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IDEE E QUESTIONI
Dare forma
agli apprendimenti
di bambini e adulti
Contributi di: Rolando Baldini, Marco Ruini,Vania Vecchi e Vea Vecchi
NOVEMBRE 2013
I linguaggi espressivi
dei bambini, valorizzati
da didattiche e sintassi
comunicative nuove,
rivoluzionano il nido
e la scuola dell’infanzia,
anticipando le più recenti
scoperte delle neuroscienze
Per le immagini che accompagnano l’articolo:
© Scuole e Nidi d’infanzia – Istituzione del Comune di Reggio Emilia
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L’occhio se salta ill muro
Anche a Reggio Emilia gli anni Ottanta sono anni
difficili per le politiche scolastiche e sociali, ma
allo stesso tempo generativi: nei nidi e nelle scuole
dell’infanzia comunali, con Loris Malaguzzi, si sviluppano molte piste di ricerca e la qualità pedagogica e culturale cresce attorno all’esperienza educativa; si intensificano scambi e confronti e si impone
una rilevante domanda di formazione nazionale e
internazionale.
La Mostra “L’occhio se salta il muro”, che dal 1987
diviene “I cento linguaggi dei bambini”, ideata da
Loris Malaguzzi con i suoi collaboratori, è una dichiarazione pedagogica e politica. Viene esposta a
Reggio Emilia nel 1980 e successivamente a Stoccolma, cominciando un viaggio che la porterà in
molte città europee e dal 1987 anche oltre oceano
negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi.
La Mostra presenta una selezione di progetti didattici realizzati nei nidi e nelle scuole dell’infanzia:
autori i bambini e gli insegnanti (pedagogisti, atelieristi, operatori) insieme.
A proposito della Mostra, Loris Malaguzzi ci dice:
“Qui ci sono bambini e adulti che cercano il piacere
di giocare, lavorare, parlare, pensare, inventare insieme. Impegnati a imparare come l’essere e i rapporti
delle cose e degli uomini possono essere ricercati e
goduti in amicizia e fatti più belli e più giusti”.
È un auspicio, un invito. Un messaggio divergente,
ancora attuale, attorno all’immagine del bambino e
dell’uomo, e alle teorie e alle pratiche pedagogiche,
perché il muro del banale, delle retoriche, dei conformismi, delle inerzie non è mai definitivamente
abbattuto. E oggi più che mai abbiamo bisogno di
luoghi e di manifestazioni concrete che, come questa, sappiano testimoniare una volontà di ricerca e
di innovazione.
NOSTALGIA DEL FUTURO
II
Zerosei, n. 4/5, dicembre 1983
L’EDUCAZIONE DEI CENTO
LINGUAGGI DEI BAMBINI
di Loris Malaguzzi
Dal catalogo che accompagna la riedizione della Mostra “L’occhio se salta il
muro” promossa dal Comune di Reggio
Emilia e destinata a una lunga tourneé
all’estero in Spagna, e poi in Norvegia,
Germania Federale, Francia e Stati Uniti, stralciamo i “Commentari” che, inseriti
nella Mostra, ne esplicitano la filosofia e
i supporti teorici e culturali.
Anche se la Mostra e i “Commentari” che
l’accompagnano non rappresentano che
un’indagine parziale, tuttavia quella e
questi costituiscono un valido riferimento
per intendere il quadro teorico e culturale cui l’esperienza reggiana – una delle
più vive ed elaborate del nostro Paese
– affida parte delle proprie scelte e delle
proprie finalità assiologiche.
I “Commentari”, che nel catalogo si
uniscono a scritti di Argan, Bernardini,
Pontecorvo, Anceschi, Musatti, Becchi,
Branzi, Costa, Quintavalle, Petter, Gentilucci, Lijubimov, Tonucci, sono di Loris
Malaguzzi.*
I
Se l’occhio salta il muro
La Mostra porta un titolo che è essenzialmente un auspicio.
Che l’occhio oltre che occhio emblema,
qui chiamato a vedere e a capire i nuovi
compiti culturali nella società della visione e dell’immagine e qui ancora evocato
Il piacere dell’apprendere, del conoscere e del capire è una delle prime fondamentali sensazioni che ogni bambino si
aspetta dall’esperienza che affronta da
solo o con i coetanei o con gli adulti.
Una sensazione decisiva che va rafforzata perché il piacere sopravviva anche
quando la realtà dirà che l’apprendere,
il conoscere, il capire, possono costare
difficoltà e fatica.
È in questa sua capacità di sopravvivere
che il piacere può sconfinare nella gioia.
III
Qui ci sono bambini e adulti che cercano
il piacere di giocare, lavorare, parlare,
pensare, inventare insieme.
Impegnati ad imparare come l’essere e i
rapporti delle cose e degli uomini possano essere ricercati e goduti in amicizia e
fatti più belli e più giusti.
IV
La Mostra tenta di raccontare una parte
di questa convivenza.
Quella che privilegia del bambino i linguaggi denominati espressivi e che la
teorizzazione, la pratica educativa e la
stessa cultura in genere umiliano e separano condannandoli ad un folkloristico
limbo perché rei – secondo sentenze
arbitrarie, ascientifiche oltreché ingrate –
di impotenza generativa sia nei processi
di formazione che di intelligenza cognitiva: o che, ancora con irrazionale eccitazione e desiderio escludente, osannano
come arte divina e passeggera di una
metafora infantile.
In ambedue i casi utilizzando violenza e contraffazione. Certo imponendo
al bambino leggi classificatorie che gli
adulti si sono creati per sé.
Certo derubando il bambino di una parte importante dell’esperienza che ama
e percorre per incontrare e interpretare
oltreché se stesso, le cose e i fatti del
mondo.
V
Le tesi di una cultura e di una pedagogia
che spezzano, gerarchizzano, autorizzano o negano – in una babele geometrizzata o casuale – i modi, le qualità e gli
spazi degli incontri e dei raccordi delle
esperienze del bambino con la multiforme natura della realtà fisica e sociale, in
virtù di prescrizioni distinte e contrapposte, sono uno dei temi polemici e oppositivi di questa Mostra.
VI
Un obiettivo pertanto della Mostra è
quello di sottolineare con forza la necessità di una ricomposizione reale degli
accrediti, dei processi e dei valori di formazione del bambino, del suo sapere e
della sua cultura.
Di una cultura come luogo di condensazione ininterrotta di cento esperienze
soggettivamente e oggettivamente vissute, ognuna delle quali inestricabilmente
maturate nella socializzazione di cento
atti, pensieri, tirocinii, linguaggi, fusi – con
rapporti alterni – di razionalità e di inconscio, di immaginazione e sentimento, di
espressività e comunicazione, di corporeità e invenzione, di arte e scienza.
In questa tesi c’è implicita una risposta
decisiva al bisogno del bambino di sentirsi intero.
Sentirsi intero è per il bambino (e così
per l’uomo) una necessità biologica e
culturale: uno stato vitale di benessere.
VII
Il riconoscimento che la specie umana
ha il privilegio di manifestarsi attraverso
una pluralità di linguaggi (oltre a quello
parlato) è un primo punto.
Un secondo punto è che ogni linguaggio ha il diritto di realizzarsi compiutamente e quanto più gli riesce più scorre
negli altri in processi di arricchimento.
NOVEMBRE 2013
come figura concettuale che riassume i
problemi della crescita e della promozione del bambino e dell’uomo, abbia la forza e la testardaggine di saltare il muro.
Il muro dell’incongruenza, del banale,
delle vecchie regole, delle cose rigide
e imballate, degli atti elusivi, atomizzati
e retorici che ancora si muovono attorno all’immagine dell’uomo e al progetto
educativo del bambino.
Come dicevamo un auspicio. Un tentativo.
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IDEE E QUESTIONI
Un terzo punto è che tutti i linguaggi
espressivi, cognitivi, comunicativi che si
costituiscono in reciprocità, nascono e si
sviluppano nell’esperienza.
Un quarto punto è che di questi linguaggi il bambino è soggetto costruttivo
e coautore, partecipando alle varianti
storiche e culturali.
Un quinto punto è che tutti i linguaggi
che già convivono nella mente e nelle
attività del bambino hanno il potere di divenire forze generatrici di altri linguaggi,
altre azioni, altre logiche e altre potenzialità creative.
Il sesto punto è che tutti i linguaggi
hanno bisogno di vivere in eguale dignità e valorizzazione, in solidarietà piena
con una adeguata competenza culturale
dell’adulto e dell’ambiente.
Il settimo punto (conclusivo) è quello
che si chiede quale appoggio e conferma possa dare a queste proposizioni
(dimenticate o sottovalutate dagli studi,
dalle ricerche, dalla sperimentazione) la
cultura vigente del bambino.
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VIII
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Nessun disconoscimento del valore primario del linguaggio parlato nel lungo
processo di umanizzazione. Ma storicamente desumiamo almeno tre fatti:
1. che il linguaggio parlato oggi è sempre più imposto al bambino attraverso
meccanismi imitativi, poveri o assenti di interlocutorietà, invece che per
processi ideativi e forti legati all’esperienza e ai problemi dell’esperienza;
2. che la pedagogia del bambino oggi si
attua quasi tutta attraverso la parola,
l’unico strumento affidato alla professionalità degli insegnanti e dei genitori. Una parola solitaria, anomala, eppure onnipotente, onnipresente per
insegnare, ripetere, dirigere, spiegare, predicare, raccontare. O semplicemente per ingiungere o lasciarla
sola. Con questa parola, spesso
sempre più inerte e ovvia, si va verso
un’incapacità crescente di entrare in
rapporto con i bambini che si aspettano parole vive, radicate in ragioni e
in proposte, in esecutività e progetti,
in situazioni di calda interlocutorietà;
3. che il linguaggio parlato oggi massicciamente e in proporzioni mai viste,
collocato di fronte all’immagine, ai segni, ai simboli, ai codici, alle macchine è in aperta fase di disadattamento
e di rielaborazione.
IX
Il problema è quello di ridare al linguaggio la parola che serve, che tace e ascolta, che riempie la comunicazione, che
sposta e genera idee, che scopre le sue
grandi potenzialità creative, che si fa forma e tramite di socializzazione, di intersoggettività e interoggettività.
L’operazione è complessa fino a includere il peso delle determinazioni sociali
delle forme culturali e dei linguaggi.
E tuttavia è tentabile una proposta innovatrice che investa la genesi e l’organizzazione della parola e del pensiero. Una
proposta, tra le altre, che si rispecchia
nelle cose e nelle intenzioni della Mostra
e che qui si esplicita in tre progetti.
X
Il primo progetto è quello di porre al
centro dell’educazione del bambino una
più organica e variata esperienza dell’azione e del fare. Dove la conoscenza
diventi un sistema di esplorazione agìta
e di riflessione e sia contestuale al linguaggio e all’intelligenza oltreché al guadagno di abilità e competenze.
Il secondo progetto si affida agli utili
che al linguaggio della parola derivano
dai linguaggi della non parola, riconfermando in sede più generale, la natura
interferente dei linguaggi.
Ma qui occorre prendere atto: che
anche i linguaggi della non parola hanno
in realtà, dentro di sé, molte parole,
sensazioni e pensieri, molti desideri
e mezzi per conoscere, comunicare
ed esprimersi. Sono anch’essi modi di
essere, di agire, generatori di immagini
e di lessici complessi, di metafore e
simboli; organizzatori di logiche pratiche
e formali, di promozione di stili personali
e creativi.
XI
Il terzo progetto è quello di riattivare
processi di sensibilità e di intenso tirocinio di tutti gli organi sensori del bambino
(l’occhio, l’udito, le mani in particolare)
così da ritotalizzare sia le sue potenzialità che le sue capacità di immersione
e assorbenza sottile nelle cose e negli
eventi. Così da ottenere un flusso eccitatore di emozioni ma anche di immagini, di umori e di interazioni, di significati
traducibili nel pensiero e nei linguaggi e
di solidarietà oggettive con la realtà più
nascosta o più banalizzata dall’uso.
Una fruizione più elaborata della percezione che è continua transazione col
mondo esterno. Una forza in più per la
conoscenza e l’interpretazione, un salto
per l’immaginazione.
Per una immaginazione, con Bronowski,
considerata come elemento unificatore delle attività intellettuali e, creativamente parlando, momento centrale sia per la scienza
che per la poesia e le arti figurative.
XII
È possibile pensare ad un’educazione
interessata ad un bambino costruttore di
immagini?
Pensiamo di sì.
I bambini (come il poeta, lo scrittore, il
musicista, lo scienziato) sono avidi ricercatori e costruttori di immagini.
E le immagini servono a costruirne altre:
passando per sensazioni, sentimenti,
rapporti, problemi, teorie passeggere, idee del possibile e del coerente e
dell’apparente impossibile e incoerente.
Così vuol dire Einstein quando racconta
che il suo modo di lavorare consisteva
nel sapersi trattenere sui linguaggi di immagini, rinviando, quanto più possibile,
di esprimerli in parole e azioni.
L’arte della ricerca è già nelle mani dei
bambini, sensibilissimi al godimento dello stupore.
I bambini avvertono presto che è in questa arte che possono ritrovare gran parte
della gioia di vivere e la liberazione dalla
noia che deriva dall’esistere in un mondo
inesplorato.
XIII
Ciò che a noi compete è aiutare i bambini a comunicare col mondo con tutte
le potenzialità, le forze, i linguaggi di cui
sono dotati e a battere ogni impedimento derivante da una cultura che ancora
NOSTALGIA DEL FUTURO
XIV
L’esperienza conferma ancora come i
bambini abbiano bisogno di molte libertà.
Libertà di indagare, provare, sbagliare,
correggere. Di scegliere dove e con chi
investire curiosità, intelligenza, emozioni: di apprezzare le infinite risorse delle
mani, della vista e dell’udito, delle forme,
dei materiali, dei suoni e dei colori: di rendersi conto come la ragione, il pensiero,
la immaginazione creino trame continue
tra le cose e muovano e sommuovano il
mondo.
E tutto ciò senza che nessuno troppo
precocemente stabilisca per loro tempi,
ritmi e misure: e tuttavia sappia trovare
la larga e attiva compartecipazione che
deve perché il prezioso tirocinio – non
affidabile al caso – si realizzi.
XV
A noi spetta, con altrettanta libertà e con
più competenza, curiosità e fantasia di
quanto oggi non ci sia dato, di offrire ai
bambini e costruire con loro le occasioni
del conoscere.
Cercando di individuare quali scelte e
direzioni dell’attività e del pensiero essi
sono via via pronti a valorizzare e a dichiarare significative e importanti tanto
da desiderare più approfondite ipotesi
operative e interpretative.
Per quanto difficile sia, di qui dipartono i
nostri e i nuovi comportamenti dei bambini in una consonanza che consolidi e
slarghi la qualità, la competenza, l’organicità delle loro e delle nostre esperienze.
Ma questo è proprio il ciclo combinatorio
da modificare in progressione.
Come dicevamo: per noi e per i bambini.
XVI
Qui si conclude la Mostra.
Alla ricerca di una didattica e di una educazione la Mostra è in realtà una mostra
sperimentale di didattiche educative che
prova e inventa vie e intanto accredita
scoperte ed ipotesi. Con una interazione
esplicita (perché così è nei processi reali
di acculturazione) dei modi e delle tensioni della ricerca dell’adulto e dei modi
e delle tensioni della ricerca dei bambini.
È nostra fiducia che le questioni e i ma-
teriali esposti, nonostante la pesantezza
dei pregiudizi, dei miti, degli esorcismi e
delle sublimazioni e infine delle politiche
culturali, sociali e pedagogiche che sfuocano, eludono, accelerano e consumano
i bambini e l’infanzia, saranno apprezzati
per quello che sono. Ma soprattutto per il
tentativo che compiono.
La grandezza dell’occhio nella sua fisicità epistemologica (visto che simbolicamente è lui che dà il titolo alla Mostra) e
sta nella sua liquefazione, nel suo disseparsi all’interno delle attività, oltre che di
chi guarda, delle prestazioni e delle scelte dei bambini.
Vogliamo dire che se le prestazioni dei
bambini, le manifestazioni del pensiero extralinguistico dei bambini (noi non
capiamo perché extra) susciteranno
qualche ammirazione, chiediamo all’ammirazione di decantarsi per vedere e immaginare meglio la natura, la qualità e
la ricchezza dei processi, la molteplicità
degli interventi e dei contributi (l’occhio,
l’udito, l’osservazione, la intenzionalità,
la memoria, la corporeità, il ragionamento, la tattilità, la concettualizzazione, la
simbolizzazione, la fantasia, l’emozione,
la socialità e poi la tenacia, l’aspettativa,
il desiderio, ecc…) che hanno viaggiato
insieme all’interno del progetto e degli
obiettivi voluti e per misurare soprattutto le capacità che i bambini posseggono
per tenere testa alle pressioni dei modelli
e delle suggestioni dell’ambiente fisico e
sociale, difendendosi spazi di libertà di
espressione, di critica e di godimento
personale.
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spesso li depaupera per eccesso e invadenza di teorizzazione classificatorie o
per difetti e sottovalutazioni della ricerca
e della pratica educativa.
Queste sono le condizioni che possono
permettere ai bambini di capire come il
loro giocare, vedere, sentire, fare, pensare li conduce alla conoscenza e come
la conoscenza produce altra conoscenza.
Una conoscenza che non è solo ampliamento e selezione dei significati ma assunzione di stati di benessere, di poteri
accresciuti, di prolungamenti dell’io.
L’esperienza ci avverte che i bambini
sono in grado di scoprire e di appropriarsi presto di queste condizioni, privilegiati
come sono, di straordinarie capacità di
autorganizzazione e riorganizzazione
selettive.
* Giulio Carlo Argan, critico d’arte; Carlo Bernardini, fisico; Clotilde Pontecorvo, psicologa; Giovanni Anceschi, designer; Cesare Musatti, psicologo e psicoanalista; Egle
Becchi, pedagogista; Andrea Branzi, architetto; Corrado Costa, poeta; Arturo Carlo
Quintavalle, storico dell’arte; Guido Petter, psicologo; Armando Gentilucci, compositore e musicologo; Yuri Lijubimov, regista teatrale; Francesco Tonucci, pedagogista.
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IDEE E QUESTIONI
NOVEMBRE 2013
Perché fare mostre, editoria, atelier?
Il piacere e la necessità della comunicazione e del confronto
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Negli anni Settanta, alla fine di ogni
anno scolastico era consuetudine, per
i nidi e le scuole dell’infanzia reggiane,
contemporaneamente allo svolgimento
di un seminario di verifica e di riflessione sui mesi trascorsi, affidare analoghe verifiche e riflessioni a una mostra
pubblica, nella quale ogni scuola poteva
esporre i propri progetti e le proposte
didattiche ritenute più interessanti.
Si trattava di un appuntamento annuale
prezioso che, soprattutto, testimoniava
un fatto importante: quanta sintonia o
tradimenti ci fossero tra le dichiarazioni
teoriche e le attività didattiche quotidiane.
Il materiale presentato veniva poi attentamente studiato, illustrato ai colleghi,
discusso, e diventava riferimento per
giudicare le evoluzioni, i rallentamenti,
gli errori fatti, per capire quali zone educative erano carenti e quali era opportuno invece approfondire ulteriormente.
Tutte le proposte comunicavano attraverso tre linguaggi: scrittura, di bambini e adulti, fotografie e opere originali
dei bambini su temi e campi molto diversi del sapere.
Il materiale veniva esposto al pubblico
nella città, poi ritornava all’interno delle
scuole e discusso con le famiglie.
Chi insegna sa bene quanto tutto questo
confronto richieda un percorso di lavoro
affatto semplice, ma noi abbiamo continuato a riproporlo per anni, e continuiamo a farlo perché riteniamo rappresenti
un processo di studio e formazione fondamentale, almeno per tre aspetti:
• l’educazione e la didattica costituiscono valori troppo importanti per la
costruzione della persona e della società per rimanere rinchiusi nel privato di un insegnante o di una scuola;
• la comunicazione all’esterno della
scuola e la verifica pubblica aiutano
a riflettere, a valutare e a lavorare sui
nuclei di significato e sui processi di
quanto si è realizzato;
• solo attraverso una lucida verifica e il
confronto, anche vivace, può esserci
una vera evoluzione.
È capitato che una di queste mostre,
particolarmente curata, sia stata vista
nel 1980 da un gruppo di pedagogisti e
artisti svedesi in visita a Reggio Emilia
che ne rimasero così colpiti da volerla
esporre a Stoccolma, non in una sede
qualsiasi, ma al Museo d’Arte Moderna della città. Il racconto del viaggio in
treno dei quattro insegnanti e atelieristi
di Reggio e l’allestimento della Mostra,
deciso sul posto, rimane nella memoria
tra sentimenti di tenerezza e la comicità
di alcuni episodi dovuti all’inesperienza. La Mostra ebbe un successo imprevedibile, gli Svedesi erano increduli e
interessati a un approccio pedagogico
che rendeva più chiaramente visibili le
intelligenze e le abilità dei bambini.
L’idea che ci venne dopo questa prima
esperienza fu quella di trasformare una
mostra molto artigianale in una più
professionale, in grado di viaggiare ed
essere esposta in luoghi e Paesi diversi.
È da questa inaspettata occasione che
ha avuto inizio il lungo viaggio di questa prima Mostra itinerante, introdotta
dai “Commentari” di Loris Malaguzzi
qui pubblicati.
Il desiderio di confrontarci e di discutere non solo attraverso dichiarazioni
teoriche, ma con testimonianze concrete, con altre culture, altri approcci,
altre filosofie, altri
mestieri, era un desiderio molto forte e
tale è rimasto anche se, dopo tanti anni,
abbiamo maturato una consapevolezza
diversa.
Ci è stato più volte confermato che la
Mostra è stata, per l’approccio pedagogico reggiano, lo strumento di diffusione internazionale più efficace, perché
ogni esposizione è diventata una piazza
nella quale veniva richiamata l’attenzione della scuola, della politica e delle famiglie sull’educazione: i diversi luoghi e
Paesi che hanno ospitato la Mostra hanno sempre avuto la cura di realizzare un
percorso di preparazione e di organizzare iniziative collaterali, cercando di
coinvolgere il maggior numero possibile
di esponenti di diverse discipline.
Certo è importante ribadire quanto questa esperienza sia stata facilitata dalla cultura dell’atelier e dalla presenza
dell’atelierista nelle scuole reggiane, forse però non è mai stata compresa sino in
fondo la scelta coraggiosa e rivoluzionaria fatta da Loris Malaguzzi alla fine degli anni Sessanta di collocare un atelier
e un insegnante con formazione artistica
in ogni nido e scuola dell’infanzia.
È difficile infatti uscire dallo stereotipo
di un’educazione artistica tradizionale,
dal diffuso preconcetto che la dimensione estetica sia semplice apparenza,
da una posizione culturale che fatica
a comprendere la forza e la ricchezza
delle connessioni prodotte da processi
NOSTALGIA DEL FUTURO
Vea Vecchi
Responsabile Mostre, Editoria, Atelier
di Reggio Children
Cento linguaggi più uno
“[...] tutti i linguaggi che già convivono
nella mente e nelle attività del bambino
hanno il potere di divenire forze generatrici di altri linguaggi, altre azioni,
altre logiche e altre potenzialità creative [...]”
Loris Malaguzzi, “Commentari” alla
Mostra “L’occhio se salta il muro”
All’inizio degli anni Ottanta gli atelieristi e insegnanti delle scuole dell’infanzia reggiane ci chiesero – in qualità
di grafici – di aiutarli a organizzare e
formalizzare la cospicua mole di materiali che costituiva la documentazione
delle esperienze didattiche svolte durante l’anno, che veniva annualmente
esposta al pubblico. I materiali – disegni originali e pensieri dei bambini, fotografie e testi di adulti – testimoniavano la ricchezza sorprendente
dell’universo espressivo dell’infanzia,
reso visibile dall’intelligenza e dalla
passione degli insegnanti, guidati dalla lungimiranza visionaria (ma assai
concreta) di Loris Malaguzzi.
Il nostro compito fu soprattutto quello
di rendere più nitidi e leggibili pensieri e disegni, processi e scoperte, di
garantire loro una rispettosa ospitalità.
L’occasione espositiva della Mostra di
Stoccolma (per cui progettammo una
semplice struttura espositiva di sandwich modulari in metacrilato) rese
ancor più necessario questo lavoro di
pulizia, attraverso l’individuazione di
una sintassi comunicativa che agevolasse insieme il lavoro degli insegnanti
e la fruizione da parte di un pubblico
ampio.
Frutto e testimonianza di questo
processo è il primo catalogo della
Mostra (1984). In questo piccolo volume (sorretto dallo stato di grazia di
un esordio tanto promettente quanto
fortunato) si può apprezzare la sinergia tra la qualità artistica delle opere
dei bambini, la chiarezza e vivacità
della documentazione, e la sobrietà
dell’impaginato.
In copertina, la rielaborazione grafica
al tratto di un fotogramma del teatro
delle ombre: dal bianco e nero della
documentazione ambientale (di una
narrazione), all’arancio fluorescente
di un emblema quasi araldico. Altri
fotogrammi della stessa serie accompagneranno con colori diversi altre occasioni espositive della stessa Mostra.
Sono immagini assertive, accese da
colori puri e luminosi.
Una dichiarazione d’intenti: – Hic sunt
leones!
È come se disegni e pensieri dei bambini fossero venuti alla luce grazie al
vero e proprio lavoro di scavo di chi li
ha saputi ri-conoscere.
Da questa prima lontana esperienza
viene la teoria e la pratica di un trentennio. Il mondo è profondamente
mutato, e ci si può intenerire a ripensare alle stampe fotografiche incollate sui cartoncini settanta/cento, alle
scritte decalcate a mano, ai disegni
originali spesso fragili come ali di farfalla. Ma anche in un contesto drammaticamente trasformato dalla tecnologia e dalla sua pervasività i problemi
di fondo non cambiano.
Come abbiamo scritto nel catalogo de
“Lo stupore del conoscere” (ed. Reggio Children, 2011): “[...] comunicare
qualsiasi concetto oggi significa affrontare il mare aperto di un universo di parole suoni colori capace di annichilire
ogni esercizio di estetica, di buon senso
o anche solo di buona educazione [...]”.
Tuttavia, è ancora possibile e necessario distinguere la qualità dalla mediocrità.
Si può ancora riconoscere il suono cristallino di una parola veritiera in mezzo al rumore di fondo.
Si può ancora distinguere nitidamente
il cinguettìo di un uccellino anche in
prossimità di un’autostrada.
NOVEMBRE 2013
di apprendimento che derivano dalla
frequentazione e dall’applicazione dei
linguaggi poetici.
Le esposizioni pubbliche, le pubblicazioni realizzate dentro le scuole, gli atelier
interni e quelli diffusi nella città, sono
quasi una logica conseguenza dell’osservazione e della documentazione dei processi di apprendimento dei bambini, che
costituiscono una sorta di ascolto visibile
a sostegno di una progettazione didattica
vicina ai modi d’imparare dei bambini.
Nel 2008 la Mostra “I cento linguaggi dei
bambini” è stata affiancata da un’altra
Mostra itinerante, “Lo stupore del conoscere”, che illustra alcune evoluzioni della nostra filosofia educativa e della nostra
didattica che privilegiano una maggiore
attenzione ai processi di apprendimento
individuale e di gruppo e rendono più visibile il ruolo dell’insegnante.
Anche con quest’ultima Mostra, ogni
Paese che la ospita diventa nuovamente
luogo di testimonianza, di discussione,
di confronto sull’educazione, sulla didattica e sulle scelte politiche concrete
che vengono fatte per sostenere un’educazione di qualità.
La nostra speranza e desiderio è che il
Centro Internazionale Loris Malaguzzi,
da poco tempo aperto a Reggio Emilia,
diventi un luogo capace di dare voce
nazionale e internazionale ai bambini,
ai ragazzi e agli insegnanti: il Centro
continuerà a ospitare, tra altre attività
e iniziative, mostre su temi diversi nelle quali i bambini e i ragazzi siano gli
autori principali, continuerà a produrre
editoria, a far funzionare spazi-atelier
per bambini e adulti, a promuovere progetti di ricerca, cercando di non tradire,
o tradire il meno possibile, la cultura
dei bambini e dei ragazzi.
Crediamo che nel mondo attuale dell’educazione questo impegno rappresenti
un obiettivo non semplice, ma il nostro
ottimismo deriva dalla passione, tenerezza e desiderio di bellezza con cui
questa impresa viene perseguita, dagli
sviluppi che sta producendo, dalle tante
alleanze che si stanno costruendo.
Vania Vecchi, Rolando Baldini
Graphic Designers, Art Direction
di Reggio Children
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IDEE E QUESTIONI
NOVEMBRE 2013
L’educazione dei cento linguaggi dei bambini
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Per commentare questo stimolante editoriale di Loris Malaguzzi, scritto a presentazione della Mostra “L’occhio se salta il muro”, inizio riportando le parole,
sempre di Malaguzzi, in apertura del volume sulle scuole dell’infanzia di Reggio
Emilia “I cento linguaggi dei bambini”
pubblicato nel 1993 negli Stati Uniti [a
cura di Edwards, Gandini, Forman, ed.
Ablex] e tradotto in Italia nel 1995 [ed.
Junior]: “Il bambino / è fatto di cento. / Il
bambino ha / cento lingue / cento mani /
cento pensieri / cento modi di pensare / di
giocare e di parlare […] cento lingue […]
ma gliene rubano novantanove”. È un’introduzione bellissima per puntualizzare
le tante potenzialità comunicative del
bambino e l’importanza dell’educazione per “l’acquisizione di competenze e
la sollecitazione della creatività”, diceva
Howard Gardner nel suddetto volume e,
ancora più bello, “per avere scuole senza
pareti”. Anche la Mostra presentata da
Malaguzzi parlava di muri e mostrava
come fosse possibile vedere al di là del
muro dei luoghi comuni, dello scontato,
del banale. Michel Foucault ci ha spiegato come sia necessario vedere di lato,
guardare le cose da altri punti di vista
per avere una visione generale e non solo
particolare. Malaguzzi lo ha messo in
pratica promuovendo una serie di contatti, una rete di collaborazioni al di fuori del personale strettamente legato alla
scuola, nel campo dell’arte, della sociologia, della filosofia e delle scienze. Proprio
le neuroscienze ora ridanno vigore alle
intuizioni del maestro reggiano. Hanno
confermato l’importanza del linguaggio
gestuale, dei sensi come il tatto, la vista,
l’udito, nella comunicazione interpersonale e nell’empatia, ma stanno andando
oltre. Questa è una “società della visione
e dell’immagine”, come aveva sostenuto
Malaguzzi, ma le immagini non vengono archiviate nel cervello in una sola
area, come se venissero depositate in un
cassetto. Il cervello funziona come un
insieme e ogni evento, immagine, suono, idea, viene codificato in più aree: c’è
un’area per l’aspetto puramente sensiti-
vo, una per il significato semantico, una
per il riconoscimento dei visi e via via. Ci
sono aree maggiormente specializzate,
sappiamo che l’emisfero di destra è più
importante per le funzioni visuo-spaziali
e per la prosodia, che dà il contenuto
emotivo alle parole; quello di sinistra è
maggiormente deputato alla elaborazione degli elementi verbali e simbolici, alla
comprensione del linguaggio, ma non
esiste un tipo di comunicazione, verbale o non verbale, che non coinvolga tutti
gli altri tipi. Così che non solo ci sono
un linguaggio verbale, uno gestuale, uno
espressivo ecc., ma questi si intrecciano
così tanto che ogni bambino ha un suo
modo di comunicare e di apprendere,
un linguaggio unico che esprime la sua
singolarità. Questa pluralità di linguaggi
nasce dall’esperienza soggettiva e fa parte di un individuo che è in divenire, unico nel suo modo di pensare e di agire e
sempre diverso nel tempo. Per Malaguzzi ogni linguaggio diverso è un arricchimento per gli altri. Aveva capito vent’anni prima ciò che la neuropsicologia oggi
conferma, come l’altro individuo, l’altra
cultura, siano indispensabile confronto
e riconoscimento della nostra identità,
che muta continuamente nel corso degli
anni ed è profondamente segnata dall’esperienza diretta. Malaguzzi dava tanta
importanza all’esperienza spontanea
nell’infanzia, creativa, libera, dove l’operatore osserva e impara, non determina,
non realizza schemi fissi di pedagogia
accademica calati dall’alto e non impone
“leggi classificatorie che gli adulti si sono
creati per sé”.
La neuropsicologia conferma questo:
dobbiamo allontanarci dall’idea che tutto sia o bianco o nero, dalle dicotomie
della nostra cultura classica (arte-scienza, razionalità-inconscio, realtà-fantasia ecc.) perché in ogni atto, in ogni pensiero le contrapposizioni “socializzano”,
producono un “sentirsi intero [che] è per
il bambino (e così per l’uomo) una necessità biologica e culturale: uno stato vitale di benessere”. Mente e cervello fanno
parte dello stesso organismo, modalità
inconsce e razionali convivono sempre.
Insegnamento e apprendimento vanno
sempre assieme e il miglior modo per
insegnare è ascoltare, osservare, capire il linguaggio di chi ci viene affidato:
se si smette di imparare ci si fossilizza,
chi ripete a memoria non sa quello che
fa o dice. Insegnare non vuol dire dare,
ma fare in modo che gli altri trovino,
offrire opportunità per uno sviluppo
autonomo in base alle proprie attitudini. Malaguzzi non era un teorico, era
un uomo pratico, viveva con i bambini,
li ascoltava, si poneva nei loro panni e
invitava gli insegnanti a darsi un’ampia
cultura generale ed è per questo che le
sue intuizioni sono così incisive e valide
a distanza di tempo.
In questo editoriale apre anche un altro
campo d’indagine, il piacere e la gratificazione in campo educativo. Sono di
due fondamentali tipi ed entrambi portano alla liberazione di dopamina nel
cervello che favorisce i meccanismi di
rinforzo e quindi il desiderio di ripetere
l’esperienza:
1. la gratificazione che viene dall’attività stessa, il piacere disinteressato;
2. la gratificazione che viene dall’aver
ricevuto un premio per quello che si
è fatto, l’uso utilitaristico.
È chiara la differenza tra essere gratificati, contenti, appagati dall’aver letto
un libro o eseguito un disegno ed essere
gratificati con un riconoscimento per il
fatto di aver letto un libro richiesto o di
aver eseguito un disegno bello nel canone di giudizio dell’adulto. Nel primo
caso avremo messo in atto una strategia gratificante che ci accompagnerà
tutta la vita e dipenderà da noi stessi,
nel secondo impareremo a essere gratificati dal riconoscimento, dipenderemo
quindi dagli altri. Se questa differenza
può sembrare scontata, basta guadare
cosa s’intende oggi per creatività nella
nostra società di mercato, performante, nell’ambito del design, dell’arte e
della scuola produttrice di tecnici. Per
Dean Simonton il pensiero creativo deve
NOSTALGIA DEL FUTURO
educazione al controllo delle emozioni).
Aveva ragione quindi Malaguzzi quando
auspicava per l’infanzia un’autonomia
strutturale, capacità specifiche, la necessità “di molte libertà [...] di indagare,
provare, sbagliare, correggere” e questo in
base ai loro [dei bambini] “tempi, ritmi e
misure”. Aveva ragione a dire che “a noi
spetta […] di offrire loro le occasioni del
conoscere”. Non ha mai detto di trattarli
da adulti. Occorre stare attenti nel valorizzarli troppo o nel dare loro valenze
razionali che non possono avere, perché
favoriremo in questo caso un senso di
onnipotenza, d’importanza, di superiorità che li metterà a disagio quando cresceranno in una società che sembra essersi
dimenticata dei giovani. Il problema è
che, una volta usciti dalle scuole per l’infanzia che viaggiano con le idee di Malaguzzi, è difficile trovare questa sensibilità
nelle scuole successive, nelle famiglie,
nella società che li accoglierà ed è difficile
quindi continuare, come diceva Howard
Gardner, questo “apprendistato in umanità che (tanto) potrebbe servire per la vita”.
Marco Ruini
Medico Chirurgo,
specialista in Neurologia e in
Neurochirurgia, Direttore Scientifico di
“Anemos”, rivista di neuroscienze
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Le neuroscienze hanno preso a prestito la parola
“astrazione” dall’arte.
Una Mostra, tante mostre
Nel 1980 a Reggio Emilia viene esposta la Mostra “L’occhio se salta il muro”, testimonianza
del lavoro delle scuole e dei nidi d’infanzia reggiani. L’anno successivo è al Moderna Museet
di Stoccolma, prima tappa di un lungo e appassionante viaggio.
Negli anni, infatti, aggiornata e duplicata, con il nuovo nome “I cento linguaggi dei bambini”
tocca numerose città di diversi Paesi, oltre all’Italia: Australia, Brasile, Canada, Cile, Corea, Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Hong Kong, India, Islanda,
Israele, Lussemburgo, Malesia, Messico, Norvegia, Olanda, Perù, Portogallo, Regno Unito,
Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Turchia, Uruguay.
Attualmente sono in corso contatti per un tour in Cina.
Dal 2008 “Lo stupore del conoscere”, una nuova Mostra itinerante che narra l’evoluzione
del progetto educativo reggiano, inizia a percorrere gli Stati Uniti d’America. Sono in calendario esposizioni sino a tutto il 2015. Contemporaneamente altre versioni della Mostra
vengono allestite in Germania, Giappone, Israele, Nuova Zelanda, Turchia.
www.lostuporedelconoscere.it
NOVEMBRE 2013
essere orientato in termini produttivi e
Henri Poincarè ha creato una formula:
C=nu dove la creatività (C) è il prodotto
di una quantità x di novità (n) e di una
quantità y di utilità (u). Quindi produzione e utilità ne starebbero alla base.
Per Malaguzzi e per le neuroscienze la
creatività è un’altra cosa, non è necessario che tutto debba servire a qualcosa
ed è deleterio educare i bambini a questo utilitarismo. L’educazione ha un fine
molto più alto ben evidente nel lavoro
di Malaguzzi, ha una finalità etica, deve
promuovere la gioia del fare disinteressato, il “godimento dello stupore”, deve
favorire il pensiero divergente e la flessibilità mentale per permettere di spaziare al di fuori dei binari, per vedere al di
là del muro, per poter capire, prima di
dover fare, e soprattutto deve insegnare
a vivere con gli altri. Il lavoro o il gioco
spontanei, solidali, tra coetanei favoriscono la socialità molto più del rapporto con l’adulto. Il cervello, alla nascita,
ha tantissime potenzialità che debbono
solo essere stimolate nei primi anni di
vita per poter rimanere latenti, pronte a
estrinsecarsi nelle condizioni favorevoli. Non si nasce quindi con delle capacità innate, ci sono delle predisposizioni
genetiche, ma tutti abbiamo un’infinità di capacità potenziali. Se però non
vengono attivate nell’infanzia dall’esperienza, dall’imitazione, le loro vie
facilitatorie nel reticolo neuronale del
cervello si perdono e sarà molto difficile
riattivarne altre da adulti. È per questo
che un ambiente ricco di stimoli, che
non si presentano come imposizioni,
ma come possibilità o contatti, anche se
al momento non sembrano dare frutti,
lasciano aperte le porte per il futuro.
Ciò che sembra innata non è quindi la
conoscenza, ma la modalità di apprendimento. Il cervello impara a conoscere il mondo con la stessa strategia in
ognuno di noi, attraverso la formazione
di concetti come casa, albero, mamma, ma anche bello, buono, amico ecc.
Per farlo ha la necessità di “astrarre”1 i
particolari per trarne un’idea generale,
parte ad esempio dalla presenza
di una porta e di finestre e crea
il concetto di cosa sia una casa.
“L’astrazione” è quindi alla base della nostra conoscenza e ne è il cardine
per tutta la vita, è un processo che ereditiamo geneticamente, indispensabile
per costruire i concetti. Nell’infanzia
incontriamo un mondo sconosciuto,
dobbiamo immagazzinare una quantità
enorme di dati e la capacità di astrazione è ancora più importante e quindi
da favorire e aiutare. I disegni astratti
dei bambini sono l’esempio migliore di
questa visione del mondo, dare valore al
loro linguaggio astratto e magico, come
tutta la scuola per l’infanzia di Reggio
Emilia ha fatto in cinquant’anni di attività, è quindi riconoscere una personalità dell’infanzia, uno stato autonomo del bambino, che l’adulto fa fatica
a decifrare con la sua logica razionale.
A volte, quando ci prova, considera il
bambino un giovane adulto, affidandogli capacità decisionali, di ragionamento, che non possono appartenergli.
L’educazione nei primi anni di vita è
quasi esclusivamente emotiva, i lobi
frontali razionali si sviluppano pian
piano col finire dell’infanzia: i desideri,
le emozioni, l’individualismo hanno la
meglio sulla ragione in tutto il periodo
dell’infanzia (oggi c’è anche il fenomeno
dell’infantilizzazione dell’adulto, della
sua incapacità a controllare desiderio e
pulsioni, forse proprio per una cattiva
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