Linee guida 2007 sull`ipertensione arteriosa Dall`obesità al rischio

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Linee guida 2007 sull`ipertensione arteriosa Dall`obesità al rischio
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Linee guida 2007
sull’ipertensione arteriosa
Dall’obesità al rischio
cardiometabolico
Il rischio cardiometabolico
protagonista all’ESC
La Società europea dell’Ipertensione
arteriosa e la Società europea di Cardiologia hanno emanato le nuove linee
guida per la diagnosi e la terapia dell’ipertensione arteriosa, aggiornando il
precedente documento pubblicato nel
2003 [...]
L’obesità è una condizione medica
cronica e potenzialmente grave che
spesso precede e si associa allo sviluppo di altri fattori di rischio cardiometabolici e che può portare allo sviluppo del diabete di tipo 2 e della dislipidemia [...]
Il recente Congresso annuale della European Society of Cardiology, [...], ha
laureato a pieni voti la sindrome metabolica dandole posizione di rilievo in numerosi incontri e indicando in detta sindrome l’emblema della Multiple Risk
Factor Disease [...]
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numero 04
novembre 2007
in questo numero
Editoriale
Medicina generale e sindrome metabolica
di Roberto Stella e Marco Cambielli
3
Articoli
Le novità delle Linee guida 2007 sull’ipertensione arteriosa
di Maria Lorenza Muiesan
5
CUORE: strategia di prevenzione delle malattie cardiovascolari
intervista a Simona Giampaoli di Alberto Lombardi
8
Dall’obesità al rischio cardiometabolico
di Federico Mereta
9
Il rischio cardiometabolico protagonista all’ESC
di Andrea P. Peracino
11
Pubblicazione a cura della
Fondazione Italiana per il Cuore
Via Appiani 7 - 20121 Milano
Direttore responsabile:
Emanuela Folco
Comitato editoriale:
Pietro Amante; Antonio C. Bossi;
Emanuela Folco; Alberto Lombardi;
Federico Mereta; Rodolfo Paoletti;
Andrea P. Peracino; Andrea Poli
Layout grafico ed impaginazione:
Monica Loredan - evectors
Stampato a cura di:
Lalitotipo - Via E. Fermi 17
20019 Settimo Milanese (MI)
www.cardiometabolica.org
Iscrizione Registro della Stampa
(Tribunale di Milano)
numero 212 del 4 Aprile 2007
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Editoriale
Medicina generale
e sindrome
metabolica
Roberto Stella, vicepresidente; Marco Cambielli, segretario
Società nazionale di Aggiornamento per il Medico di Medicina generale
(SNAMID)
egli ultimi anni la sindrome
metabolica ha ricevuto una
grande attenzione nella clinica
e in particolare nell’ambito della Medicina generale, per quanto non si sia
ancora concluso il dibattito circa la sua
definizione come entità clinica ben definita e autonoma. È ormai acquisito
che tale sindrome presenta una costellazione di fattori metabolici di rischio
correlati che appaiono promuovere direttamente lo sviluppo della malattia
aterosclerotica cardiovascolare; inoltre questi pazienti sono a rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2.
N
nizzazioni hanno ridefinito in modo
differente: il Gruppo europeo per lo
studio dell’insulino-resistenza (EGIR),
il Programma nazionale di educazione
sul colesterolo (NCEP/ATP III, 2001),
l’Associazione americana degli endocrinologi clinici (AACE, 2003), la Federazione internazionale del diabete
(IDF, 2005) e infine l’Associazione
americana dei cardiologi/Istituto nazionale per il cuore, polmone e sangue
(AHA/NHLBI, 2005), producendo variazioni che man mano emergevano
dalla letteratura, relativamente ai parametri originalmente indicati dall’OMS.
Sono stati individuati anche altri fattori di rischio quali l’obesità addominale, l’insulino-resistenza e altre condizioni come l’inattività fisica, l’invecchiamento e lo squilibrio ormonale. L’aumento dell’obesità e dell’invecchiamento presenti in tutte le civiltà occidentali, con le connesse modificazioni nella distribuzione del
grasso addominale e le conseguenti
alterazioni dello stato pro-infiammatorio e della coagulazione, rendono ulteriormente conto dell’interesse della
Medicina generale per questa entità di
abbastanza recente definizione.
Oggi è accettato che per definire la
presenza di sindrome metabolica ci si
debba trovare di fronte a un paziente
con almeno tre dei cinque seguenti
parametri:
1. circonferenza addominale >102
cm nell’uomo e >88 cm nella donna, misurata con un metro mantenuto parallelo al terreno e che passi immediatamente sopra la spina
iliaca antero-superiore (indice di
obesità addominale); IDF, 2005;
2. pressione arteriosa ≥130/85
mmHg;
3. trigliceridemia ≥150 mg/dL;
4. colesterolo-HDL <40 mg/dL nei
maschi e <50 mg/dL nelle donne;
5. glicemia a digiuno ≥110 mg/dL
(NCEP/ATP III, 2001) o ≥100
mg/dL (AHA/NHLBI, ATP III revised, IDF).
Nel 1988 l’Organizzazione mondiale
della Sanità (OMS) dava una sua prima
definizione di sindrome metabolica basandosi su alcuni criteri diagnostici
che, in epoca successiva, altre orga-
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Numerose esperienze internazionali
hanno dimostrato che, pure in presenza di alcune significative diversità razziali, soprattutto orientali, la prevalenza della sindrome metabolica nella popolazione adulta compresa tra 35 e 70
anni è di circa il 23-25 per cento nei
maschi e del 16-20 per cento nelle femmine (JAMA 2002; 284: 356-9. Diab
Care 2005; 28: 385-90. Diab Care
2006; 29: 1414-6. Bull WHO 2006; 6:
461-9). Qualora si consideri la popolazione compresa tra 60 e 70 anni, la prevalenza supera il 40 per cento, arrivando al 45 per cento negli Stati Uniti. In
Italia la prevalenza si attesta intorno al
23 per cento (Progetto cuore, www.cuore.iss.it/fattori/glicemia.asp). Il parametro più rappresentato è quello dell’aumento della circonferenza addominale, presente nel 40 per cento circa
dei soggetti, seguito dall’ipertensione
arteriosa, presente nel 30-35 per cento
dei pazienti.
In letteratura si è evidenziato che i
maschi hanno una prevalenza significativamente maggiore di iperglicemia,
ipertrigliceridemia e ipertensione,
mentre nelle femmine si è evidenziata una maggiore prevalenza di obesità
centrale e basso colesterolo-HDL. Se
si valuta il rischio cardiovascolare nei
soggetti affetti da sindrome metabolica, per esempio, come dimostrato nello studio NHANES III (Am J Clin Nutr
2005; 81: 409-15), le persone affette
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da questa patologia presentano una
prevalenza di cardiopatia ischemica
del 12,9 per cento, superiore alla prevalenza esistente nei soggetti con diabete mellito (7,5 per cento), raggiungendo percentuali ancora superiori
quando le due condizioni si sommano
(19,2 per cento).
Da ciò si può evincere chiaramente
quale possa essere l’interesse della
Medicina generale per questa sindrome, e anche nell’ambito della pediatria
di base sta aumentando l’interesse e
l’attenzione. Si è visto infatti che il
basso peso alla nascita e la piccolezza
in rapporto all’età gestazionale sono
fattori predittivi di sviluppo di sindrome metabolica, così come un basso indice di massa corporea (BMI) a due
anni e un rapido aumento ponderale
fra i due e gli 11 anni sono correlati ad
alti livelli di insulino-resistenza in età
adulta ed eventi coronarici.
La Medicina generale è certamente il
luogo prevalente di primo contatto medico all’interno del Servizio sanitario
nazionale. Il Medico di medicina generale (MMG) ha la responsabilità specifica della salute della persona, della famiglia, della comunità e ha compiti di
identificazione precoce dei soggetti a rischio, di prevenzione, di cura a lungo
termine e ha la necessità di capire le dimensioni delle principali patologie. Gestisce le malattie croniche, coordina le
cure interfacciandosi con altre specialità e concorre in misura determinante
all’utilizzo più efficiente delle risorse
sanitarie non solo con la funzione di gatekeeping, ma cercando – attraverso
l’applicazione personalizzata di linee
guida, di percorsi diagnostico terapeutici e facendo uso della pratica basata
sulle prove scientifiche – di realizzare
cure appropriate, tenuto conto anche
dell’analisi dei rapporti costo/beneficio
(CBA), costo-efficacia (CEA) e costoutilità (CUA), indispensabili per la prevenzione e la gestione corretta e sostenibile delle cronicità.
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I “vantaggi” del MMG consistono essenzialmente nell’esercitare l’assistenza
primaria ambulatoriale e domiciliare,
nel conoscere familiarità, stili di vita,
trattamento farmacologico, nella consuetudine prolungata nel tempo con la
quasi totalità dei pazienti (circa l’80 per
cento degli assistiti contatta in un anno
il proprio MMG, mentre in cinque anni
lo contatta il 100 per cento), nella facilità a cogliere i cambiamenti anche non
dichiarati o lamentati dal paziente, nella disposizione a una medicina opportunistica e di iniziativa. La funzione del
MMG, che conosce bene i propri pazienti e ravvisa in un soggetto lo stigma
della sindrome metabolica, può permettere dunque di mettere in atto interventi preventivi e di educazione sanitaria, fare counselling per la responsabilizzazione del paziente nei confronti
della sua situazione clinica, iniziare un
percorso terapeutico farmacologico.
Nel caso della sindrome metabolica,
la funzione del MMG appare quindi
fondamentale, perché questa patologia
si giova in maniera determinante del
suo riconoscimento precoce. L’intervento precoce determina infatti miglioramento degli outcome, riduzione
delle sofferenze, prolungamento della
vita, miglioramento della sua qualità,
riduzione dei costi di gestione del paziente e delle sue complicazioni. I
parametri necessari per definire la
sindrome metabolica sono di approccio assai semplice e immediato, permettendo anche una valutazione opportunistica dei soggetti a rischio.
Nell’attività ambulatoriale di routine
del MMG è infatti di frequente riscontro una serie di indicatori facilmente rilevabili quali ridotta tolleranza al glucosio, iniziale e modesta obesità, elevazione della pressione arteriosa, alterazione anche modesta del
quadro lipidico e incremento isolato
della gammaGT. Tali elementi, presenti sia singolarmente sia variamente associati, devono mettere in guardia
il MMG e suggerirgli di attivare uno
stretto programma di controllo e cura.
Tramite l’individuazione di questi fattori di rischio e il loro corretto inquadramento si può fare prevenzione
vera, con il risultato di migliorare le
condizioni di vita del paziente, riducendo il costo sociale della malattia e
delle sue complicazioni.
È necessario quindi individuare una
strategia per la diagnosi basandosi su
un semplice approccio clinico che comprenda, oltre alla valutazione dei parametri già indicati precedentemente:
• Anamnesi:
· familiarità per malattie CV, soprattutto se prima dei 55 anni
nei maschi e dei 65 nelle femmine;
· positività per angina, infarto
miocardico, ictus cerebrale;
· sedentarietà;
· fumo;
· storia familiare di diabete;
· diabete gestazionale;
· sindrome dell’ovaio policistico;
· alterato metabolismo del glucosio.
• Esame obiettivo con misurazione
della circonferenza addominale e
della pressione arteriosa
• Esami di laboratorio:
· trigliceridi;
· colesterolo totale;
· colesterolo-HDL;
· glicemia a digiuno;
· uricemia.
Inoltre è opportuno valutare il rischio
cardiovascolare globale, considerando
già gli eventuali danni d’organo.
Stratificare il rischio significa identificare i sottogruppi nei quali esso è
più elevato. In questa popolazione di
pazienti l’intervento preventivo risulta tanto più efficace quanto più è potente, ed il rapporto costo-efficacia appare particolarmente favorevole quanto più si riduce il rischio. Risulta
quindi evidente come approcci di prevenzione facilmente prescrivibili
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come il mutamento dello stile di vita,
il cambiamento delle abitudini alimentari, l’invito a un’attività fisica
espressa in modo professionale e dettagliato, coinvolgendo il paziente sulla necessità dell'equivalenza metabolica tra entrate energetiche (cioè l'alimentazione) e uscite (cioè il movimento), possano evitare o ritardare
l’espressione clinica della sindrome e
le sue complicazioni.
Gli obiettivi del management clinico
diventano dunque prioritariamente
quelli di:
• ridurre il rischio di malattia aterosclerotica clinica riducendo le
cause sottostanti (per esempio,
obesità e inattività fisica) e trattando i fattori di rischio associati
(lipidici e non lipidici);
• ridurre il rischio di diabete mellito di tipo 2 in quei pazienti che
non hanno ancora i segni manifesti della malattia.
Ma anche dal punto di vista terapeutico, la possibilità di monitorare costantemente i parametri clinici e metabolici, quando è il caso anche in collaborazione coi medici che operano al
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secondo livello, può produrre risultati non solo in termini di correzione dei
parametri biologici, ma anche di prevenzione del danno cardiovascolare,
come dimostra la letteratura corrente.
La Medicina generale deve dunque
sforzarsi di identificare il percorso organizzativo che faciliti il suo compito,
non solo attraverso il costante processo formativo, ma anche dotandosi di
strumenti per il lavoro quotidiano che
ne facilitino l’approccio: utilizzo di
una cartella clinica che orienti ai problemi della cronicità, presenza di
memo automatici in pazienti che presentino determinate caratteristiche di
familiarità, età e sesso, buona disposizione all’audit medico, al feedback e,
nei casi più evoluti, anche all’educational outreach visit.
Il MMG può fare molto per questi pazienti anche attraverso forme evolute
di collaborazione con la Medicina di
secondo livello attraverso l’adozione
di percorsi diagnostici. La cura integrata deve essere organizzata e individualizzata sul singolo paziente, e i
fornitori della cura integrata possono
variare nel tempo secondo l’evoluzione della storia naturale della malattia
e della sua fase nel processo di cura,
della progressione della malattia e
della necessità di un trattamento specifico. Il “peso” della sindrome metabolica potrà essere così ridotto, per
l’individuo e per la società.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
1. Grundy SM, Cleeman JI, Daniels SR, Donato KA, Eckel RH, Franklin BA, Gordon
DJ, Krauss RM, Savage PJ, Smith SC, Jr,
Spertus JA, and Costa F. Diagnosis and
Management of the Metabolic Syndrome:
An American Heart Association/National
Heart, Lung, and Blood Institute Scientific Statement. Circulation 2005; 112:
2735-52
2. Liu J, Grundy SM, Wang W, Smith SC, Jr,
Lena Vega G, Wu Z, Zeng Z, Wang W,
Zhao D. Ten-year risk of cardiovascular incidence related to diabetes, prediabetes,
and the metabolic syndrome. Am Heart J
2007; 153: 552-8
3. Tong PC, Kong AP, So W-Y, Yang X, Ho CS, Ma RC, Ozaki R, Chow C-C, Lam CW,
Chan JCN, and Cockram CS. The Usefulness of the International Diabetes Federation and the National Cholesterol Education Program's Adult Treatment Panel III
Definitions of the Metabolic Syndrome in
Predicting Coronary Heart Disease in Subjects With Type 2 Diabetes. Diabetes Care
2007; 30: 1206-11
Le novità delle Linee guida 2007 sull’ipertensione arteriosa
Maria Lorenza Muiesan
Professore straordinario di Medicina interna, Università di Brescia
L
a Società europea dell’ Ipertensione arteriosa e la Società europea di Cardiologia hanno
emanato le nuove linee guida per la
diagnosi e la terapia dell’ipertensione
arteriosa, aggiornando il precedente
documento pubblicato nel 2003, che
già si distingueva dalle Linee guida
elaborate nel 1993 e poi ancora nel
1999 dalla World Health Organization
(WHO) e dall’International Society of
Hypertension (ISH), perché queste ultime non riflettevano in modo preciso la
realtà europea. In effetti in Europa
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sono disponibili una maggiore capacità di ricercare in modo accurato le cause dell’ipertensione e un maggior numero di farmaci antipertensivi rispetto
al resto del mondo. Inoltre le linee guida ESH/ESC 2003 introducevano per
la prima volta il concetto di “rischio
cardiovascolare globale” dell’individuo, che era preso quale riferimento
per la diagnosi e per il trattamento del
paziente iperteso, a prescindere dai
valori pressori di per se stessi. A tale
proposito, le novità principali delle Linee guida 2007 sono rappresentate da
una serie di elementi e variabili cliniche da utilizzare per stratificare con
ancora maggiore accuratezza il rischio
cardiovascolare globale. La stratificazione del rischio si basa su diversi elementi, che comprendono i fattori demografici e antropometrici, l’anamnesi familiare, i valori pressori, il fumo,
la glicemia e l’assetto lipidico, cui si
aggiungono, tra le altre, il riconoscimento della sindrome metabolica
perché essa, pur non costituendo
un’entità patologica autonoma, come
riconosciuto già diversi anni fa da Ge-
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rald Reaven, rappresenta una condizione caratterizzata dalla presenza di
più fattori di rischio, in aggiunta all’aumento della pressione arteriosa,
che aumenta in modo marcato lo sviluppo di danno d’organo e il rischio di
eventi cardiovascolari. Per tale motivo, le Linee guida raccomandano l’attenta valutazione del danno d’organo
cardiaco, vascolare e renale, nei pazienti con sindrome metabolica, anche
in assenza di elevati valori pressori,
come componenti della sindrome. Infine, nei pazienti con sindrome metabolica, pure in presenza di normali valori pressori alla misurazione clinica,
l’aumento della pressione arteriosa
durante il monitoraggio ambulatoriale
o domiciliare conferisce un aumento
del rischio di eventi cardiovascolari.
Un altro punto interessante è quello
che concerne l’uso del rischio relativo e del rischio assoluto, e che è
stato ripreso dalle Linee guida 2007
per la Prevenzione cardiovascolare
dell’European Society of Cardiology. Il
rischio assoluto (ovvero il rischio di
andare incontro a eventi cardiovascolari nell’arco di 10 anni) dipende infatti largamente dall’età, potendo risultare basso nei soggetti giovani anche in presenza di ipertensione e di
altri fattori di rischio cardiovascolari
che negli anni successivi possono portare a una condizione irreversibile di
rischio elevato. Ne consegue il potenziale pericolo di una sottostima del rischio cardiovascolare e di conseguenza di un sotto-trattamento dei soggetti più giovani. Si propone pertanto
che, nei soggetti più giovani, la decisione di trattare sia presa sulla base
del rischio relativo, lasciando che il
calcolo del rischio assoluto venga riservato ai soggetti di età più avanzata.
A questo fine è utile precisare che per
il calcolo del rischio relativo è attualmente disponibile il modello SCORE
(Symptoms - Causes - Output - Resources - Effects) che, essendo stato ricavato dallo studio di popolazioni eu-
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ropee, potrebbe essere più idoneo del
classico algoritmo basato sui dati di
Framingham.
Un’ ulteriore novità delle Linee guida
è rappresentata dall’esclusione della proteina C-reattiva dalla lista dei
fattori che possono influenzare la prognosi nel paziente iperteso. Dal 2003
a oggi, alcuni importanti studi di popolazione hanno infatti ridimensionato il peso di questo marcatore di infiammazione quale elemento prognostico di eventi cardiovascolari, ed è
stato sottolineato come sia difficile,
nella pratica clinica, fare un uso appropriato di tale indice.
La stratificazione del rischio cardiovascolare globale, in associazione alla
stratificazione sulla base dell’entità dei
valori pressori, viene considerata un
elemento di grande importanza, e a tale
proposito l’identificazione del danno
d’organo assume una rilevanza sempre maggiore. La presenza di danno
d’organo, sia pure a livello subclinico,
influenza la prognosi cardiovascolare,
anche indipendentemente dagli altri
fattori di rischio. Il danno d’organo
deve essere adeguatamente valutato a
livello cardiaco (ipertrofia cardiaca a
geometria concentrica), renale (albuminuria, proteinuria e clearance della
creatinina calcolata), vascolare (rapporto intima/media nello spessore della parete carotidea, pulse wave velocity,
Maria Lorenza Muiesan
indice caviglia/braccio) e fondo dell’occhio (retinopatia solo nei pazienti
con ipertensione grave).
Le Linee guida raccomandano di effettuare contemporaneamente una valutazione del danno d’organo in
diversi distretti (cuore, vasi, rene e
cervello) perché, nonostante tali alterazioni siano spesso associate, la loro
presenza in diversi organi e distretti si
associa a una prognosi peggiore rispetto alla singola alterazione. La valutazione del danno d’organo non deve
riguardare solo i pazienti con una nuova diagnosi di ipertensione, allo scopo di stratificare il rischio cardiovascolare globale e prima di impostare
un corretto trattamento, ma anche i
pazienti che assumono già una terapia
antipertensiva, poiché la regressione
dell’ipertrofia cardiaca e della proteinuria rappresentano indici attendibili
degli effetti protettivi cardiovascolari
esercitati dal controllo dei valori pressori e dall’effetto dei farmaci assunti.
Nell’ambito della valutazione del danno d’organo sono stati meglio definiti alcuni aspetti quali l’identificazione del
danno renale, poiché è stato ampliato l’elenco dei marcatori di danno d’organo renale, ed è previsto che si calcoli in modo indiretto la clearance della
creatinina mediante la formula di Coc-
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kroft-Gault, o che si stimi la velocità di
filtrazione glomerulare mediante la formula MDRD (variabili più affidabili rispetto al valore della creatininemia nella valutazione del rischio cardiovascolare che si associa all’insufficienza renale, anche lieve). La microalbuminuria è stata considerata un parametro essenziale per valutare il danno d’organo,
in quanto la sua determinazione mediante il rapporto albumina/creatinina
sulle urine spot del mattino è facile e relativamente poco costosa.
È stato sottolineato inoltre il ruolo
prognostico dell’ipertrofia ventricolare sinistra e della geometria di
tipo concentrico. Infine, nell’ambito
della valutazione del danno vascolare,
è stato aggiunto l’aumento di velocità
dell’onda sfigmica come indice precoce di alterata distensibilità delle grandi arterie elastiche, pur sottolineando
che nella pratica clinica è ancora modesto l’impiego delle metodiche per la
sua determinazione. Le Linee guida
propongono anche la determinazione
del rapporto tra i valori pressori agli
arti superiori e inferiori, indicando
che valori < 0,9 di tale parametro
possano riflettere la presenza di malattia aterosclerotica, poiché tale parametro è di valutazione relativamente
facile in clinica ed è stata dimostrata
la sua associazione con un aumento
del rischio cardiovascolare globale.
Le Linee guida danno anche indicazione sulla scelta di alcune classi di
farmaci in presenza di uno specifico
danno d’organo, sulla base della dimostrazione che alcune classi di farmaci sono particolarmente efficaci su
alcuni tipi di danno d’organo.
Il suggerimento che sia raccomandata una valutazione così articolata del
danno d’organo subclinico può senz’altro suscitare perplessità nel medico di medicina generale, che spesso
incontra notevoli difficoltà nella corretta esecuzione, ma soprattutto nella
refertazione, degli esami strumentali
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indicati. Tuttavia, i principi suggeriti
dalle Linee guida potrebbero essere
utilizzati dalle autorità regolatorie,
dalle aziende sanitarie e dai centri
specialistici di riferimento per adattare, nell’ambito di comuni percorsi diagnostico-terapeutici, i suggerimenti di
esperti del settore al mondo reale e
per tradurre le conoscenze scientifiche a vantaggio dei pazienti e dei loro
medici di medicina generale.
Le Linee guida ribadiscono che il beneficio del trattamento antipertensivo
è innanzitutto legato alla riduzione
dei valori pressori, piuttosto che alla
classe di farmaci utilizzati, che vanno
prescritti sempre in associazione con
adeguate modificazioni dello stile di
vita. Tali modificazioni possono ridurre il rischio di sviluppare ipertensione arteriosa nei soggetti con valori
pressori normali-alti e possono ridurre il numero di farmaci antipertensivi
necessari per un adeguato controllo
pressorio nei pazienti già in terapia.
La scelta tra le varie classi di farmaci
antipertensivi si basa sulla presenza
di fattori di rischio, danno d’organo e/o
malattie cardiovascolari concomitanti,
piuttosto che sulla futile identificazione di una classe di prima scelta, in
considerazione del fatto che la maggior parte dei pazienti necessita terapia con più farmaci in combinazione.
Le Linee guida 2007 dedicano infine
un’apposita sezione alla diagnosi e terapia dell’ipertensione arteriosa
nelle donne, sottolineando che nei
due sessi il beneficio del trattamento
antipertensivo è simile. Nella scelta
del tipo di trattamento, tuttavia, si
sconsiglia l’impiego di ACE-inibitori e
antagonisti dell’angiotensina II nelle
donne in età fertile e in gestazione per
i loro potenziali effetti teratogeni. Si ricorda che nelle donne in età fertile la
terapia con contraccettivi orali a basso contenuto di estrogeni si associa a
un incremento del rischio di ipertensione, ictus e infarto miocardico e che
per tale motivo il farmaco di scelta do-
vrebbe essere la pillola anticoncezionale a contenuto esclusivamente progestinico, per quanto non siano ancora chiari gli effetti di questo trattamento sugli eventi cardiovascolari.
Per quanto riguarda le donne in postmenopausa, al momento attuale la terapia ormonale sostituiva non è raccomandata a scopo “cardioprotettivo”, poiché è dimostrato che i vantaggi della terapia ormonale sostitutiva
sono rappresentati da una minore frequenza di fratture ossee e neoplasie
del colon, mentre aumentano i rischi
di eventi coronarici e tromboembolici,
ictus, neoplasia della mammella, malattie della colecisti e demenza.
Le forme ipertensive in gravidanza, in
particolare la pre-eclampsia, possono
influire in modo negativo sulla prognosi e sullo stato di salute della madre e
del feto. Nelle pazienti gravide che
presentano valori pressori sistolici
compresi tra 140 e 149 mmHg e/o diastolici tra 90 e 99 mmHg, si dovrebbe
impostare un trattamento non farmacologico, mentre in presenza d’ipertensione gravidica (con o senza proteinuria) è indicata una terapia farmacologica se i valori pressori sono uguali o
superiori a 140/90 mmHg. Se i valori di
pressione arteriosa sistolica e diastolica sono ≥ 170 o ≥ 110 mmHg, rispettivamente, la paziente deve essere ricoverata in ospedale. I farmaci di scelta, in presenza di un’ipertensione di
grado moderato, includono l’alfa-metildopa, il labetalolo, i calcio-antagonisti e, meno frequentemente, i betabloccanti, mentre i diuretici sono da
evitare per la riduzione del volume
ematico circolante. In condizioni di
emergenza si può ricorrere all’uso di labetalolo o di nitroglicerina (in caso di
edema polmonare acuto) per via endovenosa e di nifedipina o metildopa per
via orale. Infine, nelle donne con storia recente di pre-eclampsia, è utile
l’impiego di aspirina a basso dosaggio
per prevenire le complicazioni.
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CUORE: strategia di prevenzione
delle malattie cardiovascolari
Intervista a Simona Giampaoli di Alberto Lombardi
Fondazione Italiana per il Cuore
N
ell’ambito dei rapporti che legano la Fondazione Italiana
per il Cuore (FIPC) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), Cardiometabolica ha avuto l’opportunità di
intervistare Simona Giampaoli, ricercatrice all’ISS e tra gli autori della
Carta del rischio cardiovascolare, originata dal Progetto CUORE.
Cardiometabolica (CM): Com’è
possibile controllare la malattia
coronarica?
Simona Giampaoli (SG): La malattia cardiovascolare è prevenibile.
Oggi, grazie agli studi epidemiologici, è stato possibile individuare i fattori di rischio associati alla malattia
cardiovascolare, dimostrare la reversibilità del rischio e realizzare strumenti di prevenzione applicabili in
salute pubblica. Sulla base di otto
fattori di rischio è possibile stimare il
rischio cardiovascolare globale assoluto, cioè la probabilità di ammalare
di un evento cardiovascolare nei successivi 10 anni. Di questi fattori, alcuni sono modificabili o controllabili (pressione arteriosa, colesterolemia totale e HDL, diabete, abitudine
al fumo di sigarette), altri non lo sono
(età, genere). Il rischio cardiovascolare è continuo e aumenta con l’avanzare dell’età, pertanto non esiste
un livello in cui il rischio è nullo, ma
è possibile mantenere un livello favorevole controllando i fattori di rischio modificabili attraverso lo stile
di vita e, nei casi più difficili, con la
terapia farmacologica.
CM: Lei ha parlato di controllo
dei fattori di rischio come possibilità di prevenire la malattia
cardiovascolare. Può precisare
8
questo concetto che sembra di
fondamentale importanza?
SG: Il primo passo per mantenere o ridurre il livello dei propri fattori di rischio modificabili è quello di valutare il
proprio rischio cardiovascolare globale
assoluto. L’età è il fattore più importante, pertanto il rischio cardiovascolare aumenta con l’avanzare dell’età. Per mantenere un livello favorevole o ridurre il
proprio rischio è importante adottare
uno stile di vita sano, con una alimentazione bilanciata, una regolare attività fisica e abolendo l’abitudine al fumo.
CM: Lei ha più volte parlato di stile di vita corretto. Può precisare
cosa intende e quali sono gli strumenti che il cittadino ha a disposizione per adottare un corretto
stile di vita?
SG: Il consumo di grassi di origine animale va ridotto, va limitato il consumo
di sale e di alcool; è auspicabile aumentare il consumo di cibi ricchi di fibre, amido, vitamine e minerali, contenuti nella frutta, verdura, legumi e cereali, e il consumo di pesce. È di fondamentale importanza svolgere un’attività fisica regolare, adeguata alle condizioni fisiche e allo stato di salute dell’individuo, abolire il fumo di sigaretta,
e ricordare che sia il fumo attivo sia
quello passivo sono dannosi alla salute. Queste indicazioni devono essere
fornite al cittadino dall’educazione scolastica, da coloro che si occupano di salute pubblica, da worksite e non ultimo
dai mass media. Ma adottare uno stile
di vita corretto non è sufficiente, perché
bisogna mantenerlo nel tempo. Coloro
che sono deputati a rafforzare questo
concetto nei cittadini sono i medici di
medicina generale (MMG), gli specialisti come i cardiologi e le istituzioni.
CM: Tante sono le figure che svolgono un ruolo importante nella
prevenzione della malattia coronarica. Secondo lei, chi tra questi
attori può meglio definire il rischio
globale del paziente?
SG: Il MMG è la figura che meglio può
valutare il rischio cardiovascolare, perché conosce i propri assistiti, può incoraggiarli nelle scelte e seguirli nel
tempo. Questo ruolo fondamentale è
stato dimostrato dagli studi clinici sull’importanza di smettere di fumare, di
svolgere una regolare attività fisica e di
adottare un’alimentazione corretta. Il
messaggio del medico ha tanto più
successo quanto più è continuo, incisivo e se supportato da documenti scritti da fornire al paziente.
CM: Può dare un esempio del ruolo del MMG?
SG: Un buon esempio è il problema
dell’obesità. Identificare gli assistiti che
stanno aumentando di peso o che sono
in sovrappeso, ma non ancora obesi, è il
primo passo per prevenire l’obesità.
Peso, altezza e calcolo dell’indice di
massa corporea devono diventare misure comuni nella pratica clinica.
CM: Può illustrare il Progetto
CUORE e i suoi scopi?
SG: Il Progetto CUORE è nato nel 1998,
finanziato dal Ministero della Salute e
coordinato dall’ISS con l’obiettivo di valutare il rischio cardiovascolare della popolazione italiana, mettere a punto strumenti per la valutazione del rischio, valutare la distribuzione dei fattori di rischio e la prevalenza delle condizioni a
rischio e delle malattie cardiovascolari
nella popolazione adulta. A questi obiettivi si è aggiunto quello di un’intensa
azione di prevenzione con i MMG attraverso l’uso e l’applicazione della carta
del rischio cardiovascolare. Il primo
passo è stato quello di creare un sito web
www.cuore.iss.it dal quale i MMG possono scaricare gratuitamente il software
per calcolare il rischio cardiovascolare.
È quindi stato lanciato un piano di formazione nazionale per i MMG per il cor-
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retto uso e applicazione della carta del
rischio cardiovascolare.
CM: Chi ha organizzato questi corsi e com’erano strutturati?
SG: Questi corsi, che rilasciano crediti ECM, sono stati pianificati e sviluppati dall’ISS in collaborazione con
il Ministero della Salute, l’Agenzia
italiana del Farmaco e le associazioni
nazionali dei MMG e dei cardiologi. I
corsi sono strutturati in quattro moduli: due residenziali, di cinque ore ciascuno, sono focalizzati sul rischio globale e sul calcolo del punteggio di rischio, sulla comunicazione del rischio, sulla promozione di uno stile di
vita corretto e sul trattamento farmacologico. Il terzo modulo, della durata di 2-4 mesi, è dedicato all’applicazione nella pratica clinica del software cuore.exe. I dati che i MMG raccolgono nella pratica clinica vengono
inviati all’ISS, dove vengono analizzati su base regionale e nazionale attraverso l’Osservatorio del Rischio cardiovascolare. L’ultimo modulo prevede la partecipazione dei MMG a
workshop regionali focalizzati sulla
presentazione dei risultati raggiunti.
Sono 1.600 i MMG che hanno partecipato a questo programma e 4.312
quelli che hanno scaricato il software
cuore.exe.
CM: Si tratta quindi di un progetto ambizioso e con una valenza sanitaria di primissimo piano…
SG: CUORE rappresenta una collaborazione unica nel suo genere tra Ministero della Salute, Agenzia italiana del
Farmaco, associazioni scientifiche e ISS
nel promuovere la valutazione del rischio cardiovascolare tra i medici di medicina generale; è un passo importante
verso l’implementazione di una strategia
di prevenzione che coinvolga l’intera
popolazione e focalizzi l’interesse sul
mantenimento e/o il raggiungimento del
profilo di rischio “favorevole”, pur continuando a sostenere gli interventi rivolti agli individui ad alto rischio.
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Dall’obesità al rischio
cardiometabolico
Federico Mereta
Giornalista, specialista in Scienza dell’alimentazione
L’
obesità è una condizione medica cronica e potenzialmente
grave che spesso precede e si
associa allo sviluppo di altri fattori di
rischio cardiometabolici e che può
portare allo sviluppo del diabete di
tipo 2 e della dislipidemia(1). In questo
ambito, numerosi studi dimostrano
l’importanza del tessuto adiposo intraddominale in eccesso nel determinismo della via che aumenta il rischio
di diabete e dislipidemia. In particolare, il tessuto adiposo intraddominale produce una serie di sostanze chimiche che possono causare uno squilibrio nel metabolismo lipidico e glucidico (10). Attualmente si pensa che
questo squilibrio aumenti il rischio di
sviluppare alterazioni quali la resistenza all’insulina, l’ipertensione arteriosa, l’iperglicemia, un’alterazione
dei livelli di colesterolo e alti livelli di
trigliceridi, ovvero una serie di elementi negativi attualmente definiti
“fattori di rischio cardiometabolico”
(Cardiometabolic Risk o CMR) (10).
Ma come si sviluppa questo effetto negativo? L’eccesso di grasso viscerale,
in diretto rapporto con la circonferenza addominale, può essere considerato un predittore indipendente di rischio cardiovascolare e quindi di lesioni come l’infarto miocardico. La
presenza di grasso viscerale favorisce
infatti diversi elementi che aumentano il rischio cardiovascolare, come il
mantenimento dell’infiammazione,
l’insulino-resistenza, l’iperglicemia, la
dislipidemia, l’ipertensione arteriosa e
la disfunzione endoteliale. Le sostanze prodotte dall’eccesso di grasso viscerale possono influire a loro volta
sul metabolismo dell’intero organismo
con meccanismi diversi: da una parte
possono infatti indurre una carenza di
ormoni con effetti protettivi come l’adiponectina, la cui sintesi cala in presenza di quantità eccessive di grasso
viscerale, dall’altra possono causare
un incremento della produzione di sostanze in grado di influire sui diversi
fattori di rischio.
Si può illustrare il ruolo del grasso viscerale nella patogenesi di questi fenomeni attraverso diverse vie. Innanzitutto, le cellule adipose in eccesso
nell’addome liberano nel sangue gli
acidi grassi liberi (FFA). La presenza
degli acidi grassi liberi nel sangue dipende direttamente dalla quantità del
grasso addominale: quanto più questa
sale, tanto maggiore è la liberazione di
acidi grassi liberi.
Successivamente gli acidi grassi liberi in eccesso si “mettono in concorrenza” con il glucosio e vengono utilizzati al suo posto dai muscoli, per cui
si verifica un aumento della glicemia.
L’aumento della concentrazione plasmatica di glucosio porta alla risposta
da parte del pancreas, che aumenta
l’increzione di insulina. Non solo: in
queste circostanze anche il metabolismo dell’insulina in eccesso da parte
del fegato non è efficace, per cui si verifica un aumento dell’insulinemia in
presenza di iperglicemia. Questa accoppiata, teoricamente difficile da
realizzare, è possibile perché si instaura insulino-resistenza. In pratica,
il corpo diventa meno sensibile all’azione dell’insulina e quindi, anche in
presenza di un’insulinemia elevata, si
può sviluppare diabete di tipo 2.
L’ecceso di grasso viscerale libera acidi grassi che, attraverso la circolazione portale, raggiungono il fegato, dove
stimolano la sintesi di trigliceridi e di
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lipoproteine ricche in VLDL, che possono essere successivamente convertite in LDL. Queste rappresentano il
“colesterolo cattivo”, che tende ad accumularsi nella parete dei vasi, favorendo l’insorgenza dell’aterosclerosi.
Nello stesso tempo cala il “colesterolo buono” legato alle lipoproteine
HDL, che invece trasportano il grasso
(cioè il colesterolo) dai tessuti periferici al fegato, che a sua volta lo smaltisce per via biliare.
L’eccesso di grasso viscerale può influenzare anche la pressione arteriosa.
In pratica, queste condizioni fanno
aumentare l’effetto dell’adrenalina sui
vasi più piccoli, che vanno incontro al
fenomeno della vasocostrizione e diminuiscono l’eliminazione renale del
sodio. Il sale minerale, rimanendo nel
sangue, tende a trattenere all’interno
dei vasi anche l’acqua. Associando
questi due meccanismi, cioè la vasocostrizione e la ritenzione idrica (con
il conseguente aumento del volume
circolante), la pressione arteriosa sale.
I dati epidemiologici dicono che la circonferenza addominale sta crescendo
in tutto il mondo, specialmente in Europa, come si può constatare in Francia (+26 per cento), Spagna (+35 per
cento), Italia (+32 per cento), Germania (+20 per cento) e nel Regno Unito (+28 per cento). Negli Stati Uniti, il
46 per cento della popolazione ha un
giro vita superiore alla norma (2-7). Tra
le persone sovrappeso od obese, quelle con grasso intraddominale in eccesso corrono il rischio maggiore di
sviluppare dislipidemia, diabete di
tipo 2 e, in ultima analisi, cardiopatie
(8-9)
. Per questo occorre considerare
una nuova entità: il rischio cardiometabolico globale, costituito dai
fattori di rischio modificabili e non,
che possono predisporre le persone al
diabete di tipo 2 e alle cardiopatie (11).
Circa il 26 per cento degli adulti di
tutto il mondo presenta almeno tre fattori di rischio cardiometabolico (12),
molti dei quali compaiono clinicamente in gruppi specifici (11).
10
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Grasso viscerale e infiammazione
L’eccesso di grasso intraddominale favorisce la sintesi di mediatori dell’infiammazione come l’interleuchina-6 e
il Tumor Necrosis Factor (TNF) alfa e
si associa a un incremento della proteina C-reattiva (CRP).
L’incremento di tessuto adiposo intraddominale all’interno dell’addome induce un calo della sintesi di adiponectina,
la cui azione contrasta invece lo sviluppo di infiammazione. Per questo
motivo, oltre a favorire la disfunzione
endoteliale, l’eccesso di grasso intraddominale favorisce l’instabilità della
placca ateromatosa, la cui rottura è all’origine di fenomeni tromboembolici
che riducono l’afflusso di sangue e ossigeno al cuore e al cervello attraverso
i vasi sanguigni, con comparsa di sindromi ischemiche coronariche e cerebrovascolari acute.
Tabella I. Fattori di rischio cardiovascolare e valori di riferimento
Fattore di rischio
Criteri diagnostici
Circonferenza addominale*
Trigliceridi
Colesterolo-HDL
Pressione arteriosa
Glicemia a digiuno
Colesterolo-LDL
Intervalli di valori a rischio maggiore
AHA/NHLBI (13)
IDF (14, 15)
Circonferenza vita ≥102 cm
Circonferenza vita ≥94 cm
per gli uomini o ≥88 cm per le donne. per gli uomini e ≥80 cm
Criteri differenti potranno essere
per le donne di razza caucasica,
applicati per gruppi etnici
con valori specifici per altri
non europei
gruppi etnici
Trigliceridi ≥150 mg/dL
Trigliceridi elevati
(1,7 mmol/L)
(≥150 mg/dL o 1,7 mmol/L)
o trattamento specifico
per questi livelli anomali
dei lipidi
Livelli di colesterolo-HDL
Colesterolo-HDL ridotto:
<40 mg/dL (1,04 mmol/L) negli uomini <40 mg/dL (1,03 mmol/L) negli
o <50 mg/L (1,29 mmol/L) nelle donne uomini o <50 mg/L (1,29 mmol/L)
nelle donne, oppure trattamento
specifico per questi livelli anomali
dei lipidi
Pressione arteriosa sistolica
Ipertensione arteriosa:
≥130 mmHg o diastolica ≥85 mmHg, pressione sistolica ≥130 mmHg
o in trattamento
o pressione diastolica
≥85 mmHg, e/o trattamento
di ipertensione precedentemente
diagnosticata
Glicemia a digiuno
Glicemia a digiuno (FPG)
≥100 mg/dL (5,6 mmol/L)
≥100 mg/dL (5,6 mmol/L)
o diabete di tipo 2
precedentemente diagnosticato.
Se l’FPG è >100 mg/dL
(5,6 mmol/L), sarà fortemente
consigliato (ma non necessario
per definire la presenza
della sindrome) un test orale
di tolleranza al glucosio (OGTT)
per misurare la capacità del corpo
di metabolizzare i carboidrati**
Più di 100 mg/dL (> 2,56 mmol/L)
in caso di cardiopatie/diabete in passato
o attualmente.
Più di 130 mg/dL (> 3,3 mmol/L)
in presenza di due o più fattori di rischio.
Più di 160 mg/dL (<4,10 mmol/L)
in presenza di un solo
o nessun fattore di rischio
*Se l’indice di massa corporea è >30, si può dare per scontato che vi sia obesità addominale e non è necessario misurare la circonferenza
addominale. **Nella pratica clinica, una tolleranza glucidica ridotta è accettabile, ma tutti i rapporti di prevalenza della sindrome
metabolica dovrebbero utilizzare come fattori per determinare l’iperglicemia solamente la glicemia a digiuno e la presenza di diabete
precedentemente diagnosticato. Una prevalenza che includa i risultati della glicemia a 2h può essere aggiunta come accertamento
supplementare.
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Il rischio cardiometabolico
protagonista all’ESC
Andrea P. Peracino
Fondazione Italiana per il Cuore – Fondazione Giovanni Lorenzini
I
l recente Congresso annuale della
European Society of Cardiology,
che si è tenuto a Vienna dall’1 al
5 settembre scorso, ha laureato a pieni voti la sindrome metabolica dandole posizione di rilievo in numerosi incontri e indicando in detta sindrome
l’emblema della Multiple Risk Factor
Disease. «Dieci anni fa nei congressi
di cardiologia, quando si parlava di
sindrome metabolica erano presenti
cinque persone inclusi i relatori. Oggi
le aule sono piene e c’è folla davanti
ai televisori che trasmettono la sessione fuori dall’aula» ha dichiarato
Phil Barter.
Dalla Metabolic Triad alla sindrome
metabolica, il rischio cardiometabolico attira l’attenzione di ricercatori e
clinici, non solo come modello di patologia, ma in particolare per l’evidenza di una prevalenza crescente, soprattutto nell’interrelazione con altre
patologie. «Più del 50 per cento dei
pazienti che evolvono verso la cardiopatia hanno un’insulino-resistenza»
ha affermato John Eric Deanfield
«così come più del 70 per cento dei
pazienti con infarto miocardico hanno
a loro volta insulino-resistenza. Dal
concetto di “sindrome” si sta passando a quello di Continuous Disease».
D’altra parte Salim Yusuf, prima nello studio INTERHEART e poi ancora
due anni dopo, aveva messo in evidenza la continuità della correlazione
tra circonferenza addominale e rischio
cardiovascolare (CV).
Pierre Bassand sostiene che il rapporto vita/fianchi (nella popolazione di
riferimento da 0,77 a 0,85) viene ritenuto meglio riflettere la correlazione
con il rischio CV rispetto all’indice di
massa corporea (BMI).
Il rapporto tra spessore dell’intima e
della media carotidea e sindrome metabolica, così come anche le interferenze di quest’ultima con la cessazione del fumo, propongono nuovi spunti di riflessione. Macrofagi, vascolarità, infiammazione e trombosi sottolineano l’importanza di seguirne la evoluzione con i biomarker di detti momenti fisiopatologici. Tra questi Wolfgang Koenig sottolinea l’importanza
della fosfatasi alcalina, dell’alaninaaminotransferasi (ALT), della gammaGT e i collegamenti con la Non Alcoholic Fatty Liver Disease. Sempre
Wolfgang Koenig dà importanza alla
sovraespressione di PAI-1.
Le interrelazioni dell’adipe viscerale
con l’esercizio richiamano una stretta
correlazione tra attività fisica e benessere fisico (Jean-Pierre Desprès). La Vital Belt costituisce la
misura dell’efficacia della modificazione dello stile di vita.
Per alcuni lati collegata al cardiometabolismo è la risonanza della nuove Linee guida sull’ipertensione rilasciate
già lo scorso giugno a Milano durante
il Congresso dell’European Society of
Hypertension (ESH) e ampiamente riprese all’ESC. Già il nuovo approccio
integrato verso la valutazione del rischio multiplo (quindi non limitato alla
pressione arteriosa) era stato ampiamente delineato un paio di settimane
prima dell’ESC da Franz Messerli, il
quale scriveva con Bryan Williams e
Eberhard Ritz che «…l’ipertensione
essenziale si combina usualmente con
altri rischi CV quali l’invecchiamento,
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il sovrappeso, la resistenza all’insulina,
il diabete e l’iperlipidemia. Danni d’organo come l’ipertrofia del ventricolo sinistro e la microalbuminuria possono
subdolamente comparire anche in caso
di ipertensione mascherata» (Lancet
2007; 370: 591-603).
Molti di questi concetti sono stati ripetuti nel Symposium on Hypertension and
beyond da Stefano Taddei, Peter
Dominiak, Csaba Falsang, Gilles
Degenais e Salim Yusuf. Quest’ultimo, basandosi proprio sugli studi INTERHEART, ha richiamato l’approccio
al “multirischio”. Il 90 per cento dei rischi totali è rappresentato per il 62,8
per cento da fattori legati (in maniera diretta o indiretta) allo stile di vita: rapporto ApoB/ApoA1 marker migliore del
disordine lipidico; rapporto vita/fianchi
meglio correlato al rischio CV del BMI;
fumo attivo e passivo (equivalente a 57 sigarette die); alimentazione povera di
frutta/verdura, mancanza di esercizio
fisico, abuso di alcol. Per il restante 30
per cento scarso l’impatto è rappresentato da fattori non del tutto legati allo
stile di vita quali ipertensione, diabete,
obesità addominale, condizioni psicosociali e – ancora – disordini lipidici.
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I rapporti ApoB/ApoA1 e vita/fianchi,
così come il fumo, non hanno valori soglia ma presentano un continuum di correlazione con il rischio CV. D’altra parte, per Salim Yusuf appare un continuum anche l’ipertensione e il prefisso
iper appare sbagliato per se: «È un continuum come l’età». Questo concetto appare evidente nelle citate nuove Linee
guida sull’ipertensione (Eur Heart J
2007; 28: 1462-536. Figura 1).
è un progetto della
Fondazione Italiana per il cuore
Come trattare fumo e obesità? «Troppo
poco, troppo tardi» aggiunge ancora Salim Yusuf, che ripropone (tabella I) un
paragone molto interessante su come la
società è chiamata ad intervenire.
Tabella I. Analogie e differenze nell’approccio
socio-sanitario alla lotta contro il fumo e contro
l’obesità.
FUMO
conoscenza
sensibilizzazione
tasse sui prodotti
riduzione
della promozione
proibizione
nelle aree pubbliche
INTERVENTO
informazione
educazione esempio
imposizione
organizzativo
legislativo
OBESITA’
conoscenza
sensibilizzazione
tasse sui prodotti
riduzione porzioni,
etichette
architettura urbana
e sociale,
percorsi, distanze
L’Autore non commenta l’efficacia di
tali interventi e – volutamente – non cita
la necessità di un intervento medico-farmacologico in ambedue le situazioni.
con un grant educazionale di
SBP = pressione arteriosa sistolica; DBP = pressione arteriosa diastolica; CV = cardiovascolare; HT = ipertensione; rischio basso, moderato, alto e altissimo si riferiscono al rischio a 10
anni di un evento CV fatale o non fatale. Il termine added (aggiunto) indica che in ogni categoria il rischio è superiore alla media. OD = danno d’organo subclinico; MS = sindrome metabolica. La linea tratteggiata indica come la definizione di ipertensione possa essere variabile, essendo condizionata dal livello di rischio CV totale.
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Depositato presso l’AIFA in data 15/11/2007 – Cod. 60515423
Figura 1. Stratificazione del rischio CV in quattro categorie.