Inchieste

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È l’ICIJ, il più grande network di giornalismo
investigativo al mondo. Fatto di mastini
dell’informazione, gole profonde, esperti
hi tech: a caccia di soldi, potere e scoop.
Come Panama Papers. Un insider italiano
ci racconta il dietro le quinte
di leo sisti foto di Carlos Spottorno
Quindici tonnellate
di monetine, ovvero
8 milioni di franchi
svizzeri da 5 centesimi
in un forziere di Basilea.
M
Mister Sisti? Chiamo da Washington,
Usa. Sono la direttrice esecutiva dell’ICIJ, l’International Consortium of Investigative Journalists. È un network di
giornalismo investigativo. Si occupa di
inchieste transnazionali, in inglese: durano almeno 6-7 mesi, anche più. Le va
di far parte della nostra squadra?».
È un giorno di maggio del 2000. Quella telefonata d’Oltreoceano, insolita,
arriva mentre sono a Milano, nella redazione dell’Espresso. Che cosa sarà
mai questo Consortium, in acronimo
ICIJ? E come sono giunti a me? Sedici
anni dopo quell’antefatto, ecco entrare in scena Panama Papers, l’ultima serie di una nuova forma di giornalismo
investigativo: un’autentica rivoluzione nel panorama dei media.
Maud Beelman spiega poi perché si
sta interessando a me. Tutto merito di
un avvocato americano, appena ritornato in patria da Roma. Dove, pochi
giorni prima, lo avevo intervistato.
Non un personaggio qualunque, Clifford E. Douglas: una delle fonti dietro
le quinte del film The Insider, allora appena uscito nelle sale italiane, regista
Michael Mann, attore principale Al
Pacino. Un’avvincente pellicola sulle
rivelazioni di un manager della Brown
& Williamson, società del tabacco, sugli additivi chimici introdotti in alcune
marche popolari per creare dipendenza dalla nicotina. Non solo. In quel
periodo Douglas è anche consulente
in una causa civile contro 4 multinazionali di sigarette, accusate di vendere prodotti cancerogeni. Di qui il processo che le vedrà soccombere, costringendole a pagare 206 miliardi di
dollari, rateizzati in 25 anni, agli Attorney General, cioè i ministri di Giustizia, di 46 Stati americani come risarcimento delle spese mediche per curare
i malati di tumore ai polmoni. L’avevo
talmente tempestato di richieste di
precisazioni che Mr. Douglas aveva indicato il mio nome a Beelman: «Se cer-
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Qui sopra e nella pagina
accanto. Banchieri
e uomini d’affari
nella City di Londra.
chi un reporter dall’Italia, c’è Leo Sisti. Ha insistito molto per controllare
certe mie frasi. È stubborn, tenace».
L’avventura con l’ICIJ inizia così, per
caso. Prosegue, d’estate, con un viaggio a Washington, per conoscere
Maud e comprendere meglio la struttura del gruppo. Che era nato tre anni
prima, nel 1997, su un progetto del
suo fondatore: Charles “Chuck” Lewis,
già producer di ABC News, ma soprattutto della trasmissione della CBS
News 60 minutes. ICIJ è però soltanto
l’approdo di un processo iniziato nel
1990, quando Chuck lancia, prima da
casa sua poi da un palazzo nel centro
di Washington, il Center for Public Integrity (CPI), con lo slogan: Investigative Journalism in the Public Interest, giornalismo investigativo nel pubblico interesse. Slogan che annuncia indagini
brucianti: lasceranno tutte il segno.
Come del resto riconoscerà uno dei
più celebri consiglieri del board, Arthur Schlesinger Jr., storico, due volte premio Pulitzer, autore di saggi tra
cui uno, importantissimo, su John F.
Kennedy: «Il Center for Public Integrity costituisce un elemento vitale
nell’arsenale della democrazia».
ICIJ è quindi figlio del Center. Di
più. Per la sua nuova creatura Lewis
ha in mente un piano più ambizioso,
allargandone i confini: non più solo
gli Usa, ma il mondo. Come? “Arruolando”, per cooptazione, alcuni giornalisti internazionali: dovranno condurre indagini transborder, al di là
delle frontiere. E ci sono firme illustri come David Burnham del New
York Times, che con i suoi articoli sulla
corruzione della polizia ha ispirato il
film Serpico; Horacio Verbitsky, argentino, editorialista e autore di libri
che hanno scoperchiato gli orrori
della dittatura militare nel suo paese;
Ahmed Rashid, pakistano, uno dei
primi a raccontare l’Afghanistan, i
Talebani e Osama Bin Laden.
Al Consorzio vige un metodo, allora
in Italia pressoché sconosciuto.
Dlui ottobre 2016
Quello di far lavorare insieme i giornalisti, anche 10 o più: tutti si scambiano notizie, avanzano chiarimenti in
un forum interno, che funge da trait
d’union. E, ancora, si ricorre ai factcheckers: ovvero coloro che passano
al setaccio i contenuti dei pezzi, paragrafo per paragrafo, domandando ai
reporter le origini. Dal 2013 in avanti,
in rapida sequenza, ICIJ ha sfornato
uno scoop dietro l’altro. Offshore Leaks, la prima denuncia sull’uso di offshore sparse nei più lontani paradisi
fiscali; China Leaks, il velo sollevato sui
conti offshore dei parenti più stretti
dei vertici politici cinesi; Luxembourg
Leaks: gli accordi fiscali compiacenti
per favorire gli affari delle multinazionali in Lussemburgo; Swiss Leaks, la lista con i depositi di nomi eccellenti,
sottratti dal tecnico informatico Hervé Falciani presso la filiale di Ginevra
della banca HSBC.
Panama Papers è frutto di quel metodo.
Perfino di una rigida disciplina. Tutti
hanno letto quali sono stati i risultati
della più grande fuga di informazioni
finanziarie della storia, custodite negli
Dlui ottobre 2016
Paradisi
fiscali,
società di
comodo,
conti
nascosti: dal
Lussemburgo
alla Cina
dietro le più
grandi
inchieste
degli ultimi
anni c’è
questa rete
di reporter
archivi dello studio legale Mossack
Fonseca (Mossfon, in gergo) di Panama, la maggiore “fabbrica” di offshore
del pianeta, un’architettura che favorirebbe l’evasione fiscale. Più di 11 milioni di documenti, distribuiti in mezzo a una montagna di terabyte: 2,6.
Ovvero 2.600 gigabytes, oltre 3.500 CD
Rom. Dentro, c’è di tutto: 21 paradisi
fiscali dove sono state registrate, grazie
al lavoro di una cinquantina di uffici
periferici di Mossfon dislocati in ogni
continente, 210mila società offshore,
sospettate di occultare agli agenti delle
tasse patrimoni per centinaia di miliardi di dollari; 14mila tra banche, studi
legali, fondazioni e fiduciarie, che
hanno collaborato per la creazione
delle offshore; 800 italiani con le loro
brave compagnie esposte al sole.
Ma i dati sensibili di quella “fabbrica”
devono essere capiti, valutati, interpretati. Per questo motivo i due giornalisti tedeschi della Süddeutsche Zeitung di Monaco, che per primi hanno
raccolto i leaks messi a loro disposizione da un anonimo, in codice “John
Doe”, si sono rivolti a Washington, alla
centrale operativa di ICIJ per un supporto tecnico. Non c’è voluto molto a
Gerard Ryle e a Marina Walker Guevara, direttore e vicedirettore, per gettarsi a capofitto nella nuova avventura,
che sta per aprire un nuovo capitolo
nella lotta a chi scappa dal fisco, e accettare la proposta di Bastian Obermayer e Frederik Obermaier, già membri
di ICIJ. Prima di tutto, orientarsi nelle
carte panamensi. E fornire il knowhow: in sostanza schierare i propri talenti. Perché prima di identificare chi
sono i veri titolari o beneficiari di offshore, a volte rappresentati da impiegati di Panama di Mossfon, a volte da
“uomini di paglia”, a volte addirittura
Software
potenti per
decifrare
nomi in
codice
e cifre. Più
un sistema
complesso di
chiavi
d’accesso
alle varie
banche dati
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da nominee shareholder, azionisti fiduciari, cioè di facciata, occorre imparare a
penetrare nei più reconditi meandri
dei file. E questo è di competenza dei
superesperti, i veri maghi di ICIJ, alle
prese con una difficile impresa: scarnificare gli strati più nascosti dei bytes e
renderli intelligibili ai giornalisti che
dovranno tradurli in articoli. Spetta a
loro dipanare le matasse più complicate e offrire la chiave di lettura. Tutto
questo però non è sufficiente. Occorre
“l’arma letale”. Non un bazooka, ma
un sofisticatissimo software, elaborato
da un’azienda australiana, Nuix Investigator, in grado di “sistemare” dati
caotici, disporre in ordine immagini
passati allo scanner. È in uso a servizi
segreti, avvocati, polizia e alla SEC, la
Security and Exchange Commission,
organismo regolatore della Borsa Usa.
C’è un problema: è molto costoso. Ma
i capi di ICIJ riescono a strappare una
licenza, gratis, dagli australiani.
Si comincia. Il primo passo lo muovono Gerard e Marina. Mandando i loro
due “inviati speciali” a Monaco: Mar
Cabra, spagnola, data scientist, e Rigoberto Carvajal, della Costa Rica, il programmatore, vero genio. Uno che,
come il mister Wolf di Pulp Fiction di
Quentin Tarantino, «risolve problemi». Mar e Rigoberto sbarcano nella
città della Baviera nel maggio 2015,
ma non puntano su un hotel per fermarsi alcuni giorni. No, affittano un
appartamento. Solo che quando Bastian e Frederik ne varcano la soglia
strabuzzano gli occhi, come diranno
nel loro libro Panama Papers-Gli affari
segreti del potere (Rizzoli Editore):
«Quando arriviamo, ci sentiamo nella
parodia di un film di spionaggio. Tutte le imposte sono chiuse, due laptop
su due tavoli, cavi sparsi dappertutto,
hard disk esterni che lampeggiano,
monitor accesi, computer che ronzano. E, in mezzo a tutto ciò, chiavette
Usb, tazze di caffè e zaini».
La mossa successiva consiste nel chiamare a raccolta i giornalisti del network, 190 in 65 paesi. Ma non basta.
Bisogna allargare il giro al maggior
numero possibile di colleghi, raggiungendoli anche nei posti più sperduti.
L’obiettivo è coinvolgere nuove testate. Gerard e Marina selezionano chi
avvicinare. Dal giugno 2015 partono
gli inviti a vecchi e nuovi componenti
di ICIJ, fino a comprendere 387 giornalisti, che rappresentano più di 100
testate. Ttra le più autorevoli, oltre a
Süddeutsche Zeitung, BBC, Guardian, Le
Gli uffici della Corte
di Giustizia europea,
in Lussemburgo.
Monde, il giapponese Asahi Shimbun.
L’Espresso è tra i primi a ricevere la convocazione. Marina mi avvisa: «C’è una
nuova storia per te e il tuo settimanale». Poi mi manda il contratto, con obblighi di confidenzialità e di esclusiva
riguardo al materiale che mi sarà dato,
il cosiddetto “offshore data set”: il pacchetto di offshore. Non si parla ancora
di Panama Papers, nome che sarà scelto dopo. Il progetto invece, all’interno, è battezzato Prometheus, l’eroe gre-
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co che rubava il fuoco agli dei per regalarlo agli uomini, e, per questa
trasgressione, fu punito da Zeus. Felice intuizione. Simbolo della ribellione, si attaglia bene al compito che il
consorzio si è assunto.
Viene il momento in cui chi partecipa
a Prometheus riceve la magica password.
Il sistema, per contrastare attacchi
esterni, richiede un altro passaggio. Si
tratta di consultare sul proprio
smartphone il numero originato da
Google Authenticator, software di autenticazione basato su algoritmi, e di
riportarlo insieme a password e “nome
utente”. Finalmente si può entrare in
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Blacklight, motore di ricerca dedicato,
tipo Google. Si può restare connessi
anche ore, ma se uno si ferma per più
di 15 minuti salta la connessione e
deve ridigitare password e tutto il resto. Avvertenza basilare. A differenza
di quanto avvenuto in Offshore Leaks,
quando a ogni reporter veniva consegnata una “lista paese” (contenente,
per l’Italia, oltre 7mila nomi già schedati), ognuno di noi deve compilare
un suo elenco, sulla base di propri criteri. Per questo scopo, ho colto spunto
dalla lettura delle cronache politiche,
giudiziarie ed economiche per concentrarmi su una mia personale rosa:
politici e loro portaborse, industriali,
imprenditori, banchieri o finanzieri.
Si scrive un nome, a caso, e si vede se
salta fuori qualcosa, un’offshore ad
esso collegata. Si scopre così se la persona cliccata è director (amministratore), shareholder (azionista) o beneficial
owner (titolare) di quella società. È disponibile anche un altro strumento,
molto utile: Linkurious, un software
che visualizza in forma grafica ogni riferimento alle persone cliccate via
Blacklight, ma solo per quanto riguarda il possesso azionario di offshore.
Come si organizzano le comunicazioni tra giornalisti all’interno del pro-
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getto Prometheus? Tramite una piazza
virtuale. È il Global I-Hub, dove ognuno segnala notizie, suggerisce accorgimenti per migliorare la ricerca su
Blacklight, fa circolare i nomi più
ghiotti. Anche qui, per avere accesso,
sono richiesti nome utente, password
e un altro numero ricavato da Google
Authenticator. Il forum è utile quando ci s’imbatte in abbreviazioni. Che
cosa vorranno dire ACT, SHE, DIS o
INACT? E l’acronimo PEP? C’è una
risposta per tutto. ACT è una società
active, quindi attiva. SHE sta per shelf :
una offshore già formata e pronta ad
essere offerta a chi interessato. DIS
corrisponde a dissolved, una società ormai sciolta. INACT, cioè inactive, è una
offshore non più necessaria. Un PEP è
una politically exposed person: un vip di
politica, finanza o industria. Presto ci
si rende conto che per Mossfon i
“clienti” non sono gli utilizzatori finali
dello studio, ma gli “intermediari”,
quei 14mila soggetti menzionati sopra, tra istituti di credito, finanziarie,
avvocati di grido.
L’attività è frenetica. Nascono dozzine di gruppi di lavoro che si specializzano su certi argomenti, suscettibili di
essere trasformati in articoli: la vera
storia dei due fondatori dello studio
panamense, Jurgen Mossack e Ramon
Fonseca; la mafia italiana; Putin e i
suoi amici; il Sud America; il caso
Islanda; il finanziamento del terrorismo; i mercanti d’arte; la FIFA e i suoi
dirigenti arrestati per corruzione; il
Medio Oriente; l’uomo di paglia del
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Quasi 400
giornalisti
coinvolti, più
di 100 testate
in tutto
il mondo:
ma il segreto
dei Panama
Papers
ha retto
(Foto dell’ag. Panos Pictures/LUZ)
il dream team
I protagonisti principali dell’ICIJ, il network di giornalismo investigativo con sede
a Washington e “inviati speciali” nel mondo. Da sinistra: Marina Guevara, vicedirettore
del consorzio; il direttore, Gerard Ryle; i due giornalisti della Süddeutsche Zeitung
Frederik Obermaier e Bastian Obermayer, che hanno dato il via a Panama Papers.
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Foto di Contrasto - Getty
L’insegna di uno degli
uffici legali di Londra,
la principale piazza per
gli affari in Europa.
dittatore siriano Assad; Cia e spie. E
altri. Restano dubbi interpretativi? Saranno fugati il 7-8 settembre 2015 in
un meeting a Monaco, presso la sede
della Süddeutsche Zeitung, dove si riuniscono cento giornalisti provenienti da
quattro continenti. Qui, in un edificio
tutto vetri di recente costruzione, gli
esperti danno lezioni su come leggere
milioni di dati, consigliando di restringere le ricerche grazie ad accortezze semantiche: asterischi, slash e linee guida. Ognuno di noi anticipa i
nomi più succosi su cui sta smanettando. Io cito un commercialista ingaggiato dai fratelli siciliani Graviano, vicini ai boss corleonesi Totò Riina e
Bernardo Provenzano. Due russi anticipano il loro scoop: hanno scovato il
prestanome di Vladimir Putin, un violoncellista suo amico da decenni. Un
americano si è imbattuto in un intrigo
internazionale, protagonisti un gallerista di New York e un francese che rivendica la proprietà di un quadro di
Modigliani. Segue sondaggio. Come
definire il nuovo lavoro di ICIJ? C’è
chi propone Panama Leaks, sulla scia
dei precedenti. Bocciato. Prevarrà Panama Papers, un richiamo ai Pentagon
Papers, i documenti che hanno portato alla luce le bugie del segretario
americano alla Difesa Robert Mc Namara, durante la presidenza di Richard Nixon, sulla guerra in Vietnam.
Il 3 aprile 2016, dopo un impegno durato quasi un anno, i Panama Papers saranno pubblicati in tutto il mondo.
Come si sia evitata una fuga di notizie
su questo esplosivo dossier, in mano a
circa 400 giornalisti, e nessun giornale, al di fuori della ristretta cerchia di
addetti, l’abbia saputo, ha dell’incredibile. La barriera di segretezza ha retto.