1.3 Gli effetti dell`integrazione commerciale, economica e monetaria
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1.3 Gli effetti dell`integrazione commerciale, economica e monetaria
versi di integrazione. 1.3 Gli effetti dell’integrazione commerciale, economica e monetaria: aspetti teorici La letteratura sull’integrazione commerciale, ampiamente utilizzata per studiare la dinamica dei flussi d’interscambio intra-CEE, si è sviluppata come branca indipendente dell’economia internazionale verso gli anni Quaranta, ottenendo una certa sistematizzazione con i lavori di Viner (1953) e Byé (1950), autori che si sono occupati prevalentemente degli effetti statici dell’integrazione ed in particolare degli effetti dell’unione doganale in termini di creazione e diversione dei flussi commerciali. Tale filone di analisi si è recentemente arricchito, sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista empirico, tanto da determinare un ripensamento delle tradizionali categorie di analisi, nonché della stessa nozione di regionalismo. Innanzitutto, è stato riconosciuto che un’efficace integrazione necessita qualcosa in più della semplice riduzione delle tariffe e dei contingentamenti. A tal fine, la nozione di regionalismo è stata ampliata (si parla oggi di deep integration) per abbracciare una varietà di questioni, sempre legate al commercio, che vanno oltre le barriere tariffarie e che includono le politiche di concorrenza, la regolamentazione degli investimenti diretti esteri, gli standard del lavoro e ambientali, le leggi sui servizi e sul government procurement (WORLD BANK 2000b). Da una maggiore attenzione ai processi di «integrazione negativa» (mera eliminazione dei vincoli e degli ostacoli al commercio) si è passati inoltre ad una maggiore attenzione ai processi di «integrazione positiva», con la creazione di strumenti ed istituzioni necessari al conseguimento degli obiettivi comuni. Secondariamente, si è tentato il passaggio da un «regionalismo chiuso», basato su un modello di sviluppo del tipo import-substituting, ad un modello «aperto», del tipo outward-looking, più incline ad una maggiore apertura commerciale internazionale (NENCI 2003). Ai fini della nostra analisi, lo stato dell’arte della letteratura sull’integrazione economica e commerciale sarà affrontato evidenziando quattro grandi tipologie di effetti legati all’integrazione economica e commerciale: – effetti di allocazione, che riguardano, coerentemente con l’analisi vineriana, esclusivamente gli effetti statici dell’integrazione, riassumibili nell’efficienza allocativa di un determinato ammontare di risorse; – effetti di accumulazione, connessi alla crescita economica e, quindi, all’accumulazione di risorse produttive fisiche, umane e di conoscenza tecnologica; – effetti di localizzazione, concernenti le dinamiche di polarizzazione geografica delle attività economiche legate al processo di integrazione. – effetti di political economy, concernenti il ruolo dei benefici collettivi dell’integrazione. Per quanto riguarda, invece, l’integrazione monetaria, il modello di riferimento teorico è la «teoria delle aree valutarie ottimali», sviluppata da Mundell, Kenen e McKinnon negli anni Sessanta, la quale propone uno schema interpretativo per la valutazione dei costi e dei benefici derivanti dall’appartenenza ad una area valutaria. L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 9 1.3.1 GLI «EFFETTI DI ALLOCAZIONE» DEGLI ACCORDI COMMERCIALI PREFERENZIALI Analisi in contesti competitivi L’analisi dei tradizionali effetti statici di allocazione prende le mosse dalla considerazione che in contesti competitivi, informazioni adeguate sulle decisioni allocative all’interno dei sistemi economici sono fornite dal meccanismo di determinazione dei prezzi di mercato. In un’economia di mercato è, cioè, il sistema dei prezzi a segnalare ai consumatori i differenti costi di produzione delle merci ed alle imprese le preferenze relative dei consumatori. In pratica, i consumatori, comprando determinati prodotti in luogo di altri, «votano» implicitamente in favore di una determinata allocazione delle risorse. Ne consegue che l’introduzione di eventuali barriere al commercio ha l’effetto di alterare tale meccanismo informativo, determinando un’inefficiente allocazione delle risorse produttive. Conseguentemente, il processo di integrazione, rimovendo tali barriere, dovrebbe in linea di principio contribuire al miglioramento allocativo delle risorse e, quindi, alla rimozione delle inefficienze nella produzione. Tuttavia, trattandosi di un processo di integrazione discriminatorio e non multilaterale, l’analisi vineriana ci aiuta a mettere in evidenza che gli effetti dell’integrazione commerciale, anche nell’ipotesi più semplice di concorrenza perfetta, non sono così intuitivi e, soprattutto, non necessariamente positivi. A tal fine, l’analisi vineriana introduce due concetti chiave per l’analisi degli accordi commerciali preferenziali in contesti competitivi: il concetto di «creazione di commercio» (trade creation) ed il concetto di «diversione di commercio» (trade diversion) per dimostrare che tali due aspetti dell’integrazione commerciale convivono in ogni accordo di integrazione preferenziale e che l’effetto prevalente dipende dalle caratteristiche specifiche dell’accordo stesso. Più specificamente si ha «creazione di commercio» allorquando, a seguito della realizzazione di un accordo commerciale preferenziale, una quota della produzione di uno o più paesi è sostituita ricorrendo alle importazioni più competitive provenenti da altri paesi membri. Tale situazione accresce il benessere dei paesi aderenti all’accordo poiché la riduzione dei prezzi delle importazioni, frutto di una più efficiente allocazione delle risorse disponibili, permette un consumo più elevato rispetto alla precedente situazione di autarchia. Se l’aumento del benessere dei paesi membri provoca un incremento delle importazioni provenienti dal resto del mondo, la creazione di commercio estende i suoi effetti anche all’esterno dell’area integrata. La «diversione di commercio» si realizza, invece, quando, a seguito della creazione di un accordo commerciale preferenziale, uno o più beni provenienti da paesi terzi sono sostituiti, a seguito del nuovo trattamento preferenziale, da importazioni provenienti da paesi membri meno efficienti. I consumatori, a seguito dell’implementazione dell’accordo, formeranno, infatti, le proprie decisioni di acquisto non più in base ai costi reali di produzione dei beni ma in base ai loro prezzi finali, comprensivi della tariffa. Si verifica, cioè, a causa della tariffa, una distorsione nell’allocazione delle risorse con lo spostamento della produzione dai paesi più efficienti (esterni all’area) a quelli meno efficienti (interni all’area). Ciò rende pos- 10 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea sibile un aumento delle importazioni provenienti dal paese meno efficiente a danno delle importazioni provenienti dal paese più efficiente. Il benessere del paese considerato tende conseguentemente a ridursi a causa della riduzione del surplus dei consumatori generata dai prezzi più alti. La figura 1.1 presenta il tradizionale schema grafico per la misurazione degli effetti di creazione e di diversione di commercio legati all’implementazione di accordi commerciali preferenziali nell’ipotesi di mercati perfettamente concorrenziali relativamente al caso di un paese piccolo (non in grado, cioè, di influire sulla domanda e l’offerta internazionali e, conseguentemente, sui prezzi internazionali dei beni) in un’analisi di equilibrio parziale (relativamente ad un determinato bene o settore produttivo). Lo schema in questione rappresenta un’estensione all’integrazione commerciale preferenziale del tipico schema di analisi degli effetti del dazio in equilibrio parziale (vedi fig. 1.A). Lo studente che non abbia familiarità con tale schema di analisi può pertanto, prima di proseguire la lettura, fare riferimento all’Appendice A al presente Capitolo. Nel grafico sono riprodotte la curva di domanda (Da) e di offerta (Sa) del paese A per un determinato bene X. Sono prese in considerazione due fonti di importazione potenziali, il paese B ed il paese C. Prima dell’implementazione dell’accordo commerciale preferenziale, il bene in questione è importato dal paese B al prezzo Pb+t mentre il paese C sconta un dazio proibitivo (non riportato nel grafico). In tale situazione, il paese A produce la quantità Oq3 del bene X; domanda la quantità Oq4 ed importa dal paese B la Px Da Sa E Pb+t a Pc Pb b c d Sb+t Sc e Sb Da Sa 0 q1 q2 q3 q4 q5 q6 Qx a+b+c+e: beneficio consumatori a: costo produttori (minor costo consumatori) c: gettito tariffario a beneficio dei consumatori b+e: trade creation d: trade diversion Fig. 1.1. Effetti statici degli accordi commerciali preferenziali in concorrenza perfetta. L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 11 quantità q4q3 al prezzo Pb+t. Partendo da tale situazione, se si ipotizza la realizzazione di un accordo commerciale preferenziale fra il paese A ed il paese C, con B esterno all’accordo, si viene a determinare una liberalizzazione commerciale discriminatoria, capace di modificare artificialmente la competitività relativa fra il paese C ed il paese B. I beni provenienti dal paese B, infatti, rimanendo soggetti alla tariffa (t), sono ora meno competitivi dei beni provenienti dal paese C, non soggetti alla tariffa. Conseguentemente: – i prezzi domestici si riducono a livello Pc con un aumento della rendita del consumatore locale pari all’area a+b+c+e ed un aumento del consumo complessivo da 0q4 ad Oq5; – parte della produzione domestica viene sostituita dalle meno care importazioni provenienti dal paese C (tratto q3q2) con una riduzione del surplus dei produttori locali pari all’area a; – migliora l’allocazione delle risorse, sia dal lato della produzione (area b), sia dal lato del consumo (area e); – si realizza un costo associato alla diversione di commercio connesso al fatto che il paese A si trova, a causa dell’accordo, ad importare dal paese meno efficiente C rispetto al paese più efficiente B. Tale costo è pari all’area d, data dalla differenza fra il totale delle entrate tariffarie prima dell’accordo preferenziale (area c+d) e quanto a seguito dell’accordo torna ai consumatori locali (area c) 4; – la differenza fra le aree b ed e (che esemplificano l’effetto complessivo di creazione di commercio determinato dalla migliore allocazione delle risorse) e l’area d (che esemplifica il costo della diversione legato al fatto che l’accordo privilegia le importazioni dal paese meno efficiente C) può essere positiva o negativa. In pratica, a seguito della realizzazione dell’accordo commerciale preferenziale il paese A può ottenere un beneficio od una perdita netti. L’analisi vineriana dimostra, cioè, che non è possibile definire «a priori» i benefici netti dell’integrazione, dal punto di vista dell’allocazione delle risorse. Gli accordi commerciali preferenziali determinano un effetto positivo sul benessere dei paesi aderenti solo nella misura in cui gli effetti della creazione di commercio risultano essere maggiori di quelli della diversione. Il risultato, apparentemente paradossale, dell’analisi vineriana è che l’adozione unilaterale di una politica commerciale non discriminatoria rappresenta una soluzione superiore rispetto ad un accordo commerciale preferenziale, in quanto assicura i benefici derivanti dalla creazione di commercio, grazie alla più elevata specializzazione connessa all’ampliamento dei mercati, eliminando «a priori» gli effetti negativi sul benessere dovuti alla diversione del commercio. In conclusione, in mercati perfettamente competitivi, se un paese non è sufficientemente grande da influenzare con la sua produzione ed il suo consumo i mercati internazionali, la sua politica ottimale rimane il libero commercio. Viceversa, 12 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea la rimozione dei dazi doganali su base regionale non costituisce necessariamente un fenomeno positivo in quanto non permette esclusivamente di ridurre le distorsioni esistenti (creazione di commercio), ma comporta sempre anche situazioni di diversione di commercio (ad eccezione del caso limite in cui il paese beneficiario dell’accordo preferenziale sia il produttore più efficiente in tutte le produzioni). Naturalmente sotto certe condizioni economiche è maggiormente probabile che gli effetti di creazione siano maggiori degli effetti di diversione. Ciò si verifica, ad esempio, allorquando i dazi siano inizialmente più alti fra i paesi membri dell’accordo rispetto a quelli vigenti sulle importazioni dei paesi esterni all’accordo; in presenza di dimensioni rilevanti dell’accordo preferenziale sia in termini di numero che di struttura economica dei paesi aderenti; in presenza di elevata complementarietà fra le strutture economiche dei paesi membri e di ampie differenze di costo; in presenza di prossimità geografica e/o di forti legami preesistenti, grazie al limitato impatto sui «costi di transazione». Si noti, invece, che l’impatto del processo di liberalizzazione preferenziale rimane sempre negativo per i paesi esterni all’accordo. È possibile dimostrare, inoltre, che se un paese è sufficientemente grande da influenzare le variabili mondiali esiste la possibilità per i policymaker di aumentare il benessere interno attraverso il miglioramento della ragione di scambio ottenuto con l’applicazione di strumenti di politica commerciale. Rimane, tuttavia, il rischio di scatenare una guerra commerciale con perdite generalizzate 5. Tale distinzione è da tener presente nella scelta degli strumenti metodologici nell’ambito dell’analisi del processo di integrazione dei paesi membri dell’UE – in cui l’ipotesi del paese piccolo rimane plausibile – rispetto all’analisi degli effetti per i paesi membri dei processi di integrazione regionale realizzati dall’UE nell’ambito delle sue competenze esterne (vedi Capitolo 6) ove, viceversa, l’ipotesi del paese grande è stringente. Va tuttavia richiamata la nota critica di Cooper e Massel (1965) secondo la quale il fatto che la creazione di commercio prevalga sulla diversione non ci permette comunque di affermare con sicurezza che la creazione di una unione doganale costituisca una strada sicuramente conveniente. Secondo tali autori esiste, infatti, sempre la possibilità di alternative migliori agli accordi commerciali preferenziali, al di là della liberalizzazione totale, fissando opportunamente una tariffa non discriminatoria 6. Altri casi in cui la superiorità del libero commercio viene ad essere parzialmente ridimensionata riguardano: il noto caso dell’«industria nascente» (MILL 1909), in cui la protezione è giustificata, ancorché «temporaneamente», per esigenze di supporto all’irrobustimento della nascente industria nazionale; la cosiddetta teoria del «second best», secondo la quale non sarebbe ottimale astenersi da interventi di politica commerciale in presenza di «fallimenti» del mercato interno; le teorie cosiddette di political economy del protezionismo che considerano le misure di protezione commerciale una risposta razionale dei policymaker alle pressioni derivanti dai gruppi di interesse; la teoria del «benessere sociale ponderato» in cui la politica commerciale diviene strumento per avvantaggiare determinati gruppi sociali; la teoria del dazio «ottimo» in cui si ritiene addirittura che, nel caso del paese grande, il dazio sia in grado di massimizzare il benessere nazionale 7. L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 13 Analisi in contesti non competitivi Per quanto concerne gli effetti dell’integrazione commerciale in contesti non competitivi, il punto centrale dell’analisi è che le importazioni sono comunque in grado di limitare la capacità delle imprese locali, in posizione dominante, di determinare il prezzo (trattasi del cosiddetto «effetto pro-competitivo» del commercio).Abbandonando l’ipotesi di concorrenza perfetta viene meno, tuttavia, la possibilità di rappresentare in un unico modello tutte le situazioni rilevanti. Allo stato attuale non esiste infatti un modello che sia in grado di descrivere con completezza il funzionamento dei mercati non concorrenziali (BASEVI et alii 2001). Ciò implica che i risultati dell’analisi siano sensibili a vari fattori come, ad esempio, il numero delle imprese operanti sul mercato e/o il tipo di concorrenza imperfetta (monopolio, concorrenza monopolistica, oligopolio alla Cournot; oligopolio alla Bertrand, ecc.). Alcune considerazioni di base hanno comunque validità generale e sono, pertanto, utili a comprendere gli elementi principali dell’analisi degli effetti degli accordi commerciali preferenziali in presenza di mercati non concorrenziali. La nostra analisi sugli effetti della liberalizzazione in contesti non competitivi, prende in considerazione l’approccio alla Chamberlin o della «concorrenza monopolistica» 8. Esso considera il caso della competizione fra imprese simili che producono beni differenziati orizzontalmente, ossia beni succedanei che sono in grado di soddisfare, con forme e modi differenti, bisogni essenzialmente della stessa natura o comunque, beni simili in possesso di caratteristiche, reali o presunte, tali da farli ritenere diversi da quelli prodotti dalle altre imprese operanti nel settore 9. L’esistenza di beni differenziati sul mercato dipende dalla combinazione di due fattori: uno oggettivo ed uno strategico. Il fattore oggettivo è che ogni consumatore possiede un irriducibile elemento d’individualità che manifesta attraverso la propria struttura personale dei gusti; il fattore strategico è che ogni impresa ha convenienza ad adattarsi alla variegata struttura dei gusti dei consumatori, differenziando il proprio prodotto. Due sono i tipi di differenziazione: la differenziazione verticale, che si ha quando tutte le caratteristiche di un bene sono presenti in misura maggiore in un altro bene, e la differenziazione orizzontale, che si ha quando nessuno dei due beni ha un contenuto in termini di caratteristiche maggiore dell’altro e, di conseguenza, nessuno dei due può essere ritenuto migliore dal consumatore finale. L’ipotesi di concorrenza monopolistica prende in considerazione il caso della sola differenziazione orizzontale in un contesto caratterizzato da libertà di entrata delle imprese nel settore (ossia dato il fatto che il numero di imprese operanti nel settore non è dato ma varia al variare dalle condizioni di entrata). Tramite tale modello è possibile evidenziare una serie di effetti della liberalizzazione commerciale. In primo luogo, il già citato «effetto pro-competitivo», legato in questo caso alla maggiore concorrenza che si sviluppa sul mercato fra le diverse «varietà» disponibili del bene. In secondo luogo, il cosiddetto «effetto di deframmentazione», ossia la riduzione del numero complessivo di imprese operanti nel mercato inte- 14 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea grato rispetto alla situazione di autarchia, legato al cosiddetto «effetto di scala», ossia al fatto che, grazie alle economie di scala 10, ogni impresa è in grado, con la liberalizzazione, di ampliare la scala di produzione a costi medi inferiori. Ciò non avviene, tuttavia, a scapito della varietà dei prodotti, e quindi del benessere dei consumatori. Anzi vi è un positivo «effetto varietà» grazie al fatto che il numero di imprese operanti nel mercato integrato è sempre maggiore rispetto al numero complessivo di imprese precedentemente operanti in ciascun mercato autarchico. Per affrontare il tema in termini più analitici, si può far riferimento al tradizionale strumento grafico, riportato nella figura 1.2 che rappresenta un’estensione del tradizionale schema di analisi del monopolio. Il lettore che non abbia familiarità con tale schema può far riferimento all’Appendice B al presente Capitolo. Nella figura 1.2, riferita ad un’impresa in regime di concorrenza monopolistica, è riportata, con pendenza negativa (le imprese conservano un certo potere di mercato), la curva di domanda residuale (curva D, ossia la parte della curva di domanda complessiva che rimane insoddisfatta dall’offerta di altre imprese). Sono, inoltre, riportate la curva dei costi medi, Cme, la curva dei ricavi marginali, Rmg, e la curva dei costi marginali, Cmg (inferiore alla curva dei costi medi sempre grazie alla presenza di economie di scala). L’impresa in concorrenza monopolistica è in equilibrio, così come nel caso del monopolio, al livello di produzione q1 ove ricavi marginali e costi marginali si eguagliano (punto A sul grafico). Si noti, tuttavia, che nel caso di concorrenza monopolistica al livello di produzione q1 si ha anche la tangenza fra curva di costo medio e la domanda D (punto E), ossia, a differenza del caso del monopolista, gli extraprofitti sono nulli: questo è l’effetto della libera entrata di altre imprese nel settore che producono varietà concorrenti dello stesso bene 11. In pratica il mercato è formato da tante imprese monopoliste per il proQ Cmg E p1 Cme E* p2 A D D* Rmg 0 q1 q2 Q Fig. 1.2. Effetti statici degli accordi commerciali preferenziali in concorrenza monopolistica. L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 15 prio bene differenziato che, tuttavia, non beneficiano di profitti monopolistici. Con l’ampliamento del mercato derivante da accordi commerciali preferenziali, ancorché su base discriminatoria, le imprese nazionali si trovano a produrre in un mercato più ampio. Parallelamente, tuttavia, aumenta la concorrenza con le imprese estere che producono, a loro volta, n varietà di beni. Di conseguenza, aumenta l’elasticità della domanda della varietà i-esima e si riduce il potere di mercato delle imprese domestiche (la nuova curva di domanda DD* risulta più piatta rispetto alla DD). Nel mercato integrato si raggiunge, pertanto, un nuovo punto di equilibrio punto E* della figura 1.2 caratterizzato da un’espansione della produzione complessiva al livello q2, grazie alle economie di scala garantite dall’ampliamento del mercato (effetto di scala) ed una riduzione del prezzo al livello P2 (effetto pro-competitivo). Nel caso di integrazione commerciale in presenza di beni non omogenei, la riduzione del prezzo determina, quindi, tendenzialmente un beneficio per i consumatori domestici maggiore rispetto alla perdita di profitto delle imprese locali. Inoltre, poiché i prezzi interni si avvicinano ai prezzi internazionali, l’allocazione delle risorse tende a migliorare, anche se non si perviene ad un equilibrio efficiente come nel caso della concorrenza perfetta o della concorrenza imperfetta di beni omogenei. Fin qui l’analisi teorica. Cosa ci dice, tuttavia, l’esperienza concreta del processo di integrazione europea in termini di effetti sull’allocazione delle risorse? Venables e Smith (1988) e Gasiorek, Smith e Venables (1992) hanno stimato gli effetti allocativi legati all’implementazione del Programma 92 di completamento del mercato interno europeo, giungendo alla conclusione che il processo di liberalizzazione commerciale in Europa abbia garantito guadagni pari a circa un 1,5% di incremento della produzione complessiva comunitaria, solo grazie al miglioramento dell’allocazione dei fattori produttivi (senza considerare gli effetti dinamici di accumulazione, vedi Paragrafo 1.3.2). L’evidenza empirica del fenomeno è dimostrata dagli autori verificando l’estrema differenziazione delle quote di mercato nei diversi paesi da parte delle imprese europee, produttrici di beni simili. Le imprese europee detengono generalmente una quota minoritaria sui mercati esteri rispetto a quella detenuta sul mercato nazionale, ove conservano in genere la quota principale. Tale frammentazione determina, di conseguenza, una scarsa competizione; la sussistenza di un numero relativamente elevato di piccole imprese, ognuna operante su di un’inefficiente scala di produzione; un’inefficiente allocazione delle risorse e prezzi più elevati. L’avvio del Programma 92 per il completamento del mercato unico in Europa si stima, quindi, abbia contribuito significativamente all’effetto di «deframmentazione», nonostante il grado di implementazione effettiva del programma di completamento del mercato interno europeo abbia scontato ritardi ed inefficienze. Basti pensare alla mancata armonizzazione fiscale e ai suoi effetti sull’allocazione del capitale; all’assenza di armonizzazione degli standard del mercato del lavoro, nonché ai problemi legati alle differenze linguistiche, culturali e sociali che limitano fortemente la mobilità interna ed una piena e completa cittadinanza europea. 16 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea 1.3.2 GLI «EFFETTI DI ACCUMULAZIONE» DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA E COMMERCIALE: ASPETTI TEORICI In linea di principio, l’integrazione dovrebbe avere effetti positivi anche sull’accumulazione dei fattori produttivi: la maggiore efficienza allocativa derivante dal processo di integrazione, infatti, favorendo gli investimenti in capitale fisico, capitale umano ed in tecnologia, dovrebbe incidere positivamente sul tasso di accumulazione dei fattori produttivi e, quindi, sulla crescita di lungo periodo (BALDWIN 1993a). Tuttavia, come già visto nel caso della relazione fra integrazione ed efficienza allocativa, anche l’analisi della relazione fra integrazione e crescita richiede maggiori approfondimenti, in particolare riguardo ai fattori alla base della crescita di lungo periodo dei sistemi economici. L’analisi del legame fra integrazione e crescita non è intuitiva e spesso è male interpretata dai non addetti ai lavori. Una prima distinzione fondamentale va fatta fra «effetti di medio termine» ed «effetti di lungo termine». Gli effetti di medio termine riguardano gli effetti di crescita legati alla sola accumulazione di capitale fisico. Gli effetti di lungo termine consistono in un cambiamento «permanente» del tasso di accumulazione dei fattori grazie all’incentivo ad investire in capitale di conoscenza. I due effetti sono pertanto diversi e vanno analizzati separatamente 12. Il modello tradizionale di analisi della crescita di lungo periodo è il cosiddetto «modello Solow dal nome dell’autore Rober Solow, cui valse il Premio Nobel per l’economia nel 1987. Lo studente che non abbia familiarità con il modello di Solow può trovare maggiori dettagli nell’appendice C al presente capitolo. Solow (1956), partendo da una funzione di produzione aggregata a rendimenti di scala costanti, mostra in che modo il risparmio, la crescita della popolazione ed il progresso tecnico influenzano la crescita del prodotto nel corso del tempo. La conclusione principale cui giunge il modello in questione è che, dal momento che l’accumulazione di capitale fisico presenta rendimenti decrescenti 13, la crescita del reddito pro capite di lungo periodo dipende esclusivamente dal progresso tecnologico, mentre gli effetti del tasso di risparmio sono limitati al medio termine. Analisi della dinamica di crescita di «medio periodo» La dinamica di medio periodo del legame fra integrazione e crescita è esemplificata dal cosiddetto «bonus di crescita». In pratica, la maggiore efficienza allocativa garantita dal processo di integrazione, migliorando la remunerazione dei fattori, incentiva nuovi investimenti produttivi e, tramite la maggiore accumulazione delle risorse, l’ulteriore crescita del prodotto.Tuttavia, l’aumento del capitale fisico disponibile per lavoratore ne riduce la remunerazione, facendo diminuire l’incentivo delle imprese a proseguire gli investimenti in capitale fisico. Il processo di accumulazione è cioè di medio termine. Si mantiene fino a che non si raggiunge un nuovo livello dello stock di capitale per lavoratore di «stato stazionario» (vedi Appendice C). La figu- L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 17 ra 1.3 evidenzia graficamente il «bonus di crescita» partendo dal tradizionale schema di analisi del modello Solow. Lo studente che non abbia familiarità con tale schema troverà maggiori dettagli nell’Appendice C al presente capitolo. Con il termine «bonus di crescita di medio termine» si intende la semplice transizione fra due livelli di «stato stazionario», alimentata dal maggior investimento in capitale fisico indotto dall’efficienza allocativa. Una volta completato l’aggiustamento, il tasso di rendimento del capitale tornerà al suo livello precedente, registrando comunque un aumento permanente del livello del prodotto e del reddito per lavoratore generato dal processo di accumulazione (non si tratta cioè di mero effetto allocativo, vedi figura 1.3). Tale fenomeno è stato sperimentato sia dai paesi mediterranei negli anni immediatamente successivi al loro ingresso nella Comunità Economica, sia dai cosiddetti «paesi della coesione» grazie agli investimenti legati alle azioni finanziate dai Fondi a finalità strutturale (vedi cap. 3). Prodotto, investimento e investimenti di crescita bilanciata per lavoratore Bonus di crescita a medio termine f(k)' f(k) Effetti allocativi dk y1* c* s'f(k) sf(k) y* i1* i* k* k1* Capitale per lavoratore Fig. 1.3. Il «bonus di crescita a medio termine» in base al modello Solow. Analisi della dinamica di crescita di «lungo periodo» Coerentemente con il modello Solow, ma anche con l’evoluzione teorica successiva, caratterizzata dalla «nuova teoria della crescita» o «teoria della crescita endogena» il progresso tecnologico o, più in generale l’accumulazione del cosiddetto «knowledge capital» è universalmente considerato il motore della crescita di lungo periodo (vedi Appendice C). Conseguentemente, una relazione positiva, di lungo termine, fra integrazione e crescita potrebbe trovare fondamento solo nell’esistenza di una relazione positiva fra integrazione e diffusione delle tecnologie fra settori e paesi e maggiori investimenti in capitale umano. L’analisi empirica non fornisce tut- 18 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea tavia indicazioni univoche circa il nesso «integrazione e crescita di lungo periodo». L’analisi di lungo periodo è complessa e risente della non univocità del nesso di causalità fra i fenomeni analizzati. Ad esempio, è evidente che, a partire dal secondo dopoguerra, ci sia stato un incredibile sviluppo sia della integrazione economica, sia della tecnologia, ma ciò non significa, di per sé, che fra i due fenomeni ci sia necessariamente un nesso causale. Parimenti, non è possibile interpretare i positivi tassi di crescita del secondo dopoguerra, sperimentati dai principali paesi membri della Comunità Economica Europea, semplicemente come effetto diretto ed inequivocabile del contemporaneo processo d’integrazione della Europa comunitaria 14. L’idea di una relazione positiva fra integrazione e crescita è, tuttavia, considerata ragionevole dagli addetti ai lavori. La conoscenza tecnologica importata ha sicuramente contribuito a ridurre la posizione dominante delle imprese locali sui mercati domestici. È parimenti vero che il mantenimento di barriere alla competizione internazionale riduce la capacità di introduzione delle nuove tecnologie nei processi produttivi domestici e, con essa, la crescita del sistema economico nel suo complesso, come testimoniato dal caso del COMECON negli anni Ottanta. Secondo tale impostazione, la crescente competizione che si instaura circa il contenuto tecnologico dei prodotti e dei processi produttivi rappresenta un ulteriore valore aggiunto dei processi di integrazione. L’area integrata, in pratica, è non soltanto più efficiente, in termini di allocazione delle risorse, rispetto alle singole realtà nazionali, ma registra anche tassi di crescita stabilmente più elevati. Nell’analisi degli effetti di accumulazione dell’integrazione economica e commerciale è necessario tenere presente anche i vantaggi derivanti dallo sfruttamento di elevate e crescenti economie di scala interne ed esterne. Le maggiori dimensioni del mercato integrato permettono, infatti, lo sfruttamento di economie di scala sia statiche (crescita delle dimensioni delle unità produttive) sia dinamiche (aumento della produttività conseguente all’accumulazione di conoscenze nel tempo, processi intertemporali di learning by doing o di learning by using o, per quanto riguarda le economie esterne, l’incremento del capitale umano, delle capacità manageriali ed organizzative, della domanda di imprese caratterizzate da legami intersettoriali) ed una maggiore specializzazione intrasettoriale. La relazione fra dimensione del mercato e produttività non è, tuttavia, unidirezionale: l’aumento della produttività, tramite l’aumento del reddito pro capite e la riduzione dei costi unitari di produzione, genera anche un aumento della domanda di beni e, quindi, a sua volta, un ulteriore ampliamento del mercato. Infine, al contrario dell’analisi tradizionale che giunge a conclusioni pessimistiche riguardo agli effetti dell’integrazione sui paesi vicini non membri (i cosiddetti effetti di diversione), gli effetti dinamici dell’integrazione, garantendo una maggiore crescita economica, genereranno anche l’aumento degli scambi con l’estero. In pratica, la vicinanza geografica a paesi che danno vita a forme di integrazione economica è una condizione potenzialmente favorevole, in grado persino di annullare gli effetti statici di diversione (vedi par. 1.2.1). L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 19 1.3.3 GLI «EFFETTI DI LOCALIZZAZIONE» DELL’INTEGRAZIONE ECONOMICA E COMMERCIALE Un ulteriore effetto dell’integrazione economica e commerciale riguarda la localizzazione delle attività economiche all’interno dell’area integrata. Si ritiene, cioè, che l’integrazione, generando flussi di commercio, di investimento e migratori, sia in grado di influenzare in modo determinante la geografia economica delle aree partecipanti. Le statistiche dell’UE evidenziano effettivamente una peculiare tendenza alla localizzazione delle attività produttive in Europa. Si assiste, ad esempio, ad una chiara correlazione negativa tra concentrazione della produzione e distanza geografica dal centro dell’Europa. L’attività industriale dell’economia europea si concentra, infatti, all’interno della famosa «hot o blue banana», formata da una concentrazione industriale e finanziaria che si sviluppa, appunto a forma di banana, dal Sud-Est britannico fino alla Ruhr tedesca, comprendendo l’Ile de France, il Benelux ed il Nord Italia. Le regioni «in ritardo di sviluppo» 15 sono tipicamente «regioni periferiche», caratterizzate da bassi livelli di industrializzazione e meno densamente popolate (caratterizzate, a loro volta, dall’addensarsi della popolazione negli agglomerati urbani). A seguito dei successivi ampliamenti, la Comunità ha inoltre notevolmente esteso le aree considerate in ritardo e progressivamente accresciuto i propri divari regionali interni 16. Ancora una volta, tuttavia, l’analisi del nesso causale fra integrazione e localizzazione delle attività economiche non è intuitivo e richiede un approfondimento teorico relativo alla cosiddetta «dimensione spaziale» dell’economia. In particolare, l’analisi nota come «Nuova Geografia Economica» o «NEG-New Economic Geography»: nuovo filone di ricerca, sviluppatosi a partire dagli anni Novanta, proprio nella fase storica di maggiore impeto dei processi di globalizzazione dell’economia mondiale, a partire dai contributi storici nel campo dell’economia internazionale, dell’economia dello sviluppo, dell’economia regionale, della storia e della geografia economica, e grazie soprattutto al lavoro di Paul K. Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008. La teoria economica internazionale ha tradizionalmente affrontato il problema delle differenze spaziali tra strutture produttive regionali in termini di differenziali nella dotazione dei fattori, di gap tecnologico o di diversità nei policy regimes. La teoria classica del commercio internazionale, così come la cosiddetta «new trade theory», si basano infatti su una concezione «irregolare» dello spazio economico, caratterizzata appunto da differenze tecnologiche, di dotazione fattoriale, ma anche – coerentemente con gli studi più recenti di storia economica e di geografia economica – da peculiarità geografiche, sociali e storiche. La nuova geografia economica parte, invece, dalla situazione opposta, teorizzando un iniziale «spazio uniforme» dal quale attraverso una serie di processi si propaga una spinta all’agglomerazione industriale in un dato territorio, con conseguente polarizzazione delle attività economiche in un «centro» progressivamente destinato ad essere 20 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea protagonista di processi di accumulazione e crescita, rispetto ad una «periferia» progressivamente destinata all’impoverimento. Questa ipotesi di partenza, legata all’interazione tra due aree del tutto simili nelle loro iniziali caratteristiche, costituisce senz’altro una rilevante soluzione di continuità nello studio dei processi di sviluppo ed integrazione regionale, tale da far ritenere la nuova geografia economica come un nuovo approccio complessivo al modo di pensare la localizzazione (OTTAVIANO – PUGA 1997). Un’altra notevole differenza tra teoria tradizionale e new trade theory da una parte, e new economic geography dall’altra, consiste nella concezione dello sviluppo industriale: mentre infatti le prime presentano lo sviluppo industriale come un processo graduale e simultaneo, la seconda lo interpreta come un’onda progressiva che si estende da paese a paese con diversa rapidità e diffusione in stadi successivi (KRUGMAN – VENABLES 1990). Le implicazioni teoriche e di policy della NEG, così come esemplificate dal modello di Krugman del 1991, sono di importanza fondamentale negli studi sui processi di integrazione. Lo studente che non abbia familiarità con tale approccio teorico troverà cenni sulla «nuova geografia economica» e sul modello di Krugman nell’Appendice D al presente capitolo. Collegando strettamente i due fenomeni dell’integrazione e della polarizzazione centro/periferia, tale riflessione teorica mette apertamente in discussione l’utilità delle politiche a finalità strutturale, come ad esempio la stessa politica di coesione economica e sociale dell’Unione Europea (vedi cap. 3). Secondo tale impostazione, tali politiche non sarebbero basate su solide fondamenta teoriche ma dettate da «luoghi comuni» e rappresenterebbero addirittura un potenziale ostacolo alla crescita economica, in quanto forze frenanti nei processi «spontanei» di polarizzazione (MARTIN 2000). Inoltre, poiché i capitali ed i lavoratori scontano livelli di mobilità differenziata, ad esempio il lavoro più qualificato sembra essere tendenzialmente più mobile del lavoro meno qualificato ed il capitale legato alle nuove tecnologie più del capitale di investimento della grande industria, il dibattito sulla localizzazione può anche essere interpretato come un dibattito fra ricchi e poveri, tra chi è caratterizzato tendenzialmente da maggiore flessibilità e chi, al contrario, è caratterizzato da mobilità limitata. Esistono, tuttavia, voci critiche riguardo all’impostazione NEG. In primo luogo, le evidenze empiriche in Europa non sembrano essere coerenti con alcune ipotesi alla base della teoria. Ad esempio, per quanto riguarda la tendenza allo spostamento dei lavoratori verso l’area più industrializzata (vedi Appendice D) non si registra, in Europa, un’elevata elasticità dei flussi migratori pur in presenza di marcati differenziali salariali. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’elasticità della migrazione interregionale rispetto alle differenze salariali (calcolate come rapporto salario regionale su media nazionale) è di 25 volte superiore rispetto alla Gran Bretagna. Ma in generale in Europa meno del 2% dei cittadini comunitari vive in uno Stato europeo diverso da quello di nascita (COMMISSIONE EUROPEA 2009). In secondo luogo, la NEG non tiene conto di aspetti rilevanti come, ad esem- L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 21 pio, il ruolo delle aspettative, della casualità storica e la forza delle esternalità tecnologiche (VIESTI 2000). Il modello di Krugman, infatti, dimostra la tendenza alla concentrazione senza assumere nessuna delle esternalità marshalliane. Nel modello non ci sono, in pratica, prima dell’avvio del processo, esternalità tecnologiche o economie esterne come la maggiore disponibilità di forza lavoro o la sua maggiore qualificazione e non si tiene conto delle aspettative delle imprese. È bene invece considerare che la decisione di localizzazione, essendo per l’impresa onerosa finanziariamente e difficilmente reversibile, viene affrontata più in relazione alle opportunità ed alle politiche future che a quelle correnti. L’introduzione delle «aspettative» nella NEG apre la strada all’interessante fenomeno della «profezia autorealizzantesi», soprattutto per le economie in via di industrializzazione. Se un’impresa ritiene, infatti, per un qualsiasi motivo, anche errato, che una particolare localizzazione geografica diventerà il centro propulsore futuro dell’attività economica, essa, agendo come se tale convinzione fosse reale, potrebbe indurre altre imprese a fare altrettanto, contribuendo così a realizzare la sua aspettativa iniziale, e facendo della sua scelta localizzativa iniziale effettivamente il centro della futura vita economica della regione. Ciò apre la strada ad un maggior ruolo delle politiche economiche territoriali anche all’interno della NEG. Esse, infatti, al di là dell’effettiva capacità di incidere sulla tendenza «spontanea» alla polarizzazione, possono benissimo svolgere un ruolo fondamentale sulle aspettative delle imprese e, quindi, sulle scelte future di localizzazione. È bene, d’altro canto, tener presente che tali politiche hanno effetti completamente diversi a seconda del grado di polarizzazione. Il fatto che la Germania o il Nord Italia ospitino già una massiccia concentrazione di imprese fa di queste aree innegabilmente un potente polo di attrazione per i nuovi investimenti rispetto alle altre aree europee. D’altro canto, l’allargamento del processo di integrazione può determinare una tendenza a nuove forme di polarizzazione, che si possono tradurre in un aumento dei divari di sviluppo fra i paesi partecipanti (MANZOCCHI – OTTAVIANO 2000). I nuovi modelli di geografia economica possono, pertanto, essere utilmente estesi all’analisi delle relazioni economiche e commerciali esterne all’area integrata, come ad esempio, nel caso dell’UE, all’allargamento ad Est o alla politica di prossimità (cap. 6). 1.3.4 L’APPROCCIO DI POLITICAL ECONOMY ALL’INTEGRAZIONE ECONOMICA E COMMERCIALE La presenza di effetti di «carattere collettivo» del processo di integrazione è spesso sottostimata dall’analisi economica. Eppure solo attraverso questo particolare angolo visuale della teoria, che concentra l’attenzione sulla categoria dei beni collettivi (vedi riquadro), è possibile dare una spiegazione all’apparente paradosso della crescita relativa delle esperienze di integrazione di «second best» (regionali o comunque su base discriminatoria) a scapito di quelle di «first best» (su base multilaterale). 22 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea I beni collettivi Come è noto dall’economia del benessere, i beni collettivi si distinguono da quelli privati per la compresenza di due caratteristiche: la «non rivalità» (o indivisibilità dei benefici, nel senso che il consumo da parte di alcuni non limita l’uso da parte di altri) e la «non-escludibilità» (una volta prodotto, il bene pubblico è disponibile per tutti, mentre i beni privati sono offerti solo a coloro che ne pagano il prezzo). Tuttavia, una tassonomia più approfondita di tali beni tramite l’utilizzo di una scala continua dei principi di escludibilità e rivalità permette di focalizzare meglio numerosi casi intermedi di beni, con intensità di rivalità ed escludibilità variabili. Essi prendono il nome di beni pubblici «misti» o «impuri». Ad esempio, in presenza di rivalità ma in assenza di escludibilità troviamo i «beni comuni» o risorse «open access», caratterizzati cioè dall’assenza di proprietà in termini privatistici; mentre in assenza di rivalità ma in presenza di escludibilità troviamo i cosiddetti «beni di club», caratterizzati cioè dal pagamento di una quota necessaria a beneficiare della risorse (per esempio pedaggi autostradali). Per dare una risposta a questa apparente contraddizione tra realtà e interpretazione economica, si deve tenere conto che la teoria economica standard concentra l’attenzione sugli effetti prodotti dall’integrazione sul benessere dell’individuo e sul consumo di beni privati. È tuttavia innegabile che l’eventuale adozione di misure protezionistiche, ad esempio a favore dell’industria nazionale, possa incontrare effettivamente le preferenze della collettività, la quale desidera spingere il volume della produzione e l’occupazione ad un livello superiore a quello consentito dalla liberalizzazione del commercio, e che le autorità si facciano interpreti di tale preferenza 17. La fissazione di una tariffa comune, ad esempio, consente di minimizzare i costi della diversione, misurati in termini di diminuzione del consumo privato, nell’intento di ottenere il bene collettivo della «protezione». Più precisamente, la tariffa comune sarà fissata a quel livello che permette di uguagliare il costo privato derivante dalla diversione del commercio al beneficio sociale conseguente alla protezione accordata all’industria nazionale. L’esistenza di interessi di carattere collettivo offre, quindi, una giustificazione teorica valida alla superiorità degli accordi commerciali preferenziali rispetto alle politiche unilaterali di libero scambio e fa sì che il soggetto di riferimento delle teorie dell’integrazione non sia più costituito dal singolo consumatore ma dagli Stati-nazione, la cui funzione è quella di farsi portatori di interessi collettivi. Tali conclusioni sono valide qualunque forma assumano i benefici collettivi connessi alla formazione di accordi commerciali tra paesi. La politica commerciale può anche essere vista come fonte di rendita e di vantaggi redistributivi. La riallocazione delle risorse, frutto della tariffa commerciale, avvantaggia infatti i produttori nazionali e il governo (vedi par. 1.3.1) e ciò può determinare una spontanea «pressione» a favore della tariffa da parte di tali sogget- L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 23 ti 18. Sulla scia dei lavori pioneristici di Tullock (1967), Kruger (1974) e Buchanan, Tollison & Tullock (1980) sul rent seeking, alcuni studi hanno, pertanto, tentato di spiegare la protezione commerciale come variabile endogena in modelli in cui si tiene conto dell’influenza dei fattori politici. Una rassegna completa degli studi concernenti le determinanti del protezionismo all’interno della più ampia letteratura denominata public choice è contenuta in Frey (1984), Bhagwati – Rosendorff (2001), Mueller (2003), mentre una rassegna specificamente dedicata all’integrazione europea è contenuta in Vaubel (1994). Un altro importante filone della letteratura, che può essere fatto risalire al contributo di Olson (1965, 1982), sottolinea il legame inversamente proporzionale fra ampiezza dei gruppi di pressione e capacità organizzativa evidenziando efficacemente perché specifiche lobby produttive riescono ad influenzare a loro favore la politica commerciale, avvantaggiandosi di benefici concentrati, a fronte di costi collettivi diffusi. In base a tale impostazione, all’interno del sistema politico si viene a determinare fra policymaker ed elettori un effetto «prisma» capace di distorcere la percezione che i policymaker hanno degli obiettivi di benessere dell’elettorato. Tali fattori di distorsione possono essere collegati a varie fattispecie di costo, fra cui i costi che gli elettori dovrebbero affrontare per ottenere La letteratura sul legame fra cicli politici ed economici La letteratura sul legame fra cicli politici ed economici si è sviluppata in due fasi distinte. A metà anni Settanta, i cosiddetti «Partisan Models» si basavano su modelli macroeconomici tradizionali nei quali il governo, traendo vantaggio dal trade-off fra inflazione e disoccupazione (ossia dalle caratteristiche della nota «curva di Phillips»), influenzava sistematicamente i risultati macroeconomici. Mentre alcuni autori (NORDHAUS 1975, LINDBECK 1976) sottolineavano le motivazioni opportunistiche dei policymakers (i politici non hanno preferenze precostituite ma scelgono sistematicamente le politiche economiche capaci di massimizzare le proprie chances di vittoria elettorale), Hibbs (1977) valorizzò la componente motivazionale «di parte» dei policymakers. In particolare, i partiti di «sinistra» sono considerati essere più preoccupati della disoccupazione che non dell’inflazione mentre accade l’opposto nel caso dei partiti di «destra». Nella metà degli anni ’80, si affermano invece i cosiddetti opportunistic models – Cukierman-Meltzer (1986), Rogoff-Sibert (1988), Rogoff (1990), Persson-Tabellini (1990) –, evoluzione dell’approccio della teoria dei giochi alla politica macroeconomica. Questi nuovi modelli dei «cicli politici» incorporano l’ipotesi di «aspettative razionali» e considerano che ogni governo cerchi esclusivamente di agire opportunisticamente per vincere le elezioni. Bisogna, tuttavia, tener presente che sia i modelli opportunistic sia i modelli partisan interagiscono con il quadro istituzionale di riferimento, caratterizzato da determinate strutture di governo (coalizioni o single party), leggi elettorali e grado di indipendenza della banca centrale. 24 Le Politiche Economiche dell’Unione Europea informazioni circa la natura e gli effetti delle politiche realizzate dai policymaker o i costi che gli elettori dovrebbero sostenere per organizzarsi in forze politiche portatrici dei propri obiettivi di benessere. Una parte rilevante degli effetti degli accordi di integrazione può essere compresa più agevolmente in base a tale approccio. Ad esempio, perché, nonostante la teoria economica sia concorde nel considerare una situazione di libero commercio assolutamente preferibile dal punto di vista del benessere collettivo rispetto ad una situazione di protezione, l’evidenza empirica sul commercio internazionale rimane costellata da ostacoli agli scambi di varia natura? Ciò si comprende esclusivamente considerando l’effetto prisma dei sistemi politici nazionali che avvertono in modo più rilevante la pressione politica dei grandi gruppi industriali nazionali rispetto a quella dei singoli consumatori, raramente organizzati in forze politiche effettive. Allo stesso modo si comprende perché normalmente i dazi sulle importazioni di beni primari o intermedi, che incidono principalmente sui bilanci delle imprese, siano sensibilmente più bassi dei dazi sui prodotti finali che vanno ad incidere sul vincolo di bilancio dei consumatori nazionali. Un utile riferimento per l’analisi della political economy dell’integrazione economica e commerciale è la cosiddetta «teoria del domino» (BALDWIN 1993b). Se si considera, infatti, che gli accordi commerciali preferenziali attuali non si esauriscono nella mera introduzione di quote e tariffe preferenziali, ma abbracciano tematiche sempre più ampie e complesse, si comprende come gli effetti di diversione legati a tali accordi siano sempre più rilevanti per le principali forze politiche e sociali dei paesi non membri. Ciò genera un effetto moltiplicativo di propagazione delle cosiddette «pressioni all’inclusione» che tali forze politiche esercitano sui governi nazionali, determinando una spinta ulteriore al fenomeno del regionalismo. Ad esempio, è probabile che i gruppi di pressione imprenditoriali non UE, con interessi nel mercato interno europeo, si attivino per evitare tale perdita di competitività chiedendo ai propri governi nazionali azioni e politiche in favore di una maggiore partecipazione al processo di integrazione regionale, esattamente come avvenuto negli anni Sessanta e Settanta all’interno paesi EFTA (BALDWIN 1994). Ne consegue che gli accordi di integrazione regionale tendono ad ampliarsi ad «effetto domino». Le forze di politica economica che determinano l’effetto domino sono, in realtà, le stesse forze che beneficerebbero maggiormente di una totale liberalizzazione. Esiste, tuttavia, la peculiare tendenza dei gruppi di interesse a scontare un’asimmetria politica che li porta ad una maggiore incisività di intervento in relazione al rischio di perdite, rispetto alle opportunità di guadagni futuri 19. La teoria economica attribuisce la scarsa attitudine delle imprese a cogliere nuove opportunità di investimento al problema dei cosiddetti sunk cost (costi già sostenuti e non recuperabili), ossia al peso degli investimenti iniziali necessari per ampliare l’orizzonte economico (basti pensare agli investimenti necessari alla promozione del prodotto in mercati diversi dal proprio, alla formazione e qualificazione della manodopera, alle spese di pubblicità e propaganda, all’ampliamento della capacità produttiva, ecc.). In pratica, l’incidenza dei sunk cost tende a determinare delle rendite di posizione per le imprese già presenti sul mercato e ad ostacolare la formazione di gruppi di pressione per sfruttare le opportunità di profitto. L’integrazione europea: aspetti teorici ed evidenze empiriche 25