Linee guida 2007 sull`ipertensione arteriosa Dall`obesità al rischio
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Linee guida 2007 sull`ipertensione arteriosa Dall`obesità al rischio
CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 Page 1 Linee guida 2007 sull’ipertensione arteriosa Dall’obesità al rischio cardiometabolico Il rischio cardiometabolico protagonista all’ESC La Società europea dell’Ipertensione arteriosa e la Società europea di Cardiologia hanno emanato le nuove linee guida per la diagnosi e la terapia dell’ipertensione arteriosa, aggiornando il precedente documento pubblicato nel 2003 [...] L’obesità è una condizione medica cronica e potenzialmente grave che spesso precede e si associa allo sviluppo di altri fattori di rischio cardiometabolici e che può portare allo sviluppo del diabete di tipo 2 e della dislipidemia [...] Il recente Congresso annuale della European Society of Cardiology, [...], ha laureato a pieni voti la sindrome metabolica dandole posizione di rilievo in numerosi incontri e indicando in detta sindrome l’emblema della Multiple Risk Factor Disease [...] vedi pag 5 vedi pag 7 vedi pag 11 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 Page 2 numero 04 novembre 2007 in questo numero Editoriale Medicina generale e sindrome metabolica di Roberto Stella e Marco Cambielli 3 Articoli Le novità delle Linee guida 2007 sull’ipertensione arteriosa di Maria Lorenza Muiesan 5 CUORE: strategia di prevenzione delle malattie cardiovascolari intervista a Simona Giampaoli di Alberto Lombardi 8 Dall’obesità al rischio cardiometabolico di Federico Mereta 9 Il rischio cardiometabolico protagonista all’ESC di Andrea P. Peracino 11 Pubblicazione a cura della Fondazione Italiana per il Cuore Via Appiani 7 - 20121 Milano Direttore responsabile: Emanuela Folco Comitato editoriale: Pietro Amante; Antonio C. Bossi; Emanuela Folco; Alberto Lombardi; Federico Mereta; Rodolfo Paoletti; Andrea P. Peracino; Andrea Poli Layout grafico ed impaginazione: Monica Loredan - evectors Stampato a cura di: Lalitotipo - Via E. Fermi 17 20019 Settimo Milanese (MI) www.cardiometabolica.org Iscrizione Registro della Stampa (Tribunale di Milano) numero 212 del 4 Aprile 2007 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 Page 3 Editoriale Medicina generale e sindrome metabolica Roberto Stella, vicepresidente; Marco Cambielli, segretario Società nazionale di Aggiornamento per il Medico di Medicina generale (SNAMID) egli ultimi anni la sindrome metabolica ha ricevuto una grande attenzione nella clinica e in particolare nell’ambito della Medicina generale, per quanto non si sia ancora concluso il dibattito circa la sua definizione come entità clinica ben definita e autonoma. È ormai acquisito che tale sindrome presenta una costellazione di fattori metabolici di rischio correlati che appaiono promuovere direttamente lo sviluppo della malattia aterosclerotica cardiovascolare; inoltre questi pazienti sono a rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2. N nizzazioni hanno ridefinito in modo differente: il Gruppo europeo per lo studio dell’insulino-resistenza (EGIR), il Programma nazionale di educazione sul colesterolo (NCEP/ATP III, 2001), l’Associazione americana degli endocrinologi clinici (AACE, 2003), la Federazione internazionale del diabete (IDF, 2005) e infine l’Associazione americana dei cardiologi/Istituto nazionale per il cuore, polmone e sangue (AHA/NHLBI, 2005), producendo variazioni che man mano emergevano dalla letteratura, relativamente ai parametri originalmente indicati dall’OMS. Sono stati individuati anche altri fattori di rischio quali l’obesità addominale, l’insulino-resistenza e altre condizioni come l’inattività fisica, l’invecchiamento e lo squilibrio ormonale. L’aumento dell’obesità e dell’invecchiamento presenti in tutte le civiltà occidentali, con le connesse modificazioni nella distribuzione del grasso addominale e le conseguenti alterazioni dello stato pro-infiammatorio e della coagulazione, rendono ulteriormente conto dell’interesse della Medicina generale per questa entità di abbastanza recente definizione. Oggi è accettato che per definire la presenza di sindrome metabolica ci si debba trovare di fronte a un paziente con almeno tre dei cinque seguenti parametri: 1. circonferenza addominale >102 cm nell’uomo e >88 cm nella donna, misurata con un metro mantenuto parallelo al terreno e che passi immediatamente sopra la spina iliaca antero-superiore (indice di obesità addominale); IDF, 2005; 2. pressione arteriosa ≥130/85 mmHg; 3. trigliceridemia ≥150 mg/dL; 4. colesterolo-HDL <40 mg/dL nei maschi e <50 mg/dL nelle donne; 5. glicemia a digiuno ≥110 mg/dL (NCEP/ATP III, 2001) o ≥100 mg/dL (AHA/NHLBI, ATP III revised, IDF). Nel 1988 l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) dava una sua prima definizione di sindrome metabolica basandosi su alcuni criteri diagnostici che, in epoca successiva, altre orga- www.cardiometabolica.org Numerose esperienze internazionali hanno dimostrato che, pure in presenza di alcune significative diversità razziali, soprattutto orientali, la prevalenza della sindrome metabolica nella popolazione adulta compresa tra 35 e 70 anni è di circa il 23-25 per cento nei maschi e del 16-20 per cento nelle femmine (JAMA 2002; 284: 356-9. Diab Care 2005; 28: 385-90. Diab Care 2006; 29: 1414-6. Bull WHO 2006; 6: 461-9). Qualora si consideri la popolazione compresa tra 60 e 70 anni, la prevalenza supera il 40 per cento, arrivando al 45 per cento negli Stati Uniti. In Italia la prevalenza si attesta intorno al 23 per cento (Progetto cuore, www.cuore.iss.it/fattori/glicemia.asp). Il parametro più rappresentato è quello dell’aumento della circonferenza addominale, presente nel 40 per cento circa dei soggetti, seguito dall’ipertensione arteriosa, presente nel 30-35 per cento dei pazienti. In letteratura si è evidenziato che i maschi hanno una prevalenza significativamente maggiore di iperglicemia, ipertrigliceridemia e ipertensione, mentre nelle femmine si è evidenziata una maggiore prevalenza di obesità centrale e basso colesterolo-HDL. Se si valuta il rischio cardiovascolare nei soggetti affetti da sindrome metabolica, per esempio, come dimostrato nello studio NHANES III (Am J Clin Nutr 2005; 81: 409-15), le persone affette 3 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 da questa patologia presentano una prevalenza di cardiopatia ischemica del 12,9 per cento, superiore alla prevalenza esistente nei soggetti con diabete mellito (7,5 per cento), raggiungendo percentuali ancora superiori quando le due condizioni si sommano (19,2 per cento). Da ciò si può evincere chiaramente quale possa essere l’interesse della Medicina generale per questa sindrome, e anche nell’ambito della pediatria di base sta aumentando l’interesse e l’attenzione. Si è visto infatti che il basso peso alla nascita e la piccolezza in rapporto all’età gestazionale sono fattori predittivi di sviluppo di sindrome metabolica, così come un basso indice di massa corporea (BMI) a due anni e un rapido aumento ponderale fra i due e gli 11 anni sono correlati ad alti livelli di insulino-resistenza in età adulta ed eventi coronarici. La Medicina generale è certamente il luogo prevalente di primo contatto medico all’interno del Servizio sanitario nazionale. Il Medico di medicina generale (MMG) ha la responsabilità specifica della salute della persona, della famiglia, della comunità e ha compiti di identificazione precoce dei soggetti a rischio, di prevenzione, di cura a lungo termine e ha la necessità di capire le dimensioni delle principali patologie. Gestisce le malattie croniche, coordina le cure interfacciandosi con altre specialità e concorre in misura determinante all’utilizzo più efficiente delle risorse sanitarie non solo con la funzione di gatekeeping, ma cercando – attraverso l’applicazione personalizzata di linee guida, di percorsi diagnostico terapeutici e facendo uso della pratica basata sulle prove scientifiche – di realizzare cure appropriate, tenuto conto anche dell’analisi dei rapporti costo/beneficio (CBA), costo-efficacia (CEA) e costoutilità (CUA), indispensabili per la prevenzione e la gestione corretta e sostenibile delle cronicità. 4 Page 4 I “vantaggi” del MMG consistono essenzialmente nell’esercitare l’assistenza primaria ambulatoriale e domiciliare, nel conoscere familiarità, stili di vita, trattamento farmacologico, nella consuetudine prolungata nel tempo con la quasi totalità dei pazienti (circa l’80 per cento degli assistiti contatta in un anno il proprio MMG, mentre in cinque anni lo contatta il 100 per cento), nella facilità a cogliere i cambiamenti anche non dichiarati o lamentati dal paziente, nella disposizione a una medicina opportunistica e di iniziativa. La funzione del MMG, che conosce bene i propri pazienti e ravvisa in un soggetto lo stigma della sindrome metabolica, può permettere dunque di mettere in atto interventi preventivi e di educazione sanitaria, fare counselling per la responsabilizzazione del paziente nei confronti della sua situazione clinica, iniziare un percorso terapeutico farmacologico. Nel caso della sindrome metabolica, la funzione del MMG appare quindi fondamentale, perché questa patologia si giova in maniera determinante del suo riconoscimento precoce. L’intervento precoce determina infatti miglioramento degli outcome, riduzione delle sofferenze, prolungamento della vita, miglioramento della sua qualità, riduzione dei costi di gestione del paziente e delle sue complicazioni. I parametri necessari per definire la sindrome metabolica sono di approccio assai semplice e immediato, permettendo anche una valutazione opportunistica dei soggetti a rischio. Nell’attività ambulatoriale di routine del MMG è infatti di frequente riscontro una serie di indicatori facilmente rilevabili quali ridotta tolleranza al glucosio, iniziale e modesta obesità, elevazione della pressione arteriosa, alterazione anche modesta del quadro lipidico e incremento isolato della gammaGT. Tali elementi, presenti sia singolarmente sia variamente associati, devono mettere in guardia il MMG e suggerirgli di attivare uno stretto programma di controllo e cura. Tramite l’individuazione di questi fattori di rischio e il loro corretto inquadramento si può fare prevenzione vera, con il risultato di migliorare le condizioni di vita del paziente, riducendo il costo sociale della malattia e delle sue complicazioni. È necessario quindi individuare una strategia per la diagnosi basandosi su un semplice approccio clinico che comprenda, oltre alla valutazione dei parametri già indicati precedentemente: • Anamnesi: · familiarità per malattie CV, soprattutto se prima dei 55 anni nei maschi e dei 65 nelle femmine; · positività per angina, infarto miocardico, ictus cerebrale; · sedentarietà; · fumo; · storia familiare di diabete; · diabete gestazionale; · sindrome dell’ovaio policistico; · alterato metabolismo del glucosio. • Esame obiettivo con misurazione della circonferenza addominale e della pressione arteriosa • Esami di laboratorio: · trigliceridi; · colesterolo totale; · colesterolo-HDL; · glicemia a digiuno; · uricemia. Inoltre è opportuno valutare il rischio cardiovascolare globale, considerando già gli eventuali danni d’organo. Stratificare il rischio significa identificare i sottogruppi nei quali esso è più elevato. In questa popolazione di pazienti l’intervento preventivo risulta tanto più efficace quanto più è potente, ed il rapporto costo-efficacia appare particolarmente favorevole quanto più si riduce il rischio. Risulta quindi evidente come approcci di prevenzione facilmente prescrivibili www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 come il mutamento dello stile di vita, il cambiamento delle abitudini alimentari, l’invito a un’attività fisica espressa in modo professionale e dettagliato, coinvolgendo il paziente sulla necessità dell'equivalenza metabolica tra entrate energetiche (cioè l'alimentazione) e uscite (cioè il movimento), possano evitare o ritardare l’espressione clinica della sindrome e le sue complicazioni. Gli obiettivi del management clinico diventano dunque prioritariamente quelli di: • ridurre il rischio di malattia aterosclerotica clinica riducendo le cause sottostanti (per esempio, obesità e inattività fisica) e trattando i fattori di rischio associati (lipidici e non lipidici); • ridurre il rischio di diabete mellito di tipo 2 in quei pazienti che non hanno ancora i segni manifesti della malattia. Ma anche dal punto di vista terapeutico, la possibilità di monitorare costantemente i parametri clinici e metabolici, quando è il caso anche in collaborazione coi medici che operano al 14:18 Page 5 secondo livello, può produrre risultati non solo in termini di correzione dei parametri biologici, ma anche di prevenzione del danno cardiovascolare, come dimostra la letteratura corrente. La Medicina generale deve dunque sforzarsi di identificare il percorso organizzativo che faciliti il suo compito, non solo attraverso il costante processo formativo, ma anche dotandosi di strumenti per il lavoro quotidiano che ne facilitino l’approccio: utilizzo di una cartella clinica che orienti ai problemi della cronicità, presenza di memo automatici in pazienti che presentino determinate caratteristiche di familiarità, età e sesso, buona disposizione all’audit medico, al feedback e, nei casi più evoluti, anche all’educational outreach visit. Il MMG può fare molto per questi pazienti anche attraverso forme evolute di collaborazione con la Medicina di secondo livello attraverso l’adozione di percorsi diagnostici. La cura integrata deve essere organizzata e individualizzata sul singolo paziente, e i fornitori della cura integrata possono variare nel tempo secondo l’evoluzione della storia naturale della malattia e della sua fase nel processo di cura, della progressione della malattia e della necessità di un trattamento specifico. Il “peso” della sindrome metabolica potrà essere così ridotto, per l’individuo e per la società. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 1. Grundy SM, Cleeman JI, Daniels SR, Donato KA, Eckel RH, Franklin BA, Gordon DJ, Krauss RM, Savage PJ, Smith SC, Jr, Spertus JA, and Costa F. Diagnosis and Management of the Metabolic Syndrome: An American Heart Association/National Heart, Lung, and Blood Institute Scientific Statement. Circulation 2005; 112: 2735-52 2. Liu J, Grundy SM, Wang W, Smith SC, Jr, Lena Vega G, Wu Z, Zeng Z, Wang W, Zhao D. Ten-year risk of cardiovascular incidence related to diabetes, prediabetes, and the metabolic syndrome. Am Heart J 2007; 153: 552-8 3. Tong PC, Kong AP, So W-Y, Yang X, Ho CS, Ma RC, Ozaki R, Chow C-C, Lam CW, Chan JCN, and Cockram CS. The Usefulness of the International Diabetes Federation and the National Cholesterol Education Program's Adult Treatment Panel III Definitions of the Metabolic Syndrome in Predicting Coronary Heart Disease in Subjects With Type 2 Diabetes. Diabetes Care 2007; 30: 1206-11 Le novità delle Linee guida 2007 sull’ipertensione arteriosa Maria Lorenza Muiesan Professore straordinario di Medicina interna, Università di Brescia L a Società europea dell’ Ipertensione arteriosa e la Società europea di Cardiologia hanno emanato le nuove linee guida per la diagnosi e la terapia dell’ipertensione arteriosa, aggiornando il precedente documento pubblicato nel 2003, che già si distingueva dalle Linee guida elaborate nel 1993 e poi ancora nel 1999 dalla World Health Organization (WHO) e dall’International Society of Hypertension (ISH), perché queste ultime non riflettevano in modo preciso la realtà europea. In effetti in Europa www.cardiometabolica.org sono disponibili una maggiore capacità di ricercare in modo accurato le cause dell’ipertensione e un maggior numero di farmaci antipertensivi rispetto al resto del mondo. Inoltre le linee guida ESH/ESC 2003 introducevano per la prima volta il concetto di “rischio cardiovascolare globale” dell’individuo, che era preso quale riferimento per la diagnosi e per il trattamento del paziente iperteso, a prescindere dai valori pressori di per se stessi. A tale proposito, le novità principali delle Linee guida 2007 sono rappresentate da una serie di elementi e variabili cliniche da utilizzare per stratificare con ancora maggiore accuratezza il rischio cardiovascolare globale. La stratificazione del rischio si basa su diversi elementi, che comprendono i fattori demografici e antropometrici, l’anamnesi familiare, i valori pressori, il fumo, la glicemia e l’assetto lipidico, cui si aggiungono, tra le altre, il riconoscimento della sindrome metabolica perché essa, pur non costituendo un’entità patologica autonoma, come riconosciuto già diversi anni fa da Ge- 5 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 rald Reaven, rappresenta una condizione caratterizzata dalla presenza di più fattori di rischio, in aggiunta all’aumento della pressione arteriosa, che aumenta in modo marcato lo sviluppo di danno d’organo e il rischio di eventi cardiovascolari. Per tale motivo, le Linee guida raccomandano l’attenta valutazione del danno d’organo cardiaco, vascolare e renale, nei pazienti con sindrome metabolica, anche in assenza di elevati valori pressori, come componenti della sindrome. Infine, nei pazienti con sindrome metabolica, pure in presenza di normali valori pressori alla misurazione clinica, l’aumento della pressione arteriosa durante il monitoraggio ambulatoriale o domiciliare conferisce un aumento del rischio di eventi cardiovascolari. Un altro punto interessante è quello che concerne l’uso del rischio relativo e del rischio assoluto, e che è stato ripreso dalle Linee guida 2007 per la Prevenzione cardiovascolare dell’European Society of Cardiology. Il rischio assoluto (ovvero il rischio di andare incontro a eventi cardiovascolari nell’arco di 10 anni) dipende infatti largamente dall’età, potendo risultare basso nei soggetti giovani anche in presenza di ipertensione e di altri fattori di rischio cardiovascolari che negli anni successivi possono portare a una condizione irreversibile di rischio elevato. Ne consegue il potenziale pericolo di una sottostima del rischio cardiovascolare e di conseguenza di un sotto-trattamento dei soggetti più giovani. Si propone pertanto che, nei soggetti più giovani, la decisione di trattare sia presa sulla base del rischio relativo, lasciando che il calcolo del rischio assoluto venga riservato ai soggetti di età più avanzata. A questo fine è utile precisare che per il calcolo del rischio relativo è attualmente disponibile il modello SCORE (Symptoms - Causes - Output - Resources - Effects) che, essendo stato ricavato dallo studio di popolazioni eu- 6 Page 6 ropee, potrebbe essere più idoneo del classico algoritmo basato sui dati di Framingham. Un’ ulteriore novità delle Linee guida è rappresentata dall’esclusione della proteina C-reattiva dalla lista dei fattori che possono influenzare la prognosi nel paziente iperteso. Dal 2003 a oggi, alcuni importanti studi di popolazione hanno infatti ridimensionato il peso di questo marcatore di infiammazione quale elemento prognostico di eventi cardiovascolari, ed è stato sottolineato come sia difficile, nella pratica clinica, fare un uso appropriato di tale indice. La stratificazione del rischio cardiovascolare globale, in associazione alla stratificazione sulla base dell’entità dei valori pressori, viene considerata un elemento di grande importanza, e a tale proposito l’identificazione del danno d’organo assume una rilevanza sempre maggiore. La presenza di danno d’organo, sia pure a livello subclinico, influenza la prognosi cardiovascolare, anche indipendentemente dagli altri fattori di rischio. Il danno d’organo deve essere adeguatamente valutato a livello cardiaco (ipertrofia cardiaca a geometria concentrica), renale (albuminuria, proteinuria e clearance della creatinina calcolata), vascolare (rapporto intima/media nello spessore della parete carotidea, pulse wave velocity, Maria Lorenza Muiesan indice caviglia/braccio) e fondo dell’occhio (retinopatia solo nei pazienti con ipertensione grave). Le Linee guida raccomandano di effettuare contemporaneamente una valutazione del danno d’organo in diversi distretti (cuore, vasi, rene e cervello) perché, nonostante tali alterazioni siano spesso associate, la loro presenza in diversi organi e distretti si associa a una prognosi peggiore rispetto alla singola alterazione. La valutazione del danno d’organo non deve riguardare solo i pazienti con una nuova diagnosi di ipertensione, allo scopo di stratificare il rischio cardiovascolare globale e prima di impostare un corretto trattamento, ma anche i pazienti che assumono già una terapia antipertensiva, poiché la regressione dell’ipertrofia cardiaca e della proteinuria rappresentano indici attendibili degli effetti protettivi cardiovascolari esercitati dal controllo dei valori pressori e dall’effetto dei farmaci assunti. Nell’ambito della valutazione del danno d’organo sono stati meglio definiti alcuni aspetti quali l’identificazione del danno renale, poiché è stato ampliato l’elenco dei marcatori di danno d’organo renale, ed è previsto che si calcoli in modo indiretto la clearance della creatinina mediante la formula di Coc- www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 kroft-Gault, o che si stimi la velocità di filtrazione glomerulare mediante la formula MDRD (variabili più affidabili rispetto al valore della creatininemia nella valutazione del rischio cardiovascolare che si associa all’insufficienza renale, anche lieve). La microalbuminuria è stata considerata un parametro essenziale per valutare il danno d’organo, in quanto la sua determinazione mediante il rapporto albumina/creatinina sulle urine spot del mattino è facile e relativamente poco costosa. È stato sottolineato inoltre il ruolo prognostico dell’ipertrofia ventricolare sinistra e della geometria di tipo concentrico. Infine, nell’ambito della valutazione del danno vascolare, è stato aggiunto l’aumento di velocità dell’onda sfigmica come indice precoce di alterata distensibilità delle grandi arterie elastiche, pur sottolineando che nella pratica clinica è ancora modesto l’impiego delle metodiche per la sua determinazione. Le Linee guida propongono anche la determinazione del rapporto tra i valori pressori agli arti superiori e inferiori, indicando che valori < 0,9 di tale parametro possano riflettere la presenza di malattia aterosclerotica, poiché tale parametro è di valutazione relativamente facile in clinica ed è stata dimostrata la sua associazione con un aumento del rischio cardiovascolare globale. Le Linee guida danno anche indicazione sulla scelta di alcune classi di farmaci in presenza di uno specifico danno d’organo, sulla base della dimostrazione che alcune classi di farmaci sono particolarmente efficaci su alcuni tipi di danno d’organo. Il suggerimento che sia raccomandata una valutazione così articolata del danno d’organo subclinico può senz’altro suscitare perplessità nel medico di medicina generale, che spesso incontra notevoli difficoltà nella corretta esecuzione, ma soprattutto nella refertazione, degli esami strumentali www.cardiometabolica.org 14:18 Page 7 indicati. Tuttavia, i principi suggeriti dalle Linee guida potrebbero essere utilizzati dalle autorità regolatorie, dalle aziende sanitarie e dai centri specialistici di riferimento per adattare, nell’ambito di comuni percorsi diagnostico-terapeutici, i suggerimenti di esperti del settore al mondo reale e per tradurre le conoscenze scientifiche a vantaggio dei pazienti e dei loro medici di medicina generale. Le Linee guida ribadiscono che il beneficio del trattamento antipertensivo è innanzitutto legato alla riduzione dei valori pressori, piuttosto che alla classe di farmaci utilizzati, che vanno prescritti sempre in associazione con adeguate modificazioni dello stile di vita. Tali modificazioni possono ridurre il rischio di sviluppare ipertensione arteriosa nei soggetti con valori pressori normali-alti e possono ridurre il numero di farmaci antipertensivi necessari per un adeguato controllo pressorio nei pazienti già in terapia. La scelta tra le varie classi di farmaci antipertensivi si basa sulla presenza di fattori di rischio, danno d’organo e/o malattie cardiovascolari concomitanti, piuttosto che sulla futile identificazione di una classe di prima scelta, in considerazione del fatto che la maggior parte dei pazienti necessita terapia con più farmaci in combinazione. Le Linee guida 2007 dedicano infine un’apposita sezione alla diagnosi e terapia dell’ipertensione arteriosa nelle donne, sottolineando che nei due sessi il beneficio del trattamento antipertensivo è simile. Nella scelta del tipo di trattamento, tuttavia, si sconsiglia l’impiego di ACE-inibitori e antagonisti dell’angiotensina II nelle donne in età fertile e in gestazione per i loro potenziali effetti teratogeni. Si ricorda che nelle donne in età fertile la terapia con contraccettivi orali a basso contenuto di estrogeni si associa a un incremento del rischio di ipertensione, ictus e infarto miocardico e che per tale motivo il farmaco di scelta do- vrebbe essere la pillola anticoncezionale a contenuto esclusivamente progestinico, per quanto non siano ancora chiari gli effetti di questo trattamento sugli eventi cardiovascolari. Per quanto riguarda le donne in postmenopausa, al momento attuale la terapia ormonale sostituiva non è raccomandata a scopo “cardioprotettivo”, poiché è dimostrato che i vantaggi della terapia ormonale sostitutiva sono rappresentati da una minore frequenza di fratture ossee e neoplasie del colon, mentre aumentano i rischi di eventi coronarici e tromboembolici, ictus, neoplasia della mammella, malattie della colecisti e demenza. Le forme ipertensive in gravidanza, in particolare la pre-eclampsia, possono influire in modo negativo sulla prognosi e sullo stato di salute della madre e del feto. Nelle pazienti gravide che presentano valori pressori sistolici compresi tra 140 e 149 mmHg e/o diastolici tra 90 e 99 mmHg, si dovrebbe impostare un trattamento non farmacologico, mentre in presenza d’ipertensione gravidica (con o senza proteinuria) è indicata una terapia farmacologica se i valori pressori sono uguali o superiori a 140/90 mmHg. Se i valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica sono ≥ 170 o ≥ 110 mmHg, rispettivamente, la paziente deve essere ricoverata in ospedale. I farmaci di scelta, in presenza di un’ipertensione di grado moderato, includono l’alfa-metildopa, il labetalolo, i calcio-antagonisti e, meno frequentemente, i betabloccanti, mentre i diuretici sono da evitare per la riduzione del volume ematico circolante. In condizioni di emergenza si può ricorrere all’uso di labetalolo o di nitroglicerina (in caso di edema polmonare acuto) per via endovenosa e di nifedipina o metildopa per via orale. Infine, nelle donne con storia recente di pre-eclampsia, è utile l’impiego di aspirina a basso dosaggio per prevenire le complicazioni. 7 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 Page 8 CUORE: strategia di prevenzione delle malattie cardiovascolari Intervista a Simona Giampaoli di Alberto Lombardi Fondazione Italiana per il Cuore N ell’ambito dei rapporti che legano la Fondazione Italiana per il Cuore (FIPC) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), Cardiometabolica ha avuto l’opportunità di intervistare Simona Giampaoli, ricercatrice all’ISS e tra gli autori della Carta del rischio cardiovascolare, originata dal Progetto CUORE. Cardiometabolica (CM): Com’è possibile controllare la malattia coronarica? Simona Giampaoli (SG): La malattia cardiovascolare è prevenibile. Oggi, grazie agli studi epidemiologici, è stato possibile individuare i fattori di rischio associati alla malattia cardiovascolare, dimostrare la reversibilità del rischio e realizzare strumenti di prevenzione applicabili in salute pubblica. Sulla base di otto fattori di rischio è possibile stimare il rischio cardiovascolare globale assoluto, cioè la probabilità di ammalare di un evento cardiovascolare nei successivi 10 anni. Di questi fattori, alcuni sono modificabili o controllabili (pressione arteriosa, colesterolemia totale e HDL, diabete, abitudine al fumo di sigarette), altri non lo sono (età, genere). Il rischio cardiovascolare è continuo e aumenta con l’avanzare dell’età, pertanto non esiste un livello in cui il rischio è nullo, ma è possibile mantenere un livello favorevole controllando i fattori di rischio modificabili attraverso lo stile di vita e, nei casi più difficili, con la terapia farmacologica. CM: Lei ha parlato di controllo dei fattori di rischio come possibilità di prevenire la malattia cardiovascolare. Può precisare 8 questo concetto che sembra di fondamentale importanza? SG: Il primo passo per mantenere o ridurre il livello dei propri fattori di rischio modificabili è quello di valutare il proprio rischio cardiovascolare globale assoluto. L’età è il fattore più importante, pertanto il rischio cardiovascolare aumenta con l’avanzare dell’età. Per mantenere un livello favorevole o ridurre il proprio rischio è importante adottare uno stile di vita sano, con una alimentazione bilanciata, una regolare attività fisica e abolendo l’abitudine al fumo. CM: Lei ha più volte parlato di stile di vita corretto. Può precisare cosa intende e quali sono gli strumenti che il cittadino ha a disposizione per adottare un corretto stile di vita? SG: Il consumo di grassi di origine animale va ridotto, va limitato il consumo di sale e di alcool; è auspicabile aumentare il consumo di cibi ricchi di fibre, amido, vitamine e minerali, contenuti nella frutta, verdura, legumi e cereali, e il consumo di pesce. È di fondamentale importanza svolgere un’attività fisica regolare, adeguata alle condizioni fisiche e allo stato di salute dell’individuo, abolire il fumo di sigaretta, e ricordare che sia il fumo attivo sia quello passivo sono dannosi alla salute. Queste indicazioni devono essere fornite al cittadino dall’educazione scolastica, da coloro che si occupano di salute pubblica, da worksite e non ultimo dai mass media. Ma adottare uno stile di vita corretto non è sufficiente, perché bisogna mantenerlo nel tempo. Coloro che sono deputati a rafforzare questo concetto nei cittadini sono i medici di medicina generale (MMG), gli specialisti come i cardiologi e le istituzioni. CM: Tante sono le figure che svolgono un ruolo importante nella prevenzione della malattia coronarica. Secondo lei, chi tra questi attori può meglio definire il rischio globale del paziente? SG: Il MMG è la figura che meglio può valutare il rischio cardiovascolare, perché conosce i propri assistiti, può incoraggiarli nelle scelte e seguirli nel tempo. Questo ruolo fondamentale è stato dimostrato dagli studi clinici sull’importanza di smettere di fumare, di svolgere una regolare attività fisica e di adottare un’alimentazione corretta. Il messaggio del medico ha tanto più successo quanto più è continuo, incisivo e se supportato da documenti scritti da fornire al paziente. CM: Può dare un esempio del ruolo del MMG? SG: Un buon esempio è il problema dell’obesità. Identificare gli assistiti che stanno aumentando di peso o che sono in sovrappeso, ma non ancora obesi, è il primo passo per prevenire l’obesità. Peso, altezza e calcolo dell’indice di massa corporea devono diventare misure comuni nella pratica clinica. CM: Può illustrare il Progetto CUORE e i suoi scopi? SG: Il Progetto CUORE è nato nel 1998, finanziato dal Ministero della Salute e coordinato dall’ISS con l’obiettivo di valutare il rischio cardiovascolare della popolazione italiana, mettere a punto strumenti per la valutazione del rischio, valutare la distribuzione dei fattori di rischio e la prevalenza delle condizioni a rischio e delle malattie cardiovascolari nella popolazione adulta. A questi obiettivi si è aggiunto quello di un’intensa azione di prevenzione con i MMG attraverso l’uso e l’applicazione della carta del rischio cardiovascolare. Il primo passo è stato quello di creare un sito web www.cuore.iss.it dal quale i MMG possono scaricare gratuitamente il software per calcolare il rischio cardiovascolare. È quindi stato lanciato un piano di formazione nazionale per i MMG per il cor- www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 retto uso e applicazione della carta del rischio cardiovascolare. CM: Chi ha organizzato questi corsi e com’erano strutturati? SG: Questi corsi, che rilasciano crediti ECM, sono stati pianificati e sviluppati dall’ISS in collaborazione con il Ministero della Salute, l’Agenzia italiana del Farmaco e le associazioni nazionali dei MMG e dei cardiologi. I corsi sono strutturati in quattro moduli: due residenziali, di cinque ore ciascuno, sono focalizzati sul rischio globale e sul calcolo del punteggio di rischio, sulla comunicazione del rischio, sulla promozione di uno stile di vita corretto e sul trattamento farmacologico. Il terzo modulo, della durata di 2-4 mesi, è dedicato all’applicazione nella pratica clinica del software cuore.exe. I dati che i MMG raccolgono nella pratica clinica vengono inviati all’ISS, dove vengono analizzati su base regionale e nazionale attraverso l’Osservatorio del Rischio cardiovascolare. L’ultimo modulo prevede la partecipazione dei MMG a workshop regionali focalizzati sulla presentazione dei risultati raggiunti. Sono 1.600 i MMG che hanno partecipato a questo programma e 4.312 quelli che hanno scaricato il software cuore.exe. CM: Si tratta quindi di un progetto ambizioso e con una valenza sanitaria di primissimo piano… SG: CUORE rappresenta una collaborazione unica nel suo genere tra Ministero della Salute, Agenzia italiana del Farmaco, associazioni scientifiche e ISS nel promuovere la valutazione del rischio cardiovascolare tra i medici di medicina generale; è un passo importante verso l’implementazione di una strategia di prevenzione che coinvolga l’intera popolazione e focalizzi l’interesse sul mantenimento e/o il raggiungimento del profilo di rischio “favorevole”, pur continuando a sostenere gli interventi rivolti agli individui ad alto rischio. www.cardiometabolica.org 14:18 Page 9 Dall’obesità al rischio cardiometabolico Federico Mereta Giornalista, specialista in Scienza dell’alimentazione L’ obesità è una condizione medica cronica e potenzialmente grave che spesso precede e si associa allo sviluppo di altri fattori di rischio cardiometabolici e che può portare allo sviluppo del diabete di tipo 2 e della dislipidemia(1). In questo ambito, numerosi studi dimostrano l’importanza del tessuto adiposo intraddominale in eccesso nel determinismo della via che aumenta il rischio di diabete e dislipidemia. In particolare, il tessuto adiposo intraddominale produce una serie di sostanze chimiche che possono causare uno squilibrio nel metabolismo lipidico e glucidico (10). Attualmente si pensa che questo squilibrio aumenti il rischio di sviluppare alterazioni quali la resistenza all’insulina, l’ipertensione arteriosa, l’iperglicemia, un’alterazione dei livelli di colesterolo e alti livelli di trigliceridi, ovvero una serie di elementi negativi attualmente definiti “fattori di rischio cardiometabolico” (Cardiometabolic Risk o CMR) (10). Ma come si sviluppa questo effetto negativo? L’eccesso di grasso viscerale, in diretto rapporto con la circonferenza addominale, può essere considerato un predittore indipendente di rischio cardiovascolare e quindi di lesioni come l’infarto miocardico. La presenza di grasso viscerale favorisce infatti diversi elementi che aumentano il rischio cardiovascolare, come il mantenimento dell’infiammazione, l’insulino-resistenza, l’iperglicemia, la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa e la disfunzione endoteliale. Le sostanze prodotte dall’eccesso di grasso viscerale possono influire a loro volta sul metabolismo dell’intero organismo con meccanismi diversi: da una parte possono infatti indurre una carenza di ormoni con effetti protettivi come l’adiponectina, la cui sintesi cala in presenza di quantità eccessive di grasso viscerale, dall’altra possono causare un incremento della produzione di sostanze in grado di influire sui diversi fattori di rischio. Si può illustrare il ruolo del grasso viscerale nella patogenesi di questi fenomeni attraverso diverse vie. Innanzitutto, le cellule adipose in eccesso nell’addome liberano nel sangue gli acidi grassi liberi (FFA). La presenza degli acidi grassi liberi nel sangue dipende direttamente dalla quantità del grasso addominale: quanto più questa sale, tanto maggiore è la liberazione di acidi grassi liberi. Successivamente gli acidi grassi liberi in eccesso si “mettono in concorrenza” con il glucosio e vengono utilizzati al suo posto dai muscoli, per cui si verifica un aumento della glicemia. L’aumento della concentrazione plasmatica di glucosio porta alla risposta da parte del pancreas, che aumenta l’increzione di insulina. Non solo: in queste circostanze anche il metabolismo dell’insulina in eccesso da parte del fegato non è efficace, per cui si verifica un aumento dell’insulinemia in presenza di iperglicemia. Questa accoppiata, teoricamente difficile da realizzare, è possibile perché si instaura insulino-resistenza. In pratica, il corpo diventa meno sensibile all’azione dell’insulina e quindi, anche in presenza di un’insulinemia elevata, si può sviluppare diabete di tipo 2. L’ecceso di grasso viscerale libera acidi grassi che, attraverso la circolazione portale, raggiungono il fegato, dove stimolano la sintesi di trigliceridi e di 9 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:18 lipoproteine ricche in VLDL, che possono essere successivamente convertite in LDL. Queste rappresentano il “colesterolo cattivo”, che tende ad accumularsi nella parete dei vasi, favorendo l’insorgenza dell’aterosclerosi. Nello stesso tempo cala il “colesterolo buono” legato alle lipoproteine HDL, che invece trasportano il grasso (cioè il colesterolo) dai tessuti periferici al fegato, che a sua volta lo smaltisce per via biliare. L’eccesso di grasso viscerale può influenzare anche la pressione arteriosa. In pratica, queste condizioni fanno aumentare l’effetto dell’adrenalina sui vasi più piccoli, che vanno incontro al fenomeno della vasocostrizione e diminuiscono l’eliminazione renale del sodio. Il sale minerale, rimanendo nel sangue, tende a trattenere all’interno dei vasi anche l’acqua. Associando questi due meccanismi, cioè la vasocostrizione e la ritenzione idrica (con il conseguente aumento del volume circolante), la pressione arteriosa sale. I dati epidemiologici dicono che la circonferenza addominale sta crescendo in tutto il mondo, specialmente in Europa, come si può constatare in Francia (+26 per cento), Spagna (+35 per cento), Italia (+32 per cento), Germania (+20 per cento) e nel Regno Unito (+28 per cento). Negli Stati Uniti, il 46 per cento della popolazione ha un giro vita superiore alla norma (2-7). Tra le persone sovrappeso od obese, quelle con grasso intraddominale in eccesso corrono il rischio maggiore di sviluppare dislipidemia, diabete di tipo 2 e, in ultima analisi, cardiopatie (8-9) . Per questo occorre considerare una nuova entità: il rischio cardiometabolico globale, costituito dai fattori di rischio modificabili e non, che possono predisporre le persone al diabete di tipo 2 e alle cardiopatie (11). Circa il 26 per cento degli adulti di tutto il mondo presenta almeno tre fattori di rischio cardiometabolico (12), molti dei quali compaiono clinicamente in gruppi specifici (11). 10 Page 10 Grasso viscerale e infiammazione L’eccesso di grasso intraddominale favorisce la sintesi di mediatori dell’infiammazione come l’interleuchina-6 e il Tumor Necrosis Factor (TNF) alfa e si associa a un incremento della proteina C-reattiva (CRP). L’incremento di tessuto adiposo intraddominale all’interno dell’addome induce un calo della sintesi di adiponectina, la cui azione contrasta invece lo sviluppo di infiammazione. Per questo motivo, oltre a favorire la disfunzione endoteliale, l’eccesso di grasso intraddominale favorisce l’instabilità della placca ateromatosa, la cui rottura è all’origine di fenomeni tromboembolici che riducono l’afflusso di sangue e ossigeno al cuore e al cervello attraverso i vasi sanguigni, con comparsa di sindromi ischemiche coronariche e cerebrovascolari acute. Tabella I. Fattori di rischio cardiovascolare e valori di riferimento Fattore di rischio Criteri diagnostici Circonferenza addominale* Trigliceridi Colesterolo-HDL Pressione arteriosa Glicemia a digiuno Colesterolo-LDL Intervalli di valori a rischio maggiore AHA/NHLBI (13) IDF (14, 15) Circonferenza vita ≥102 cm Circonferenza vita ≥94 cm per gli uomini o ≥88 cm per le donne. per gli uomini e ≥80 cm Criteri differenti potranno essere per le donne di razza caucasica, applicati per gruppi etnici con valori specifici per altri non europei gruppi etnici Trigliceridi ≥150 mg/dL Trigliceridi elevati (1,7 mmol/L) (≥150 mg/dL o 1,7 mmol/L) o trattamento specifico per questi livelli anomali dei lipidi Livelli di colesterolo-HDL Colesterolo-HDL ridotto: <40 mg/dL (1,04 mmol/L) negli uomini <40 mg/dL (1,03 mmol/L) negli o <50 mg/L (1,29 mmol/L) nelle donne uomini o <50 mg/L (1,29 mmol/L) nelle donne, oppure trattamento specifico per questi livelli anomali dei lipidi Pressione arteriosa sistolica Ipertensione arteriosa: ≥130 mmHg o diastolica ≥85 mmHg, pressione sistolica ≥130 mmHg o in trattamento o pressione diastolica ≥85 mmHg, e/o trattamento di ipertensione precedentemente diagnosticata Glicemia a digiuno Glicemia a digiuno (FPG) ≥100 mg/dL (5,6 mmol/L) ≥100 mg/dL (5,6 mmol/L) o diabete di tipo 2 precedentemente diagnosticato. Se l’FPG è >100 mg/dL (5,6 mmol/L), sarà fortemente consigliato (ma non necessario per definire la presenza della sindrome) un test orale di tolleranza al glucosio (OGTT) per misurare la capacità del corpo di metabolizzare i carboidrati** Più di 100 mg/dL (> 2,56 mmol/L) in caso di cardiopatie/diabete in passato o attualmente. Più di 130 mg/dL (> 3,3 mmol/L) in presenza di due o più fattori di rischio. Più di 160 mg/dL (<4,10 mmol/L) in presenza di un solo o nessun fattore di rischio *Se l’indice di massa corporea è >30, si può dare per scontato che vi sia obesità addominale e non è necessario misurare la circonferenza addominale. **Nella pratica clinica, una tolleranza glucidica ridotta è accettabile, ma tutti i rapporti di prevalenza della sindrome metabolica dovrebbero utilizzare come fattori per determinare l’iperglicemia solamente la glicemia a digiuno e la presenza di diabete precedentemente diagnosticato. Una prevalenza che includa i risultati della glicemia a 2h può essere aggiunta come accertamento supplementare. www.cardiometabolica.org CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 BIBLIOGRAFIA 1. Stiles S. Severe Obesity. The Permanente Journal 2003; 7: 2 2. ObEpi 2003. 3ème enquête épidémiologigue nationale sur l’obésité et le surpoids en France 3. Alvarez-Leon EE. Majem LRBL. Prevalencia del síndrome metabólico en la población de la Comunidad Canaria. E Med Clin (Barc.) 2003; 120: 172-4 4. Osservatorio epidemiologico cardiovascolare italiano. Italian Heart J. 2004; 5(S3): 49-92 5. Liese AD, Doring A, Hense HW, Keil U. Five year changes in waist circumference, body mass index and obesity in Augsburg, Germany. Eur J Nutr 2001; 40: 282-8 6. Ruston D, Hoare J, Henderson L, Gregory J, Bates CJ, Prentice A, et al. The National Diet & Nutrition Survey: adults aged 19 to 64 years, UK Office Nat Stat 2004. National Diet and Nutrition Survey 2004, vol. 4, Her Majesty’s Stationery Office (HMSO) 7. Ford ES, Mokdad AH, Giles WH. Trends In Waist Circumference Among US Adults. Obes Res 2003; 11: 1223-31 8. Carey VJ, Walters EE, Colditz GA, Solomon CG, Willett WC, Rosner BA, et al. Body Fat Distribution And Risk Of NonInsulin-Dependent Diabetes Mellitus In Women. The Nurses’ Health Study. Am J Epidemiol 1997; 145: 614-9 9. Wajchenberg, BL. Subcutaneous and Visceral Adipose Tissue: Their Relation To The Metabolic Syndrome. Endocr Rev 2000; 21: 697-738 10. Sharma AM. Adipose Tissue: A Mediator of Cardiovascular Risk. Int J Obes Relat Metab Disord 2002; 26(S4): S5-S7 11. Vasudevan AR, Ballantyne CM. Cardiometabolic risk assessment: an approach to the prevention of cardiovascular disease and diabetes mellitus. Clin Cornerstone 2005; 7: 7-16 12. Anand SS, Yi O, Gerstein H, Lonn E, Jacobs R, Vuksan V, for the Study of Health Assessment and Risk in Ethnic groups (SHARE). Study of Health Assessment and Risk Evaluation in Aboriginal Peoples (SHARE-AP). Circulation. 2003; 108: 420-5 13. Grundy SM, Cleeman JI, Daniels SR, Donato KA, Eckel RH, Franklin BA, et al. Diagnosis and management of the metabolic syndrome. An American Heart Association/National Heart, Lung and Blood Institute Scientific Statement; Executive Summary. Circulation. 2005; 112: 2735-52 14. Alberti KG, Zimmet P, Shaw J, for the IDF Epidemiology Task Force Consensus Group. The metabolic syndrome – A new worldwide definition. Lancet 2005; 366: 1059-62 15. Alberti KG, Zimmet P, Shaw J. Metabolic syndrome – A new world-wide definition. A Consensus Statement from the International Diabetes Federation. Diabet Med. 2006; 23: 469-80 www.cardiometabolica.org 14:19 Page 11 Il rischio cardiometabolico protagonista all’ESC Andrea P. Peracino Fondazione Italiana per il Cuore – Fondazione Giovanni Lorenzini I l recente Congresso annuale della European Society of Cardiology, che si è tenuto a Vienna dall’1 al 5 settembre scorso, ha laureato a pieni voti la sindrome metabolica dandole posizione di rilievo in numerosi incontri e indicando in detta sindrome l’emblema della Multiple Risk Factor Disease. «Dieci anni fa nei congressi di cardiologia, quando si parlava di sindrome metabolica erano presenti cinque persone inclusi i relatori. Oggi le aule sono piene e c’è folla davanti ai televisori che trasmettono la sessione fuori dall’aula» ha dichiarato Phil Barter. Dalla Metabolic Triad alla sindrome metabolica, il rischio cardiometabolico attira l’attenzione di ricercatori e clinici, non solo come modello di patologia, ma in particolare per l’evidenza di una prevalenza crescente, soprattutto nell’interrelazione con altre patologie. «Più del 50 per cento dei pazienti che evolvono verso la cardiopatia hanno un’insulino-resistenza» ha affermato John Eric Deanfield «così come più del 70 per cento dei pazienti con infarto miocardico hanno a loro volta insulino-resistenza. Dal concetto di “sindrome” si sta passando a quello di Continuous Disease». D’altra parte Salim Yusuf, prima nello studio INTERHEART e poi ancora due anni dopo, aveva messo in evidenza la continuità della correlazione tra circonferenza addominale e rischio cardiovascolare (CV). Pierre Bassand sostiene che il rapporto vita/fianchi (nella popolazione di riferimento da 0,77 a 0,85) viene ritenuto meglio riflettere la correlazione con il rischio CV rispetto all’indice di massa corporea (BMI). Il rapporto tra spessore dell’intima e della media carotidea e sindrome metabolica, così come anche le interferenze di quest’ultima con la cessazione del fumo, propongono nuovi spunti di riflessione. Macrofagi, vascolarità, infiammazione e trombosi sottolineano l’importanza di seguirne la evoluzione con i biomarker di detti momenti fisiopatologici. Tra questi Wolfgang Koenig sottolinea l’importanza della fosfatasi alcalina, dell’alaninaaminotransferasi (ALT), della gammaGT e i collegamenti con la Non Alcoholic Fatty Liver Disease. Sempre Wolfgang Koenig dà importanza alla sovraespressione di PAI-1. Le interrelazioni dell’adipe viscerale con l’esercizio richiamano una stretta correlazione tra attività fisica e benessere fisico (Jean-Pierre Desprès). La Vital Belt costituisce la misura dell’efficacia della modificazione dello stile di vita. Per alcuni lati collegata al cardiometabolismo è la risonanza della nuove Linee guida sull’ipertensione rilasciate già lo scorso giugno a Milano durante il Congresso dell’European Society of Hypertension (ESH) e ampiamente riprese all’ESC. Già il nuovo approccio integrato verso la valutazione del rischio multiplo (quindi non limitato alla pressione arteriosa) era stato ampiamente delineato un paio di settimane prima dell’ESC da Franz Messerli, il quale scriveva con Bryan Williams e Eberhard Ritz che «…l’ipertensione essenziale si combina usualmente con altri rischi CV quali l’invecchiamento, 11 CardioNEWS_nr04_esec:numero04 16-11-2007 14:19 il sovrappeso, la resistenza all’insulina, il diabete e l’iperlipidemia. Danni d’organo come l’ipertrofia del ventricolo sinistro e la microalbuminuria possono subdolamente comparire anche in caso di ipertensione mascherata» (Lancet 2007; 370: 591-603). Molti di questi concetti sono stati ripetuti nel Symposium on Hypertension and beyond da Stefano Taddei, Peter Dominiak, Csaba Falsang, Gilles Degenais e Salim Yusuf. Quest’ultimo, basandosi proprio sugli studi INTERHEART, ha richiamato l’approccio al “multirischio”. Il 90 per cento dei rischi totali è rappresentato per il 62,8 per cento da fattori legati (in maniera diretta o indiretta) allo stile di vita: rapporto ApoB/ApoA1 marker migliore del disordine lipidico; rapporto vita/fianchi meglio correlato al rischio CV del BMI; fumo attivo e passivo (equivalente a 57 sigarette die); alimentazione povera di frutta/verdura, mancanza di esercizio fisico, abuso di alcol. Per il restante 30 per cento scarso l’impatto è rappresentato da fattori non del tutto legati allo stile di vita quali ipertensione, diabete, obesità addominale, condizioni psicosociali e – ancora – disordini lipidici. Page 12 I rapporti ApoB/ApoA1 e vita/fianchi, così come il fumo, non hanno valori soglia ma presentano un continuum di correlazione con il rischio CV. D’altra parte, per Salim Yusuf appare un continuum anche l’ipertensione e il prefisso iper appare sbagliato per se: «È un continuum come l’età». Questo concetto appare evidente nelle citate nuove Linee guida sull’ipertensione (Eur Heart J 2007; 28: 1462-536. Figura 1). è un progetto della Fondazione Italiana per il cuore Come trattare fumo e obesità? «Troppo poco, troppo tardi» aggiunge ancora Salim Yusuf, che ripropone (tabella I) un paragone molto interessante su come la società è chiamata ad intervenire. Tabella I. Analogie e differenze nell’approccio socio-sanitario alla lotta contro il fumo e contro l’obesità. FUMO conoscenza sensibilizzazione tasse sui prodotti riduzione della promozione proibizione nelle aree pubbliche INTERVENTO informazione educazione esempio imposizione organizzativo legislativo OBESITA’ conoscenza sensibilizzazione tasse sui prodotti riduzione porzioni, etichette architettura urbana e sociale, percorsi, distanze L’Autore non commenta l’efficacia di tali interventi e – volutamente – non cita la necessità di un intervento medico-farmacologico in ambedue le situazioni. con un grant educazionale di SBP = pressione arteriosa sistolica; DBP = pressione arteriosa diastolica; CV = cardiovascolare; HT = ipertensione; rischio basso, moderato, alto e altissimo si riferiscono al rischio a 10 anni di un evento CV fatale o non fatale. Il termine added (aggiunto) indica che in ogni categoria il rischio è superiore alla media. OD = danno d’organo subclinico; MS = sindrome metabolica. La linea tratteggiata indica come la definizione di ipertensione possa essere variabile, essendo condizionata dal livello di rischio CV totale. 12 www.cardiometabolica.org Depositato presso l’AIFA in data 15/11/2007 – Cod. 60515423 Figura 1. Stratificazione del rischio CV in quattro categorie.