impresa quale insieme di capacità di base (materiali,
immateriali, tecniche, umane e finanziarie) e, dall’altro, l’abilità dell’organo
di governo a guidare il sistema verso posizioni di vantaggio competitivo,
definendo, in tal senso, regioni più o meno ampie di creazione di valore.
In vista di tale obiettivo di conoscenza, risultano indispensabili attente e
precise analisi e misurazioni di tali potenzialità. Di conseguenza, ragionevole punto di partenza è certamente la definizione del concetto di validità,
prima ancora che di affidabilità, del sistema, essendo la prima condizione
necessaria alla sussistenza della seconda10.
Quando si parla di validità di un sistema, sembra evidente il riferimento
implicito ad un obiettivo, verso cui il sistema stesso è diretto; è proprio in
relazione alla capacità e al grado di raggiungimento di tale obiettivo, che
diventa possibile esprimere un giudizio sulla validità dell’impresa e, coerentemente, sulla bontà del progetto imprenditoriale. In tal senso, nell’ottica dell’impresa, è facile ed inevitabile rilevare come, da un lato, l’obiettivo
cui essa tende è l’adeguata soddisfazione delle attese provenienti dai diversi
sovrasistemi di riferimento, affinché risultino elevate le sue possibilità di
sopravvivenza; e, dall’altro, che la validità della formula imprenditoriale
sia esplicitata nel grado di raggiungimento di tale obiettivo, il tutto in
condizioni di durevole equilibrio economico, finanziario ed organizzativo.
Si intuisce, dunque, che le dimensioni fondamentali della validità, per la
valutazione dei percorsi di sopravvivenza dell’impresa, sono l’efficacia e
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NUOVE MODALITÀ DI DIALOGO BANCA-IMPRESA: IL RUOLO DEGLI ASSET FAMILIARI
l’efficienza, sintesi evidente delle condizioni esterne e interne di operatività.
La valutazione della validità dell’iniziativa varia a seconda dei singoli interlocutori ed è conseguentemente apprezzata rispetto alle diverse aspettative di ciascuno. Nell’ottica dei finanziatori a titolo di credito, in
particolare, è chiaro che debba essere condotta rispetto all’analisi della capacità del sistema di generare flussi di reddito, ossia di conseguire una
massa di ricavi sostanzialmente superiore ai costi, poiché è unicamente
tale dimensione, in condizioni di autonomia dell’intrapresa (Airoldi et al.,
1994), a garantire la remunerazione dei capitali mutuati (Amodeo, 1992).
A ciò è necessario, poi, affiancare un giudizio di affidabilità, legato invece
alla capacità dell’iniziativa imprenditoriale di produrre flussi di cassa positivi, in grado di remunerare, nei modi e nei tempi negoziati, i diversi finanziatori. L’affidabilità del sistema è, quindi, misurata in relazione alle
possibilità che l’impresa ha di garantire l’adempimento degli impegni assunti verso i differenti interlocutori, in modo conforme alle attese manifestate. Nello specifico, in ottica finanziaria, essa fa riferimento
precisamente alla capacità dell’impresa di disporre di risorse monetarie (o
assimilabili), in grado di garantire che le obbligazioni sociali siano onorate
nelle modalità fissate.
Per la stima delle condizioni di validità e di affidabilità, le banche si concentrano sull’analisi di informazioni quantitative e, quindi, di dati storici11
e previsionali12. Nella pronuncia del giudizio di affidabilità, l’analisi non
può, tuttavia, essere limitata esclusivamente ad esse, essendo tale costrutto
il portato di molteplici aspetti non solo economici, ma anche relazionali
che impongono alle banche di valutare anche aspetti qualitativi. Fra le informazioni qualitative, assumono maggiore importanza quelle relative al
modello di governance, all’organizzazione interna, alla gestione del personale e alle eventuali certificazioni conseguite (Gatti, 2009). Il focus delle
analisi da parte degli intermediari finanziari si sposta, dunque, su elementi
intangibili che, molto spesso, meglio spiegano il valore delle imprese familiari. È opinione consolidata, infatti, che il valore non risieda nei beni
materiali, ma nella loro combinazione e interazione, determinata dalle risorse immateriali firm specific, in grado di generare il vantaggio competitivo durevole dell’impresa (Barontini e Caprio, 2006). Tale assunto è tanto
più rilevante nelle imprese familiari, dove le risorse firm specific si combinano a risorse family specific: il nome della famiglia, la sua storia, raccontata dai protagonisti del progetto imprenditoriale, il complesso di valori e
tradizioni condivise, il forte radicamento sul territorio, nonché la capacità
di intessere relazioni forti nel contesto in cui vive e, infine, la capacità di
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CARMEN GALLUCCI -GABRIELLA NAVE -ROSALIA SANTULLI
generare e attirare risorse umane con skills riconosciute come uniche e di
facilitare l’accesso alle risorse finanziarie13. Tale complesso di risorse è alla
base della family reputation, in grado di determinare il ruolo di asset o
liability del sistema famiglia rispetto al sistema impresa14 e, in tal senso,
capace di influenzare l’affidabilità di quest’ultimo agli occhi di finanziatori
e investitori. Il giudizio di affidabilità di un’impresa familiare è, quindi,
strettamente interrelato alla capacità della famiglia di suscitare fiducia
negli stakeholder dell’impresa e, quindi, di intessere relazioni forti nel contesto in cui è radicata. Le famiglie, in generale, hanno un legame particolare con la comunità locale del territorio in cui sono nate e si sono
sviluppate. Quando poi la famiglia è artefice di un progetto imprenditoriale
che ha condotto al successo dell’azienda e alla notorietà di quel territorio,
il legame con le radici territoriali diventa parte integrante della sua identità
(Corbetta, 2010) e contribuisce a dare forza e valore all’azienda.
Nella valutazione dell’affidabilità dell’impresa familiare, agli asset immateriali si aggiunge un’altra peculiarità che caratterizza esclusivamente questa forma di business e che rappresenta una garanzia reale, nonché un
potenziale interesse, in una prospettiva relationship lending, per l’ampliamento del portafoglio attività degli intermediari creditizi: il patrimonio
extra-aziendale. Ampiamente vario e complesso, esso si compone delle
partecipazioni rientranti nell’attivo delle aziende di famiglia, così come
delle quote e delle azioni detenute dai familiari in altre società che esulano
dal core business15dell’impresa di famiglia e dei diritti da queste derivanti
(Zocchi, 2004). Un peso rilevante nel patrimonio è poi da attribuire agli
immobili16, il classico bene rifugio dei family businesses, cui si aggiungono
la liquidità, costituita da conti correnti ufficiali e non ufficiali, sia in Italia
che all’estero, e le gestioni patrimoniali intestate direttamente o effettuate
da società fiduciarie. Vi sono, inoltre, le rendite da polizze assicurative sulla
vita e sugli infortuni, non tanto in termini di premio corrisposto, quanto
di ricavi, indennizzi e sopravvenienze attive, ricevute al verificarsi dell’evento; i piani pensionistici integrativi, l’eredità ricevute, i vitalizi e le luxury.
A fronte di tali aspetti positivi, tangibili e intangibili, che possono rendere
le imprese familiari più appetibili di altre agli occhi del mercato creditizio,
non è da sottovalutare la circostanza che esse scontano rischi specifici (family risk), che si sovrappongono a quelli comuni a tutte le imprese (rischio
sistemico, rischio paese, rischio operativo, rischio tecnologico e rischio specifico). Il “rischio finanziario”, ad esempio, derivante dalla volontà di massimizzare il benessere e la sicurezza finanziaria della famiglia piuttosto che
i redditi aziendali, subordinando gli interessi dell’impresa a quelli del nucleo
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familiare; il “rischio famiglia”, ossia l’incapacità e/o l’incompetenza dei
membri di famiglia, generalmente gli eredi, di dare un contributo di valore
all’impresa di famiglia; lo “shirking”, ossia l’eventualità che alcuni membri
della famiglia possano dissipare le risorse dell’impresa per finalità personali;
il “free riding”, derivante dal comportamento di quei familiari che evitano
di svolgere attività “noiose”, lasciando l’incombenza ad altri nella consapevolezza che, prima o poi, verranno adempiuti; il “rischio di conflitti familiari” che possono condurre a decisioni irrazionali e controproducenti
nella gestione dell’impresa o a rovinose battaglie legali; il “rischio di crisi
da passaggio generazionale”, soprattutto se accompagnato dall’assenza di
pianificazione e dalla perdita di self-control da parte dei familiari uscenti
che non attuano comportamenti “preventivi”17 verso gli eredi, compromettendo la sopravvivenza futura dell’impresa; nonché, “il rischio di perdita”
di persone chiave che hanno assunto posizioni di traino all’interno dell’impresa.
Dunque, in una prospettiva resource based (Barney, 1991), le imprese familiari, proprio perché caratterizzate dalla forte interazione tra il sistema
famiglia e il sistema impresa, possono avvalersi di risorse, capacità e competenze (familiness) (Habbershon e Williams, 1999; Habbershon et al.,
2003) non rinvenibili in altre tipologie d’impresa; tuttavia scontano anche
rischi maggiori, che potrebbero condizionare negativamente il processo di
creazione del valore (Guatri, 2000). A ciò si aggiunga che il mero possedimento di risorse family specific non è da solo sufficiente ad attivare processi di creazione di valore. Il raggiungimento di tale obiettivo prioritario
è subordinato, infatti, anche alla capacità della famiglia imprenditoriale di
attivare il potenziale insito negli asset familiari. In tale logica, assumono
un ruolo cruciale le strategie di comunicazione dei family asset che possono accrescere il patrimonio reputazionale dell’impresa, attivando circoli
virtuosi di competitività e valore. In particolare, l’attenzione alla comunicazione economico-finanziaria può consentire all’impresa familiare di ridurre quelle asimmetrie informative che generalmente caratterizzano il
rapporto con il sistema bancario, spuntando così migliori condizioni nel
reperimento di capitali a titolo di debito, attraverso la rassicurazione degli
intermediari finanziari.
Accanto alla valorizzazione dei family asset, una comunicazione chiara e
trasparente (Siano, 2002) non può esimersi dall’evidenziare anche i family
risk e, conseguentemente, le modalità di governance che l’impresa intende
adottare per minimizzarli. In tal modo, l’impresa si mostrerebbe agli occhi
dei finanziatori conscia, non solo dei suoi punti di forza, ma anche dei
suoi punti di debolezza (D’Amato, 2009) e pronta a mettere in campo una
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serie di azioni volte a ridurre le possibilità di conflitto all’interno della famiglia e ad evitare atteggiamenti speculativi e distorsivi di alcuni dei suoi
membri.
In quest’ottica, può rivelarsi utile comunicare l’adozione di meccanismi di
governance e di accordi tipici di queste realtà: i Consigli di Famiglia (Ward,
1991), ad esempio, per monitorare periodicamente le relazioni tra famiglia
e impresa e svolgere un ruolo formativo, di educazione ai valori, per le
nuove generazioni; la costituzione di un Comitato di Direzione, organo
indispensabile allorquando solo alcuni membri della famiglia sono dedicati
alle attività d’impresa, al fine di mantenere un equilibrio tra membri attivi
e membri esterni; in ultimo, ma non per importanza, i patti di famiglia
(Andrini, 2006; Imbrenda, 2007), ovvero insiemi di valori e regole tramandati di generazione in generazione, da sottoscrivere per garantire un passaggio generazionale stabile, basato su accordi condivisi tra predecessori
e successori. Questi ed altri strumenti possono essere implementati dalle
imprese familiari per ridurre la percezione dei family risk ed accrescere il
giudizio di affidabilità da parte dei creditori. Le migliori condizioni finanziarie che ne derivano, combinate alla valorizzazione dei family asset consentirebbero alle imprese familiari di alimentare positivamente il processo
di creazione del valore.
Fig. 1 - Il valore
dell’impresa
familiare
Fonte: ns. elaborazione
5. La comunicazione economico-finanziaria per la valorizzazione dei
family asset
La valutazione dell’affidabilità e della validità dell’iniziativa imprenditoriale
presuppone, come evidenziato nel precedente paragrafo, la disponibilità
di informazioni inerenti tanto la sfera aziendale, quanto quella familiare.
Non sempre, però, per il mercato del credito risulta agevole venire a conoscenza della reale situazione economico-finanziaria dei clienti e, ancor
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meno, riuscire a reperire informazioni soft, difficilmente codificabili. Il rapporto tra le imprese familiari e il sovrasistema finanziario soffre, infatti, di
forti asimmetrie informative, acuite dalla normativa fiscale vigente in Italia
che comporta per le piccole imprese un regime di contabilità semplificata,
per sua natura poco informativo; e dalla “chiusura” della famiglia imprenditoriale che, complice il basso livello di managerializzazione, appare scarsamente orientata a trasferire alle banche quelle informazioni necessarie
per la conoscenza dell’effettiva condizione finanziaria, economica e patrimoniale dell’impresa. L’atteggiamento schivo e riservato contraddistingue, infatti, da sempre le imprese familiari, riluttanti nel diffondere
all’esterno informazioni sull’azienda e soprattutto sulla famiglia imprenditoriale (Lansberg, 1998; Sharma et al., 1997; Ward, 1997).
La comunicazione risulta dunque opaca ed incompleta e induce i due interlocutori, banca e impresa, ad operare su piani diversi, con finalità e prospettive divergenti. L’impresa, da un lato, percepisce il proprio limitato
potere contrattuale nella relazione, indotto da una condizione di dipendenza dall’intermediario finanziario, perché non in grado di attingere ad
altre forme di finanziamento (Iannuzzi e Berardi, 2008); la banca, dall’altro,
possedendo poche informazioni e temendo, pertanto, comportamenti opportunistici (moral hazard), assume una prospettiva transazionale e si pone
come mero fornitore di capitale di debito, gestendo il rischio di credito attraverso l’aumento del rendimento richiesto e l’ampio ricorso alle garanzie
(Detragiache et al., 2000; Belcredi, 2001).
Le asimmetrie informative e un rapporto legato alle singole transazioni
comportano, quindi, un innalzamento dei tassi di interesse, unitamente al
razionamento del credito e alla prevalente richiesta di garanzie reali a tutela
dei capitali erogati. Tali conseguenze possono essere evitate solo valorizzando la componente relazionale del rapporto con la banca e, quindi, curando la comunicazione economico-finanziaria, veicolo della relazione tra
il sistema finanziario e il sistema impresa. In tal modo, l’impresa non subirebbe semplicemente il giudizio della banca, ma contribuirebbe a determinarlo. A tal fine, in una prospettiva relationship lending, ad essa spetta
il compito di condividere informazioni sulla sua situazione attuale e prospettica, attraverso informative complesse come bilanci, relazioni infra-annuali e piani di fattibilità, ma anche attraverso qualsivoglia informazione
relativa agli andamenti economici, patrimoniali e finanziari, nonché alle
risorse immateriali della famiglia e dell’impresa. Quest’ultime hanno, addirittura, una rilevanza maggiore, perché l’accumulazione di informazioni
sul patrimonio di conoscenza non codificata, racchiusa nel capitale umano,
organizzativo e relazionale18, consente agli istituti di credito di assumere
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un maggior rischio nell’impresa, finanziando anche investimenti particolarmente innovativi (Mustilli, 1995; Degryse e Van Cayseele, 2000; Stein,
2002; Brighi, 2006). La misura del valore di un’impresa, e in particolare di
un family business, risulta infatti sempre più legata alla qualità dei fattori
immateriali, relazionali e sociali (Campanella, 2011), in grado di condizionare la sostenibilità del progetto imprenditoriale. Difficile, però, risulta il
trasferimento di questa tipologia di informazioni che, seppur sicuramente
facilitato dall’instaurarsi di relazioni di lungo periodo tra l’impresa e gli
istituti di credito, spesso pecca in termini di formalizzazione. Per ovviare
a tale gap, l’impresa dovrebbe avvalersi di nuove forme di comunicazione
che meglio si prestano alla valorizzazione degli intangibles. L’arte di raccontare storie (storytelling) (Salmon, 2008; Fontana, 2009) ad esempio,
rendendo la comunicazione più coinvolgente ed accattivante, potrebbe
meglio trasferire all’esterno delle organizzazioni quel complesso di conoscenze tacite, di valori e di caratteristiche specifiche, che la differenziano
dai competitors. La sfida per le imprese si sostanzia nel riuscire a comunicare la propria storia nella maniera più efficace e credibile possibile (Ryan,
2003), affinché chi decida di investire nel progetto imprenditoriale possa
comprendere il valore che quell’impresa assume per la famiglia proprietaria
e il rischio che quest’ultima sopporta nel legare la sopravvivenza della famiglia a quella dell’impresa. L’utilizzo della narrazione, anche attraverso
l’elaborazione letteraria, diventa così un processo strategico per la creazione del valore e la condivisione del rischio percepito nell’attività imprenditoriale. Il nome, la storia e la reputazione della famiglia, che si intrecciano
a quelle dell’impresa, se raccontate contribuiscono, infatti, a consolidare
la relazione con il sovrasistema finanziario, consentendo alle imprese di
ottenere una riduzione del costo del capitale (Richardson e Welker, 2001;
Botosan e Plumlee, 2002; Gietzmann e Ireland, 2005) e di giovarsi di un
maggior afflusso di risorse finanziarie.
6. Conclusioni
Tradizionalmente, quale naturale conseguenza delle scelte di struttura finanziaria adoperate dalle imprese familiari, il sistema bancario ha rappresentato l’interlocutore privilegiato, limitandosi però ad una politica tesa
esclusivamente al contenimento del rischio, ponendo in secondo piano la
valutazione del merito imprenditoriale nel suo complesso.
Gli interventi normativi che hanno interessato la regolamentazione del settore bancario, unitamente alla sempre maggiore rilevanza assunta dai mercati finanziari, impongono, invece, allo stato attuale, che il rapporto
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banca-impresa venga reimpostato su basi differenti. La banca, pertanto,
non può più limitarsi, come in passato, a semplici analisi patrimoniali e
reddituali, nella valutazione del merito creditizio di un’impresa familiare,
ma è tenuta a prendere in esame il complesso di valori, capacità decisionali
ed operative dei soggetti coinvolti nella stessa, nonché la cultura dominante all’interno dell’impresa. Limitandosi ad esaminare i dati quantitativi
che emergono dai bilanci, finirebbe infatti col trascurare il valore reale, le
potenzialità di crescita, la complessità, nonché le competenze e le capacità
di governo dell’impresa. Deve invece sposare un’ottica sistemica e considerare l’azienda di famiglia come entità complessa definita dalla trinomia
famiglia-azienda-patrimonio. Adottando una visione integrata che abbia
ad oggetto tanto la famiglia, con il suo complessivo patrimonio, aziendale
ed extra-aziendale, quanto il business, le banche possono, in tal modo,
ampliare il portafoglio di attività rinvenendo nella consulenza integrata
una nuova modalità di dialogo in grado di rafforzare la relazione con la
famiglia imprenditoriale in una prospettiva relationship lending. Nel dialogo con le imprese familiari, difatti, l’adozione di una prospettiva interdisciplinare, nonché di una visione globale dei bisogni del cliente sono
premianti. Una consulenza integrata consente alla banca di fidelizzare il
cliente, assurgendo a suo partner strategico; la famiglia imprenditoriale,
dal canto suo, si interfaccerebbe con un unico interlocutore, in grado di
analizzare i bisogni e di proporre soluzioni integrate.
A quest’ultima spetta, tuttavia, il compito di trarre il massimo vantaggio
da tutte le risorse a sua disposizione e, dunque, di gestire e valorizzare le
potenzialità insite nel suo patrimonio, complessivamente inteso, al fine di
non limitarsi a subire il giudizio della banca, ma di approdare ad una valutazione condivisa. Un ruolo di rilievo gioca, in tal senso, la pianificazione
della comunicazione economico-finanziaria, che dovrebbe vedere l’impresa
impegnata a far conoscere all’interlocutore finanziario, con la massima
trasparenza, da un lato, gli asset familiari, tangibili e intangibili, e dall’altro,
i rischi specifici e le iniziative adottate per neutralizzarli. In particolare, attraverso la ricerca di strumenti e modalità innovative che sappiano enfatizzarne le potenzialità e ridurre quel gap informativo, anch’esso causa di
distruzione di valore nella relazione con il sistema finanziario, l’impresa
familiare fa sì che la banca possa giungere ad un apprezzamento pieno
della portata e della sostenibilità del progetto imprenditoriale.
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In particolare, le imprese familiari risultano maggiormente diffuse nei settori labour
intensive, piuttosto che in quelli capital intensive, ovvero in quei settori caratterizzati da
minori investimenti in sviluppo tecnologico e da strategie competitive meno orientate al
rischio (Del Giudice, 2011).
Il capitalismo familiare è una variante del sistema capitalistico all’interno del quale i
membri di una stessa famiglia detengono la proprietà dei mezzi di produzione e
presiedono la sua struttura statica o dinamica di governance (Bertoli et al., 1994; Allouche
e Amann, 1995; Colli, 2003; Cipolletta, 2007).
Nel 2011, l’Osservatorio AUB ha condotto un’indagine sulle imprese familiari italiane, di
medie e grandi dimensioni, pari a 2.423, dalla quale è emerso che sono queste a difendere
l’occupazione, aumentata in tre anni del 12,1%.
Il 98% delle imprese familiari ha meno di 20 dipendenti (Cicogna e Devecchi, 2007).
La cronica carenza di fonti acquisite con il vincolo di pieno rischio è nota come Equity
Gap.
Secondo i dati raccolti dalla Commissione Europea nel database BACH, l’indebitamento
bancario assume nel nostro Paese un peso quasi doppio rispetto alla Francia, alla
Germania e alla Spagna: 29% contro 15% (Cenciarini et al., 2006).
Secondo i dati della Centrale dei rischi al 31.12.2004, riferiti ad un campione
rappresentativo di oltre 20.000 imprese, le aziende italiane tendevano a farsi affidare, in
media, da 7 istituti diversi.
Le banche di grandi dimensioni, infatti, pur disponendo di competenze superiori rispetto
alle banche locali, fanno un maggior uso di informazioni codificate (hard information),
scontando la maggiore distanza funzionale dalle economie locali.
Con questo spirito, dal 2009 il Private Banking ed il Corporate Banking di UniCredit hanno
lanciato congiuntamente il progetto “Family Business Owners” (FBO), destinato
specificatamente agli imprenditori titolari di aziende di famiglia di medie dimensioni. Fra
le iniziative promosse vi è quella di preservare le aziende familiari italiane dal problema
del passaggio generazionale, consentendo loro di beneficiare di un cospicuo fondo e
coinvolgendole in un assessment obbligatorio su aspetti di family e corporate governance
curato dalla SDA Bocconi.
Al contrario, non è altrettanto verificato che l’impresa affidabile sia anche valida: esistono,
in altre parole, casi di imprese che, pur se affidabili, non sono valide nelle condizioni e
nei meccanismi che ne reggono il funzionamento.
Le informazioni storiche sono in gran parte ottenute da fonti esterne (Camere di
Commercio, Catasti, Bollettini Protesti) e fonti interne (Centrale Rischi della Banca d’Italia
e SIA), nonché attraverso un’attenta lettura dei dati di bilancio, riclassificati secondo
quanto sancito dagli Accordi di Basilea. Tali informazioni, pur essendo di grande
importanza, risentono però di alcuni limiti, derivanti, da un lato, proprio dalla loro natura
storica, che li porta a rappresentare situazioni che potrebbero non essere più aderenti con
la realtà del momento; dall’altro, dalle politiche di bilancio e dalle logiche fiscali, che
possono alterarne l’attendibilità.
Le analisi previsionali, supportate da piani di breve e di medio-lungo periodo, consentono
di valutare la capacità dell’impresa a perdurare nel tempo, ossia il suo grado di
sostenibilità, senza il quale l’iniziativa imprenditoriale perderebbe il carattere di validità e
di affidabilità e, quindi, anche di vitalità, non rispondendo più alle aspettative delle entità
sistemiche rilevanti (Golinelli, 2011).
Il capitale sociale della famiglia, nelle sue componenti nome e reputazione, può facilitare
l’accesso a risorse finanziarie e l’attrattività di risorse intangibili tra le quali professionalità
e competenze, divenendo fonte di vantaggio competitivo (Montanari, 2011).
La reputazione della famiglia può essere misurata con l’ausilio del Reputation Quotient,
il cui valore consente di configurare la famiglia imprenditoriale come un asset, ovvero
risorsa critica per il business e, in quanto tale, in grado di esprimere una fonte di vantaggio
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competitivo, o come liability, da arginare per evitare la stimolazione di circoli viziosi
(Metallo e Gallucci, 2011).
La differenziazione delle tipologie di partecipazioni è una caratteristica tipica del
capitalismo familiare, che spesso deriva dalla volontà dell’imprenditore di investire in
società che non seguirà direttamente, solo per accontentare qualche figlio, socio o amico.
Essi comprendono case, terreni agricoli ed edificabili, capannoni ed opifici industriali,
negozi o locali commerciali affittati o utilizzati direttamente.
Un esempio di ciò è rinvenibile nella decisione di non subordinare la cessione di una parte
dell’eredità alla messa in atto di determinati comportamenti dei discendenti.
Il capitale umano si compone delle competenze e delle capacità delle persone che operano
all’interno dell’azienda, dalla cui esperienza deriva la conoscenza tacita. Nel particolare
contesto delle imprese familiari, le migliori condizioni lavorative, la maggiore flessibilità
(Goffee e Scase, 1985) e il più basso tasso di turnover (Miller e Le-Breton Miller, 2003)
del capitale umano sembrano meglio stimolare la produzione di conoscenza implicita e
il suo accrescimento nel tempo. Inoltre, la forte interazione tra il sistema famiglia e il
sistema impresa influenza la creazione di una specifica cultura organizzativa (Astrachan
et al., 2002), quale insieme di credenze e valori sviluppati all’interno del gruppo familiare
(Schein, 1983), difficile da imitare e, quindi, traducibile in vantaggio competitivo (Denison
et al., 2004; Zahra et al., 2004; Vallejo, 2011). È proprio dalla cultura organizzativa, diffusa
all’interno dell’azienda, che deriva lo sviluppo del capitale organizzativo, quale insieme
di procedure utilizzate, modelli organizzativi e strategie adottate. In ultimo, ma non per
importanza, il capitale relazionale, rappresentato dal valore delle risorse prodotte dalle
relazioni, di lungo periodo, dell’azienda con il contesto di riferimento.
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