Cap. 1 Dalla dittatura televisiva alla creatività diffusa YouTube

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Cap. 1 Dalla dittatura televisiva alla creatività diffusa YouTube
Cap. 1
Dalla dittatura televisiva alla creatività diffusa
YouTube
di Giuseppe Tortora
1.1. Il lento declino dello strapotere televisivo
A proposito dei mezzi della comunicazione di massa resta ancora valida
l’osservazione, fatta da Umberto Eco nel 1964, che, quando se ne parla, si
configurano sempre due opposti schieramenti: la fazione degli apocalittici e
quella degli integrati. Gli uni preoccupati del potere distruttivo dei media
relativamente alla socialità umana; i secondi estimatori entusiastici dei
benefici che i media assicurano al progresso delle comunità civili. Al banco
degl’imputati specialmente la radio e la televisione. Ma col tempo s’è venuta
accentuando soprattutto la preoccupazione della minaccia televisiva.
Minaccia a tutto campo: a fine anni Sessanta Ennio Flaiano, in un sussulto
profetico, scrisse nel suo taccuino Don’t Forget: «Fra 30 anni l’Italia sarà…
come l’avrà fatta la televisione». Non era una profezia benevola, ma coglieva
nel vero. In fondo è lei “la regina” di quella che Guy Debord definì — per
dirla col titolo di un suo famoso saggio — La società dello spettacolo.
Nella seconda metà degli anni Novanta, Pierre Bourdieu — filosofo
sociologo, massmediologo — nel suo saggio Sur la télévision evidenziava la
nefasta influenza ch’essa esercita su tutte le forme della produzione culturale,
e denunciava il pericolo ch’essa rappresenta per la vita politica e per la
democrazia: «La televisione — sentenziava — esercita una specie di
monopolio di fatto sulla formazione dei cervelli d’una parte importantissima
della popolazione». Ma già negli anni Settanta, in Italia, Pier Paolo Pasolini,
in Lettere luterane, evidenziava il potere massificante e socialmente
omologante della televisione: un mezzo capace di promuovere notevoli
cambiamenti sociali e culturali ma, contestualmente, la perdita della varietà,
della specificità e dell’interna mobilità dei gruppi: a livello di costumi come a
quello dei linguaggi, dei gusti, degli interessi materiali. Fenomeni di
mutazione antropologica, li definiva. Come deve evolversi la società —
scriveva — lo stabiliscono ormai i consigli d’amministrazione delle reti
televisive nazionali.
Insomma, in queste prospettive, che prefiguravano l’instaurazione di una vera
“civiltà televisiva” totalizzante, sarebbe stato impossibile, e forse persino
inutile, emulare il comportamento di Groucho Marx; il quale, ironizzando,
elogiava con un paradosso il “potere educativo” della televisione, asserendo
che, allorquando a casa sua veniva acceso l’apparecchio televisivo, egli si
trasferiva d’istinto in altra stanza per dedicarsi alla lettura di un buon libro.
La televisione cattura, affascina. Houellebecq, nel suo romanzo Le particelle
elementari, mostra come l’adolescente Michel s’accorge che non è certo la
sofferenza, come ingenuamente aveva creduto, bensì è la televisione che
conferisce all’uomo una dignità supplementare.
E non a caso, dunque, negli anni Novanta il filosofo Karl Popper parlava
della televisione come di un veleno. Detentrice di un enorme potere politico,
essa, con i suoi abusi, costituiva una minaccia anche per le più solide
democrazie. Davanti al televisore, contrariamente a quel che crediamo, è lei,
la televisione, che ci guarda — segnalava lo scrittore Jean-Paul Lebourhis in
L’exil intérieur —. Anzi ci tiene al guinzaglio. Ci spia, c’interroga,
c’ipnotizza. Sfrutta le nostre debolezze. Ci spaventa. E ci soggioga. In fondo
essa, con tecniche sempre più sofisticate di produzione e comunicazione delle
informazioni, cambia profondamente la nostra percezione della realtà e il
nostro modo di vivere. Con le sue strategie decide dei valori e dell’ordine
delle loro priorità, introduce modelli di comportamento, sollecita desideri e
ambizioni, orienta le idee e le scelte, come ben si vede nella comunicazione
politica e pubblicitaria. La televisione — asseriva con enfasi Karl Popper in
una pubblicazione fatta con John Condry — è in fondo una cattiva maestra.
Le reti televisive, considerati gli effetti prodotti, anche sui bambini, da certi
contenuti dei loro programmi, son diventate ormai dei centri di potere fuori
controllo; centri capaci di mettere in circolazione, nelle nostre società,
persino la violenza.
Sul fatto che la televisione imponga di fatto il suo potere assoluto addirittura
sui bambini insiste pure il politologo Giovanni Sartori. Esposti ai messaggi
televisivi per buona parte della giornata, fin dalla prima infanzia, vale a dire
già da molto prima ch’essi imparino a leggere e a scrivere, i bambini,
attraverso le immagini, subiscono un vero e proprio imprinting formativo.
Non solo assimilano rapidamente i valori sottostanti alle immagini e alle
storie, ma finiscono con lo sviluppare assuefazione e indifferenza alla
violenza, al dolore e alla morte, e arrivano al punto di maturare la
convinzione della loro “normalità”, dal momento che la lunga esposizione
alla televisione li induce ad assimilare realtà e finzione, a confondere le
persone con i personaggi. In loro va rapidamente formandosi un habitus di
distacco verso i comportamenti aggressivi e verso la sofferenza che questi
producono alle persone; e inoltre, “familiarizzando” con gli atteggiamenti
rissosi e crudeli, matura molto presto in loro persino una sorta di
“legittimazione” della violenza privata e pubblica.
Inseguendo l’audience — osserva il sociologo e massmediologo Pietro
Boccia in Comunicazione e massmedia — la televisione trova conveniente
erogare quei contenuti a basso livello formativo che solleticano i gusti rozzi
delle masse, ma in tal modo promuove e favorisce il continuo scadimento
collettivo delle coscienze critiche: davanti al televisore il sonno della ragione
genera mostri.
Ma qualcosa sta cambiando. Anzi qualcosa è già cambiato. Nel mondo il
potere televisivo sta declinando, anche se qua e là, nei paesi avanzati, si
verificano sussulti di vitalità. In effetti, come hanno mostrato recenti
sondaggi in Italia, tali sussulti sono prodotti prevalentemente dall’interesse di
certa tipologia di utenti — ossia quei telespettatori che non utilizzano altri
media informativo-comunicativi — e limitatamente a singoli eventi. Sta
declinando, si diceva, ma non per una rivolta della coscienza civile delle
comunità, né per il fremito della coscienza critica degli individui. La ragione
è — per quanto incredibile — squisitamente tecnologica. La dittatura della
televisione sta regredendo per l’avvento di nuove tecnologie. Ovvero per la
diffusione sempre più massiva di quelle tecnologie che consentono di
riempire il vuoto inscindibilmente connesso a quella televisiva: la mancanza
d’interattività, che è caratteristica di tutte le Ict del tipo “uno-molti”. Si parla
naturalmente di Internet. È Internet — e più specificamente il web nella
versione 2.0 — che sta lentamente, costantemente e progressivamente
abbattendo l’assolutismo televisivo. Considerata, fino a poco fa, il nuovo
potere demonico, la Rete si sta rivelando come un’opportunità e uno
strumento di liberazione dallo strapotere omologante del piccolo schermo.
La cosa non poteva essere misconosciuta dai grandi gruppi televisivi
mondiali. I quali naturalmente hanno prontamente reagito, a difesa dei
cospicui interessi economici, ed anche politici, connessi alla loro attività. È
opportuno ricordare che alcuni di loro hanno lanciato cospicue campagne di
marketing non tanto per mettere in luce le loro offerte ma per fronteggiare la
minaccia incombente. Nel 1997, la rete americana «ABC - American’s
Broadcasting Company», per liberare il pubblico adulto dal senso di colpa
legato al fidarsi troppo della televisione, ha lanciato la sua campagna
propagandistica all’insegna dello slogan «TV is good». Una campagna, con
alti costi di produzione, che ha creato molto scalpore ma ha avuto anche
molto successo. Circa il paventato pericolo d’instupidimento corso dai
telespettatori, lanciava messaggi tranquillizzanti: «Non preoccuparti. Hai
miliardi di cellule cerebrali!». E contro l’opinione sempre più diffusa di un
potere malefico del medium televisivo, assicurava: la tv è «divertente,
amichevole e irriverente», è capace di sottrarre il pubblico televisivo ai
problemi e allo stress della vita quotidiana: «sedersi per un po’ davanti alla tv
non è mica una cosa cattiva!»; del resto: «se per te la tv è così cattiva, allora
perché c’è un televisore in ogni camera di ospedale?». E infine, contro le
critiche sempre più frequenti di incidere negativamente sui rapporti
interpersonali, persino all’interno della famiglia, placava le ansie con slogan
suadenti: la vita è breve, guarda la tv; davanti al televisore il divano ti è
amico; e poi, non preoccuparti, c’è sempre tempo per parlare con tua moglie.
La campagna durò per tre anni prendendo progressivamente una strana piega
con il lancio di messaggi enfaticamente paradossali. Una prova degli effetti
benefici della televisione? Eccola: «Prima della televisione, due guerre
mondiali. Dopo, nessuna».
1.2. Informazione e comunicazione: crisi dei modelli tradizionali. Voglia
di ricercare, partecipare, condividere, sperimentare, creare
Contro la campagna dell’ABC nulla poté la reazione, a tratti anche
aspramente critica, che si sviluppò sui giornali. E, in generale, nulla —
neppure gli studi psicologici, pedagogici e sociologici — ha potuto mai
scalfire il potere economico-sociale delle reti televisive. Quel medium
esercita una notevole forza “seduttiva”. Poteva dunque esser detronizzato
solo da tecnologie a più forte potere attrattivo, quelle che avrebbero fatto
sentire gli “utenti” non come terminali di processi comunicativi
rigorosamente unidirezionali, non come destinatari passivi di contenuti
preformati ed erogati, ma, al contrario, protagonisti a pieno titolo del flusso
comunicativo e magari creatori o coautori o autonomi gestori degli stessi
contenuti della comunicazione. Ed è quel che è accaduto con l’avvento del
Web 2.0.
Vari servizi online, specialmente quelli con la configurazione di «Social
Network», offrono, agli utenti registrati, l’opportunità di condividere, con
perfetta reciprocità, contenuti o di propria produzione oppure trovati in rete e
ripresentati in forma ricontestualizzata. Non è un caso che, tra i tanti
dispositivi lanciati in rete, molti non hanno avuto fortuna, ma tanti, come
Facebook o YouTube, hanno incontrato da subito il favore del pubblico,
catturando insieme il bisogno dello scambio e la voglia di creatività personale
che serpeggiava già da tempo tra i fruitori, non solo tra i più giovani, della
rete.
La cosa non poteva passare inosservata tra gli psicologi e i sociologi della
comunicazione. I quali si son dedicati, con metodo scientifico, all’indagine
sui fenomeni di rete e, in particolare, all’analisi dei comportamenti dei
soggetti nelle interazioni virtuali. Uno studio dei comportamenti di massa,
dunque, al fine d’individuare, con rigore procedurale, le tendenze emergenti,
e indicare le istanze, esplicite o implicite, e dunque le esigenze effettive,
reali, che stanno alla base di quei comportamenti di massa.
Tra i protagonisti di questo interesse scientifico è da segnalare Henry Jenkins,
il quale, fin dal 2006, col suo volume Convergence culture, ha evidenziato
come gli old media stavano irreversibilmente lasciando il campo ai new
media. Il suo discorso ha subito destato entusiasmi ma anche sospetti. Ma
l’impianto teorico era ben solido e fondato su indubitabili elementi di fatto.
Sicché la sua riflessione sulle nuove prospettive della cultura tecnologica di
massa ha avuto qualche significativa eco anche in Italia grazie pure alla
traduzione del suo volume in lingua italiana. Nella presentazione di questo
saggio, elaborata dal collettivo di scrittori erede del progetto Luther Blisset, e
firmata Wu Ming, viene ben delineata la fisionomia del nuovo panorama
mediatico così com’è stata colta da Jenkins.
Il quale anzitutto sgombra il campo da possibili equivoci a proposito di quel
che comunemente s’intende per «cultura di massa». Egli distingue il concetto
di mass culture, che tiene in considerazione il “come” vengono diffusi i
contenuti, da quello di popular culture, che fa riferimento a “chi” quei
contenuti sono destinati. A suo giudizio con la dizione «cultura di massa»
deve intendersi semplicemente quella creata e diffusa dai mass media —
cinema, tv, discografia, etc. — la quale comprende anche prodotti di non
grande diffusione, ossia contenuti “di nicchia”, destinati a gruppi molto
limitati di possibili destinatari. Al contrario, con il concetto di «cultura
popolare» devono intendersi quei contenuti destinati al consumo diffuso, e
dunque quelle produzioni capaci di incidere sul mondo degli affetti, ma anche
idonei a modificare i costumi, a plasmare i comportamenti; ovvero quei
prodotti che sono in grado di configurare sistemi di valore e di rimodellare il
modo di vivere delle persone.
Dunque, per comprendere che cosa sta avvenendo nel mondo, occorre
individuare non solo quali tra i media hanno maggiore influenza sulla
“cultura popolare”, ma soprattutto come essi vengono adoperati nei diversi
campi, dal giornalismo alla comunicazione istituzionale e politica, dalla
educazione al divertimento etc.
Jenkins pertanto pone ad oggetto della sua indagine scientifica le pratiche e i
tratti culturali da cui sia possibile estrarre indicazioni sul come gli individui e
le società usano i nuovi media ed anche sul come essi si relazionano a tali
media. In particolare, egli concentra lo sforzo della ricerca scientifica
soprattutto sul come attualmente le tecnologie digitali vengono adoperate per
la produzione e l’utilizzazione dei contenuti, ed anche sull’impatto ch’esse
esercitano sulle diverse generazioni e sulle molteplici tipologie di utenti.
Spesso le nuove tecnologie digitali della comunicazione sono state accusate
di limitare la possibilità di scegliere, di riflettere, di elaborare i contenuti, e
soprattutto di sottrarre gl’individui alla vita vera, ossia alle relazioni umane,
ai libri, ai musei, al teatro. In effetti, rileva Jenkins, proprio perché “a bassa
soglia d’accesso”, e quindi facilmente utilizzabili, quelle tecnologie
rappresentano un’immediata opportunità non solo per la socializzazione,
favorendo la pratica della condivisione, ma soprattutto per l’attività inventiva
e per l’immaginazione creativa.
Si sta verificando insomma una vera rivoluzione psico-sociale. Nel campo
della comunicazione, l’innovazione tecnologica offre, continuamente, una
gran quantità di nuovi strumenti e una grande varietà di raffinati dispositivi,
grazie ai quali si stanno aprendo orizzonti, prima inimmaginabili, al bisogno
di esprimersi e compartecipare, alla curiosità intellettuale, alla voglia di
conoscere, al desiderio di fare. Ed anche alla creatività artistica.
Certo, l’adattamento alle modalità di utilizzazione dei new media è molto più
lento del ritmo di sviluppo tecnico. Ed è impossibile prevedere i tempi
dell’evoluzione. E tuttavia secondo Jenkins, già si colgono alcuni effetti
rilevanti, tra cui lo sviluppo di una nuova consapevolezza di sé. Uomini e
istituzioni cominciano già a pensare in modo diverso rispetto al passato. E in
ogni campo della cultura e della vita sociale c’è più disponibilità al
cambiamento e alla sperimentazione. Addirittura, in campo culturale, l’estesa
e capillare diffusione tecnologica, proprio rendendo più semplice l’accesso
alla produzione culturale, di fatto riduce il potere di condizionamento di
quelle istituzioni che finora hanno contenuto la spinta all’innovazione. Infatti,
la produzione culturale sta sperimentando una più ampia diversificazione, si
sta diffondendo in nuovi settori di pubblico e sta ampliando l’ambito e il
numero degli utenti.
1.3. La convergenza transmediale
Ma che cosa intende Jenkins per convergenza? Non certo quella tecnica,
ovvero l’aggregazione in un unico dispositivo di funzioni diverse fornite da
differenti tecnologie. Come nel caso dei tablet o degli smartphone,
comprensivi appunto di telefono, televisione, stereo, fotocamera,
videocamera. Questo tipo di convergenza è ben altra cosa rispetto alla
convergenza culturale. La quale è fondata piuttosto sulla trans-medialità.
Insomma riguarda la produzione, la gestione e l’utilizzazione dei contenuti.
L’indagine sociologica analizza i comportamenti. Ebbene attualmente — si
tratti di un romanzo, o di un brano musicale o di un video pubblicitario — nel
produrre un oggetto si adotta un atteggiamento diverso rispetto al passato.
Ossia si tengono presenti anche l’ambiente e le condizioni in cui il prodotto
stesso prevedibilmente sarà utilizzato, ed anche i più diffusi comportamenti
abituali adottati dagli utenti forniti di quell’oggetto. Come ho scritto altrove,
proprio illustrando la transmedialità, uno stesso contenuto può quindi
diventare molti diversi prodotti tecnologici: può assumere molte facce e può
esercitare molte funzioni. Vale a dire: un’idea può attraversare tutti i media,
può trovare espressione in vari media channels, può mirare a obiettivi
molteplici e differenti, e può raggiungere platee diverse di destinatari. Sicché,
chi ha un’idea, prima di darle una singola forma, la pensa già nel modo della
convergenza transmediale, dunque la pensa già in modo tale che possa
assumere forme diverse in modo da svolgere compiti differenti».
Questo è quel che evidenzia l’indagine sociologica. La quale mette in luce
come questo diverso modo di pensare e di agire stia diventando routinario
anche e specialmente nel campo della produzione di merci e servizi. Qui la
ricerca massmediologica rileva la possibilità di due tipi differenti di
convergenza culturale: una top-down, un’altra bottom-up.
Quanto alla prima, si considerino le strategie comunicative avanzate
elaborate dalle imprese produttive. Un’idea, una suggestione, un’immagine,
una storia vengono normalmente pensate in modo tale che possano esser
partecipate al pubblico in tutta la gamma dei codici comunicativi e dei canali
mediatici. Per convergenza «top-down», dunque, è da intendersi proprio
quella modalità procedurale che individua, esegue e controlla tutte le azioni
— dalla progettazione fino al compimento del processo — necessarie per
mettere in circolo uno stesso messaggio sulle diverse piattaforme
tecnologiche, in modo ch’esso arrivi a una platea la più ampia possibile di
utenti o acquirenti. L’obiettivo di tale procedura, pertanto, è garantire al
contenuto mediale una forma che ne renda possibile l’erogazione attraverso
tutti i diversi sistemi e mezzi di comunicazione, in modo ch’esso riesca ad
assicurare al prodotto aziendale una promozione a livello planetario e nei
molteplici e diversi strati, anagrafici e sociali, della possibile utenza.
A questa forma di convergenza, «dall’alto in basso», normalmente
corrisponde l’altra, «dal basso in alto». I protagonisti sono coloro che le
aziende considerano come potenziali consumatori. «I quali non vogliono
essere destinatari passivi di un intrusivo messaggio aziendale; essi intendono
controllare e modellare il flusso dei mezzi di comunicazione senza che esso
irrompa di forza nella loro vita. Vogliono i contenuti mediali nelle forme
comunicative dei media ch’essi preferiscono, nei momenti di loro
gradimento, e nei luoghi da loro giudicati più adeguati. Infine s’appropriano
di quel contenuto magari anche in forma “illegale”, trasferendolo
creativamente in spazi diversi». Adducendo un esempio felice, Wu Ming
spiega che così: «Una stessa canzone diventa jingle pubblicitario in
televisione, file da condividere sul computer, colonna sonora al cinema,
videoclip su YouTube, suoneria del cellulare, slogan su una maglietta». E
magari — è il caso di aggiungere — quello stesso contenuto, debitamente
“trattato”, associato e accorpato ad altri contenuti mediali, diventa ad
esempio un videoclip ironico, o persino una creazione di «WebArt».
Detto in altro modo, con la convergenza transmediale ciascun singolo
contenuto mediale può diventare parte di un “altro”, o addirittura elemento di
molteplici e diversi progetti creativi. Il che, in fondo, è esattamente quello
che son soliti fare i giovani col materiale “scaricato”. Un file musicale,
estratto da un audiovideo residente in YouTube, nel loro progetto creativo
può diventare la base audio di un altro video in cui esso generi, ad esempio,
effetti di ironico contrasto. E dunque diversi contenuti digitali, asportati dai
loro contesti, “rielaborati” e riassemblati in “altri” progetti — narrativi,
estetici, informativi —, perdono il loro carattere originario, e assumendone
uno diverso, conferiscono all’insieme un significato complessivo del tutto
originale.
Obbligato il riferimento ai giovani. Per Jenkins esiste davvero il salto
generazionale. Diversa la mentalità nell’uso delle tecnologie. Radicale la
differenza nelle attitudini e negli approcci rispetto a tutte le tecnologie. Di
qui le inevitabili incomprensioni e gli odiosi pregiudizi. Con l’accelerazione
del progresso tecnologico, dice Jenkins, i giovani hanno adottato stili e valori
culturali profondamente contrastanti con quelli che hanno caratterizzato la
generazione dei loro genitori. Giovani e adulti vivono in ambienti mediali
fondamentalmente difformi e usano le stesse tecnologie in modo totalmente
dissimile. Pertanto, in merito alle loro esperienze, maturano inevitabilmente
interpretazioni talvolta reciprocamente contraddittorie. In fondo, di quel che
riescono a fare i giovani online, gli adulti sanno molto meno di quanto
pensano di sapere; parallelamente, circa i valori e i preconcetti che
configurano la relazione degli adulti con le tecnologie mediali, i giovani
sanno molto meno di quanto essi stessi presumono. La verità è che nell’uso
delle tecnologie i giovani hanno “spiazzato” gli adulti: i quali, in questo
campo, non sono in grado di esercitare il loro naturale ruolo formativo. È
“saltato” lo schema che fa degli adulti i detentori del sapere poi verticalmente
erogato e discensivamente partecipato ai giovani. Negli ambienti mediali i
giovani imparano da soli, fino a raggiungere alti livelli non solo di destrezza
ma di libertà creativa. E la formazione delle competenze avviene nella
modalità della reciproca collaborazione con i propri coetanei. L’estraneità
intergenerazionale talvolta è tale che le tecnologie di rete vengono usate dai
giovani per gestire in autonomia la propria quotidianità, sottraendosi pure al
contesto familiare.
Naturale dunque che i giovani si trovino a proprio agio con le tecnologie
digitali. I nuovi media consentono loro di sottrarsi alla logica erogativa,
liberandoli dalla condanna a subire i contenuti imposti in forma
unidirezionale. Grazie ad appositi software e ai tanti nuovi ambienti
interattivi di rete, ognuno può costruire da sé il proprio giornale, o il proprio
palinsesto radiofonico, o la propria programmazione “televisiva”.
Peraltro ai loro occhi è ormai normale l’appropriazione di brani musicali,
immagini, informazioni. Finanche nella comunicazione privata spesso si
costruiscono messaggi con il mescolamento di codici comunicativi diversi,
implementando ad esempio un’informazione testuale con un’icona o una foto
prelevata dalla rete.
Insomma, sempre più frequentemente, nota Jenkins, anche tra gli adulti
immigrati digitali si comunica utilizzando frammenti di contenuti mediali:
frammenti presi a prestito, aggregati secondo la necessità del proprio
progetto, disposti secondo un ordine di priorità di valore funzionale al senso
che si vuol conferire all’insieme, e originalmente ricontestualizzati con nessi
reciproci che rendano trasparente il significato della comunicazione. Tutto
questo accade correntemente nei social network, attingendo alle risorse rese
di pubblica utilità in rete. Ma avviene anche nel mondo dell’informazione
giornalistica online e in quello della comunicazione culturale dei progetti di
weblearning.
1.4. YouTube: una risposta ai nuovi bisogni. Condivisione e creatività
diffusa
Nato nel 2005, e configurato dal 2007 in varie lingue, YouTube è un sito web
che — è noto a tutti — rende possibile la condivisione di audiovideo tra i
suoi utenti. Ognuno può caricare il materiale in suo possesso, o da lui stesso
prodotto, rendendolo disponibile pubblicamente a chiunque sia, a qualunque
titolo, interessato. Concede a tutti di creare propri canali, anche tematici, a
cui è permesso che altri s’iscrivano. Nessuna autorizzazione è prevista per gli
utenti registrati: né per l’upload né per il download, e nessuna limitazione è
imposta loro per l’utilizzazione del materiale scaricato. Per regolamento è
vietato l’upload di materiale che, prodotto da altri — persone o enti o
istituzioni —, sia protetto da diritto d’autore. Un controllo viene effettuato
specialmente sulle tracce audio dei filmati, per individuare e segnalare
l’eventuale violazione del diritto d’autore. La piattaforma ospita pure
materiale tratto da spettacoli televisivi oppure film e frammenti di film
prodotti per la televisione o per i circuiti cinematografici, e ne dispone la
rimozione a richiesta dei titolari dei diritti d’autore o di gestione. Inoltre
permette che il materiale ospitato sia incorporato in blog o altri siti web,
fornendo, essa stessa, gli opportuni codici in linguaggio html per la
condivisione.
Il sito costituisce dunque un enorme database. La quantità dei file caricati
ogni anno è in continua crescita. È diventato uno degli strumenti utilizzati da
istituzioni politiche e culturali per la comunicazione pubblica delle proprie
attività, concedendo a tutte, in ogni parte del mondo, di aprire un proprio
account. Ed è diventato anche luogo di promozione economica per aziende,
pubbliche e private, produttrici di merci e servizi d’ogni genere. Ha
consentito peraltro a istituzioni culturali e università di tanti paesi
l’istituzione di canali didattici. Favorisce l’attività promozionale di ogni
genere di videoclip musicali. Ha reso disponibile alla visione dei cultori un
numero considerevole di documentari visivi relativi a fatti storico-politici.
Mette a disposizione, delle stesse reti televisive, grandi e piccole, canali che
ospitino servizi giornalistici apparsi già in trasmissioni programmate secondo
il proprio palinsesto.
Il sito offre inoltre l’opportunità ad ogni utente di esprimere il proprio
gradimento sui singoli filmati, di esporre su di essi un proprio giudizio in
post di commento, d’inserire il materiale visivo in una propria playlist.
Inoltre mette a disposizione un servizio di segnalazione di contenuti la cui
pubblicazione sia da considerarsi offensiva della dignità della persona, dei
diritti dell’uomo e del cittadino, dell’ordinamento giuridico degli Stati.
Vale la pena di segnalare che YouTube mette a disposizione degli utenti un
proprio programma di videoediting, YouTube Remixer, col quale è possibile
modificare i propri video direttamente online. Ed è opportuno ricordare anche
che negli Stati uniti, gli utenti più attivi, indicati generalmente col nome
YouTubers, organizzano periodicamente incontri per celebrare la loro
“amicizia” nella comunità virtuale dei videoamatori.
Come si diceva, YouTube è un grande contenitore di videomateriali, ad
accesso libero e gratuito. È naturale che rappresenti, per gl’ingegni creativi,
l’immediato punto di riferimento per attingere contenuti da comporre poi in
modo originale in nuove unità comunicative. Certo, da un po’ di tempo il sito
rende difficile lo scaricamento dei file sui computer personali degli utenti.
Ma non mancano software anche molto raffinati per il download e il
trattamento dei contenuti scaricati. Per una generazione che, nelle società
avanzate, pone all’apice dei valori della persona la realizzazione di sé, e
come obiettivo immediato la soddisfazione individuale, l’appropriazione, ai
fini dei propri progetti, di materiali accessibili è considerata una pratica
attraverso cui può compiersi quella che i filosofi francesi chiamano “processo
di soggettivazione”. Archiviare i contenuti, per poi modificarli secondo la
momentanea occorrenza, utilizzarli più volte in nuovi contesti e con nuovi
autonomi assemblaggi, secondo le momentanee esigenze comunicative o
partecipative, assicura a ciascuno l’intervento attivo nella configurazione
della propria personalità, ed una presenza originale nel corrente flusso
comunicativo degli ambienti di rete. Peraltro, con l’upload, YouTube è
diventato anche il grande deposito delle risorse mediali prodotte da quella
che sempre più frequentemente viene indicata come creatività diffusa, la
quale è da considerarsi come legittima reazione alla “dittatura” dei
tradizionali mezzi di comunicazione di massa. Creatività che esplode in
produzioni con cui molti, com’è stato segnalato, specialmente i giovani,
esprimono in forme inconsuete il proprio punto di vista su tutto ciò che attrae
la loro attenzione; ma soprattutto in produzioni in cui essi ritrovano se stessi,
come allo specchio, costruendo così la propria identità individuale.
Certo, come segnala Jenkins, tutto questo movimento di cose avviene al di
fuori di una ben fondata e ben articolata etica dell’appropriazione. E spesso
mancano le risorse intellettuali per comprendere, con la necessaria distanza
dall’oggetto, che cosa avviene in noi in questo processo creativo. Ma più
forte di ogni esigenza di comprensione è il bisogno di partecipare
all’esperienza comune della scambievole condivisione. E non meraviglia, a
questo punto, che YouTube, portando alla luce quell’istinto alla creazione
amatoriale che i grandi mezzi di comunicazione di massa hanno sempre
respinto e oscurato, ha proposto ai grandi brand di produzione di materiali
mediali, specialmente di quelli musicali, di appuntare la propria attenzione su
tendenze in corso e su talenti emergenti.
Tutto è cambiato, insomma, nell’universo Internet. Anche rispetto al recente
passato. E pure relativamente al modello prevalente di comunicazione: non è
più tempo dell’«uno-molti», ma quello del «molti-molti». Addirittura sta
occupando un ruolo dominante la pratica del networking. E, come
prevedibile, specialmente tra i giovani.
I quali — nota Jenkins — sono molto capaci d’individuare i vantaggi e gli
svantaggi dell’impiego dei diversi sistemi di comunicazione in relazione ai
loro diversi obiettivi. E sono anche molto abili a usare simultaneamente — e,
quando possibile, a mescolare — le diverse tecnologie e i differenti ambienti
di rete al fine di diversificare e insieme potenziare e valorizzare il proprio
messaggio. E vivono appieno la consapevolezza che i contenuti mediali si
spostano istantaneamente su tutto il pianeta; che i nuovi network di rete
consentono d’interagire in modo globale; e che «la scala globale di questo
nuovo panorama dei media cambia in noi il nostro modo di pensare e il
nostro posto nel mondo». Proprio per questa proiezione su un orizzonte
planetario, lo scambio implica una «multicompetenza» non solo nella fase
della scelta, ma anche in quella della elaborazione, della riutilizzazione e
della diffusione dei contenuti di condivisione. L’ultraspecialismo, insomma,
è un limite operativo e soprattutto un freno alla libera espansione dell’attività
immaginativa.
Sugli effetti sociali dello «scambio culturale globale» c’è chi pensa ch’esso
favorisca la comprensione tra popoli; ma anche chi vede in esso una minaccia
di profonda omologazione; e persino chi prevede ch’esso generi nei vari
paesi un recupero e un’orgogliosa rivalorizzazione delle culture locali. Di
certo questo scambio aiuta gli individui a “sprovincializzarsi”, a diventare
cittadini del mondo attraverso l’integrazione di contributi radicalmente “altri”
nella formazione della propria identità personale. E con gl’input alla
partecipazione, favorisce l’instaurazione di una logica collaborativa,
alternativa a quella competitiva che illusoriamente si è considerata come
necessaria condizione di progresso.
Futuro presente A cura di Carlo Baldi e Pietro Citarella Ed. Loffredo, Napoli Settembre 2013 eISBN: 978-­‐88-­‐207-­‐6292-­‐6 eBook € 4,99 Indice Introduzione Stefano Martello Back to basic. Come sottrarre il tecnofuturo ad una lettura parziale Cap. 1 Giuseppe Tortora Dalla dittatura televisiva alla creatività diffusa YouTube Cap. 2 Giuliano De Luca e Vittoria Russo Social network e privacy: binomio possibile? Cap. 3 Pietro Citarella Social media tra politica e democrazia Cap. 4 Carlo Baldi Leggere in futuro: supporti digitali e pratiche sociali