Atti del Convegno

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Atti del Convegno
SAPIENZA - UNIVERSITÀ DI ROMA
DIPARTIMENTO DI MEDICINA CLINICA
Direttore: Prof. Adolfo F. Attili
giornate romane
di
medicina clinica
Roma, 14/15 Aprile 2016
Presidente: Prof. Filippo Rossi Fanelli
ATTI DEL CONVEGNO
XIII Edizione
SAPIENZA - UNIVERSITÀ DI ROMA
DIPARTIMENTO DI MEDICINA CLINICA
Direttore: Prof. Adolfo F. Attili
giornate romane di
medicina clinica
Roma, 14/15 Aprile 2016
ATTI DEL
CONVEGNO
XIII Edizione
P RO G R A M M A
Giovedì, 14 Aprile 2016
Mattina
8.30 Iscrizioni e ritiro materiale congressuale
9.15 Apertura lavori:
Filippo Rossi Fanelli
I SESSIONE
PNEUMOLOGIA (parte I)
Moderatori: Salvatore Valente (Roma), Paolo Palange (Roma)
9.30 Inquadramento fisiopatologico delle BPCO
Paolo Palange (Roma)
10.00 Nuove terapie personalizzate della BPCO
Paola Rogliani (Roma)
10.30 Discussione interattiva con i partecipanti (meet the expert)
11.00 Pausa
11.30 Asma: tra diagnosi e nuove frontiere terapeutiche
Matteo Bonini (Roma)
12.00 Allergopatie: qual è il ruolo delle vaccinazioni?
Elena Pinter (Roma)
12.30 Discussione interattiva con i partecipanti (meet the expert)
–4–
Pomeriggio
13.00 LETTURA MAGISTRALE
La gestione clinica dei nuovi anticoagulanti
Relatore: Giovanni Davì (Chieti)
Moderatori: Filippo Rossi Fanelli (Roma), Antonio Amoroso (Roma)
13.45 Pausa
II SESSIONE
PNEUMOLOGIA (parte II)
Moderatori: Filippo Rossi Fanelli (Roma), Paolo Palange (Roma)
14.30 OSAS: inquadramento clinico e terapie
Paolo Onorati (Alghero)
15.00 Ossigenoterapia a lungo termine e ventilazione non invasiva
Josuel Ora (Roma)
15.30 Discussione interattiva con i partecipanti (meet the expert)
16.00 L’ipertensione polmonare cronica tromboembolica
Carmine Dario Vizza (Roma)
16.30 TC ad alta risoluzione nello studio delle principali patologie respiratorie
Carlo Catalano (Roma)
17.00 Discussione interattiva con i partecipanti (meet the expert)
17.30 Chiusura dei lavori della giornata
–5–
Venerdì, 15 Aprile 2016
9.00 LETTURA MAGISTRALE
La terapia del dolore nel paziente internistico
Relatore: Marco Ranieri Vito (Roma)
Moderatori: Maurizio Muscaritoli (Roma), Marco Ranieri Vito (Roma)
III SESSIONE
MALATTIE INFETTIVE
Moderatori: Vincenzo Vullo (Roma), Gloria Taliani (Roma)
9.45 Polmoniti comunitarie: linee guida di gestione
Marco Falcone (Roma)
10.30 Gestione clinica della sepsi
Claudio Mastroianni (Roma)
10.45 Discussione interattiva con i partecipanti (meet the expert)
11.15 Break
11.30 Le infezioni fungine invasive in Medicina Interna
Mario Venditti (Roma)
12.00 I progressi delle nuove terapie dell’epatite C
Gloria Taliani (Roma)
12.30 Considerazioni conclusive
Filippo Rossi Fanelli (Roma)
13.00 Compilazione dei questionari di valutazione ed autovalutazione
13.30 Chiusura dei lavori
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BPCO: Inquadramento fisiopatologico
Paolo Palange
Sapienza Università di Roma
La BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) è una patologia prevenibile e trattabile, caratterizzata da una persistente limitazione al flusso
aereo, non completamente reversibile. La limitazione al flusso, solitamente
progressiva, è associata ad una risposta infiammatoria delle vie aeree a gas e
a particelle nocive, come il fumo di sigaretta.
La BPCO è una tra le principali cause di mortalità e morbidità nel mondo,
colpendo il 10% della popolazione generale, con una prevalenza che nei
fumatori arriva fino al 50%.
Dal punto di vista clinico sono riconosciuti, nella popolazione BPCO,
due diversi fenotipi: il bronchitico-cronico e l’enfisematoso.
Dal punto di vista anatomo-patologico l’enfisema colpisce principalmente le piccole vie aeree, distalmente ai bronchioli terminali, con graduale
distruzione dei setti alveolari e del letto capillare polmonare. La distruzione
degli alveoli e l’aumento dello spazio aereo, contribuiscono alla perdita del
ritorno elastico polmonare e alla perdita della trazione esterna sulle piccole
vie aeree, con conseguente collasso delle stesse durante l’espirazione.
Questo meccanismo conduce all’ostruzione del flusso aereo, all’“air trapping” e all’iperinflazione, caratteristiche della patologia. Le alterazioni
infiammatorie e strutturali delle vie aeree aumentano con la severità della
malattia, portando con il tempo ad un rimodellamento anatomico, che può
persistere anche dopo la cessazione del fumo.
La dispnea, la tosse e la ridotta tolleranza allo sforzo sono i sintomi cronici cardine di questa patologia, che può andare incontro ad fenomeni di
riacutizzazione.
Una caratteristica importante dei soggetti con BPCO è la difficoltà nell’effettuare le attività quotidiane, poichè la tolleranza allo sforzo viene alterata
dalla comparsa di dispnea. Pur trattandosi di meccanismi fisiopatologici complessi, con alla base la cronica ostruzione al flusso di aria, sicuramente l’iperinsufflazione assume un ruolo centrale nella comparsa della dispnea.
L’iperinsufflazione, statica o dinamica a seconda dei meccanismi da cui è provocata, è caratterizzata da un aumento della capacità funzionale residua; quest’ultima definita come volume di gas disponibile alla fine di un’espirazione a
volume corrente. L’iperinsufflazione statica, è dovuta all’ostruzione delle vie
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aeree periferiche e al ridotto ritorno elastico dei polmoni, che porta ad un’alterazione delle forze normalmente in gioco nel sistema respiratorio, provocando
un intrappolamento progressivo di aria durante l’espirazione, con un aumento
permanente della capacità funzionale residua. L’iperinsufflazione statica, inoltre, altera la meccanica respiratoria, riducendo la capacità dei muscoli inspiratori di generare pressione, per cui sarà necessario un maggior dispendio di energia per generare un dato volume corrente.
L’aumento di capacità funzionale residua, considerando come costante la
capacità polmonare totale, altera il volume ad essa complementare, la capacità inspiratoria, ovvero la massima quantità di aria che si può inspirare partendo da un’espirazione a volume corrente, particolarmente durante l’esercizio (iperinsufflazione dinamica), risultando in un aumento della dispnea e in
una riduzione della tolleranza allo sforzo. La limitazione al flusso aereo e l’iperinsufflazione influenzano la funzionalità cardiaca e gli scambi gassosi.
L’ipossiemia e l’infiammazione cronica possono provocare una riduzione
della massa muscolare e cachessia, e possono causare o peggiorare eventuali comorbidità, tra cui la cardiopatia ischemica, lo scompenso cardiaco, l’osteoporosi, il diabete, la sindrome metabolica e la depressione.
Le prove di funzionalità respiratoria sonoalla base della diagnosi e della
stadiazione della patologia.
Secondo le linee guida GOLD (Global Strategy for the Diagnosis,
Management and Prevention of COPD, Global Initiative for Chronic
Obstructive Lung Disease 2016 http://www.goldcopd.org/.) per definire la
limitazione al flusso aereo, o ostruzione bronchiale, viene utilizzato il rapporto fisso post-broncodilatatore VEMS/CVF <0.7 (VEMS: Volume Espiratorio
Forzato al 1° Secondo; CVF: Capacità Vitale Forzata)
La classificazione spirometrica di gravità della limitazione del flusso
aereo è suddivisa in quattro Gradi: GOLD 1 Lieve (VEMS ≥ 80% del predetto); GOLD 2 Moderato (50% ≤ VEMS <80% del predetto); GOLD 3 Grave
(30% ≤ VEMS <50% del predetto); GOLD 4 Molto Grave (VEMS <30% del
predetto).
La valutazione globale del paziente con BPCO sarà basata sulla combinazione di sintomi (valutati sulla base di questionari standardizzati), classificazione spirometrica e rischio di future riacutizzazioni. In ultimo va ricordato che l’approccio al paziente con BPCO deve includere lo studio delle
comorbidità e dello stato nutrizionale, che insieme ai parametri più specifici
di malattia andranno a definire la prognosi e la storia di malattia di ogni singolo individuo.
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Nuove terapie personalizzate della BPCO
Paola Rogliani
Professore Associato di Malattie dell’Apparato Respiratorio, Università di Roma
Tor Vergata
In passato, le linee guida e le strategie per il trattamento della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) erano basate sul potenziamento (escalation) della terapia in accordo con la gravità ostruzione del flusso aereo
[1,2]. Grazie alle nuove evidenze scientifiche e all’introduzione di nuovi farmaci, si sta facendo strada nella pratica clinica un’altra strategia terapeutica,
basata sulla riduzione o sostituzione di alcuni farmaci broncodilatatori, che
configura una “de-escalation therapy” [3]. Tale strategia anche se con le
opportune differenze ricalca la terapia raccomandata nell’asma bronchiale di
step-up e di step-down (crescente e decrescente) ed introduce un nuovo ed
innovativo paradigma terapeutico. Gli studi attualmente a disposizione non
sono però ancora esaustivi nel chiarire le differenze fra le varie strategie terapeutiche. Ci sono molte domande aperte come ad esempio quando ed in quali
pazienti iniziare con una monoterapia rispetto ad una terapia di combinazione con β2 agonisti a lunga durata d’azione (LABA) e corticosteroide inalatorio (ICS), quando aggiungere un secondo broncodilatatore oppure passare
direttamente alla triplice terapia aggiungendo un broncodilatatore antimuscarinico (LAMA) associato ad ICS/LABA. Studi “real life” hanno infatti dimostrato un utilizzo inappropriato secondo le raccomandazioni internazionali e
spesso eccessivo dell’associazione ICS/LABA nei pazienti BPCO [4]. Difatti
i pazienti BPCO a basso rischio di riacutizzazione possono essere trattati
semplicemente con broncodilatatori a lunga durata d’azione senza evidenza
di un effetto aggiuntivo del corticosteroide, mentre nei pazienti BPCO con
alto rischio di esacerbazioni soprattutto gravi che portano quindi ad ospedalizzazione è stata dimostrata una miglior prognosi con una terapia di associazione (LAMA + LABA/ICS) rispetto ala sola terapia broncodilatatrice. In
linea generale pur rimanendo centrale il ruolo del broncodilatatore nella terapia della BPCO, si possono identificare due diversi fenotipi e due diverse
strategie terapeutiche: il BPCO enfisematoso-iperinsufflato che beneficia
soprattutto della doppia broncodilatazione, rispetto al BPCO frequente esacerbatore che beneficia dell’associazione del broncodilatatore con il corticosteroide [3, 5]. Un altro momento cruciale nella storia naturale della malattia
sono le riacutizzazioni. Mentre le riacutizzazioni di grado lieve sembrano
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rispondere maggiormente alla terapia con due broncodilatatori (LAMA +
LABA) quelle di grado moderato o grave rispondono invece alla terapia corticosteroidea. Così nasce un altro problema terapeutico a cui i clinici devono
spesso rispondere: si può sospendere il corticosteroide inalatorio e dopo
quanto tempo dal suo inizio? Attualmente la maggior parte degli studi sembra confermare che la sospensione della terapia corticosteroidea è possibile
se adeguatamente sostituita alla terapia con doppia broncodilatazione in quei
pazienti in cui non è indicato il corticosteroide, mentre ci sono studi contrastanti per quanto riguarda pazienti più gravi e con esacerbazioni [3].
Permangono molte domande irrisolte sulla miglior terapia possibile nel
paziente BPCO, perché bisogna sempre considerare le caratteristiche peculiari di quel paziente (il fenotipo), valutare le le caratteristiche farmacologiche
dei diversi broncodilatatori (monosomministrazione rispetto alla doppia somministrazione giornaliera) e adattarla alla preferenza dell’erogatore del farmaco inalatorio (il device) e alle terapia che il paziente già sta facendo. Per
tale ragione l’impostazione fin da subito dell’appropriata terapia sembra
essere attualmente la scelta più vantaggioso nonostante nuove evidenze
dimostrano che è comunque possibile procedere ad una terapia di step up step
down quando necessario.
Bibliografia
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3.
4.
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management, and prevention of chronic obstructive pulmonary disease.
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Price D, West D, Brusselle G, et al. Management of COPD in the UK primary-care
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Hurst JR, Vestbo J, Anzueto A, et al. Susceptibility to exacerbation in chronic
obstructive pulmonary disease. N Engl J Med. 2010;363:1128–38.
– 10 –
Asma tra diagnosi e nuove frontiere terapeutiche
Matteo Bonini 1, 2
Unita’ di Fisiopatologia Respiratoria, Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie
Infettive, “Sapienza” Università di Roma; 2 Airway Division, Royal Brompton
Hospital, National Heart and Lung Institute (NHLI), Imperial College London
1
Asthma is a heterogeneous disease usually characterized by chronic
airway inflammation. It is defined by a history of respiratory symptoms that
vary over time and in intensity, with evidence of variable expiratory airflow
limitation 1. Epidemiological data show that asthma affects 5-15% of people
worldwide, with increasing prevalence over the last few decades 2.
Different asthma phenotypes have been described on the basis of clinical
and functional patient characteristics 2. Asthma has long been recognized as
an inflammatory T helper type 2 cell-mediated disease, but recent findings
support alternative pathophysiological mechanisms and effectors, which
define distinct endotypes 2.
Treatment is well established in national and international guidelines and
aims to achieve optimal disease control and prevent acute exacerbations,
using a stepwise approach to medication 1. Drugs are commonly divided into
“relievers”, which quickly alleviate airway obstruction, and “controllers”,
which suppress the pathophysiology and provide long-term symptom control.
Beta-2 adrenoreceptor agonists are the mainstay of asthma management
and are the most effective available treatment for preventing and reversing
bronchial obstruction. This class of drugs includes short-acting (SABA) and
long-acting (LABA) b2-adrenoreceptor agonists. More recently, ultraLABAs (indacaterol, olodaterol, vilanterol), which potentially have a oncedaily dosing regimen, have been developed; however, their use is currently
mainly confined to COPD. Beta-2 adrenoreceptor agonists act via specific
receptors (ADRb2), localized mainly on airway smooth muscle cells. Inhaled
SABAs (salbutamol, terbutaline) are the most widely used relievers in the
treatment of acute asthma with a rapid onset of action. In addition to their
acute bronchodilator effect, they are effective in protecting against challenges
such as exercise and allergens. SABAs should be only used as ‘rescue’
medication and not on a regular basis. Indeed, increased use (>2 times
weekly) should prompt the need for more anti-inflammatory therapy. LABAs
(salmeterol, formoterol) represented a significant advance in asthma
treatment. They have a bronchodilator action of >12 hours and also protect
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against bronchoconstriction for a similar period. Formoterol has a more rapid
onset of action and is a full agonist, whereas salmeterol is a partial agonist
with a slower onset of action. These differences might confer a theoretical
advantage for formoterol in more severe asthma but can also make it more
likely to induce tolerance. In asthma patients, LABAs should always be used
in combination with inhaled corticosteroids (ICS), because LABAs do not
treat the underlying chronic inflammation. Oral and intravenous b2adrenoreceptor agonists are only rarely indicated as bronchodilators because
of an increased risk of adverse effects. Adverse effects of b2-adrenoreceptor
agonists are dosage-related and mainly due to stimulation of extrapulmonary
ADRb2. They include muscle tremor, tachycardia, palpitations, prolongation
of the cardiac QTc interval and hypokalaemia. In asthmatic individuals,
tolerance can develop to the bronchoprotective effect of b2-adrenoreceptor
agonists, possibly from down-regulation of ADRb2s 3. A possible causal
relationship between LABAs and the rise in asthma exacerbations and deaths
has been suggested, leading to doubts about the long-term safety of LABAs.
Studies are currently examining this, especially in children.
Inhaled corticosteroids (ICS) are recommended as first-line therapy for all
patients with persistent asthma. For most patients, ICS are ideally used twice
daily once the asthma has been controlled. Once-daily administration of some
corticosteroids (budesonide, ciclesonide) is effective when low doses are
needed. The dose of ICS should be the minimal dose to control asthma; once
control has been achieved, the dose should be slowly reduced after 3 months of
disease stability, as suggested in guidelines. Nebulized corticosteroids can be
useful in the treatment of small children who are not able to use other inhaler
devices. Prednisolone and prednisone are the most commonly used oral
corticosteroids. Short courses (1-2 weeks) of oral corticosteroids are indicated
for exacerbations of asthma. Corticosteroids bind to glucocorticoid receptors
(GRs) in the target cell cytoplasm. The mechanisms of action of corticosteroids
in asthma are however still poorly understood, but their efficacy seems to be
related to their anti-inflammatory properties. ICS can have local adverse effects
from deposition of ICS in the oropharynx. The most common problem (up to
40% of patients) is dysphonia due to atrophy of the vocal cords following
laryngeal deposition of corticosteroid. Throat irritation and coughing after
inhalation are common with MDIs, apparently from additives. Oropharyngeal
candidiasis occurs in approx. 5% of patients. Systemic effects of ICS have been
described, including dermal thinning and skin capillary fragility. HPA
suppression with ICS is usually seen only when the daily inhaled dose exceeds
– 12 –
2000 microgram of beclometasone dipropionate or its equivalent. There is no
evidence for increased lung infections, including tuberculosis, in patients with
asthma. Adverse effects of long-term oral corticosteroid therapy include fluid
retention, increased appetite, weight gain, osteoporosis, capillary fragility,
hypertension, peptic ulceration, diabetes mellitus, cataract and psychosis. The
frequency of adverse effects tends to increase with age. Symptoms of ‘steroid
withdrawal syndrome’ include lassitude, musculoskeletal pains and occasionally
fever.
Muscarinic antagonists, methylxanthines, anti-leukotrienes, cromones
and macrolides also play a key role in disease management.
The use of biologicals in asthma is receiving increasing attention,
particularly for more severe disease that cannot be controlled by current drugs
4, 5
. The only biological agent currently available for the treatment of asthma is
the anti-IgE monoclonal antibody omalizumab. Several others, such as
mepolizumab (anti-IL-5), lebrikizumab (anti-IL-13) and dupilumab (anti-IL4Ra) are at an advanced stage of drug development and are expected to be
available on prescription soon; however, they will be expensive. In September
2015, mepolizumab received authorization in Europe as an add-on treatment for
severe refractory eosinophilic asthma in adult patients.
Most patients have disease of mild to moderate severity and are managed in
the community. However, patients who have more severe disease that is
refractory to conventional therapy, have co-morbidities (rhinitis, gastrooesophageal reflux) or have the recently described asthma-chronic obstructive
pulmonary disease overlap syndrome (ACOS) are hard to treat, prompting the
current drive for a precision-based medicine approach involving patienttailored treatment.
References
1.
2.
3.
4.
5.
Global Initiative on Asthma. Global strategy for asthma management and
prevention. www.ginasthma.com (accessed 10 Sep 2015).
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Bonini M, Di Mambro C, Calderon MA, et al. Beta2-agonists for exercise-induced
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Pelaia G, Vatrella A, Maselli R. The potential of biologics for the treatment of
asthma. Nat Rev Drug Discov 2012 Dec; 11: 958 e 72.
Fayt ML, Wenzel SE. Asthma phenotypes and the use of biologic medications in
asthma and allergic diseases: the next step forward personalized care. J Allergy
Clin Immunol 2015; 135: 299 e 310.
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Allergopatie: qual è il ruolo delle vaccinazioni
Elena Pinter
Ambulatorio di Allergologia, Dipartimento di Medicina Clinica, Policlinico
Umberto I, Roma
Le malattie allergiche sono un problema emergente soprattutto nei paesi
industrializzati, infatti circa il 20% della popolazione soffre di patologie
allergiche quali rinite, asma od allergie alimentari.. In Italia le allergie colpiscono circa 15 milioni di persone e sono tuttora in crescita. In netta prevalenza le allergie respiratorie che arrivano a colpire il 30% della popolazione in
alcuna fasce d’età. La rinite allergica, pur non mettendo in pericolo la vita del
paziente, ne altera notevolmente la qualità interferendo con il sonno e le performance scolastiche e lavorative e predispone a co-morbilità quali l’asma.
La gestione delle allergie respiratorie prevede l’allontanamento dell’allergene, terapie sintomatiche e, se indicata, l’immunoterapia specifica (AIT) che
prevede somministrazioni ripetute di estratto allergenico allo scopo di ridurre i sintomi e l’utilizzo di farmaci per un periodo più o meno prolungato.
L’AIT è indicata nei pazienti per i quali sia stata dimostrata la sensibilizzazione verso un determinato allergene, tramite Skin prick test o RAST (dosaggio IgE specifiche nel siero), e vi sia un rapporto di causa ed effetto tra l’esposizione allergenica ed i sintomi.
Il meccanismo d’azione dell’immunoterapia si fonda sull’induzione di cellule T regolatorie allergene specifiche. Questo, attraverso meccanismi immunologici complessi comporta una riduzione della sintesi di IgE specifiche dell’allergene utilizzato, un’induzione di anticorpi allergene specifici (IgG4), che
bloccano l’attivazione allergenica sulle cellule immunocompetenti ed una riduzione della sintesi di citochine Th2 coinvolte nella reazione allergica.
Importante per una risposta immunologica efficace è il tipo di immunoterapia (sublinguale o sottocute), la dose somministrata, la standardizzazione
dell’estratto allergenico e gli adiuvanti. L’immunoterapia sottocutanea, pur
essendo in generale ben tollerata può presentare reazioni da locali a sistemiche e pertanto va somministrata in adeguate strutture da medici con esperienza in immunoterapia e nel riconoscimento precoce degli effetti avversi.
Quella sublinguale presenta generalmente reazioni meno frequenti e di minor
entità, ma è consigliato effettuare la prima somministrazione in ambiente protetto. Non deve essere somministrata in pazienti con asma grave e/o non controllato.
– 14 –
L’immunoterapia è al momento è l’unica terapia in grado di modificare la
storia clinica dell’allergia respiratoria riducendo la risposta allergica (i sintomi) e prevenendo ulteriori sensibilizzazioni e/o lo sviluppo dell’asma. La sua
efficacia per la rinite allergica è stata dimostrata in diversi trial , ed è stata
inserita tra le terapie consigliate nelle linee guida ARIA. Si è mostrata efficace anche nel ridurre l’iperreattività bronchiale, soprattutto nella formulazione sottocutanea. La sua importanza nell’allergia a veleno da imenotteri è indiscussa, mentre non vi sono dati consistenti per un suo utilizzo routinario nell’allergia alimentare, da latex e nell’ipersensibilità al nichel.
– 15 –
La gestione clinica dei nuovi anticoagulanti
Giovanni Davì
Dipartimento Clinica Medica, Università di Chieti
I nuovi anticoagulanti orali (NOACs) comprendono: l’inibitore diretto
della trombina (Dabigatran Pradaxa 150 mg o 110 mg bid), inibitore del fattore Xa (Rivaroxaban (XARELTO®) 20 mg OD; Apixaban (ELIQUIS®) 5
mg o 2,5 mg BID; Edoxaban (LIXIANA®) 60 mg o 30 mg OD. Le principali condizioni patologiche in cui i NOAC sono stati sperimentati comprendono: la prevenzione dell’ictus e dell’embolia sistemica in pazienti con fibrillazione atriale non-valvolare il trattamento della trombosi venosa profonda e
dell’embolia polmonare e la prevenzione delle recidive la prevenzione degli
eventi tromboembolici venosi nei pazienti adulti sottoposti a intervento chirurgico di sostituzione elettiva dell’anca o del ginocchio. Le prime due patologie (la fibrillazione atriale e la malattia tromboembolica venosa) sono di
grande impatto epidemiologico: la fibrillazione atriale (FA) è la più comune
aritmia cardiaca nella popolazione generale con una prevalenza del 1-2% e
rappresenta il principale fattore di rischio per ictus cardioembolico, complicanza che interviene con un’incidenza di circa il 5% per anno se consideriamo l’intera popolazione dei pazienti con FA, ma, come è noto da tempo, presenta una sensibile variazione di frequenza, a seconda della presenza/assenza di altri fattori di rischio (età, sesso, razza e, soprattutto, fattori di rischio
cardiovascolare, quali pregresso TIA o ictus, ipertensione arteriosa, diabete,
insufficienza cardiaca); la malattia tromboembolica venosa (TEV) presenta
un’incidenza annuale intorno a 100-200 casi per 100.000 abitanti nella popolazione generale, crescente con l’età: la trombosi venosa profonda (TVP)
costituisce due terzi degli episodi di TEV, mentre l’embolia polmonare (EP),
da sola o in combinazione con la TVP rappresenta l’altro terzo dei casi, con
mortalità non trascurabile (6-7% per la TVP e 12% per la EP). La scoperta
dei NOAC ha suscitato notevole entusiasmo da parte di molti medici, che
hanno visto finalmente realizzata l’aspettativa di disporre di una terapia anticoagulante orale da poter gestire con maggiore facilità e da poter prescrivere
anche ai pazienti in precedenza esclusi dal trattamento anticoagulante, proprio a causa delle difficoltà di gestione dei farmaci AVK. Si registrano anche
pareri più prudenti da parte di coloro che ritengono che le nuove molecole, a
fronte di marginali vantaggi “protettivi”, potrebbero comportare non trascurabili rischi di sanguinamento gastroenterico (anche se le più temute emorra– 16 –
gie cerebrali sono indubbiamente meno frequenti), oltre alla difficoltà derivante dalla mancata disponibilità di antidoti. A questo proposito va comunque detto che per il dabigatran vi sono studi, sull’uso di un nuovo farmaco,
l’idarucizumab, un frammento di anticorpo umanizzato, in grado di bloccare
l’effetto anticoagulante del dabigatran; un grande trial clinico multicentrico
internazionale, il RE-VERSE AD, valuta tale antidoto nell’ambito del contesto clinico di pazienti in trattamento con dabigatran, nei quali è necessario
antagonizzare rapidamente l’effetto anticoagulante per una grave emorragia
o per la necessità di un intervento chirurgico d’urgenza. Per gli inibitori diretti del fattore Xa è in corso di valutazione l’antidoto andexanet alfa, molecola ricombinante modificata del Fattore Xa, con il quale sono in corso studi
clinici di antagonismo dell’azione anticoagulante, sia per rivaroxaban
(ANNEXA-R study), sia per apixaban (ANNEXA-A study). Comunque, nei
casi gravi è necessario utilizzare i concentrati di complesso protrombinico
(PCC), il cui uso trova indicazione anche nei gravi sanguinamenti in corso di
terapia con rivaroxaban ed apixaban e consente di gestire le complicanze
emorragiche anche in assenza di antidoti specifici. Inoltre i NOAC sono di
norma controindicati in pazienti con malattie epatiche associate a coagulopatia e rischio emorragico clinicamente rilevante. Negli studi clinici, tali farmaci non sono stati testati nei pazienti con insufficienza epatica ed enzimi epatici superiori 2-3 volte il limite massimo dei range di normalità. Pertanto il
loro impiego non è raccomandato in questa popolazione. Nel corso della terapia con NOAC, nei soggetti con epatopatia lieve o in quelli a rischio di epatopatia, la funzionalità epatica deve essere periodicamente controllata. La FA
è una patologia che colpisce in prevalenza la popolazione di età avanzata, per
cui è più probabile che i farmaci anticoagulanti siano prescritti a soggetti
anziani, con funzionalità renale facilmente deteriorabile, diminuita escrezione renale del farmaco e conseguente aumentato rischio emorragico. Le linee
guida del 2014 dell’American Heart Association/American College of
Cardiology/Heart Rhythm Society (AHA/ACC/HRS) raccomandano nei
pazienti con nefropatia cronica da moderata a grave e un punteggio
CHA2DS2-VASc di 2 o superiore, possono essere considerate dosi ridotte di
apixaban, dabigatran o rivaroxaban. Le linee guida non consigliano la somministrazione di un NOAC nei pazienti con nefropatia cronica allo stadio terminale o in emodialisi, nè nei portatori di valvole cardiache meccaniche. In
pazienti con IRC moderato-severa l’uso di Warfarin si associa a un maggior
rischio emorragico e il rapporto rischio/beneficio non è dimostrato.
L’escrezione di Warfarin non dipende dalla funzione renale, ma l’IRC riduce
– 17 –
il metabolismo del citocromo P450. Per quanto riguarda i NAO, negli studi
clinici di Rivaroxaban e Dabigatran sono stati esclusi pazienti con Clearance
della Creatinina <30ml/min e per Apixaban pazienti con Clearance della
Creatinina <25ml/min. Nei pazienti con IRC lieve-moderata l’attività di
Apixaban aumenta del 70%, quella di Rivaroxaban raddoppia e quella di
Dabigatran aumenta di circa 6 volte. L’uso di NAO nell’insufficienza renale è
inoltre complicato dall’interferenza con altri farmaci (Carbamazepina,
Dronedarone, Verapamil, Amiodarone, Claritromicina, Diltiazem, Ranolazina).
Nei pazienti con IRC moderata, dosi ridotte di Rivaroxaban e Apixaban sono
risultate sicure ed ugualmente efficaci. Dubbi rimangono su Dabigatran (approvato solo in U.S. alle dosi di 75mg bid in pazienti con clearance di 15-29
ml/min). Rimangono controindicati in pazienti in stadio IV di IRC. Non vi sono
dati in pazienti dializzati. Tutti i NAO coinvolgono in misura diversa il sistema
della glicoproteina P (P-gp, secerne parte del farmaco nuovamente nel lume
intestinale). Gli inibitori del FXa sono variamente metabolizzati dal sistema
microsomiale epatica (enzima CYP3A4). Alcuni farmaci di comune utilizzo, tra
cui alcuni implicati nella terapia della FA, sono attivi (come inibitori od induttori) sul sistema di P-gp e CYP3A4. I NAO non sono né induttori né inibitori
di P-gp e CYP3A4, quindi possono essere co-somministrati con farmaci substrati di questi sistemi (tra cui digitale, statine). Le prospettive future vedono
all’orizzonte un nuovo Inibitore del FXa in corso di studio, ha emivita più lunga
rispetto ai classici inibitori del FXa (emivita farmacodinamica di circa 20 ore),
metabolismo renale molto ridotto, minimo metabolismo epatico ed elevata eliminazione attraverso la via bilio-digestiva (sistema della P-gp); Emergono
buoni risultati di superiorità in termini di efficacia e di non inferiorità in termini di sicurezza. Betrixaban potrebbe essere il primo NAO ad essere utilizzato
nei pazienti acuti ed ospedalizzati per la profilassi del TEV.
– 18 –
OSAS: inquadramento clinico e terapie
Paolo Onorati
Servizio di Fisiopatologia Respiratoria; UOC Medicina, Ospedale Civile Alghero,
ASL1 - Sassari
Principi di valutazione e diagnosi dell’OSAS
Il termine disordini respiratori nel sonno comprende una varietà di sindromi caratterizzate da una riduzione della ventilazione durante il sonno.
Queste sindromi includono: le apnee notturne centrali e ostruttive, l’ipoventilazione alveolare, il respiro di Cheyne-Stokes.
I meccanismi principali alla base dei disturbi respiratori nel sonno sono:
1. meccanismi che influenzano la pervietà delle vie aeree superiori (apnea
ostruttiva)
2. meccanismi di controllo della stabilità ventilatoria durante il sonno,
(apnea centrale e ostruttiva).
La caratteristica fisiopatologia dell’apnea ostruttiva nel sonno (OSA) è il
collasso delle vie aeree superiori a livello della faringe. Le conseguenze diurne dell’OSAS sono: sensazione di sonno non ristoratore, cefalea, eccessiva
sonnolenza diurna, aumentato rischio di incidenti stradali, deficit cognitivi
(disturbi di memoria,concentrazione ed attenzione) e, in misura minore,
depressione del tono dell’umore ed impotenza sessuale 3.
La diagnosi di OSAS si basa sia sulla clinica sia su indici misurabili relativi a disturbi respiratori. Con l’indice di apnea-ipopnea (Apnea-Hypopnea
Index, AHI) si definisce l’OSAS come segue:
– Almeno 5 eventi respiratori ostruttivi per ora di sonno (AHI o RERA)
+ sintomi
– 15 o + eventi respiratori ostruttivi in assenza di sintomi
La gravità è classificata come segue:
– lieve ( AHI compreso tra 5 e 15)
– moderata tra 16 e 30
– severa >30.
Si distinguono quattro “livelli” di indagine 5-12.
– livello IV, monitoraggio notturno cardiorespiratorio ridotto 6,7.
– livello III, monitoraggio cardiorespiratorio completo.
– livello II, Polisonnografia notturna con sistema portatile
– livello I. Polisonnografia notturna standard che prevede la registrazio– 19 –
ne simultanea di almeno sette canali tra i seguenti con l’obbligo di quelli per
il riconoscimento degli stadi del sonno:
Il monitoraggio della SaO2 rientra nella diagnostica e si definisce desaturazione la caduta della SaO2 pari almeno al 4% rispetto al precedente livello stabile; il numero di desaturazioni/ora costituisce l’indice di desaturazione, o ODI1-4.
Fattori predittivi dell’OSAS
Fattori clinici:
– dismorfismi cranio-facciali, alterazioni anatomiche (es. micrognatia,
macroglossia, allungamento del palato molle, iperplasia dell’ugola)
– malattie genetiche (sindrome di Prader Willy);
– eccessivo peso corporeo (body mass index – BMI > 29); circonferenza
del collo maggiore di 41 cm nelle donne e 43 cm nell’uomo.
– Test o gradazione di Mallampati: visione delle strutture faringee nel
paziente seduto o supino a bocca spalancata e lingua sporta spontaneamente
e senza fonazione.
– Russamento .
– Sonnolenza diurna che può essere indagata con la Epworth Sleepiness
Scale (ESS).
– Cefalea mattutina.
– Modificazioni della personalità e deterioramento delle funzioni psichiche.
– Ipertensione arteriosa e/o aritmie cardiache.
– Presenza di ipotiroidismo e altre alterazioni ormonali e metaboliche.
Fattori strumentali (funzionali)
Si può sospettare una sindrome delle apnee ostruttive del sonno quando
il grafico della capacita vitale forzata o valutare la concomitante presenza di
una broncopneumopatia cronica ostruttiva che configura il quadro della overlap syndrome.
Anormalità dei gas ematici Fra i soggetti affetti da OSAS con normali test
di funzionalità respiratoria circa il 4,3% presenta ipercapnia diurna e il 6,5%
ipossiemia diurna 1-4.
Principi di trattamento
Trattamenti conservativi
– Rimozione delle condizioni favorenti le anomalie funzionali delle vie
aeree superiori durante il sonno
– 20 –
– Norme preventive: controllo ponderale, evitare alcolici, farmaci che
deprimono il tono dei muscoli delle vie aeree superiori.
– Dieta
– Stimolazione gastrica
– Il palloncino intragastrico o il bendaggio gastrico regolabile
– La terapia farmacologica: ridurre i fattori di rischio (congestione nasale, fumo, obesità), correggere i disordini del metabolismo(ipotiroidismo,
acromegalia).
– Dispositivi ortodontici: dispositivi di ritenzione della lingua o per l’avanzamento mandibolare.
La pressione positiva 5-8.
La CPAP (Continuous Positive Airway Pressure) con diverse interfacce
(maschera nasale o Olive o maschera oro-nasale) rappresenta la terapia di
elezione per le apnee ed ipopnee nel sonno.
L’auto-CPAP ha come caratteristica fondamentale l’autoregolazione delle
pressioni da utilizzare in base alle esigenze del paziente, alla sua posizione e
agli stadi del sonno.
Ventilatori a doppio livello di pressione (Bilevel)erogano flussi a doppio
livello di pressione positiva, una pressione inspiratoria (IPAP ) ed una pressione espiratoria (EPAP).
Le indicazioni secondo le linee guida AIPO sono:
– AHI > 20 o un RDI > 30 anche in assenza di sintomi;
– AHI tra 5 e 19 o un RDI tra 5 e 29 e in presenza di sintomi diurni o in
presenza di malattie cardiovascolari associate 5-8
Terapie chirurgiche
Queste sono per i soggetti giovani, russatori o con OSAS lieve/moderata, con BMI < 30 e con sede della ostruzione o del collabimento ben identificabile.
– La UvuloPalatoPharyngoPlasty (UPPP) 9 e La laser-assisteduvulopalatoplasty (LAUP)
– La radiofrequency-assisted uvulopalatoplasty (RA UP).
– La riduzione volumetrica della lingua.
– La osteotomia mandibolare.
– La miotomia e sospensione.
– La osteotomia e avanzamento maxillo-mandibolare.
– La tracheotomia,.
– La chirurgia nasale
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– 22 –
Ossigenoterapia a lungo termine e ventilazione meccanica
non invasiva
Josuel Ora
UOC Malattie dell’Apparato Respiratorio, Policlinico Tor Vergata, Roma
L’ossigenoterapia (OT), ovvero la somministrazione di supplementazione di ossigeno, è la terapia d’elezione dell’insufficienza respiratoria (IR).
Recentemente sono state pubblicate le nuove linee guida per l’ossigenoterapia a lungo termine della BTS che mettono in luce le indicazioni dell’ossigenoterapia nelle diverse condizioni e per le diverse patologie [1]. Attualmente
si riconoscono 5 diverse modalità di prescrizione dell’ossigeno: 1) l’OT a
lungo termine per l’IR cronica 2) l’OT notturna per l’IR durante il sonno, 3)
l’OT sotto sforzo, 4) l’OT ad uso palliativo per i pazienti con dispnea e patologie terminali e 5) l’OT somministrata per brevi periodi (minuti) utile per
alcune patologie specifiche quali ad esempio la cefalea a grappolo.
L’obiettivo principale dell’OT è quello di ridurre la mortalità, ma obiettivi
secondari sono il miglioramento della qualità di vita e la riduzione della dispnea.
La prescrizione più comune di OT è quella a lungo termine (LTOT).
Nonostante la diffusa prescrizione di questa terapia le evidenze scientifiche
sono scarse e si basano sostanzialmente su due studi (il NOTT e l’MRC)
degli anni ottanta [2,3]. Questi due studi hanno dimostrato che l’OT migliora la mortalità nei pazienti BPCO con una PaO2 inferiore a 55 mmHg o con
PaO2 tra 55-60 mmHg se presenti segni di cuore polmonare cronico quando
viene utilizzato per un tempo maggiore di 15 ore al giorno. Non ci sono evidenze che in pazienti con PaO2 la prescrizione di ossigneo migliori la sopravvivenza. Da questi due studi nascono le attuali indicazioni alla prescrizione
di ossigeno e per estensione e carenza di studi validati si attuano gli stessi criteri anche nella prescrizione di ossigenoterapia nelle altre patologie respiratorie e cardiache [1] .
Nell’insufficienza respiratoria con ipercapnia (IR di tipo 2) l’erogazione
di ossigeno al 100% con cannule nasali potrebbe peggiorare la condizione di
ipercapnia con acidosi respiratoria per la soppressione dei centri del respiro.
Nonostante questa osservazione sia basata su meccanismi fisiologici ben studiati, sia gli studi sopracitati che altri studi successivi hanno dimostrato che
un’ipercapnia grave si sviluppa solo in pochissimi pazienti BPCO, per tale
ragione, basandosi anche su criteri economici di spesa economica, l’OT deve
– 23 –
essere somministrata in prima istanza attraverso le cannule nasali e solo nei
pazienti che sviluppano ipercapnia l’erogazione deve avvenire attraverso
flussi di ossigeno prestabiliti (maschera venturi) [4,5].
Nei pazienti ipercapnici una soluzione alternativa può essere la ventilazione meccanica non invasiva. Ci sono diversi studi pubblicati che mostrano però
risultati contrastanti. Difatti mentre alcuni studi dimostrano un miglioramento
della sopravvivenza, altri dimostrano un peggioramento della qualità di vita. In
accordo con queste evidenze la ventilazione meccanica non invasiva (VMNI)
dovrebbe essere riservata solo a quei pazienti BPCO con acidosi respiratoria
ipercapnica o con frequenti accessi ospedalieri per IR ipercapnica [6].
Completamente diverso è per i pazienti con patologie neuromuscolari in
cui l’ossigenoterapia deve essere utilizzata solo qualora il disturbo non sia
corretto con la VMNI.
Moltissimi studi dimostrano un effetto positivo dell’ossigenoterapia
durante l’esercizio nel migliorare la tolleranza allo sforzo. Di rimando non
esistono studi che dimostrino che l’OT sotto sforzo migliori la mortalità. Per
tale ragione l’OT sotto sforzo dee essere prescritta in tutti i pazinti con IR
cronica per aumentare la quantità di ossigeno somministrata durante il giorno raggiungendo la soglia delle 15 ore, ma non deve essere prescritta routinariamente nei pazienti con IR sotto sforzo se non è presente una chiara evidenza che questa prescrizione ne migliori la qualità di vita [1].
L’OT nei pazienti terminali è frequentemente utilizzata per ridurre la
dispnea, ma anche questa modalità non viene confermata dalle nuove linee
guida, in quanto terapie farmacologiche o altre terapia quali ad esempio un
semplice ventilatore possono essere più efficaci nel migliorare la sensazione
di affanno.
L’OT è una terapia efficace, ma ha anche un impatto emotivo sul paziente ed economico per la società. La selezione del paziente sembra è sicuramente il punto focale della prescrizione dell’OT per evitare che da una terapia
efficace con importante impatto sulla qualità della vita e sul miglioramento
della dispnea, diventi un impedimento per il paziente nella vita relazionale e
sociale.
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– 25 –
L’ipertensione polmonare cronica tromboembolica
Carmine Dario Vizza
Centro Ipertensione Polmonare, Dipartimento di Malattie Cardiovascolari e
Respiratorie, Sapienza Università di Roma
Introduzione ed epidemiologia
L’ipertensione polmonare cronica tromboembolica (IPCTE) è una grave
forma di ipertensione polmonare che si può manifestare tra 1 ed il 4% di
pazienti che sopravvivono ad un episiodio di embolia polmonare (EP). Una
storia di pregressa trombosi venosa profonda può essere documentata in circa
il 60% dei pazienti con IPCTE.
Talvolta, il rapporto tra EP ed IPCTE non è ben definito: in alcuni pazienti non si riesce a riconoscere un episodio che possa essere riferibile ad una
EP. In tali casi, è spesso possibile identificare un evento (un dolore muscolare agli arti inferiori, una pleurite atipica prolungata, un ricovero ospedaliero,
un intervento chirurgico) seguito da una incompleta ripresa funzionale.
In un recente studio prospettico l’incidenza di IPTCE sembra essere
intorno al 4%. In questo lavoro gli autori hanno seguito 314 pazienti consecutivi con diagnosi di EP, con un follow-up medio di 8 anni, per valutare i
fattori di rischio per lo sviluppo di CTEPH.
L’incidenza cumulativa di CTEPH sintomatica era di 1.0% a sei mesi,
3.1% ad un anno e 3.8% a 2 anni. Non si osservavano casi di CTEPH dopo
i 2 anni di follow-up.
I fattori di rischio per la patologia:
– pregressa embolia polmonare (odds ratio, 19.0);
– età (odds ratio, 1.79 per decade);
– ampio difetto di perfusione (odds ratio, 2.22 per decile di decremento
di perfusione);
– embolia polmonare idiopatica (odds ratio, 5.70).
I risultati di questo studio enfatizzano il ruolo di episodi embolici recidivanti e di una situazione trombofilica come fattori di rischio per lo sviluppo
di IPCTE.
In quest’ottica, un aspetto rilevante è la prevenzione di nuovi episodi di
EP con una terapia anticoagulante adeguata.
Sintomi
Quando si instaura una IPCTE, la sintomatologia è analoga a quella delle
– 26 –
altre forme di ipertensione polmonare: dispnea da sforzo ingravescente,
ridotta capacità di esercizio, precordialgie, sincope. È stato rilevato un ritardo fino a 3 anni tra i primi sintomi e la diagnosi.
Allo stato attuale delle conoscenze non sono note le cause di un’evoluzione così subdola: è verosimile che concorrano un difetto del sistema trombolitico endogeno,5 nuovi episodi di tromboembolia, rimodellamento delle
arterie polmonari di grande e piccolo calibro.
L’aumento del post-carico ventricolare destro finisce per causare una
severa disfunzione sistolica in quanto il ventricolo destro ha scarse possibilità di adattamento, l’ ipertrofia è inadeguata e si instaura una dilatazione, con
comparsa di insufficienza valvolare tricuspidale e polmonare per dilatazione
degli anelli valvolari.
Quando sospettare una IPCTE
In mancanza di programmi di follow-up ecocardiografico dei pazienti
con EP l’elemento che dovrebbe fare emergere il sospetto clinico di IPCTE è
il riscontro di un peggioramento della dispnea in pazienti con episodi di EP
idiopatica e ampi difetti di perfusione nella fase acuta.
L’iter diagnostico
Una volta documentata la presenza di ipertensione polmonare all’ecocardiogramma Doppler, l’esame che permette di identificare la forma cronica
tromboembolica è la scintigrafia polmonare ventilo-perfusoria, che consente
di evidenziare la presenza di un “mismatch” ventilo-perfusorio 20 indicativo
di una patologia vascolare polmonare.
Negli ultimi anni è stato proposto l’uso della sola scintigrafia perfusionale per le difficoltà tecniche ed organizzative nell’esecuzione di una scintigrafia ventilatoria. Tale esame è stato sostituito da una radiografia del torace
standard che permette l’indentificazione di partologie parenchimali polmonari che riducono la ventilazione locale.
I pazienti con IPCTE presentano in genere difetti di perfusione multipli,
di regola bilaterali, delle dimensioni di almeno 1 segmento polmonare.
Il ruolo della TC angio è fondamentale per la diagnosi di IPCTE, con tale
esame è possibile rivelare materiale tromboembolico situato eccentricamente all’interno delle arterie polmonari prossimali dilatate, ingrandimento del
ventricolo destro, flusso collaterale tramite arterie bronchiali, esiti di infarto
polmonare ed alterazioni del parenchima polmonare da pneumopatia ostruttiva o restrittiva.6 23
– 27 –
Infine, l’esame emodinamico cruento va eseguito in tutti i pazienti in cui
sia indicato l’intervento chirurgico.
Terapia
Il trattamento di scelta della IPCTE prossimale è la endoarectomia polmonare polmonare, il trattamento medico “specifico” andrebbe riservato solo
ai casi di lesioni distali.
Terapia chirurgica
Il trattamento chirurgico della IPCTE consiste in un intervento di endoarterectomia polmonare (PEA) e trova le seguenti indicazioni:
– classe NYHA III o IV per dispnea;
– resistenze vascolari polmonari > 300 dynes x s x cm –5;
– trombi chirurgicamente accessibili.
La terapia chirurgica consente attualmente la rimozione di trombi cronici prossimali a livello dei rami principali, lobari o segmentari.
La controindicazione principale all’intervento consiste in una grave malattia polmonare (caratterizzata da un volume espiratorio forzato – FEV1 – inferiore al 30%) mentre l’età, la presenza di comorbidità, la concomitanza di coronaropatia o valvulopatia costituiscono un incremento del rischio, ma non controindicazione, così come una grave disfunzione del ventricolo destro.
L’intervento è realizzato in sternotomia mediana comporta by-pass cardiopolmonare, cardioplegia, ipotermia profonda, arresto circolatorio; e consiste nella rimozione di trombo organizzato e dotato di neointima, lasciando
intatta la media e la maggior parte dell’intima nativa.
Nell’immediato periodo post-operatorio, esclusi gravi problemi emorragici,
viene solitamente iniziata la terapia anticoagulante (che andrà mantenuta a
vita), ed inserito un filtro nella vena cava inferiore, ad eccezione dei pazienti in
cui l’embolia origina dagli arti superiori o dal cuore destro. La mortalità operatoria è attualmente < 10%. Abitualmente la PAP si riduce, la gittata cardiaca
aumenta, le resistenze polmonari diminuiscono entro 48-72 ore.
I pazienti con lesioni limitate a rami segmentari o subsegmentari non sono
candidati ideali per l’intervento di PEA, mentre quelli con lesioni trombotiche
solo distali sono destinati al trapianto di polmone o alla terapia medica.
Terapia medica
– 28 –
La terapia medica della IPCTE è indirizzata a ridurre il rischio di nuovi
eventi tromboembolici (terapia anticoagulante) e al trattamento dell’ipertensione polmonare con farmaci specifici. In questo ambito è stato recentemente approvato il Riociguat, uno stimolatore della guanil ciclato solubile, che ha
dimostrato efficacia nel migliorare le condizioni cliniche e l’assetto emodinamico in pazienti con IPCTE inoperabile o con ipertensione polmonare residua dopo l’intervento di PEA. Il farmaco ha un buon profilo di sicurezza e di
tollerabilità.
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TC ad alta risoluzione nello studio delle principali patologie
respiratorie
Carlo Catalano
Dipartimento di Scienze Radiologiche, Oncologiche ed Anatomo-Patologiche,
Sapienza Università di Roma
La TC ad alta risoluzione (HRCT) ha un ruolo centrale nello studio delle
principali patologie respiratorie.
Le richieste di HRCT hanno spesso lo scopo di approfondire un quadro
clinico non chiaro o che non trova corrispondenza con le indagini di primo
livello come l’RX del torace; in questo caso la sua importanza sta nel permettere di visualizzare porzioni di polmone che normalmente sono di difficile
valutazione con l’RX del torace o di apprezzare sfumate alterazioni interstiziali (ispessimento reticolare, micronoduli centrolobulari o addensamenti
groundglass) che non trovano spesso un corrispettivo nelle immagini radiologiche standard.
Un’altra importante parte di richieste è finalizzata alla diagnosi e caratterizzazione delle patologie polmonari diffuse. Esse sono un gruppo eterogeneo di patologie che spesso si presentano con caratteristiche cliniche sovrapponibili. Radiologi e patologi hanno cercato la chiave per avere la diagnosi
ma solo combinazione di pattern radiologici e distribuzione spesso permette di ottenere una lista di possibili diagnosi che comunque vanno correlate
con i dati clinici ed eventualmente confermate con il quadro istologico.
I principali pattern radiologici sono:
– pattern nodulare
– pattern settale
– pattern cistico
– pattern alveolare (ground-glass)
– pattern reticolare
– honeycombing
Il pattern nodulare è caratterizzato da noduli generalmente inferiori al
centimetro con distribuzione e caratteristiche variabili.
A sua volta può essere suddiviso in base alle caratteristiche e alla distribuzione nel contesto del lobulo polmonare secondario (SPL). Il SPL è la più
piccola unità strutturale del polmone delimitata da setti di tessuto connettivo,
a morfologia grossolanamente poliedrica e delle dimensioni comprese tra 1 e
2 cm. Ogni lobulo secondario è rifornito da un piccolo bronchiolo pre-termi– 30 –
nale e da una analoga diramazione dell’arteria polmonare che decorrono
parallelamente nella sua porzione centrale, e vengono pertanto definite centro-lobulari. Alla periferia, nel contesto dell’interstizio inter-lobulare, troviamo, invece, le diramazioni venose ed i vasi linfatici.
Il pattern nodulare si distingue nei seguenti subpattern.
– Noduli con pattern random: generalmente dovuti a patologie a diffusione ematogena, più numerosi in periferia e alle basi e possono avere un feeding vassel ovvero un vaso arterioso che arriva nel nodulo. Le patologie più
frequenti sono gli emboli settici o le metastasi polmonari.
– Noduli con pattern miliare: dovuti a disseminazione ematogena, piccoli (< 5mm) e troppo numerosi per essere contati con distribuzione random
all’interno lobulo polmonare secondario. La radiografia del torace può essere negativa per le piccole dimensioni dei noduli. La patologia che caratteristicamente causa questo quadro è la miliare tubercolare ma altre patologie
come le micobatteriosi atipiche e le infezioni virali e fungine possono avere
il medesimo pattern.
– Noduli con pattern centrolobulare: sono una manifestazione tipica di
malattie polmonari interstiziali bronchiolo-centriche o bronchiolitiche. Sono
localizzati nel core broncovascolare del SPL ad almeno a 5-10 mm dalla
superficie pleurica o dalle fessure interlobari o dai margini dell’SPL, generalmente a densità ground-glass ed associati ad altri segni di bronchiolo-ostruzione come aspetti tree-in-bud e attenuazione a mosaico (dovuta a fenomeni
di air trapping). Tali noduli sono comuni nelle patologie con interessamento
bronchiolare come la bronchiolite infettiva, la bronchiolite respiratoria, e la
polmonite da ipersensibilità subacuta.
– Noduli con pattern perilinfatico: localizzati intorno ai linfatici e alle
strutture che li accolgono (interstizio peri-broncovascolare, nell’interstizio
subpleurico e a livello scissurale), sono piccoli e ben definiti (2-5 mm) e si
associano spesso a coinvolgimento dei linfonodi mediastinici. Le patologie
che tipicamente si associano a tale pattern sono la sarcoidosi, l’inalazione di
particelle come la talcosi e la silicosi e la linfangite carcinomatosa.
Il pattern settale è caratterizzato da un ispessimento dei setti interlobulari dei SPL visibili come brevi linee nella periferia del polmone che arrivano
alla pleura. Possono avere diversa morfologia: sfumati, nodulari, irregolari.
Le diagnosi più comuni sono:
– Edema polmonare: sfumati.
– Fibrosi polmonare: irregolare.
– Linfangite carcinomatosa: sfumato o nodulare.
– 31 –
Si può associare ad opacità ground-glass dando un quadro definito
“Crazy paving” pattern inizialmente descritto nella proteinosi alveolare ma
successivamente riscontrato in altre patologie come la polmonite da
Pneumocistis jiroveci e la polmonite eosinofila cronica.
Il pattern cistico si caratterizza per la presenza di spazi contenenti aria (o
fluidi) con pareti più o meno definite. Per gravità si ha maggior stiramento delle
zone superiori quindi si localizzano prevalentemente a livello dei lobi superiori. Tutte le patologie che causano un pattern cistico aumentano il rischio di
pneumotorace. La patologia di gran lunga più frequente è l’enfisema polmonare. Altre patologie più rare, hanno caratteristiche specifiche come la granulomatosi a cellule del Langherans (associata a fumo, con multiple cisti dismorfiche)
e la Linfangioleiomiomatosi (solo nel sesso femminile, non associata a fumo).
Il pattern alveolare si può manifestare con opacità ground glass o con
consolidazione parenchimale.
Le opacità ground glass sono caratterizzate da aumento dell’opacità del
parenchima polmonare senza nascondere le strutture sottostanti e sono dovute a parziale riempimento degli spazi aerei o ispessimento dell’interstizio o
crescita tumorale con conservazione delle strutture parenchimali.
Nella consolidazione polmonare le strutture broncovascolari sono oscurate.
Le diagnosi più frequenti di opacità groundglass sono la polmonite atipica, l’edema polmonare cardiogeno o non cardiogeno, l’emorragia alveolare
diffusa, la polmonite da ipersensibilità, la polmonite eosinofila acuta. Nelle
forme croniche ritroviamo le patologie del connettivo che si presentano con
pattern di non-specific interstizial pneumonia (NSIP), la polmonite eosinofila cronica, la desqumative interstitial pneumonia (DIP), la lymphocytic interstitial pneumonia (LIP) e la proteinosi alveolare primitiva.
Il pattern reticolare è caratterizzato da innumerevoli piccole opacità
lineari intralobulari. Con la progressione della patologia si osservano ispessimento dei setti e bronchiectasie da trazione. Le principali patologie che si
presentano con questo pattern a livello prevalentemente dei campi inferiori
sono la fibrosi polmonare idiopatica (IPF) che evolve in honeycombing e la
NSIP. La polmonite da ipersensibilità cronica e la sarcoidosi possono avere
un aspetto simile con interessamento prevalente dei campi superiori.
L’honeycombing rappresenta l’end-stage lung disease con polmone
distrutto e sostituito da multiple piccole cisti (3-10mm fino a 2.5 cm) ben
definite della stessa grandezza imbricate tra di loro a grappoli associato a
bronchiectasie da trazione.
– 32 –
La diagnosi è difficile perché in genere rappresentano quadri avanzati di
una patologia polmonare e la biopsia in genere non è dirimente. E’ un criterio fondamentale per effettuare la diagnosi radiologica di IPF ma può essere
ritrovato anche in forma meno evidente nella NSIP, nell’asbestosi, nella sarcoidosi al IV stadio, nella polmonite da ipersensibilità cronica o come esito
all’utilizzo di radiazioni ionizzanti a scopo radioterapico.
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– 33 –
Terapia del dolore nel paziente internistico: la rete del dolore
o il dolore nella rete?
Ranieri Vito Marco *, Stefano Brauneis **
* DAI Anestesia e Rianimazione; ** Centro Hub Medicina del dolore cronico
Policlinico Umberto I, “Sapienza” Università di Roma
Secondo la più recente definizione di IASP, Il dolore è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale.
La coscienza dello stimolo dolorifico nasce da un sistema percettivo
somato-sensoriale che trasforma qualsiasi noxa algogena in dolore per l’individuo.
Il sistema di trasmissione del dolore ha, gerarchicamente, varie componenti e sistemi che rappresentano il target dei trattamenti, nuovi e futuri, in
terapia del dolore acuto e cronico.
Soprattutto il dolore cronico rappresenta, per i suoi connotati di patologia
lunga e duratura, una sfida per gli specialisti di terapia del dolore e per il team
che si crea attorno ad essi, composto da figure con varie specializzazioni, formazione e compiti.
Il dolore cronico, la sua gestione e la sua cura, sono alla base di enormi
spese da parte dei paesi dell’UE e, nel particolare, da parte del Sistema
Sanitario Italiano. La normativa e la regolamentazione del rapporto sanitario-terapia del dolore è stata aggiornata e modernizzata dalla Legge 38 del
2010 che determina i livelli organizzativi, le professionalità e le competenze
alla base della rete di gestione del paziente con dolore.
L’Hub di terapia del dolore diventa un centro fondamentale a cui, in
modo capillare e sinaptico, afferiscono le informazioni relative al paziente
che diviene protagonista del percorso diagnostico-terapeutico. All’Hub si
riferiscono le attività di spoke periferici e i contributi del MMG che operano
sul territorio come primum movens del percorso assistenziale.
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Valutazione prognostica e terapia della polmonite acquisita
in comunità
Marco Falcone
Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma
I fattori di rischio per l’esito letale di una polmonite sono stati ben definiti in era preantibiotica: esiste una correlazione diretta con l’età, la presenza
di leucocitosi marcata, l’estensione delle alterazioni radiologiche, e l’assunzione d’alcolici. Studi recenti continuano a mostrare che la maggior parte di
questi aspetti clinici, inclusi l’età e l’alcoolismo, costituiscono dei chiari fattori di rischio. È stato inoltre messo in evidenza come la presenza di uno stato
confusionale o di delirium al momento della diagnosi sia un fattore indipendentemente associato a morte. Un ruolo decisivo inoltre è svolto da patologie
di base quali i tumori, la riduzione delle difese immunitarie, la presenza di
malattie neurologiche, di scompenso cardiaco congestizio o di diabete mellito. Anche la presenza di precedenti episodi di polmonite in anamnesi costituisce un fattore di rischio aumentato. Fattori di rischio specifici sono costituiti dalla presenza di infezioni causate da bacilli Gram negativi o da
Staphylococcus aureus, e la polmonite post-ostruttiva o da aspirazione.
Curare a domicilio o ospedalizzare un paziente con CAP rappresenta una
importante decisione, che assume soprattutto un alto valore prognostico. Per
quanto si debba sempre considerare che i criteri suggeriti dalla letteratura non
sostituiscono il giudizio clinico, il medico che fa diagnosi di polmonite deve
attivare un processo decisionale in cui vengono applicati criteri razionali e
validati scientificamente. L’applicazione degli indici di seguito richiamati ha
infatti dimostrato di essere una strategia vantaggiosa sia per diminuire i ricoveri inappropriati per CAP, consentendo di individuare una maggiore percentuale di pazienti che possono essere gestiti a domicilio senza che ciò influisca negativamente sul decorso clinico, sia per definire la gravità della patologia e inquadrare i pazienti a maggior rischio di complicanze.
Il principale strumento di stratificazione prognostica della polmonite
acquisita in comunità è il Pneumonia Severity Index (PSI), validato su circa
40.000 pazienti negli Stati Uniti. In base al punteggio PSI i pazienti con CAP
possono essere stratificati in diverse classi di rischio associate a una mortalità crescente a 30 giorni; un punteggio maggiore o minore di 90 discrimina i
pazienti da ricoverare o che possono essere trattati a domicilio. Numerosi
studi hanno comprovato l’efficacia di questo punteggio. L’applicazione di
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uno score come il PSI nella pratica clinica ambulatoriale e anche in ambiente di Pronto Soccorso può però risultare complessa, per la varietà delle informazioni richieste e la necessità di parametri laboratoristici oltre che clinici.
Seguendo la tradizione per cui le raccomandazioni delle società scientifiche
britanniche forniscono raccomandazioni di agevole applicazione nella pratica clinica, le linee guida della British Thoracic Society del 2004 hanno più
recentemente stabilito dei criteri di ospedalizzazione che hanno trovato notevole consenso, dimostrando percentuali di specificità e sensibilità paragonabili a quelle del sistema PORT. Nel punteggio CURB-65 ad ognuna delle
variabili considerate viene assegnato un punto e la somma del punteggio definisce la classe di rischio.
Anche il CURB-65 tuttavia ha dei limiti di applicazione poiché tende a
sottostimare il rischio di morte o di eventi avversi nelle classi di rischio più
basse (0-1) e inoltre attribuisce un grosso peso all’età del paziente e tende ad
avere una minore sensibilità in pazienti giovani con polmonite grave. Per
ovviare ai limiti di questi punteggi è stato recentemente proposta una variante del CURB-65, chiamato Expanded-CURB, che è uno score di rischio che
oltre ai parametri del CURB-65 tiene conto anche di altri 3 fattori prognostici ovvero l’aumento dell’LDH, la piastrinopenia < 100.000/mm3 e l’ipoalbuminemia. L’expanded CURB ha dimostrato di avere una efficienza superiore
al CURB-65 ma rimane uno strumento molto più semplice e rapido rispetto
al PSI.
Il trattamento della polmonite è differente in base alla presenza o meno
di fattori di rischio e alla gravità delle condizioni di base. Uno schema riassuntivo di trattamento è riportato in Tabella.
– 36 –
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Gestione clinica della sepsi
Claudio Maria Mastroianni
Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza Università di Roma
La sepsi rappresenta una importante causa di morbidità e mortalità nei
paesi industrializzati e i cioveri per tale patologia negli USA hanno superato
quelli per infarto del miocardio e ictus. Si calcola a livello mondiale un’incidenza annuale di più di 30 milioni di casi di sepsi con un numero di decessi
pari a 6 milioni di casi annui.
Attualmente la sepsi viene definita come una grave disfunzione d’organo
causata da un disregolata risposta dell’ospite ad una infezione. Lo shock settico è invece un subset di sepsi in cui profonde anormalità circolatorie, metaboliche e cellulari sono associate ad un più elevato rischio di mortalità rispetto alla sola sepsi. Nella nuova definizione di sepsi non viene più inclusa la
sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS) considerata troppo
poco sensibile e specifica. Al contrario è stato preso in considerazione un
altro parametro il qSOFA score (quickly Sepsis Organ Failure Assessment)
che è molto utile per definire la prognosi nei pazienti con sepsi. Il qSOFA si
compone di tre elementi: SBP <100 mmHg; RR> 22 respiri/min; alterato
stato mentale. La presenza di 2 o più qSOFA criteri in un paziente con sospetta o presunta infezione è altamente indicativo di una prognosi sfavorevole.
L’utilizza dei criteri del qSOFA sono utili per il clinico al fine di considerare
la possibilità di una infezione se non precedentemente identificata, di valutare la presenza di una disfunzione d’organo, di iniziare una terapia antibiotica
appropriata (o anche di fare una escalation), di considerare di incrementare la
frequenza del monitoraggio del paziente o inviarlo in ICU. In terapia intensiva è meglio utilizzare il SOFA score che comprende anche altri parametri di
laboratorio e utilizzo o meno di vasopressori. I pazienti con shock settico possono essere clinicamente identificati se, nonostante manovre rianimatorie,
richiedono vasopressori per mantenere una pressione superiore a 65 mmHg e
i lattati sono maggiori di 2 mmol/l.
In definitiva la gestione clinica della sepsi è una emergenza medica che
deve essere prontamente riconosciuta al fine instaurare tempestivamente una
terapia antibiotica appropriata (entro 1 ora), controllare il focus infettivo,
instaurare se necessario un supporto ventilatorio/rianimatorio con supporto
emodinamico e nutrizionale.
– 38 –
Bibliografia
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Singer M, Deutschman CS, Seymour CW, et al. The Third International
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– 39 –
Le infezioni fungine in Medicina Interna
Mario Venditti
Dipartimento di sanità Pubblica e Scienze Infettivologiche, Sapienza Università di Roma
Le infezioni fungine, in particolare le forme sistemiche o invasive (inavasive fungal infections, IFI), rappresentano un problema in continua evoluzione della Medicina Moderna. Cinquanta anni i funghi erano quasi una
curiosità di laboratorio: in pratica si conoscevano solo la meningite criptococcica, come una patologia molto rara, e le micosi endemiche che non rappresentavano un problema in Italia.
Alla fine degli anni 60, cominciarono le prime segnalazioni nei pazienti
emato-oncologici in trattamento mielosoppressivo: vennero descritti i primi
quadri sindromici di candidosi disseminata con il classico quadro di impegno
epato-splenico, “riconoscibile in ecografia o in tomografia computerizzata
(TC), con il classico aspetto a formaggio svizzero”, ed i primi casi di aspergillosi/mucormicosi invasiva con il quadro radiografico o TC di semiluna
d’aria indice della angio-invasione con seguente necorsi mista coagulativacolliquativa.
Per circa 20 anni anni le IFI sono rimaste di pertinenza emato-oncologica, poi sono iniziati i primi casi nei trapiantati d’organo e nei pazienti degenti in Unità di Terapia Intensiva (UTI). A cavallo del passaggio di secolo una
pubblicazione di Luzzati et al (1) mostrava come le candidemie nei pazienti
in UTI erano 105 volte più frequenti che nei pazienti in Medicina Interna e
23 volte più frequenti che nei pazienti in chirurgia. Quindici anni dopo nella
realtà di alcuni ospedali italiani le candidemie hanno la stessa frequenza nei
pazienti Medicina Interna ed i UTI (2): come è possibile? In realtà l’identikit
dei nuovi pazienti degenti in Medicina Interna è spesso un aggregato di fattori di rischio per candidemia: età avanzata, impiego di catetere intravascolare centrale, o più frequentemente periferico, necessità di nutrizione parenterale totale, malattie croniche (diabete mellito, insufficienza renale, neoplasie), trattamenti immunosoppressivi e pressione antibiotica (3). Quest’ultima
non solo seleziona Candida, ma è causa spesso di colite da Clostridium difficile: il danno infiammatorio mucosale in presenza di una intensa colonizzazione intestinale da Candida, non fa che favorire la traslocazione microbica
del fungo e la successiva candidemia (4).
La mortalità per candidemia nel paziente di Medicina Interna è circa
40%, e la morbidità è legata al rischio di metastasi secondarie, di cui la loca– 40 –
lizzazione endoftalimitica è forse la più frequente: un esame del fundus oculi
è irrinunciabile in questi pazienti all’esordio della candidemia e, successivamente a tre settimane, soprattutto quando la terapia prescenta è una echinocandina che non è in grado di penetrare a livello oftalmico (5).
Il trattamento delle candidemie deve essere precoce (possibilmente entro
48 ore dall’esordio dell’inefezione) e, nei pazienti con instabilità emodinamica con farmaci fungicidi come le echinocandine o la amphtericina B liposomale. Gli azoli, il particolare fluconazolo, rimangono farmaci di scelta se il
paziente torna stabile e/o non ha avuto un esordio con shock settico.
Per le candidemie a partenza dall’apparato urinario, le echinocandine
sono controindicate a causa della non eliminazione attraverso la via renale: in
questi casi bisogna preferire fluconazolo (non voriconazolo anche esso non a
eliminazione urinaria) o la amphotericina B. (5)
Recentemente si è assistito anche ad un incremento importante della
aspergillosi invasiva in Medicina Interna (6). Sono stati riconosciuti nuovi
fattori di rischio, oltre la granulocitopenia da citostatici, quali la terapia steroidea cronica, la cirrosi epatica di grado avanzato e la broncopneumotapia
cronica ostuttiva. È stato anche riconosciuto un ruolo del virus influenzale
H1N1, in grado di accellerare la espressione della patologia fungina nei
pazienti predisposti inducendo a sua volta un aumento del grado di immunodepressione (6,7).
I quadri radiologici nel paziente internistico sono diversi da classico pattern angioinvasivo sopra descritto per i pazienti neutropenici. In questi casi il
pattern “aero-invasivo” è caratterizzato da addensamenti parabronhiali,
impegni tubulo-acinari “ad albero in fiore” opacità a vetro smeriglio perilesionale.
Se non precocemente inquadrata e trattata anche la aspergillosi invasiva
può “accellerare” in una malattia intrattabile: la diagnosi precoce si basa sul
sospetto clinico nei pazienti predisposti con quadro radiologico compatibile
corroborato dall’isolamento del fungho e di un elevato titolo del surrogato
marker, galattomannano, nel liquido di lavaggio bronchiale.
La terapia di scelta è rappresentato dal voriconazolo, somministrabile per
endovena e per os, ma la cui adeguatezza va assolutamente validata dalla
documentazione di livelli di valle sierica compresi tra 1 mg/L e 5 mg/L. Nei
casi gravi, fino a documentazione di livelli adeguati, va considerata la terapia
associata con amphotericina B liposomale e/o direttamente questo ultimo farmaco se non si può monitorare la terapia con voriconazolo.
– 41 –
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– 42 –
Progressi delle nuove terapie dell’epatite C
Gloria Taliani
Dipartimento di Medicina Clinica, Sapienza Università di Roma
Negli ultimi anno abbiamo sperimentato un avanzamento formidabile
nella cura dell’epatite cronica e della cirrosi da virus dell’epatite C(HCV)
secondaria all’utilizzo di alcune molecole con attività antivirale diretta sul
virus . Queste molecole hanno un profilo di tollerabilità e sicurezza del tutto
nuovo per cui il loro impiego ha esteso la possibilità di cura anche alle forme
cliniche più avanzate. I regimi attuali, somministrati con o senza ribavirina,
permettono di raggiungere percentuali di risposta terapeutica sostenuta nell’ordine del 90% in quasi tutte le categorie di pazienti trattati, incluse quelle
storicamente difficili da curare quali i cirrotici, i coinfetti con HIV ed i
pazienti con precedenti fallimenti ad interferone e ribavirina, garantendo un
profilo di sicurezza e tollerabilità molto favorevole (1-2). Questo ha cambiato il paradigma dell’eleggibilità per cui al momento attuale virtualmente non
ci sono pazienti in cui la terapia viene sconsigliata o differita. L’unica categoria nella quale il risultato terapeutico è più limitato, con percentuali di eradicazione che si attestano tra il 70 e l’80%, sono i cirrotici scompensati. In
questi pazienti il bisogno terapeutico è rilevante perché la progressione della
malattia prelude all’exitus, ma fin dalle prime esperienze di trattamento è
emerso che l’eradicazione non determina un arresto della progressione e non
scongiura la morte in tutti i casi, per cui si può assistere all’aggravamento
delle condizioni cliniche del paziente e alla sua morte nonostante sia avvenuta la negativizzazione del virus, e purtroppo questo comportamento è stato
osservato anche utilizzando i farmaci di ultima generazione quali la combinazione velpatasvir e sofosbuvir che pur essendo molto efficace, non sempre
consentono di invertire la progressione di malattia (3). Ciò ha sottolineato
che esiste un punto di non ritorno nella malattia scompensata da HCV che da
una parte rende futile il trattamento antivirale in quanto non è compatibile
con un cambiamento significativo della prognosi del paziente. Dall’altra ribadisce con forza la necessità di trattare tutti i cirrotici prima dello sviluppo di
scompenso o di complicanze gravi che rendano futile il trattamento.
I vantaggi dell’eradicazione virale sono ben riconosciuti e vanno dall’arresto della progressione di malattia che avverrebbe in assenza di terapia, al
rimodellamento della fibrosi, anche nelle sue fasi avanzate, con possibile
regressione della cirrosi (4), al miglioramento del profilo metabolico glicidi– 43 –
co e lipidico (5), alla riduzione dei rischi extra-epatici di malattia HCV correlata – che in questi pazienti includono il rischio di malattie linfoproliferative e cardiovascolari – alla riduzione del rischio di sviluppare epatocarcinoma
(HCC). Il costo delle nuove molecole ha tuttavia imposto un vincolo per il
loro utilizzo, riservandolo ai soli pazienti con malattia avanzata, corrispondente ad un grado di fibrosi F3-F4, o ai pazienti con malattia extra-epatica
significativa che giustifica l’urgenza del trattamento.
Esistono ancora delle zone d’ombra, quali ad esempio la necessità di
usare ribavirina in alcuni pazienti per aumentare l’efficacia complessiva del
trattamento, ma probabilmente anche questi problemi gestionali troveranno
una migliore definizione con l’arrivo di nuove molecole antivirali.
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REALIZZAZIONE GENERALE: FENICIA EVENTI
GRAFICA E STAMPA: ROMANO Bottini - Speed Art