ARITMETICA POLITICA E CONTABILITA` NAZIONALE File

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ARITMETICA POLITICA E CONTABILITA` NAZIONALE File
Dall’Aritmetica Politica alla Contabilità Nazionale
Una breve storia
Giuseppe Venanzoni
1. Introduzione
Il presente saggio ripercorre in termini molto sintetici la storia dell’analisi
economica quantitativa, dalla nascita dell’Aritmetica Politica alla fine del XVII
secolo agli attuali sistemi di Contabilità Nazionale: lo SNA93
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e il SEC95 dell’Unione
Europea (UE). Questo saggio in particolare giunge ai primi decenni del XX
secolo, periodo in cui i principali contributi della scuola neoclassica, maturati
in forma definitiva, hanno permeato profondamente il moderno assetto teorico
della Contabilità Nazionale. Un secondo saggio sarà dedicato agli sviluppi
successivi, dai contributi keynesiani fino ai giorni attuali.
È una storia legata allo sviluppo economico e sociale delle nazioni moderne,
e si intreccia con quelle del pensiero economico da un lato, e dello studio
statistico dell’economia e della società dall’altro. Quest’ultimo aspetto,
trascurato a volte dagli storici del pensiero, è fondamentale poiché ha
consentito di verificare con misure empiriche la validità dei concetti teorici via
via elaborati. Al perfezionamento delle conoscenze quantitative negli ultimi tre
secoli hanno contribuito: lo sviluppo della metodologia statistica; la diffusione
dei censimenti; l’introduzione delle rilevazioni campionarie; la crescente
disponibilità di dati amministrativi, per l’attività sempre più estesa delle
organizzazioni pubbliche moderne; il loro utilizzo più sistematico, facilitato di
recente dai progressi informatici nella gestione delle basi-dati.
La trattazione ripercorre necessariamente quella molto più vasta del
pensiero economico in generale, del cui sviluppo le opere di molti degli Autori
richiamati costituiscono momenti centrali. L’attenzione è tuttavia rivolta
all’analisi quantitativa dei fenomeni economici (definizione, misura, e studio
dei comportamenti empirici): sono pertanto tralasciati gli sviluppi puramente
teorici, con l’eccezione di quelli che hanno avuto riflessi, anche non immediati,
sugli studi quantitativi.
Anche con tali limitazioni, affrontare un argomento così vasto in due saggi
può apparire temerario. In effetti questi hanno origine nelle lezioni che da
diversi anni svolgo nei corsi istituzionali di Statistica Economica presso la
Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. Lo
sviluppo della Contabilità Nazionale è trattato da autori che costituiscono un
riferimento obbligato per chi si avvicina a tale campo di ricerca (Studenski,
1958; Kenessey, 1994; Vanoli, 2005). Si tratta però di opere non sempre
facilmente accessibili, in particolare agli studenti, e consultate in genere solo
dagli studiosi della disciplina. In mancanza di una specifica trattazione nei
manuali universitari (esemplare fra questi, per capacità di trattazione e rigore,
nonostante il passare degli anni ed il mutamento dei sistemi contabili di
riferimento, è il Giannone, 1992), sempre più ho avvertito l’inadeguatezza
dell’approccio consueto seguito nei corsi di base: introdurre e illustrare
direttamente l’impostazione attuale della Statistica Economica senza ricordarne
origini e sviluppo, rinviando al più ai corsi di Contabilità Nazionale per gli
approfondimenti opportuni. È un’impostazione autoreferenziale (le statistiche
ufficiali e gli aggregati economici sono ciò che sono perché così è scritto nei
manuali dell’ISTAT o dell’EUROSTAT), e molto più nozionistico (in senso
deteriore) di un approccio che ripercorra anche brevemente la storia delle
discipline che hanno contribuito a creare l’attuale sistema delle statistiche
economiche. È inoltre un doveroso omaggio al lavoro di quanti hanno
contribuito – con le intuizioni originali, la pertinacia e il rigore del lavoro
scientifico, e in non pochi casi con gli errori commessi - al lento e progressivo
coagularsi e cristallizzarsi di idee avvenuto nel corso di quasi 350 anni.
I richiami presentati possono consentire di formarsi una immagine sintetica
ed essenziale di tale percorso. La bibliografia essenziale richiamata alla fine del
lavoro permette inoltre al lettore interessato di iniziare un percorso più
sistematico di ricerca di tale fondamentale campo di studi.
La prima stima del reddito nazionale, relativa all’Inghilterra, risale al 1664:
non è ancora emersa, fino ad oggi, alcuna precedente traccia di tale originale
approccio quantitativo allo studio dell’economia. Al suo autore, Petty, è così
attribuita la paternità della Contabilità Nazionale, da lui definita Aritmetica
Politica. I tre secoli e mezzo che ci separano da tale data possono essere
suddivisi, a grandi linee, in tre parti.
La prima è quella delle origini e degli sviluppi iniziali: le idee di Petty
furono riprese, sporadicamente prima e in maniera più sistematica poi, da altri
studiosi che elaborarono successive stime del reddito nazionale, a cominciare
da Francia, Inghilterra e Olanda. Nel corso di tali sviluppi furono approfonditi e
chiariti alcuni rilevanti concetti teorici – con i contributi fondamentali, a volte
su posizioni opposte, di autori come Quesnay, Smith, Marx e Marshall - ed
affinate al tempo stesso le metodologie empiriche. Questo periodo può
considerarsi concluso nei primi decenni del XX secolo, quando a livello teorico
si giunse ad alcuni punti fermi sui concetti e principi fondamentali, riassumibili
per brevità nei canoni del pensiero neoclassico. Contemporaneamente, in
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diverse nazioni appositi enti pubblici iniziarono a sostituirsi ai singoli studiosi
nelle elaborazioni empiriche. I conti nazionali entrarono così a far parte delle
statistiche ufficiali, accanto ad un insieme di informazioni statistiche di
dettaglio su molteplici aspetti economici e sociali (occupazione, prezzi,
commercio estero, etc.).
La seconda parte, molto più breve ma ricca di sviluppi essenziali, si colloca
nei due decenni successivi al 1930. Le conseguenze della prima guerra
mondiale (1914-18), la crisi del sistema economico internazionale per la grande
depressione degli anni ‘30, il secondo conflitto mondiale (1939-45), e infine le
nuove tensioni nate con l’inizio della guerra fredda (1946-47), con i loro
devastanti effetti politici e sociali, acuirono gli sforzi volti a comprendere
meglio il funzionamento dei sistemi economici di mercato, sotto il profilo sia
teorico (nascita della macroeconomia keynesiana), sia empirico. I due aspetti
sono intrecciati. Le statistiche ufficiali prodotte a livello governativo furono
sempre più utilizzate per valutazioni e confronti, a scopo scientifico, politico,
economico, sociale e militare: ciò portò alla necessità di standardizzare
metodologie e applicazioni, e quindi inevitabilmente principi e concetti. Tale
attività, iniziata con la Società delle Nazioni negli anni ’20 e completata poi
con l’ONU alla fine degli anni ’40, vide l’influenza determinante di Keynes e il
contributo essenziale di Stone. Fu così perfezionato in termini formali ed
assiomatici lo schema di costruzione e presentazione degli aggregati economici
alla base della Contabilità Nazionale attuale, che recepì inoltre i principi
fondamentali della macroeconomia keynesiana.
La terza parte inizia dal secondo dopoguerra ed arriva ai giorni nostri. Il
confronto scientifico fra le ricerche intraprese nei diversi paesi – su
impostazioni teoriche, metodologie e procedure statistiche – portò nel 1953 alla
compilazione in sede ONU del primo manuale di Contabilità Nazionale: il
System of National Accounts (SNA53). Sempre più paesi hanno da allora
iniziato a costruire correntemente i conti nazionali, migliorando
progressivamente l’informazione economica quantitativa. Una variante del
sistema ONU è stata adottata dai sistemi ad economia pianificata (Urss, Cina ed
altri paesi del socialismo reale) portando al Material Product System (MPS),
ottenuto modificando alcuni principi dello SNA53 per adeguarli ai canoni
dell’ortodossia marxista. Lo stesso successo teorico ed empirico dello SNA,
progressivamente esteso a praticamente tutti i paesi aderenti all’ONU, ha
portato a successive revisioni necessarie per affinarne principi e metodologia,
fino a giungere al sistema attuale (SNA93). Uno sviluppo parallelo è stato
seguito dal 1970 nei paesi della Comunità Economica Europea (CEE), divenuta
poi l’Unione Europea (UE), con un proprio sistema contabile: il Système
Européen de Comptes Économiques Intégrés (SEC70, successivamente rivisto e
aggiornato fino all’attuale SEC95), caratterizzato da alcune minori ma
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significative differenze rispetto allo SNA. Con la scomparsa pressoché totale
dei regimi del socialismo reale dopo il 1989, e la conseguente transizione
dall’economia pianificata a quella di mercato, il sistema MPS è stato
progressivamente abbandonato e sostituito dallo SNA93, o dal SEC95 per i paesi
interessati all’ingresso nella UE.
Parallelamente allo sviluppo dei sistemi di conti nazionali, dalla metà del
XX secolo è cresciuta in modo esponenziale l’analisi empirica, sotto l’impulso
degli sviluppi della Teoria Economica e dell’Econometria (disciplina che ha
visto l’applicazione dei principi probabilistici all’analisi delle osservazioni). La
crescita quantitativa e qualitativa delle rilevazioni statistiche ha aperto nuovi
campi di interesse, sotto il profilo macroeconomico - di cui i conti nazionali
sono una rappresentazione sintetica ma non esaustiva - e in misura crescente
microeconomico: analisi del comportamento di singoli agenti (persone,
famiglie, imprese, etc.). Lo studio della variabilità del comportamento di
collettivi – dati riferiti a singole unità (analisi cross-section), spesso organizzati
in modo cronologico (serie storiche), o territoriale (serie spaziali), o
combinando più modalità (serie panel) – ha fornito a sua volta ulteriore
impulso alle rilevazioni statistiche, in un circolo virtuoso continuo.
La trattazione dei punti salienti dell’analisi quantitativa dalla fine del XVII
secolo agli inizi del XX, oggetto di questo saggio, è articolata in quattro gruppi
di argomenti, individuati per brevità dall’autore e la scuola di pensiero
principali: Petty e gli Aritmetici Politici si riferisce alla prima formulazione in
termini moderni dell’analisi quantitativa a fine ‘600; Quesnay e i Fisiocratici è
dedicato ai contributi caratterizzati dalla considerazione del flusso circolare del
reddito a metà ‘700. Smith e i Classici tratta delle diverse correnti di pensiero
contraddistinte dalla teoria del valore-lavoro fino a metà ‘800; tale argomento,
per la sua estensione, è articolato in due paragrafi, cui segue uno specifico
paragrafo dedicato al parallelo sviluppo delle stime empiriche. Marshall e i
Neoclassici richiama infine gli sviluppi della scuola dell’utilità marginale fino
ai primi decenni del ‘900; anche questo argomento è suddiviso in due paragrafi,
cui segue un paragrafo conclusivo dedicato allo sviluppo internazionale delle
stime ‘ufficiali’, fino alla soglia della moderna Contabilità Nazionale.
2. Petty e gli Aritmetici Politici
Sir William Petty (1623-87), medico di professione, è considerato il
caposcuola dell’Aritmetica Politica e l’autore del concetto di Reddito
Nazionale, da lui introdotto nelle opere Verbum Sapienti e Political Arithmetick
del 1664 e 1676, pubblicate entrambe postume (1690-91). Secondo il suo
ideatore, l’Aritmetica Politica tratta di fenomeni sociali “in termini di Numero,
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Peso o Misura” piuttosto che con “Parole comparative o superlative”. Petty
definì il “Reddito della popolazione” come la somma del “Valore annuo del
Lavoro della Popolazione e del Ricavo annuo dello Stock o Ricchezza della
Nazione”, anticipando così la moderna distinzione fra reddito da lavoro e da
capitale (somma di rendite, interessi e profitti). Il Lavoro include l’attività delle
persone occupate nelle attività agricole, manifatturiere e dei servizi
(governativi, militari, mercantili e professionali); il Reddito è poi definito anche
come somma della “Spesa annua della Popolazione e del Surplus non speso”,
anticipando la moderna applicazione macroeconomica del principio della
partita doppia, che porta all’identità fra produzione e impiego delle risorse:
La stima originale di William Petty, 1664 (milioni di sterline)
Reddito
Dalla Terra
Da altre proprietà Personali
Dal Lavoro della Popolazione
Totale
Spesa
8
7
25
40
Alimentari, Abitazioni,
Abbigliamento e le
altre necessità
Totale
40
40
Le osservazioni che una popolazione prospera si caratterizza per un
“Reddito maggiore della Spesa” e che la “Ricchezza o Stock della Nazione è il
risultato del Lavoro passato” denotano l’intuizione di Petty che
l’accumulazione (il reddito passato non speso) è la chiave dello sviluppo
economico. In alcuni passi delle sue opere si può infine cogliere
un’anticipazione della teoria del moltiplicatore, formulata da Keynes quasi tre
secoli dopo. I suoi contributi sono quindi molteplici: introduzione del concetto
di reddito nazionale; formulazione di tale concetto secondo il modello
‘estensivo’ (alternativo a quello ‘restrittivo’ che vedremo in seguito), nei
termini sia dei fattori produttivi (lavoro e capitale) che dei settori di attività
economica (cruciale è l’inclusione dei servizi); esposizione della fondamentale
relazione di equilibrio statico delle risorse di un’economia; intuizione delle
caratteristiche dinamiche del processo di accumulazione. Petty non si limitò a
formulare concetti pur così innovativi per il suo tempo, ma li tradusse nella
prima misura empirica del reddito nazionale, ottenuta moltiplicando il totale
della popolazione inglese per una stima della spesa media pro-capite, ed
utilizzando il principio dell’eguaglianza reddito-consumo nell’ipotesi (inesatta
ma non lontana dalla realtà) di surplus (o risparmio) nullo. Suddivise poi tale
reddito nelle componenti da capitale e lavoro, stimando in base a superficie e
canone medio le rendite agricole totali (la parte all’epoca più rilevante dei
redditi da capitale) ed ottenendo per residuo l’altra componente. Queste
valutazioni furono poi utilizzate per altre ricerche, fra cui la stima della
capacità di tassazione (la base imponibile, in termini moderni), e il confronto
della ricchezza materiale fra Inghilterra, Francia e Olanda, i tre paesi
direttamente concorrenti sul piano economico, politico e militare.
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Per quanto possa oggi fare sorridere la metodologia di quelle stime – Smith
riassunse l’opinione di consenso degli economisti del XVII secolo con
l’affermazione: “non ho molta fiducia nell’aritmetica politica”, una posizione
che di tanto in tanto riaffiora fra gli economisti teorici e i giornalisti economici
– non c’è dubbio che tutti i principi e le potenzialità della moderna analisi
quantitativa del reddito fossero già presenti. La novità dell’opera di Petty può
essere maggiormente apprezzata considerandola sullo sfondo della corrente di
pensiero allora prevalente, il Mercantilismo, il cui tema centrale è stato
brillantemente sintetizzato come “guerra economica per il guadagno della
nazione”. Secondo i mercantilisti l’obiettivo fondamentale dell’attività
economica è l’accumulazione di metalli preziosi, da conseguire, per paesi privi
di miniere come Inghilterra e Francia, con un commercio internazionale
aggressivo e sostenuto dallo Stato (il termine ‘politica economica’ è del 1615),
secondo la lucida espressione di Francis Bacon (1561-1626):
“Siano così poste le fondamenta di un commercio vantaggioso tale che
l’esportazione dei nostri beni sia maggiore dell’importazione di quelli stranieri,
così che saremo sicuri che le riserve del Regno cresceranno, poiché il saldo
commerciale deve essere pagato in moneta o metalli preziosi”. (Spiegel, 1991;
p. 99)
La nascita dell’Aritmetica Politica non fu accidentale, ma un effetto delle
correnti intellettuali che dopo il Rinascimento portarono gli studiosi verso
l’analisi empirica, il metodo sperimentale, la ricerca quantitativa. Petty –
vissuto nel secolo di Descartes, Galileo, Newton e Leibniz – fece parte della
cerchia di John Graunt (1620-74), il cui lavoro sulle tavole di mortalità è un
passaggio fondamentale della statistica moderna. Il Parlamento inglese del
XVII secolo (periodo molto turbolento) varò una serie di leggi che
migliorarono la conoscenza quantitativa di vari aspetti economici e sociali:
dalla tenuta dei registri parrocchiali, alle norme sulla navigazione e sul
commercio marittimo, alla revisione del catasto fiscale (risalente al Domesday
Book normanno dell’XI secolo). Tutto questo ne costituiva la premessa, ma
l’originalità dell’opera di Petty emerge comunque.
Fra gli altri studiosi dell’epoca il più importante è Gregory King (16481712), autore nel 1696 di una nuova valutazione del reddito nazionale inglese,
fondata su fonti statistiche e metodi di calcolo più raffinati della precedente.
L’importanza di King è nella metodologia più che nei risultati (prossimi a
quelli di Petty): la sua valutazione degli aggregati combinò i tre momenti del
circuito del reddito (produzione, distribuzione ed impiego), di cui mostrò la
fondamentale identità; utilizzò inoltre in maniera brillante fonti amministrative
(registri fiscali) riclassificate alla luce di concetti sociali (suddivisione in classi
della società). Il suo procedimento di stima, molto più articolato e documentato
di Petty, consentiva la ripetibilità dei risultati e quindi la verifica della loro
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attendibilità: passo essenziale del metodo scientifico sperimentale, e
caratteristica dei moderni sistemi di dati statistici. La sua opera, pubblicata
purtroppo postuma dopo quasi un secolo (1802), ebbe però un’influenza
limitata e indiretta sul pensiero economico. Alcune copie manoscritte
circolarono in un ristretto gruppo di studiosi, fra cui Charles Davenant (16561714), scrittore e uomo politico influente della sua epoca, che espose e divulgò
i concetti e le stime di King. Altri importanti studiosi furono: Arthur Young
(1741-1820), cui si deve una stima del reddito nazionale inglese agli inizi della
rivoluzione industriale (1770), basata su molteplici e più attendibili fonti
statistiche; un primo ministro (William Pitt il giovane, nel 1798) che utilizzò i
suoi studi per illustrare al Parlamento la proposta di finanziare le guerre
napoleoniche con una tassa progressiva sul reddito; Friederich Gentz (17641832), che rivedette le stime di diversi autori precedenti per ricondurle al
concetto ‘restrittivo’ del reddito proposto nel frattempo da Smith.
Sviluppi vi furono anche in Francia. Due autori in particolare, entrambi con
un ruolo pubblico di rilievo, sono interessanti non tanto per l’originalità – si
ricollegano entrambi a Petty e King, delle cui opere conoscevano
probabilmente l’esistenza ed i tratti essenziali – quanto per le vicende politiche.
Il primo è Pierre de Boisguillebert (1646-1714), governatore di Rouen, che
pubblicò (saggiamente) all’estero ed in forma anonima Le Détail de la France
(1697), dal significativo ed imprudente sottotitolo “La Francia rovinata sotto il
regno di Luigi XIV” (all’epoca ancora regnante). La successiva opera Factum
de la France (1707), con una ricca documentazione e una stima del reddito
nazionale della Francia secondo l’Aritmetica Politica, fu presentata
direttamente al governo. L’opera conteneva però anche una proposta di riforma
fiscale dell’ancien régime in linea con quella della rivoluzione francese di un
secolo dopo, e provocò la perdita del posto di governatore e l’esilio. Il secondo
autore è Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707), Maresciallo di Francia e
celebre ingegnere militare del tempo (un tipo di fortificazioni porta il suo
nome). La sua opera Dime Royale (1707) contiene una stima del reddito
nazionale (il “reddito del regno”) della Francia articolata per branche
produttive ed ottenuta combinando dati amministrativi e fiscali con ingegnosi
quanto approssimativi metodi campionari. La stima era funzionale alla proposta
“che tutto il reddito dovrebbe contribuire proporzionalmente al sostegno dello
Stato”, radicale per l’epoca, in cui solo i redditi più bassi erano di fatto tassati.
Né l’influenza del re né i meriti militari salvarono Vauban: la sua lunga carriera
terminò con uno scandalo politico, la caduta in disgrazia e l’esilio.
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3. Quesnay e i Fisiocratici
A metà del XVIII secolo prevalse una nuova corrente di pensiero, la scuola
fisiocratica, il cui principale esponente fu François Quesnay (1694-1774),
medico personale di Luigi XV, una posizione che per la notevole influenza
contribuì alla diffusione delle sue idee. Il suo maggior contributo è costituito
dalla Philosophie Rurale (1764) e soprattutto dal Tableau économique (1758),
una rappresentazione dell’attività economica in termini di flussi fra le diverse
classi sociali: agricoltori, proprietari terrieri, artigiani, etc. Alla scuola
fisiocratica risale il concetto ‘restrittivo’ del reddito, riassumibile nella tesi che
la capacità di produrre nuova ricchezza è propria solo di una parte dell’attività
economica: l’agricoltura, unica attività realmente ‘produttiva’ perché capace di
fornire al termine del ciclo un ‘prodotto netto’ superiore al valore degli input
utilizzati (lavoro, capitale, sementi, etc.). È evidente l’analogia con il ciclo
agricolo naturale, in cui il raccolto al termine dell’annata produttiva è superiore
alle sementi utilizzate (in quantità) ed alle spese sostenute (in valore). Da tale
constatazione i Fisiocratici trassero un dottrina che portò a considerare ‘sterili’
le altre attività economiche, che fanno solo circolare nel resto della società la
ricchezza prodotta, e ‘improduttive’ o parassitarie le classi sociali non
direttamente impegnate nell’agricoltura. Tali idee furono sviluppate
principalmente in Francia, la più importante nazione agricola europea,
all'interno di un dibattito culturale caratterizzato da nomi come Voltaire e
Rousseau e dall’impresa dell’Encyclopédie. Si trovano ad esempio già in bozza
in un lavoro del 1755, Essai sur la nature du commerce en général, pubblicato
ed attribuito postumo a Richard Cantillon (1690?-1734), di cui si conosce
poco, a parte l’abilità di speculatore (accumulò una fortuna nella Bancarotta di
Law, che travolse il regno di Francia agli inizi del secolo).
Quesnay è la figura più importante di tale corrente di pensiero, sia per
l’importanza dei suoi scritti, sia per la vicinanza al sovrano che assicurò ampia
diffusione alle sue opere (sembra che lo stesso Luigi XV partecipasse alla
correzione delle bozze del Tableau économique). Il Tableau mostra in
particolare il flusso del reddito nazionale nel sistema economico: questo ha
origine con l’attività degli imprenditori e dei lavoratori agricoltori (la classe
produttrice); nel passaggio successivo il reddito affluisce ai proprietari terrieri
(la classe che controlla e distribuisce); il flusso termina quando il reddito
raggiunge la rimanente popolazione, impegnata nelle attività non agricole (la
classe sterile). Si può notare in tale rappresentazione il riflesso della situazione
sociale prima ancora che economica della Francia e delle altre nazioni europee
dell’epoca: la nobiltà terriera laica ed ecclesiastica estraeva dalla popolazione
contadina rendite feudali, decime e tasse, che spendeva poi nei prodotti
artigianali e nei servizi delle città. Il Tableau costituisce nondimeno la prima
rappresentazione schematica del processo economico come insieme di flussi fra
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i diversi agenti: può essere pertanto considerato il predecessore sia della
moderna analisi del reddito per settori istituzionali, sia delle matrici inputoutput sviluppate da Leontiev nel 1920. A Quesnay, medico come Petty, si
deve inoltre la proposizione che tutte le società hanno una comune ‘fisiologia
economica’, che si presta ad analisi qualitative e quantitative standard:
intuizione ampiamente convalidata dal lavoro di statistici ed economisti delle
generazioni successive. La rappresentazione di Quesnay si riferisce ad
un’economia sostanzialmente stazionaria, che tende cioè a riprodurre
esattamente se stessa nei diversi cicli produttivi; Quesnay costruisce però anche
alcuni esempi in cui “il Tableau ha perso il suo equilibrio” (ad esempio uno
spostamento dei consumi dai beni agricoli a quelli manifatturieri) introducendo
quindi tale concetto nell’analisi economica.
I Fisiocratici costituirono il principale gruppo di pensatori in campo
economico e sociale fino a Smith ed alla scuola classica: ne ricordiamo per la
loro importanza due. Il primo è Anne Robert Turgot (1727-81), uno degli ultimi
e più influenti ministri delle finanze dell’ancien régime, le cui Reflections on
the Formation and the Distribution of Riches (una sintesi in inglese del
pensiero fisiocratico francese) ebbero una diffusione all’estero superiore a
quella delle stesse opere di Quesnay. A Turgot risale anche la prima
formulazione del principio dei rendimenti marginali decrescenti, un punto
cardinale della successiva analisi neoclassica; la sua esposizione si trova
purtroppo in un lavoro del 1760 che non ebbe molta fortuna e rimase
praticamente sconosciuto: il principio fu nuovamente riscoperto da studiosi
inglesi oltre mezzo secolo più tardi.
Il secondo è Antoine Laurent Lavoisier (1743-1794), fondatore della
chimica moderna. Di ricca famiglia della borghesia parigina, acquistò una
carica di férmier général (esattore cui il regno di Francia appaltava la
riscossione delle tasse di una provincia) per finanziarne con i proventi il suo
laboratorio di ricerca. La carica lo portò ad interessarsi di economia e di
agricoltura, e a ricoprire diversi incarichi pubblici alla fine dell’ancien régime.
Componente dell’Assemblea Nazionale, Lavoisier presiedette alcuni dei
comitati che riorganizzarono lo stato francese durante la rivoluzione,
avanzando in tale veste anche la proposta di un’agenzia governativa per la la
raccolta sistematica e la pubblicazione ufficiale delle informazioni statistiche. I
suoi meriti non lo salvarono dalla ghigliottina sotto il Terrore giacobino (con
altri 27 fermiers généraux, conseguenza imprevista e spiacevole del suo antico
investimento finanziario). Lavoisier condusse dal 1784 al 1791 una stima del
reddito nazionale francese: la lunghezza stessa del periodo testimonia la
procedura metodica e meticolosa seguita, eredità evidente della prassi alla
ricerca scientifica appresa nello studio della chimica. Il suo lavoro costituì un
precedente, seguito poi da statistici ed economisti, nell’impiego sistematico dei
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dati per le stime. Il rigore esercitato nella selezione ed interpretazione delle
informazioni statistiche lo portò alla fondamentale scoperta del problema della
duplicazione (o doppio conteggio) del valore della produzione. Lavoisier
identificò il problema e ne prospettò la possibile soluzione, suggerendo di
affrontare la valutazione dal punto di vista del consumo; toccò così per primo
l’essenziale questione della distinzione fra beni finali (di consumo) e intermedi
(di produzione), cruciale da allora nell’analisi economica e nella contabilità
nazionale. Lavoisier fu un Fisiocratico; le sue stime, rigorose sotto il profilo
metodologico, sono viziate alla radice dall’impiego del concetto ‘restrittivo’ del
reddito: cercando la corretta stima del ‘prodotto netto’ del regno, arrivò alla
(moderna) stima del ‘prodotto lordo’ dell’agricoltura.
4. Adam Smith
Ai Fisiocratici subentrò in breve tempo la scuola classica del pensiero
economico, il cui principale esponente fu Adam Smith (1723-90), professore di
Filosofia Morale all’Università di Edimburgo: la sua opera fondamentale, The
Wealth of Nations (1776), è una pietra miliare della storia del pensiero
economico, da molti studiosi considerata come l’inizio del periodo moderno.
L’importanza e l’influenza di Smith derivano dalla presentazione di un sistema
teorico completo, il liberismo economico, inserito in un più ampio sistema
filosofico: il liberalismo politico di John Locke (1632-1704), alla base delle
moderne costituzioni liberali. Tema centrale del liberalismo politico è la tutela
dei diritti naturali dei cittadini: diritto all’esistenza, alla libertà, al
raggiungimento della felicità, alla proprietà individuale; dovere di un governo è
la loro protezione: in primo luogo del diritto di proprietà (garanzia di tutti gli
altri), secondo una linea di pensiero risalente ai giuristi inglesi del XIII secolo e
ripresa poi da Thomas Hobbes (1588-1679). Il liberismo economico, coerente
con tali premesse, porta ai principi dell’eguaglianza delle condizioni e della
libertà di concorrenza, e quindi al superamento radicale della struttura feudale
della società, con tutti i suoi ordinamenti particolari, privilegi giuridici,
monopoli economici e corporazioni professionali provenienti in blocco dal
medioevo. Il libero mercato è considerato uno strumento di progresso: la
ricerca del profitto individuale, come guidata da una mano invisibile, porta al
raggiungimento del benessere sociale (dottrina conosciuta riduttivamente come
laissez faire).
Il contestuale affermarsi nei rispettivi campi delle due teorie liberali,
l’economica e la politica, portò al loro rafforzamento reciproco, assicurandone
la supremazia incontrastata per oltre un secolo. In campo economico in
particolare il liberismo fu considerato poco meno che una dottrina ortodossa,
cui si contrappose solo la filosofia economica marxista, considerata non a caso
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una ‘eresia’; anche se la scuola marginalista ne demolì la teoria del valore (si
veda più avanti), il predominio intellettuale del liberismo rimase
sostanzialmente inalterato fino al periodo keynesiano. La scuola classica
riprende aspetti sostanziali della teoria fisiocratica, riconoscendo però la
capacità di essere produttive anche alle attività manifatturiere oltre che a quelle
agricole: l’estensione è in un certo senso naturale, dato il contemporaneo inizio
del capitalismo industriale in Inghilterra, la formazione di una prima classe
imprenditoriale e i suoi effetti sullo sviluppo economico. Non si ripeté quindi
l’errore dei Fisiocratici, prevalentemente francesi, che ritennero sterili le
attività manifatturiere del proprio paese, in gran parte artigianali. Sterili furono
considerate solo le attività di servizio, a fine ‘700 organizzate prevalentemente
in forme pre-industriali. Così, con l’autorevolezza e l’influenza del suo
pensiero, Smith perpetuò per quasi un secolo l’errore fisiocratico del concetto
‘restrittivo’ del reddito.
Si è parlato di un sistema completo di teoria economica. The Wealth of
Nations contiene una critica rigorosa dei precedenti sistemi mercantilista e
fisiocratico (l’opinione sull’Aritmetica Politica è già stata ricordata), ma
soprattutto un modello esplicativo che attribuisce la ricchezza delle nazioni a
due cause concomitanti: la produttività del lavoro, e il rapporto fra lavoro
produttivo e improduttivo. Il primo aspetto dipende dalla divisione e
specializzazione del lavoro umano - caratteristica già analizzata sotto il profilo
politico e sociale da Platone (428-347 a.c.) – di cui Smith mette in luce gli
effetti economici: in particolare l’aumento esponenziale della capacità di
produrre indotto dalla parcellizzazione e ripetitività delle operazioni; famoso è
l’esempio sulla fabbricazione degli spilli, utilizzato ancora oggi nella didattica
dell’economia. Si tratta di un’embrionale anticipazione della dottrina - detta
alternativamente taylorista da F. W. Taylor (1856-1915), l’ingegnere che la
formulò nei termini attuali, e fordista da Henry Ford (1863-1947), il fondatore
dell’industria omonima che l’applicò su vasta scala - sull’organizzazione degli
stabilimenti intorno alle catene di montaggio.
Il secondo aspetto è cruciale per la storia dell’analisi economica
quantitativa. Smith considera ‘produttivo’ il lavoro prestato nella produzione di
beni (agricoli o industriali), e ‘improduttivo’ quello impiegato nei servizi:
“il lavoro di un operaio manifatturiero generalmente si aggiunge al valore
delle materie prime, alle spese del proprio mantenimento e al profitto del
proprietario. Il lavoro di un domestico, al contrario non si aggiunge a nulla … il
lavoro dell’operaio si fissa e si realizza in un qualche particolare oggetto o bene
vendibile, che dura per qualche tempo almeno dopo che il lavoro è passato … Il
lavoro del domestico al contrario non si fissa in nessun particolare oggetto o
bene vendibile. I suoi servizi generalmente periscono nel momento stesso in cui
vengono prestati, e raramente lasciano dietro di loro una qualche traccia o
11
valore, tramite cui un’eguale quantità di servizi possa essere successivamente
procurata”. (Studenski, 1958; p. 18)
Coerentemente con tale impostazione, la produzione nazionale risulta
costituita solo da beni, e il reddito nazionale solo dal valore delle
remunerazioni (salari, rendite, interessi e profitti) derivanti dalla fabbricazione
di questi. Le attività di servizio non creano valore, e non sono pertanto ‘reddito
netto’ o creazione di nuovo reddito, ma semplicemente redistribuzione del
reddito creato altrove: come nel Tableau di Quesnay, salvo che per l’estensione
all’industria della proprietà considerata originariamente propria solo
dell’agricoltura. Si tratta di una posizione che discende dall’osservazione
dell’attività imprenditoriale nelle fabbriche manifatturiere inglesi del tempo, e
della conseguente tumultuosa fase di accumulazione, progresso tecnico e
crescita industriale. Il modello smithiano sembra spiegare tale processo, al
prezzo però di sovrapporre e confondere i problemi della creazione di valore,
della distinzione fra impieghi finali e produttivi, del meccanismo di
accumulazione e dello sviluppo economico. L’influenza e l’autorevolezza del
liberismo economico contribuirono al predominio di tale impostazione sostanzialmente fino alla rivoluzione ‘marginalista’ (seconda metà del XIX
secolo) e a quella ‘keynesiana’ (prima metà del XX) - anche se a fine ‘700
esistevano già linee di pensiero radicalmente differenti, in ultima analisi più
corrette e feconde. È interessante ricordarne due.
La prima è attribuibile a tre italiani - Ferdinando Galiani (1728-87), Pietro
Verri (1728-97) e Giuseppe Palmieri (1721-94) - considerati oggi più
innovativi e rigorosi di Smith: lo anticiparono nel rilevare le incongruenze della
teoria fisiocratica, senza però ripetere l’errore di contrapporre lavoro produttivo
e improduttivo. Per loro tutto il lavoro impiegato nella produzione di cose utili
e richieste dal mercato è produttivo, indipendentemente dall’aspetto materiale
dei prodotti: un’impostazione derivata dalla filosofia scolastica medioevale, e
perfettamente il linea con l’Aritmetica Politica di Petty. Le loro elaborazioni si
limitarono però alle definizioni generali, senza portare alla costruzione di un
sistema teorico completo o di un modello esplicativo dell’economia, né a stime
del reddito nazionale o ad altre valutazioni economiche empiriche. Anche
l’ostacolo della lingua (solo Galiani, diplomatico a Parigi, scrisse in francese)
contribuì alla scarsa diffusione delle opere; rapidamente dimenticate e
riscoperte dagli storici del pensiero oltre un secolo più tardi, non ebbero effetti
sullo sviluppo dell’analisi quantitativa: l’influenza di Smith era nel frattempo
divenuta incontrastata. Anche sul piano degli studi empirici non vi furono
conseguenze di rilievo. La Statistica del dipartimento dell’Adda ad esempio una delle ricerche curate da Melchiorre Gioia (1767-1829) negli anni 1812-14,
e considerata la prima pubblicazione statistica ‘ufficiale’ italiana in quanto
commissionata dal Regno (napoleonico) d’Italia - contiene un insieme
12
sistematico di dati geografici, demografici, economici e politici: i fenomeni
sono però riportati in un quadro puramente descrittivo, che non affronta il
problema della misura sintetica dell’attività economica nei termini di Petty.
Tale approccio è invece presente in una serie di studi poco noti ma
estremamente interessanti condotti nello stesso periodo in Russia, che risulta
così il terzo paese in ordine cronologico in tale campo (dopo Inghilterra e
Francia). L’arretratezza e la vastità dell’impero russo, nel ‘700
economicamente e socialmente arretrato nonostante l’importanza politica e
militare, portarono sovrani come Pietro il Grande (1682-1725) e Caterina II
(1762-96) ad intensificare le indagini amministrative - fra cui l’obbligo per la
chiesa ortodossa di tenere i registri parrocchiali e trasmettere le informazioni al
governo (come nell’Inghilterra del ‘600) – e di svolgere quasi sistematicamente
Censimenti della popolazione e delle abitazioni (necessari per il fisco). Diversi
studi statistici furono condotti in tale periodo, grazie anche all’influenza
dell’Encyclopédie sugli importanti circoli culturali e letterari della capitale. I
più significativi sono quelli del direttore delle Dogane di S. Pietroburgo A. N.
Radishchev (1749-1802), che iniziò due trattati su demografia, economia ed
amministrazione della provincia di S. Pietroburgo, mai completati: la parallela
utilizzazione di parte della documentazione per un libro critico sul governo (Il
Viaggio da S. Pietroburgo a Mosca, 1790), lo condannò alla Siberia. Durante
l’esilio compose Il Commercio con la Cina, del quale mostrò la scarsa
importanza (contrariamente all’opinione prevalente) in base ad una stima del
reddito nazionale per la Russia condotta secondo l’impostazione di Smith.
Graziato, lavorò alla Descrizione della mia Proprietà: ricostruzione di un
villaggio russo con dati economici dettagliati: superfici e coltivazioni agricole,
reddito e spesa delle varie tipologie di famiglie, risparmi e investimenti, stock
di moneta e di beni, etc. Ogni aspetto economico e sociale del villaggio è
misurato e analizzato secondo uno schema non lontano dagli attuali conti della
produzione e del reddito; il risultato è un case-study di notevole modernità.
Tutti i suoi lavori vennero soppressi dalla censura; condannato di nuovo, si
suicidò in carcere; gli altri studiosi contemporanei furono messi a tacere. Fu
proibita la ricerca economica quantitativa, considerata disciplina sovversiva; le
poche copie dei lavori non distrutte, fortunatamente conservate dai censori
stessi, tornaro a circolare dopo la rivoluzione del 1905: tardivo omaggio alle
capacità e coraggio degli autori. Solo intorno al 1900 ci fu una ripresa degli
studi, per il mutato clima politico interno e l’influenza dei risultati ottenuti in
altri paesi. I problemi economici della prima guerra mondiale, sottolineati nel
1915 in un importante articolo dell’Economist (si veda più avanti), portarono
ad effettuare una stima accurata del reddito nazionale, utilizzata poi come
benchmark nel periodo iniziale dello stato sovietico.
13
5. Gli altri Classici
Se nella Russia del XIX secolo ad un’inizio pioneristico seguì il letargo,
nello stesso periodo si registrarono invece in altri paesi (in genere più
democratici: un caso?) progressi enormi nella misura statistica dell’economia.
Prima di esaminarli, è opportuno richiamare brevemente gli sviluppi teorici
successivi a Smith. La trattazione dei numerosi ed importanti contributi della
scuola classica è argomento indubbiamente meglio approfondito nei corsi
specialistici di storia del pensiero economico: senza alcuna pretesa di
richiamare anche solo una selezione dei principali autori, ne ricordiamo qui
alcuni, la cui specifica influenza sugli sviluppi dell’analisi quantitativa è
fondamentale. In primo luogo Thomas Robert Malthus (1766-1834), autore di
An Essay on the Principle of Population (1798), considerato il primo studio
moderno di economia della popolazione (alcune anticipazioni si trovano nelle
opere degli italiani Giovanni Botero, del 1588, e Gianmaria Ortes, del 1790).
L’impostazione del problema della popolazione in Malthus è riassumibile nel
celebre principio secondo cui la disponibilità di alimenti cresce in progressione
aritmetica e la popolazione in progressione geometrica, con conseguente
sempre maggior squilibrio in assenza di controllo sulla popolazione. Sono
presenti in tale impostazione - anche se poste in modo errato, e completamente
prive di riscontri empirici - le basi dell’analisi del rapporto fra popolazione e
risorse economiche, ovvero dell’interazione fra domanda e offerta.
Con riferimento proprio a tale aspetto è doveroso ricordare Jean-Baptiste
Say (1767-1832), il cui Traité d’èconomie politique (1803) – opera di
esposizione dei canoni del pensiero di Smith - si affermò rapidamente e a lungo
come manuale d’insegnamento presso le principali università (la traduzione
inglese del 1821, Treatise on Political Economy, considerata superiore per
chiarezza e sintesi alla stessa Wealth of Nations, fu adottata ad Harvard fino al
1850). A tale autore è attribuita la cosiddetta ‘Legge di Say’, o legge dei
mercati: “l’offerta crea la domanda per i prodotti”, ovvero “appena un prodotto
è creato, consente nello stesso istante un mercato per gli altri prodotti, pari al
proprio intero valore”. La formulazione originaria, piuttosto ambigua, si presta
ad interpretazioni diverse: da quella di una pura tautologia, a quella di un
modello del comportamento dei mercati. In quest’ultimo caso, si può sostenere
che la Legge di Say implica una tendenza strutturale delle economie di mercato
all’equilibrio generale: se ogni offerta crea la propria domanda, non vi può
essere sovraproduzione (e pertanto disoccupazione) permanente. Questa
impostazione fu demolita dalla teoria macroeconomica keynesiana, che mise in
luce la possibilità di equilibri di sotto-occupazione. Di tali aspetti rimane una
traccia permanente nell’attuale sistema dei conti economici nazionali: la
presentazione degli aggregati avviene sotto forma di relazioni di identità
(equilibrio) fra domanda e offerta, senza però che ad esse (riferite al passato e
14
quindi ex-post) sia attribuito un significato di equilibrio dinamico (riferito al
futuro e quindi ex-ante).
Dopo Smith, il più importante economista classico è David Ricardo (17721823), autore di opere considerate fondamentali come The High Price of
Bullion (1810), An Essay on Profits (1815; titolo abbreviato), Principles of
Political Economy and Taxation (1817). I contributi di Ricardo sono alla base
dell’analisi moderna per argomenti come la distribuzione del reddito, il
commercio internazionale, la dinamica economica. Possiamo ricordare la teoria
della Rendita (detta appunto ricardiana) fondata sul principio dei rendimenti
marginali decrescenti, e definita “il surplus percepito dal proprietario della terra
coltivata sotto condizioni più favorevoli di quella marginale” e pari alla
“differenza di prodotto ottenuto con l’impiego di due quantità identiche di
lavoro e capitale”, e delle conseguenti teorie del Salario e del Profitto. Altri
risultati fondamentali sono relativi all’analisi del Commercio Internazionale
(basata sul principio dei vantaggi comparati), o degli effetti del Debito
Pubblico sul reddito nazionale. Al di là dei singoli temi, l’apporto complessivo
di Ricardo all’economia è di tipo metodologico: adozione di un sistema di
analisi teorica in cui l’osservazione empirica è la base per costruzioni astratte
(modelli, in seguito spesso tradotti in termini matematici), sviluppate con rigore
logico, seguendo fedelmente il principio di parsimonia nell’introduzione di
concetti non necessari (‘rasoio di Occam’). Nel campo specifico della teoria del
valore-lavoro, la ricerca di una misura invariabile del valore portò Ricardo su
una posizione ancora più decisa rispetto a Smith:
“il valore di un bene, o la quantità di ogni altro bene per cui sarà scambiato,
dipende dalla quantità relativa di lavoro necessario per la sua produzione, e non
nel maggiore o minore compenso pagato per quel lavoro”. (Spiegel, 1991; p.
320)
L’influenza di Ricardo rafforzò l’accettazione della teoria di Smith su
lavoro produttivo/improduttivo, nonostante le critiche crescenti cui era stata
sottoposta già agli inizi dell’800 da economisti come Say, che aveva
conseguentemente messo in dubbio la validità del concetto ‘restrittivo’ del
reddito, o come James Maitland, earl of Lauderdale (1759-1839), che nella sua
Inquiry into the Nature and Origin of Public Wealth (1804), assunse una
posizione radicale in merito alla teoria stessa del valore-lavoro:
“il lavoro non è misura del valore poiché il suo stesso valore cambia. La
ricerca di una misura invariabile del valore è altrettanto futile quanto lo è stata la
ricerca della pietra filosofale da parte degli alchimisti. La distinzione fra lavoro
produttivo e improduttivo non ha validità”. (Spiegel, 1991; p. 300)
15
Anche nell’opera di John Stuart Mill (1806-73) - l’ultimo grande
economista della scuola classica, che ne sistematizzò l’esposizione teorica, ed i
cui Principles of Political Economy (1848) furono adottati come manuale in
numerose università fino agli inizi del ‘900 – la teoria del valore-lavoro risulta
indebolita. Nonostante infatti la sua piena adesione alla formulazione
ricardiana, Mill stabilisce una distinzione fondamentale fra l’analisi della
produzione – i cui principi di funzionamento considera vere e proprie legge
naturali e immutabili – e quella della distribuzione del reddito prodotto,
regolata da fattori ‘istituzionali’ e quindi influenzati dal comportamento
umano. Tale impostazione spezza lo stretto legame fra produzione e
distribuzione stabilito appunto da Ricardo con la teoria del valore-lavoro.
Nel momento in cui tale teoria – ed il conseguente corollario su lavoro
produttivo e improduttivo – iniziava a vacillare, ricevette un nuovo impulso
dalla riformulazione effettuata dal principale esponente del ‘socialismo
scientifico’, Karl Marx (1818-83), che ne fece la pietra angolare della sua
visione dinamica della società: il materialismo dialettico, di cui il valore-lavoro
(ed il conseguente ‘plusvalore’) è punto essenziale. Nelle sue opere più celebri,
Il Manifesto Comunista (1848, con Friedrich Engels, 1820-95), e soprattutto Il
Capitale (III volumi: 1867, 1885 e 1894), l’analisi economica è intrecciata con
la filosofia politica, e porta ad una visione deterministica della società e della
storia, il cui sviluppo è visto in termini di conflitto fra le classi sociali.
Limitando l’attenzione agli aspetti connessi all’analisi economica quantitativa,
Marx introduce una variante nella teoria di Smith: la capacità di creare valore è
riconosciuta solo al lavoro, considerato così l’unico ‘fattore produttivo’. Si
tratta di un importante passo indietro, che porta ad una posizione simmetrica a
quella di Quesnay di circa un secolo prima, in cui l’unico fattore era la terra. Il
capitale ha una funzione politico-sociale più che economica: la concentrazione
dei mezzi di produzione nella classe sociale dominante (la borghesia
industriale, a metà ‘800) permette a quest’ultima di ‘espropriare’ le classi
soggette (in particolare i lavoratori, ridotti alla condizione di ‘proletari’) di
parte del valore-lavoro creato: il ‘plusvalore’ appunto. La posizione di Marx in
merito alla distinzione fra attività produttrici di beni (agricoltura e industria) e
di servizi è articolata: la creazione di valore non dipende dalla forma del
prodotto (materiale o no) ma esclusivamente dalla forma del processo
produttivo (capitalistico o no). Tale principio non viene però sviluppato nelle
sue conseguenze logiche, perché a metà ‘800 le forme capitalistiche di
produzione di servizi “sono insignificanti rispetto al totale. Le possiamo quindi
completamente trascurare”. Pur con differenti premesse, la sua posizione finale
è di fatto simile a Smith.
La teoria del valore-lavoro così formulata divenne la base del marxismo,
adottato come articolo di fede nei paesi del socialismo reale dalla rivoluzione
16
d’ottobre (1917) alla caduta del muro di Berlino (1989). Che si trattasse di
un’ortodossia non solo virtuale lo scoprirono diversi studiosi, di rilevanza
internazionale, delle cui opere fu esaminata la purezza ideologica. Fra i
principali esempi ricordiamo Nikolaj Dmitrievič Kondrat’ev (1892-1930?),
primo studioso dei cicli economici, o Leonid Vital’evič Kantorovič (1912-1986,
Nobel 1975), che introdusse la programmazione lineare: per entrambi fu messo
in dubbio che l’impiego della matematica in economia fosse lecito alla luce
della teoria marxista. Fortunatamente per il pensiero economico, la risposta fu
positiva (anche se inadeguata per Kondrat’ev, nel frattempo vittima del Terrore
staliniano) alla luce di un noto passo tratto da una lettera di Marx ad Engels del
1873, in cui richiama:
“quei diagrammi dove è riportato il movimento annuo dei prezzi … ho
cercato diverse volte di calcolare le formule per quelle curve irregolari … per
determinare matematicamente le principali leggi che governano le crisi”.
(Spiegel, 1991; p. 487)
Ortodossia a parte, dalla teoria marxista discende logicamente un concetto
estremamente ‘restrittivo’ di reddito nazionale (nessun valore riconosciuto ai
servizi, né alle categorie di reddito costituite da rendite, profitti e interessi), che
trovò espressione concreta in uno specifico sistema di contabilità nazionale (il
Material Product System, si veda più avanti).
6. Stime empiriche
Gli studi empirici si moltiplicarono nel corso del XIX secolo parallelamente
in Europa e negli Stati Uniti, con progressi continui in campo metodologico:
procedure di stima, utilizzo di fonti, significatività e comparabilità dei risultati.
Le prime stime del reddito nazionale basate sull’impiego sistematico dei
Censimenti del Regno Unito (1800 e 1811) sono di Patrick Colquhoun (17451820), cui si deve A Treatise on the Wealth (1814, titolo abbreviato). Ancora
più importante è il successivo The Present State of England (1823, titolo
abbreviato) di Joseph Lowe: il reddito nazionale del 1823 è ottenuto
aggiornando in base al Censimento del 1821 i precedenti risultati di
Colquhoun, facendo così implicitamente ricorso alla tecnica del benchmark
(aggiornamento con indicatori di una stima approfondita per un anno base). A
Lowe va il merito dell’introduzione di valutazioni a prezzi costanti: il reddito
nazionale e le entrate tributarie del Regno Unito espressi per cinque anni (fra il
1792 e il 1823) a prezzi 1792. Ciò permise lo studio empirico dell’evoluzione
del carico fiscale, tema di estremo interesse in quel periodo (per il costo delle
guerre napoleoniche) e già trattato da Ricardo in termini teorici. I dati
permisero di accertare anche una crescita nel periodo 1792-1823 della
17
produzione in ‘volume’ (a prezzi costanti) superiore alla popolazione,
contrariamente alle attese derivabili dal ‘principio della popolazione’ di
Malthus. In Francia – primo paese in cui venne creato un Ufficio di Statistica
(1790), come parte del Ministero dell’Interno - furono effettuate diverse stime
del reddito nazionale nella prima parte del XIX secolo, a carattere però
sporadico e senza particolari sviluppi teorici o metodologici: le fonti statistiche
sono generalmente tratte dai Censimenti o dalle altre rilevazioni sull’attività
produttiva e le stime sono impostate secondo un concetto ‘restrittivo’
(fisiocratico o smithiano) del reddito. Il quarto paese in ordine cronologico in
cui furono effettuate stime del reddito nazionale è rappresentato dagli Stati
Uniti, dove George Tucker (1775-1861) utilizzò i dati dei Censimenti, effettuati
con regolarità a cadenza decennale a partire dal 1790, pubblicando i risultati
nel Progress of the United States (1855).
Chiudiamo tale periodo ricordiando il National Income of the United
Kingdom (1868) di Robert Dudley Baxter (1827-75), che utilizzò una pluralità
di fonti, censuarie e amministrative (su fisco, salari, affitti, etc.). La stima di
Baxter – erede diretta di quelle di Petty e King di due secoli prima - anticipa
per metodologia le procedure attuali, e si stacca parzialmente dal concetto
‘restrittivo’ di reddito di Smith (viene introdotta una terza categoria di lavoro,
definito ausiliario e intermedio fra quello produttivo e improduttivo, relativa ad
una parte dei servizi). La modernità di Baxter è chiaramente espressa dalla sua
esposizione dell’utilità di una stima economica sintetica di un paese:
“la documentazione per tale analisi è abbondante; ma la sua enorme massa
rende difficile presentarla con chiarezza e in poco spazio. Il lungo elenco delle
attività della gente, e l’infinita varietà dei salari anche in una stessa attività,
possono essere apprezzati solo da coloro che si dedicano al loro studio.
L’accuratezza dei dettagli è irraggiungibile, e si è obbligati a lavorare per medie
generali. L’obiettivo principale è rendere quelle medie attendibili e semplici, tali
che non siano solo masse non digerite di cifre o semplici elenchi di totali non
connessi fra loro, ma coerenti e lucide. Fatti importanti non devono inoltre
essere basati solo su affermazioni; la giustificazione dei fatti e le ragioni dei
calcoli devono essere presentate in ogni caso, così che il lettore possa rilevare e
verificare da solo”. (Studenski, 1958; p. 115)
Si tratta di una descrizione semplice ed essenziale dell’obiettivo delle stime
economiche, ed una perfetta sintesi del codice deontologico dello statistico.
18
7. I Neoclassici
Negli ultimi decenni del XIX secolo il pensiero economico conobbe la
cosiddetta rivoluzione marginalista - il termine ‘rivoluzione’, anche se
improprio perché il percorso fu graduale, rende l’idea della profondità del
cambiamento - così definita per il ruolo centrale attribuito al principio
dell’utilità ‘marginale’ (e in generale dei costi e ricavi marginali) nel
determinare valori e prezzi di mercato. L’osservazione che il consumo di
servizi genera utilità come quello di beni, e che la capacità produttiva è
accresciuta dalle spese per alcuni servizi intangibili alla pari di quelle per beni
durevoli – posizioni già espresse da Say e Lauderdale e che permeavano il
pensiero economico verso metà ‘800 - trovò piena espressione nella scuola
neoclassica o marginalista. Abbandonata la teoria del ‘valore-lavoro’, fu
introdotto al suo posto un nuovo principio in grado di unificare alcuni temi,
fino ad allora non pienamente integrati fra loro nell’analisi classica: teoria del
consumatore, dell’impresa, della produzione e della distribuzione del reddito.
L’analisi marginalista abbandonò lo studio della crescita economica, almeno in
un primo tempo, spostando l’analisi sui problemi di ottimizzazione nell’uso di
risorse disponibili in una quantità limitata, fissata a priori e non modificabile
(ricerca di situazioni teoriche ottimali, definite ‘punti di equilibrio’): tale
approccio condusse ad un impiego sempre più esteso della matematica in
economia. Punto di partenza fu la rappresentazione delle relazioni fra fenomeni
economici come funzioni analitiche di più variabili (la quantità domandata di
bene come funzione del suo prezzo, del prezzo degli altri beni, del reddito del
consumatore, etc.); ciò permise di utilizzare in economia alcuni strumenti
derivati dallo studio delle funzioni, in forma analitica (equazioni) e grafica
(diagrammi): un’eredità indelebile nell’analisi economica (e statistica). I lavori
dei principali autori neoclassici, anche se di natura strettamente teorica,
aprirono in breve tempo la via agli studi empirici, statistici in particolare,
agevolati proprio dall’impostazione matematica adottata.
Numerosi autori segnarono tappe importanti. Antoine Augustin Cournot
(1801-77), nelle Recherches sur les principes mathématiques de la théorie de
la richesse (1838) introdusse: il principio marginalista (anticipato da Turgot,
ma dimenticato); la curva di domanda inclinata negativamente (relazione
funzionale inversa fra quantità e prezzo); i concetti di costo e ricavo marginale;
la teoria dell’impresa in condizioni di monopolio (in una forma sostanzialmente
simile all’attuale) e di concorrenza. Cournot fu innovativo anche per l’ampio
uso di equazioni e grafici, cosa che gli alienò molti lettori. William Stanley
Jevons (1835-82), in The Theory of Political Economy (1871) formulò in modo
compiuto il principio dell’utilità marginale decrescente, fondamento della
costruzione teorica neoclassica (in realtà già anticipato dal matematico svizzero
19
Daniel Bernoulli nel 1738, ma anch’esso dimenticato). Francis Ysidro
Edgeworth (1845-1926), in Mathematical Psychics (1881) introdusse il
concetto di curva di indifferenza. Philip H. Wicksteed (1844-1927), in An Essay
on the Coordination of the Laws of Distribution (1894) sviluppò la teoria della
produttività marginale. Importanti contributi furono apportati anche dagli
esponenti della cosiddetta scuola austriaca: Carl Menger (1840-1921), che
formulò contemporaneamente a Jevons i principi della teoria marginalista;
Friedrich von Wieser (1851-1926), la cui Natural Value (1889) contiene
l’esposizione del problema della valutazione (e cioè dell’attribuzione di valore
economico), di cui si mostra l’aspetto di categoria “naturale della società, nel
senso che ogni società ordinata razionalmente, indipendentemente dalle
istituzioni, deve necessariamente esprimere valutazioni”; e infine Eugen von
Böhm-Bawerk (1851-1914), la cui Teoria positiva del capitale (1889) ha aperto
la strada alla moderna analisi del capitale e dell’interesse. La sua trattazione del
rapporto fra i due fattori produttivi originali (lavoro e risorse naturali) e il terzo
fattore (il capitale, ottenuto combinando gli altri due e il capitale preesistente) è
alla base della distinzione fra risorse riproducibili e non-riproducibili
nell’analisi empirica. Quanto alla teoria dell’interesse, gli agenti economici
tendono per Böhm-Bawerk a:
“sovrastimare i beni attuali rispetto a quelli futuri, dello stesso genere e
quantità, e per indurli a scambiare beni attuali con i futuri occorre pagare un
aggio, o premio, che eguaglia i valori attuali e futuri. Tale aggio, o premio, è
conosciuto come interesse”. (Spiegel, 1991; p. 539)
Un posto di rilievo spetta a Léon Walras (1834-1910), i cui Éléments
d’économie politique pure (1874-77) contengono la prima trattazione
matematica dell’equilibrio economico generale, rappresentato come sistema di
equazioni simultanee che riproduce l’interdipendenza fra i diversi mercati
dell’economia di un paese. A Walras, economista teorico per eccellenza, si
deve un passo fondamentale verso la moderna contabilità nazionale: “nel
costruire il suo sistema di equazioni, Walras partì dalla basilare distinzione fra
mercati dei prodotti e mercati dei fattori produttivi. Nei mercati dei prodotti i
consumatori domandano i beni forniti dalle imprese; nei mercati dei servizi
produttivi resi da lavoro, terra e capitale, i consumatori, che sono anche i
proprietari delle risorse produttive, ne vendono i servizi alle imprese
ricevendone in cambio dei ricavi che costituiscono i loro redditi. I consumatori
appaiono così come acquirenti nei mercati dei prodotti e come venditori nei
mercati dei servizi produttivi. Le imprese sono acquirenti nei mercati dei
servizi produttivi e venditrici nei mercati dei prodotti”. Tale schema supera gli
errori e le ambiguità presenti nelle versioni di Quesnay e Say: tradotto in
diagramma oltre mezzo secolo più tardi, è divenuto la forma standard di
presentazione del circuito della produzione e del reddito.
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Alla scuola neoclassica appartengono diversi autori americani, con
contributi importanti all’analisi empirica. Fra questi Simon Newcomb (18351909), i cui Principles of Political Economy (1885) riportano la prima chiara
distinzione fra ‘flussi’ e ‘stock’, alla base della moderna e fondamentale
suddivisione dei fenomeni e quindi degli aggregati economici in due categorie:
quelli misurati con riferimento rispettivamente ad un intervallo o ad un istante
di tempo. John Bates Clark (1847-1938), nella Distribution of Wealth (1899) e
negli Essentials of Economic Theory (1907) contribuì a chiarire il rapporto fra
‘il capitale’ come fondo astratto e ‘i beni capitali’ come strumenti concreti del
processo produttivo: la radice della distinzione fra le immobilizzazioni tecniche
(il capitale in senso reale) e il patrimonio netto (la ricchezza finanziaria),
collegate nella moderna contabilità nazionale dal conto dell’investimento
finanziario. Clark estese inoltre il principio dei rendimenti marginali
decrescenti a tutti i fattori produttivi, generalizzando così la rendita
differenziale (ricardiana), applicata fino ad allora solo alla terra. Le sue ricerche
lo condussero a introdurre la statica comparata, strumento ancora attuale,
riportando così nella teoria economica l’analisi dinamica, propria dei classici e
trascurata poi dai neoclassici. Sono infine pionieristici i suoi studi sulla
distribuzione quantitativa del reddito, che Clark separò da quelli sulla
distribuzione funzionale, tema fino ad allora predominante.
Con riferimento proprio alla distribuzione quantitativa del reddito, un posto
di rilievo spetta all’italiano Vilfredo Pareto (1848-1923), successore di Walras
nell’insegnamento universitario a Losanna, cui si devono contributi importanti
in economia (Manuale di economia politica, 1906) e sociologia (Trattato di
sociologia generale, 1916). La sua attività si caratterizza per un elevato livello
di astrazione teorica unita ad una profonda attenzione alla realtà empirica. Nel
campo più propriamente teorico, a Pareto risale il concetto di ‘ottimo’ (definito
appunto ‘paretiano’) di un sistema economico: una situazione in cui è
impossibile migliorare la posizione di un soggetto della collettività senza
peggiorare quella di qualcun altro; finché l’ottimo paretiano non è raggiunto, la
performance complessiva del sistema economico è sempre migliorabile. Il suo
interesse empirico è riscontrabile nella raccolta di esempi concreti di
distribuzione del reddito, le cui regolarità lo portarono a formulare una ‘legge’
(detta di Pareto) da lui definita ‘universale’, in quanto valida in paesi e periodi
diversi. Di tale legge cercò di dimostrare la validità generale stimandone
statisticamente i parametri con metodi grafici (diagrammi doppio-logaritmici
nei quali le distribuzioni teoriche, analiticamente delle iperboli, divengono
delle rette). Malgrado le forti critiche (mosse soprattutto alle procedure di
stima), la sua ricerca aprì un nuovo campo agli studi quantitativi nel XX
secolo. Le distribuzioni di Pareto, oggi così denominate, hanno una loro
validità come variabili teoriche, e sono utilizzate sia per interpolare le
distribuzioni empiriche, sia per misurare il grado di ineguaglianza del reddito.
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8. Alfred Marshall
Il principale esponente della scuola neoclassica, per l’importanza dei lavori
non meno che per l’influenza accademica esercitata con il lungo e prestigioso
insegnamento a Cambridge, è in ogni caso considerato Alfred Marshall (18421924). Autore eminentemente teorico, non perse mai di vista gli aspetti
empirici, come testimoniano gli esempi nei suoi principali lavori: Economics of
Industry (1879) e Principles of Economics (1890). Studioso dell’equilibrio
parziale, come Walras lo era stato di quello generale, Marshall arricchì di
concetti essenziali l’analisi della domanda. La sua definizione di elasticità è
ancora quella standard (doppia frazione che collega le variazioni relative di
quantità e prezzo): il flusso di lavori teorici ed empirici originati ne testimonia
l’importanza, per non parlare dei diversi concetti di elasticità derivati da quello
principale: elasticità rispetto al reddito, elasticità incrociate di due beni,
elasticità di sostituzione dei fattori, etc. Il surplus del consumatore (area
compresa fra la curva di domanda e la retta del prezzo) e quello del produttore
(area fra compresa fra la retta del prezzo e la curva di offerta), già abbozzati da
alcuni autori, sono da Marshall pienamente sviluppati all’interno della teoria
marginalista, e costituiscono il punto di partenza per importanti sviluppi a
carattere anche empirico ed operativo: l’analisi costi-benefici, la scelta degli
investimenti, la valutazione delle decisioni politiche.
Altro concetto prezioso per gli studi empirici è quello di quasi-rendita:
“un ricavo differenziale che è determinato dal prezzo [cioè dalla curva di
domanda] percepito dai possessori di beni capitali, di capacità particolari e di
talenti naturali. L’offerta di queste risorse è fissa nel breve periodo e pertanto
fornisce ai suoi possessori un reddito che, anche se di breve durata, assomiglia
sotto ogni aspetto alla vera rendita della terra, la cui offerta è limitata in modo
permanente”. (Spiegel, 1991; p. 596)
Si può notare per inciso in tale passo il riferimento al breve/lungo periodo,
altro concetto dovuto a Marshall. Nonostante la successiva battuta di Keynes
sul lungo periodo, non si deve dimenticare che la distinzione marshalliana fra
breve e lungo è funzionale e non cronologica: la scansione dipende infatti dalla
velocità di aggiustamento dei fattori produttivi (capitale in primo luogo, ma
non solo: si veda il concetto di quasi-rendita) alle variazioni del mercato. La
distinzione si ricollega a quella fra costi di produzione fissi e variabili: un dato
oggi acquisito in economia, ma all’epoca un passo pioneristico, probabilmente
suggerito a Marshall dall’esame della prassi aziendale e contabile. Ulteriore
conferma della sua attenzione alla realtà empirica è l’individuazione dei
‘monopoli naturali’, imprese con una curva di costo marginale negativa: la
diminuzione dei costi di produzione al crescere della dimensione porta
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inevitabilmente un’azienda, se non è ostacolata dalla normativa, ad emergere
quale leader del mercato, fino a divenire monopolista. Ciò è alla base
dell’intervento pubblico a favore della concorrenza, stimolo a sua volta di
continue ricerche teoriche ed empiriche sulle condizioni di costo e di mercato
nei diversi settori produttivi. Nell’ambito della teoria marshalliana dell’impresa
spiccano poi le economie interne ed esterne. Le prime sono definite in termini
di organizzazione aziendale (economie di scala e di specializzazione), secondo
una linea di pensiero risalente a Smith. Le seconde, assolutamente innovative,
hanno a che fare con l’agglomerazione di imprese omogenee per filiera
produttiva in ambiti territoriali circoscritti (i moderni distretti industriali),
caratterizzati dalla disponibilità di fattori produttivi a costi relativamente bassi
(lavoro specializzato, assistenza tecnica, infrastrutture di trasporto, etc.): il
meccanismo dinamico conseguente (agglomerazione  riduzione dei costi 
agglomerazione  etc.) ostacola il decentramento delle attività economiche, e
genera squilibri territoriali (congestione in alcune zone e sottosviluppo in altre).
Un altro campo di intervento pubblico oltre che di analisi teorica ed empirica.
Con riferimento infine alla contabilità nazionale, Marshall è stato decisivo
nell’abbandono del concetto ‘restrittivo’ del reddito, identificando nettamente
la produzione con la creazione di utilità: una posizione presente da allora in poi
nel pensiero economico prevalente, e radicatasi saldamente nella misura degli
aggregati economici. La definizione data da Marshall comprende con chiarezza
le attività di produzione di servizi nella creazione di valore, a pieno titolo
accanto a quelle di beni: viene così ripristinato da quel momento il concetto
‘estensivo’ del reddito che era stato proprio dell’analisi economica quantitativa
fino all’impostazione seguita da Quesnay e confermata poi da Smith. Marshall
precisò anche la distinzione fra reddito lordo e netto:
“Il lavoro e il capitale del paese, con la loro attività sulle risorse nazionali,
producono annualmente un dato aggregato netto di beni, materiali ed
immateriali, inclusi servizi di ogni tipo. La delimitazione di ‘netto’ è necessaria
per tener conto dell’impiego di materie prime e di semilavorati, e per il
deprezzamento degli impianti utilizzati nella produzione: tutte queste perdite
devono naturalmente essere dedotte dalla produzione lorda per trovare …. il
vero reddito o ricavo annuale netto del paese, il dividendo nazionale: è possibile
naturalmente stimarlo per un anno o per qualsiasi altro periodo”. (Studenski,
1958; p. 20).
9. Prime stime ‘ufficiali’.
Contemporaneamente agli sviluppi del pensiero economico, fra fine ‘800 ed
inizio ‘900 si registrarono progressi notevoli nelle stime empiriche: il primato
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spetta all’Australia, dove il direttore dell’ufficio statistico del governo del
Nuovo Galles del Sud, l’ingegnere minerario Timothy A. Coghlan (1856-1926),
curò nel 1886 una prima stima del reddito nazionale, via via estesa alle altre
colonie fino a divenire dal 1890 una serie periodica annuale per l’intero
continente. Caratteristica specifica di tale stima è di essere stata commissionata
dal governo e pubblicata nell’annuario statistico australiano: era così nata la
prima di una lunga serie di stime ‘ufficiali’ del reddito nazionale. Coghlan è
innovativo anche sotto il profilo metodologico: abbandona definitivamente
l’impostazione ‘ristretta’ del reddito, sostituita da quella ormai prevalente di
Marshall; utilizza per la prima volta contemporaneamente i tre approcci
possibili per le stime – quello della produzione, della distribuzione e
dell’impiego del reddito - migliorandone la qualità in maniera significativa.
Seguirono il Regno Unito, con la serie di stime del reddito nazionale di A. L.
Bowley (1904), la Francia con Clément Colson (1913), la Germania con Karl
Helfferich (1913), e gli Stati Uniti con Willford I. King (1915). Il lavoro di
Coghlan segna una svolta radicale: le stime, fino a quel momento opera di
singoli studiosi, diventano in breve tempo il compito di strutture governative;
una situazione che permette di operare con maggiori risorse, ma che comporta
esigenze e rischi specifici, come vedremo in seguito. Bowley in particolare
propose la costituzione di un apposito:
“dipartimento centrale di statistica, che non solo avrebbe coordinato tutte le
statistiche necessarie per la preparazione delle stime del reddito nazionale, ma
avrebbe effettuato le stime stesse” (Studenski, 1958; p. 143).
Si tratta della soluzione oggi adottata praticamente in tutte le nazioni.
Iniziarono parallelamente a diffondersi i primi confronti internazionali
basati sul reddito pro-capite: Leone Levi (1821-88) confrontò nel 1861 i dati di
Regno Unito, Francia, Russia ed Austria (espressi in sterline, valuta
internazionale dell’epoca). Più importante ed accurato fu il lavoro presentato da
Michael G. Mulhall (1836-1900) nel Dictionary of Statistics (1884): le stime opera in gran parte dell’autore, sulla base del materiale statistico disponibile sono relative a diciotto paesi (compresa l’Italia, con un reddito annuo per
abitante di 12,2 sterline, contro le 20,8 della media generale). Nonostante le
numerose critiche - alcuni studiosi le definirono all’epoca “del tutto arbitrarie”
- le stime risultarono verosimili; fatto ancora più importante, le polemiche
stimolarono ulteriori ricerche. Nella prima parte del XX secolo i paesi che
disponevano di stime anche saltuarie del reddito nazionale crebbero con
regolarità: otto agli inizi del ‘900; tredici alle soglie della prima guerra
mondiale (Italia inclusa, con la stima di Michele Santoro del 1911). Fu una
crescita qualitativa oltre che numerica, accompagnata dalla percezione
crescente nei governi e nell’opinione pubblica dell’importanza delle stime del
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reddito nazionale per valutare l’intervento pubblico in economia. Emblematico
fu ad esempio un articolo dell’Economist (18 dicembre 1915), che ebbe ampia
eco durante la prima guerra mondiale, in cui si calcolava un’incidenza dello
sforzo bellico pari al 102% del reddito nazionale complessivo dei paesi
coinvolti nel conflitto. Uno degli effetti dell’articolo fu la ripresa degli studi
quantitativi in Russia, dopo una pausa di oltre un secolo, che furono poi
utilizzati nella fase iniziale della costruzione dello stato sovietico dopo la
rivoluzione d’ottobre.
Lo sviluppo proseguì fra le due guerre mondiali, sulla spinta degli enormi
problemi aperti dalla fine del conflitto: riconversione delle economie di guerra;
dislocazione delle frontiere politiche e delle sfere di influenza economica;
riparazioni belliche della Germania agli Alleati. Decisivo si rivelò infine il
crollo della borsa valori di Wall Street (ottobre 1929); quest’ultimo si trasformò
rapidamente in una profonda crisi finanziaria ed economica americana, poi
internazionale, con conseguenze devastanti a livello sociale e politico, fino a
dare l’impulso probabilmente decisivo alla presa di potere nazionalsocialista in
Germania (1933): una catena di eventi che sfociò nella seconda guerra
mondiale (1939). La crisi del 1929-33 distrusse anche in ambito accademico la
convinzione del ‘buon’ funzionamento del sistema economico di mercato: la
certezza in particolare della tendenza naturale a raggiungere un ‘equilibrio di
pieno impiego delle risorse’. Ciò riportò l’attenzione sulla dinamica economica
– fulcro dell’analisi classica, trascurata invece dalla scuola marginalista –
iniziando dal ciclo congiunturale di breve periodo. La teoria macroeconomica,
come fu denominata, accentuò l’interesse sullo studio del reddito nazionale e
delle sue componenti, e contribuì a dare la forma sostanzialmente attuale alla
contabilità nazionale.
Il numero di paesi con stime del reddito continuò a salire: ventidue nel
1930; trentatré nel 1939, di cui nove con regolari serie annue di stime ufficiali.
La Società delle Nazioni (l’organizzazione internazionale antesignana
dell’ONU fra le due guerre mondiali), nel suo World Economic Survey (1939)
pubblicò le stime del reddito nazionale di ventisei nazioni per il periodo 192938. Le esigenze di confronto internazionale portarono ai primi tentativi di
standardizzazione fra i vari paesi; l’inizio della seconda guerra mondiale
interruppe il lavoro, ma gli sviluppi teorici e metodologici furono ripresi dopo
la fine del conflitto.
La prima parte della storia dell’analisi economica quantitativa si chiude qui:
circa due secoli e mezzo hanno portato dall’intuizione di Petty alle soglie
dell’epoca contemporanea. Molto più breve ma essenziale è il successivo
passaggio, che copre meno di due decenni del XX secolo, dalla metà degli anni
’30 all’inizio di quelli ’50. Numerosi ricercatori hanno contribuito agli sviluppi
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teorici ed empirici, ma due spiccano fra tutti: John Maynard Keynes (18831946), padre della moderna Macroeconomia, e sir Richard Stone (1913-91,
premio Nobel 1984) cui si deve l’impostazione attuale della Contabilità
Nazionale. A questi, ed agli sviluppi conseguenti, sarà dedicato un saggio
successivo.
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