le resistenze delle donne - Osservatorio Scolastico Provinciale di Pisa

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le resistenze delle donne - Osservatorio Scolastico Provinciale di Pisa
LE RESISTENZE DELLE DONNE
“le donne sono visibili in ogni punto della storia, purché si abbiano gli strumenti per
vederle” (Anna Bravo)
LE ITALIANE
Partecipano all’incontro (22 febbraio 2006):
Rosa Dello Sbarba, Assessora alla Pubblica Istruzione della Provincia di Pisa
Sonia Pieraccioni, Centro per la didattica della Storia
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Anna Bravo, Università di Torino
Alessandra Peretti
L’idea di un ciclo di conferenze sul tema delle “resistenze delle donne”, volutamente minuscolo e al
plurale, è partita proprio dall’interesse per la Resistenza intesa al maiuscolo, quella italiana, nel
senso però più ampio e comprensivo che ha oggi il termine “resistenza civile” e di cui parleremo fra
poco. Ma l’interesse si è presto inevitabilmente spostato su altre aree del mondo che hanno
conosciuto, in epoche a noi più vicine, fenomeni analoghi di resistenza disarmata e civile di fronte
all’oppressione e alla violenza. Infatti dall’Italia della seconda guerra mondiale, di cui parliamo
oggi, ci sposteremo la settimana prossima all’Argentina degli anni ’70, per raccontare una
resistenza in apparenza particolarmente fragile, quella delle madri cui i figli vennero strappati dalla
ferocia di una dittatura che seppe farsi forte del silenzio e della complicità dei paesi democratici,
oltre che della paura e dell’acquiescenza dei cittadini argentini, per torturare e fare sparire
trentamila suoi oppositori, in gran parte giovani. La rivolta delle madri di Plaza de Mayo appare in
partenza così isolata e inerme, così ricattabile dalla propria materna paura per la sorte dei figli, che
la forza che ha dimostrato e il ruolo che ha svolto appaiono incredibili. Vi ricordo che le madri tra
un mese commemoreranno il 30° anniversario del golpe che ha cambiato radicalmente la loro vita e
da poco hanno ricevuto un importante riconoscimento, proprio qui in Italia.
Poi parleremo della resistenza delle donne di Bosnia, che si duplica nelle due terribili esperienze
dell’assedio di Sarajevo e del massacro di Srebrenica. Il primo si svolge sotto l’occhio indifferente
del mondo che assiste al cecchinaggio degli inermi e alle stragi delle granate serbe dalle proprie
poltrone televisive per più di tre anni, dal ‘92 al ‘95. E anche qui le donne agiscono secondo le
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infinite forme della resistenza civile: cercando di contenere la violenza, difendendo cose e beni
dalla distruzione, soccorrendo chi ne ha bisogno, procurandosi i mezzi per la sopravvivenza dei loro
cari. Ma è una forma specificamente femminile di resistenza anche il continuare a truccarsi delle
donne di Sarajevo di cui parlano i giornali dell’epoca, il loro desiderio di un rossetto o di vestirsi
con eleganza, perfino mentre trascinano lungo le salite della città le carrozzine piene di taniche
d’acqua o fanno la fila per la spesa sotto l’incombere delle granate. Un modo per dire agli assedianti
e a tutti: “Non vi illudete, non abbiate paura, noi siamo sempre le stesse”.
La seconda resistenza di cui parleremo a proposito della Bosnia, il 10 marzo, è quella tragica che
riguarda le donne di Srebrenica, a migliaia rimaste sole, spesso coi figli piccoli, dopo il massacro di
8.000 uomini, padri, figli, mariti: a fare i conti col dopo, con la necessità di superare i traumi
terribili della guerra e riprendere a vivere, pur permanendo la loro difficile identità di profughe. E
parleremo poi delle altre donne, di cui Irfanka Pasagič che verrà qui da Tuzla è l’emblema, che
hanno offerto a tutti i sopravvissuti, donne, uomini e bambini, l’assistenza sanitaria, psichiatrica e
materiale per permettere che questa sopravvivenza avvenisse.
Infine l’ultimo incontro, il 16 marzo, ci permetterà di conoscere meglio una resistenza di oggi,
quella delle donne iraniane impegnate a difendere o a riconquistare spazi di libertà e di autonomia
che l’affermarsi del fondamentalismo islamico rende sempre più difficili e precari, anche dove
prima erano riconosciuti. E se questo mondo è stato conosciuto in Italia soprattutto attraverso un
film cupo e claustrofobico come Il cerchio di Jafar Panahi, non sarà inutile ricordare che la
resistenza delle donne iraniane è in gran parte, in un paese giovane e istruito, resistenza delle
studentesse: e chi guardi le foto delle loro manifestazioni di protesta non può non essere colpito
dalla vivacità dei loro atteggiamenti e dall’eleganza con cui fanno scivolare sui capelli quei foulard
colorati che portano al posto del velo cui sono obbligate.
Per concludere, vorrei dire che far conoscere alcune importanti forme di resistenza delle donne, che
le accomuna al di là delle differenze di età, di paese, di oppressione subita, di contesto storico, ci è
sembrato un modo anche per anticipare, in clima di 8 marzo, il ricordo di un evento per cui le donne
italiane si sono a lungo battute e che saremo presto chiamate a celebrare il 2 giugno prossimo, 60°
anniversario del primo voto femminile della storia italiana. Mi auguro che questa celebrazione sia
anche un sostegno e un omaggio a tutte le resistenze delle donne di oggi.
Dopo la presentazione del nostro programma, do la parola, per i saluti alle intervenute, alle donne
che qui rappresentano le istituzioni organizzatrici: Rosa Dello Sbarba, assessora alla Pubblica
Istruzione della Provincia, e Sonia Pieraccioni, presidente del Centro per la didattica della Storia.
Mi spiace che Giovanna Zitiello, presidente dell’Associazione Casa della donna di Pisa, sia assente
per sopravvenuti impegni.
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Rosa Dello Sbarba
Quando abbiamo parlato con Alessandra Peretti, la direttrice del Centro per la didattica della Storia,
di come iniziare questo incontro, ho preferito che si entrasse subito nel merito, per far capire che
cosa presentiamo e che cosa vorremmo fare insieme - insieme alla comunità, insieme alle scuole dal momento che è nostra intenzione fare un percorso comune.
Sono contenta davvero che ci siamo trovate qui oggi. Sono contenta che l’Assessorato all’Istruzione
- e dirò perché la presenza dell’Assessorato all’Istruzione mi sembra importante - abbia lavorato
insieme con il Centro per la didattica della Storia, che è qui rappresentato dalle responsabili, da
Alessandra Peretti, appunto, e da Sonia Pieraccioni, presidente. Ringrazio inoltre la presidente del
Consiglio Provinciale, che è in sala, come segno anche di una condivisione nel modo di lavorare e
nella scelta degli argomenti da proporre.
Mi ha fatto inoltre piacere che, come ha proposto Alessandra Peretti, questa iniziativa fosse
organizzata insieme alla Casa della Donna, un’associazione storica che è parte, direi, della
Provincia-istituzione, e con la quale ci interessa continuare a collaborare in maniera stretta e
organica.
Come ho appena detto, voglio anche spiegare perché secondo
me è importante che sia
l’Assessorato all’Istruzione, insieme con tutte queste altre persone e associazioni, a promuovere un
ciclo di iniziative sulle resistenze delle donne. Noi stiamo cercando di lavorare in continuità con
quanto ho trovato quando ho avuto l’incarico di seguire questo Assessorato: di lavorare per
ampliare le opportunità formative, per gli studenti prima di tutto, ma anche per gli insegnanti e per
la comunità. Quindi di offrire momenti di lavoro, di seminario, di approfondimento insieme, non
tanto come conferenze, seppure di alto livello, accademiche e fine a se stesse, quanto come tappe di
un lavoro che progredisce, che nasce da una elaborazione, da una programmazione che
condividiamo e che le professoresse che sono qui presenti conoscono. Esso va dallo studio della
Costituzione al vasto progetto che sosteniamo sul recupero della memoria: che ovviamente nasce
dall’opportunità che ci è stata offerta con l’istituzione del Giorno della Memoria e poi si allarga ad
altre iniziative che le scuole stesse propongono, promuovono e per cui ci chiedono supporto. E’ il
progetto attorno al quale è nato il Centro per la didattica della Storia, come momento di confronto
tra insegnanti, perché è importante che siano gli insegnanti stessi, quelli che lavorano nella scuola,
ad innovare la didattica e quindi presentare contenuti nuovi, oltre che nella scelta dei temi, nei modi
con cui si studia e si insegna. Ecco come si inserisce nell’attività dell’Assessorato questa iniziativa,
che consiste in un ciclo di conferenze a mio parere di altissimo livello: e per questo desidero fare i
complimenti a chi concretamente le ha realizzate e le realizzerà nelle prossime settimane. Si tratta
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quindi di un’occasione per affrontare dei temi che sono importantissimi per una didattica
innovativa, i temi delle donne, che appartengono particolarmente a noi tutte.
Ma quest’anno non finiremo con questo di parlare di memoria e di diritti. Nei nostri programmi c’è,
appunto, come è già stato detto, la volontà di commemorare la nascita della Repubblica e il voto
alle donne, all’interno di un lavoro sulla Costituzione fatto nelle scuole, che si deve allargare a
trattare anche della Costituzione Europea, per sviluppare anche su questo la sensibilità e la
conoscenza dei nostri ragazzi e ragazze. Per cui la nostra volontà è di continuare in questo modo,
con questo impegno. Vi ringrazio davvero di essere qui stasera e ringrazio le organizzatrici per aver
messo insieme, attraverso il programma di questo ciclo, una rappresentazione delle donne che non è
comune, uno spaccato diverso dal solito del ruolo delle donne.
Sonia Pieraccioni
Anch’io sono veramente contenta di vedere realizzata questa idea che avevo già da un po’ di tempo,
e devo ringraziare sia Rosa Dello Sbarba che Alessandra Peretti che hanno subito condiviso questo
progetto, che era comunque piuttosto complesso per i contatti che ha richiesto in varie parti del
mondo. Vi voglio ora raccontare com’è nata questa idea.
L’idea è nata da uno spettacolo teatrale che penso tanti di voi avranno visto, quello di Ottavia
Piccolo, proprio sulle donne di Plaza de Mayo. In particolare all’interno dello spettacolo si
raccontava un episodio che mi ha colpito molto perché, tra l’altro, parlava dei campionati mondiali
di calcio che si sono svolti in Argentina nel 1978, poco dopo che c’era stato il golpe. Chiaramente il
calcio e lo spettacolo vanno avanti a tutto, anche ai diritti, e quindi c’è stato come un
annebbiamento, non solo delle coscienze ma anche dell’informazione.
Il fatto particolare è che, quando l’Argentina è scesa in campo, mancava all’appello uno dei
giocatori più significativi della Nazionale e nessuno degli speakers che raccontava questa partita perché poi la partita fu vista in tutto il mondo - si curò di spiegare come mai un giocatore così
significativo non giocava la partita iniziale del campionato del mondo. Bene: questo giocatore era
desaparecido, la notte era stato sequestrato ed era sparito.
Questo mi ha fatto veramente capire come si riesca, in un certo senso, ad annebbiare le coscienze.
Le coscienze poi sono state risvegliate dalle madri, che vedevano sparire giorno dopo giorno i
propri figli, senza sapere dove erano, che fine avevano fatto, e solo il loro coraggio di donne e di
madri ha fatto sì che nel mondo si sapesse - non subito, ma dopo un po’ di tempo - quello che stava
accadendo. Queste madri coraggiose tutti i giorni, col loro fazzoletto bianco, con le loro foto,
andavano in piazza, anche loro rischiando di essere arrestate, ed hanno portato avanti una battaglia
assolutamente impari senza mai perdersi di coraggio.
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Io credo che tante donne nel mondo stiano facendo quello che hanno fatto le madri di Plaza de
Mayo, stiano combattendo per i diritti di tutti attraverso un lavoro costante, forse anche fuori dalla
ribalta, tanto che nessuno ne sa niente. Credo che invece sia necessario conoscere tutto questo,
perché quando c’è una riduzione dei diritti, c’è una riduzione degli spazi pubblici, le donne sono le
prime che ne risentono e che hanno la necessità di fare qualcosa. Quindi sono le prime ad essere
direttamente coinvolte.
Basta pensare alla battaglia delle donne afghane e alla promozione dell’iniziativa “Un fiore
per Kabul” che, almeno, ha fatto sì che il mondo conoscesse quello che stava accadendo. Questo
veramente credo che sia necessario anche per noi, perché noi siamo convinte di aver fatto passi
avanti, di vivere in una società dove ci sono pari opportunità, pari diritti, però mi piacerebbe che ci
fosse – oltre a un approfondimento storico che riguardi il nostro paese - anche la consapevolezza
che i tempi non sono sempre quelli, cioè che le situazioni cambiano e quindi che l’insegnamento di
altre donne può servire anche a noi.
Alessandra Peretti
Adesso vi presenterò brevemente l’argomento di oggi e il DVD sulle donne di Carrara che verrà
proiettato subito dopo. Nel frattempo arriverà da Torino la nostra oratrice, la storica Anna Bravo,
che del tema di cui parliamo oggi si occupa da moltissimi anni. Da tanti anni che, quando io le ho
proposto di venire a parlarcene, mi ha detto: “Non ne posso più di questo argomento, ormai mi
occupo di altro...”. Ma comunque è stata poi contenta di venire a Pisa, a cui la legano anche rapporti
di studio e di amicizia del passato.
L’idea di partire dal tema di oggi, la Resistenza con la R maiuscola, nasce dalla sensazione che qui
a Pisa, e in particolare nelle scuole, si sia parlato finora poco di Resistenza al femminile, nonostante
tutto il lavoro sulla memoria fatto dalle scuole negli ultimi anni e l’impegno di alcune classi su
singole figure di donne, come Licia Rosati o Livia Gereschi. Viste per altro più come vittime della
violenza nazifascista, che come espressione di una Resistenza al femminile.
Il fatto è che sia il discorso pubblico sulla Resistenza che l’immaginario collettivo che la stessa
storiografia hanno accantonato per decenni le molte storie vissute nel corso dell’ultima guerra da
civili, deportati, internati militari, sfollati, donne, per far prevalere su tutto la figura del partigiano
combattente, maschio e armato. Se voi pensate anche a come sia recente, da un certo punto di vista,
il discorso su Auschwitz, sulla memoria e sui campi di concentramento, capite che c’è stata tutta
una serie di censure, almeno fino agli anni ’70. Le stesse donne che avevano fatto la scelta della
resistenza armata, tra le quali per altro solo una minoranza aveva veramente usato le armi, come del
resto è successo agli uomini, sono state per decenni presentate non come partigiane a tutti gli effetti,
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ma col termine generico e riduttivo di staffette; e la loro opera, cui pure si è sempre reso omaggio, è
stata intesa solo come un contributo o una partecipazione alla Resistenza vera e propria, che era
dunque qualcosa di altri, cioè una questione di uomini.
Non voglio dilungarmi su questo, di cui ci parlerà con molta maggiore competenza Anna Bravo, ma
certo nel 1976 la storia di dodici partigiane piemontesi raccontata da Anna Maria Bruzzone e
Rachele Farina si intitolò La Resistenza taciuta, e questo è indicativo di come erano andate fino ad
allora le cose. Occorreranno altri venti anni perché sempre la Bruzzone con Anna Bravo
pubblichino In guerra senz’armi. Storie di donne 1940-45, non più dedicato alla resistenza
combattente, ma, come dicono le autrici, alla zona grigia delle donne comuni, di quelle che non
hanno scelto. Si tratta di quella che la storiografia impara allora a chiamare resistenza civile: che
usa il coraggio morale, l’inventiva, la duttilità, la capacità di tessere rapporti per contenere la
violenza degli uni e degli altri, per impedire le distruzioni, per assistere chi ne ha bisogno. Non solo
le donne, ma principalmente le donne ne sono protagoniste e la prima manifestazione forte di questo
fenomeno è l’assistenza ai soldati sbandati dopo l’8 settembre, quell’attività tesa a soccorrere,
sfamare, nascondere, rivestire che ebbe caratteristiche di massa.
Nella ricerca su questi temi ha avuto di recente un ruolo significativo una giovane studiosa
scomparsa prematuramente nell’agosto scorso, a cui desidero dedicare il nostro incontro di oggi.
Non so quanti dei presenti abbiano conosciuto l’autrice del documentario che ora vi presentiamo e
che si riferisce a un episodio importante di Resistenza al femminile nelle nostre zone. Parlo di
Francesca Pelini, che ha studiato a Pisa col prof. Pezzino e che univa alle capacità e serietà di
storica, che sono testimoniate anche da questo lavoro, una disponibilità e un calore umano di cui
quanti l’hanno conosciuta sentono dolorosamente la mancanza. Di lei si parlerà più estesamente nel
corso di un convegno che il prof. Pezzino, che oggi non ha potuto essere presente, intende preparare
per maggio. Questo suo lavoro nasce dal recupero alla storia di un episodio avvenuto a Carrara nel
luglio del ’44, quando all’ordine tedesco di evacuazione della città, motivato dalla necessità di
liberare da presenze scomode la zona di operazioni prossima alla linea gotica, su cui i tedeschi si
apprestavano a resistere per quasi un anno, risposero le donne con una manifestazione di protesta
che bloccò definitivamente l’evacuazione. Il video, che mette efficacemente insieme storia e
memorie, è nato dalla collaborazione di Francesca Pelini con un altro nostro amico attento agli
episodi spesso sconosciuti di storia locale, il regista Francesco Andreotti, che ringraziamo della sua
presenza, oltre che del suo impegno. Ringraziamo anche le edizioni Plus che ci hanno permesso la
proiezione di oggi.
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Viene proiettato il DVD di Francesca Pelini e Francesco Andreotti “Le radici della Resistenza.
Donne e guerra, donne in guerra. Carrara, Piazza delle Erbe, 7 luglio 1944” (ed. Plus).
Anna Bravo
Vi ringrazio dell’invito, anche perché mi fa piacere tornare su questi temi, avendo tra l’altro la
sensazione che ci siano in generale molte richieste sull’argomento di oggi. Il che vuol dire che c’è
una specie di circolo virtuoso tra partigiane e deportate, studentesse, donne delle istituzioni
rappresentative, storiche di prima e seconda generazione, che mi sembra una cosa positiva. Forse le
ricerche sono andate avanti e hanno stimolato una serie di riflessioni anche delle protagoniste:
infatti alcune delle cose che ho sentito nell’ultima parte del filmato erano legate ad un dibattito consapevolmente o meno, questo non importa.
In questo periodo, in questi anni, c’è il rischio che il problema del rapporto donne-armi, che è
davvero un rapporto difficile, complesso, ambivalente, perda il suo aspetto così problematico,
perché ci siamo abituati a vedere le donne che fanno parte degli eserciti regolari, purtroppo vediamo
anche le donne terroriste. Quindi c’è il rischio che questa problematicità si dissolva, finisca in una
accettazione poco critica. Io penso che riandare alle nostre partigiane, alle deportate, alle donne che
hanno portato le armi ed a quelle che non le hanno portate, ci serva anche a capire come sono
complicate le cose e che novità ha rappresentato la Resistenza nella storia delle donne e nella storia
dei movimenti di liberazione.
Ci sono alcune caratteristiche da tener presenti. Parlo dello sfondo della guerra, che è la seconda
guerra mondiale, naturalmente: una guerra totale, una guerra che impegna tutte le risorse
economiche, che tende a subordinare la società al fronte, una guerra di forte impatto ideologico, in
cui da una parte ci sono le potenze democratiche e dall’altra c’è il nazifascismo. In mezzo l’Unione
Sovietica, col suo ruolo un po’ strano perché nel ’39 si allea con Hitler e nel ’41, attaccata da Hitler,
si allea con le potenze democratiche. Quindi è una guerra che vede contrapposta un’idea di
convivenza libera, con i limiti naturalmente che questo può avere, e invece il peggio del peggio sul
piano della violenza, della gerarchia delle persone, delle classi e delle “razze”. E’ una guerra di
sterminio, con i sei milioni di ebrei uccisi nei vari campi, i deportati politici, ma anche gli zingari,
gli omosessuali. E’ una guerra che vorrebbe nell’ideologia hitleriana rimodellare l’umanità, e per
questo si parla anche della politica nazista come di bio-politica.
In questo quadro complesso le donne per la prima volta partecipano a livello di ampie minoranze ai
movimenti di resistenza. C’erano già state donne partigiane, combattenti, nella guerra di Spagna,
ma era in un solo Paese. Questo invece è un fenomeno europeo ed è un fenomeno rilevante per gli
equilibri politici, per l’immagine della Resistenza e per la stessa coscienza delle donne. Nel filmato
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ho sentito una signora che diceva: “Ma noi non abbiamo dato un contributo, noi proprio eravamo
dentro”. Ed ha ragione: per decenni si è sempre parlato di contributo delle donne alla Resistenza,
come se fosse una cosa in più. Un contributo può esserci o non esserci. Invece oggi, da un po’ di
tempo, abbiamo rifiutato questa formula che riduce le donne ad un’appendice o un supporto. Il fatto
che lo dica anche quella signora mi fa pensare che è proprio così: loro si sono sentite ferite di essere
considerate delle componenti non essenziali, che appunto danno un contributo e basta.
Dove sono dunque le donne nelle Resistenze europee? E’ più facile dire dove non sono. Le donne
sono dappertutto: nel combattimento, nella logistica, nelle azioni di salvataggio, nelle
manifestazioni pubbliche, negli scioperi. Dov’è che non sono? Non sono nei posti di grande potere
e di grande prestigio. Si potrebbe dire “di grande/medio”: casomai, sono in piccoli posti di potere.
Non parlo di potere in senso negativo, intendiamoci, ma solo nel senso del luogo dove si decide: lì
le donne non ci sono. Il che è significativo perché io non attribuisco alla dirigenza partigiana una
perversa volontà misogina, non era così. Era invece un’arretratezza non solo italiana - anche se
l’Italia si distingueva in questo - che faceva sì che non si comprendesse l’importanza delle
possibilità che una donna in ruoli di decisione poteva aprire.
Una delle cose importanti che voglio aggiungere è che con la seconda guerra mondiale la presenza
delle donne - non solo delle partigiane, ma delle donne in generale - all’esterno della casa, anche
soltanto per andare a fare borsa nera, a cercare dei viveri, a chiedere notizie dei parenti, fa sì che
quello stereotipo vecchio e rigido che vede le donne identificate con il privato - la casa, la
domesticità, la famiglia - e gli uomini con la politica e con le armi viene pesantemente incrinato.
Naturalmente anche per il fatto che le donne portano le armi. Non sono la maggioranza le donne che
usano le armi, ci sono donne che rifiutano di portarle, come Lidia Menapace per esempio; però ce
ne sono e combattono come i maschi, probabilmente anzi meglio, perché quando una si sente il
nuovo arrivato che ha delle cose da dimostrare - cosa che io spero non capiti più alle giovani, ma a
quelle della mia età è successo in tante situazioni - può essere anche molto più brava di un uomo, e
ce ne sono state tra le partigiane combattenti.
Questa frattura dello stereotipo sul piano materiale è vistosa. Si diceva che le donne avrebbero
dovuto essere identificate con la casa, ma in realtà le strade dell’Europa sono piene di donne, spesso
coi bambini al seguito, cariche di bagagli, ecc. Partigiane, non partigiane. Spesso le partigiane sono
mischiate alle altre. Una caratteristica delle donne - e questa solo delle donne - è che spesso la
partigiana combattente fa anche parte dei Gruppi di difesa della donna, che erano organizzazioni
tendenzialmente unitarie, il più possibile unitarie, che lavoravano nella società civile. C’erano
persone che un po’ stavano in banda e un po’ si preoccupavano di organizzare le azioni dei Gruppi,
e non solo dei Gruppi: spesso le donne si mettevano insieme non tanto per ideologia politica quanto
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per rabbia, per tutto quello che si può provare durante una guerra come quella, che era una guerra
contro i civili. Quindi c’è un misto molto interessante tra azione organizzata, quella dei Gruppi di
difesa e dei CLN, e azione che non voglio definire “spontanea”, perché non lo era, era piuttosto
un’azione “concertata in altri modi”: per esempio tra amiche, tra parenti, tra colleghe, tra operaie
che lavoravano nella stessa fabbrica. Sono forme di organizzazione estremamente importanti, che
però non hanno l’imprimatur della politica. Su questo tornerò più avanti anche per spiegare perché
di donne si è parlato abbastanza poco.
Quindi le donne sono ovunque, fanno irruzione nella sfera pubblica, ma la cosa singolare è che la
divisione tra maschi identificati con la sfera pubblica e donne identificate con la sfera privata
nell’opinione comune regge ancora. Gli esempi non sono soltanto italiani. Il fatto che ci siano
giovani donne che portano le armi è uno scandalo, una stranezza, una stravaganza, qualcosa che
quasi tramortisce le persone.
Vi faccio due esempi. Nuto Revelli racconta di un soldato italiano che in Russia ad un certo punto
vede arrivare un carro armato della Resistenza russa, che aveva anche mezzi pesanti. I soldati sono
delle donne con delle grosse trecce bionde. Lui resta tramortito e pensa: “Ma cosa fanno queste
signorine...?” e quelle signorine che guidavano il carro armato lo fanno prigioniero.
Quest’altra è una storia piemontese sulla quale molte donne hanno riso, dopo. Correva voce tra i
tedeschi che in una certa valle del cuneese ci fosse una comandante partigiana straordinariamente
bella, straordinariamente feroce e con gli occhi di ghiaccio, che si chiamava Giovanna. Questa voce
ha circolato per un bel po’. Nessuno l’ha smentita perché non si smentisce una menzogna. Difatti
era una menzogna: non esisteva nessuna partigiana Giovanna. Esisteva un comandante che si
chiamava Giovana di cognome, ma l’immaginario maschile era talmente sconvolto all’idea della
donna-guerriera, del mito della guerriera, che Giovana era diventato Giovanna, Giovanna era
diventata un capo, una donna bellissima, pericolosissima, un’icona, sostanzialmente, anche per il
nemico. Quindi l’ostinazione a non vedere il rivolgimento delle cose era davvero diffusa, se si
creavano questi strani contorcimenti mentali.
Bisogna dire che anche i partigiani non erano immuni da questa ideologia e che questo è uno dei
casi in cui a volte la base è più indietro della dirigenza. Io nella mia esperienza politica - e questo lo
dico anche per farmi un po’ conoscere - sono cresciuta pensando che la base avesse quasi sempre
ragione e che fosse sempre più avanzata delle dirigenze. Ci sono invece dei casi, in particolare nella
Resistenza sul tema delle donne, in cui non è così. La base è fatta di ragazzi che, tra l’altro, sono
cresciuti in epoca fascista. E’ tremenda, a volte, la base, tant’è che ci sono dei comandanti
partigiani, citati da Claudio Pavone, che scrivono circolari dicendo: “Basta. Le donne sono uguali a
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noi. Smettetela con questi atteggiamenti”. C’è un conflitto, perché non è facile accettare che una
giovane donna venga nella tua sfera, in quella che tu ritieni la tua.
Quindi anche sul fatto di prendere le armi si aprono contraddizioni non piccole e bisogna essere
donne particolarmente decise per ottenere di portarle, di usarle o, addirittura, di comandare una
brigata.
Ce n’era una nell’Ossola, nell’alto Piemonte, che si chiamava Elsa ed era di famiglia antifascista:
molto bella, molto “assertiva”, come si dice oggi, molto decisa. Elsa si presenta alla banda
partigiana e dice: “Io sono qua per combattere, non sono qua per lavarvi i calzini, non sono qua per
farvi da mangiare. Se volete queste cose, fatevele da voi. Io sono qua per sparare. Se non sparo,
buongiorno e buonasera, me ne vado”. A questo punto, considerato anche il piglio di questa
ragazza, Elsa viene accettata e dimostra di essere particolarmente brava, direi quasi feroce data la
situazione di allora: tant’è che la sua squadra, che era una volante, si chiama “Elsinki” dal suo nome
di battaglia che era Elsinki, da Elsa.
Quindi, come vedete, c’è tutto un pullulare di spinte molto diverse: esistono stereotipi, esistono
spinte a superarli ed esistono inerzie enormi, che coinvolgono anche persone che ci sono care e che
sono care alle partigiane. Però le cose sono andate così. Possiamo dire francamente che in
quest’ambito la dirigenza ha tentato di muoversi nel senso giusto, ma io penso che non l’abbia fatto
con molta decisione, e del resto la base in Piemonte era particolare, in Emilia forse la situazione era
più facile. In Piemonte è quella che è, una base maschilista, formatasi in un’ideologia machista, e
quindi pensa che le donne non debbano portare le armi, debbano servire per i lavori logistici o,
addirittura, per cucinare, rammendare, cucire...: questi tipi di lavori.
Una cosa che mi sta a cuore dirvi, però, è che quasi tutte le donne - partigiane, non partigiane,
donne cosiddette comuni, donne di classe popolare, donne di estrazione borghese - si rendono
perfettamente conto che questo stereotipo che identifica le donne con il privato esiste e regge
ancora, a dispetto della situazione, e se ne servono.
Ci sono moltissime storie - vere, vissute, raccontate - di donne che passano i posti di blocco
giocando il ruolo femminile fino in fondo. Se sono giovani, fanno la ragazzina svanita, che
ridacchia, che magari fa un po’ il filo al giovane tedesco e gli offre una sigaretta, un pezzo di
pane.... Fa quella che casca dalle nuvole, sostanzialmente. Oppure, se è un po’ più grande, magari fa
la mamma che deve tornare a casa di fretta e quindi: “Non fatemi perdere tempo, ho il bambino a
casa...”. Il bambino può esserci o non esserci, però è il lasciapassare. E così in molti altri modi, per
esempio con i documenti nascosti sotto un corredino da neonato nella valigia. Si spera che quelli del
posto di blocco aprano, vedano gli indumenti da neonato e non continuino a rovistare. Oppure con i
documenti nascosti nella fasciatura del neonato. Quindi le donne usano spesso questa tensione tra
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sfera politica e materiale e sfera dei simboli della cultura e la usano anche i partigiani maschi, i capi,
che spesso mandano le donne e le ragazzine a fare un trasporto di armi, o di documenti delicati,
perché pensano che siano meno sospettabili. Bisogna anche dire che non sempre è così. Le donne lo
sperano, sono molte che sperano di passare attraverso i posti di blocco esibendo i simboli della
femminilità: ma non tutte passano. Questo va detto con molta forza, altrimenti non si vede l’aspetto
drammatico della situazione: nove passavano, tre non passavano. I militari volevano vedere cosa
c’era sotto il corredino, le mettevano in un angolo e le perquisivano: potevi essere la più brava
attrice, ma quando questo avveniva c’era poco da fare. L’importante però è questo uso intelligente e
spregiudicato dello stereotipo che identifica le donne con la casa e la domesticità. E questo viene in
parte capito dai partigiani all’epoca, ma poi viene dimenticato.
Io vorrei però parlarvi piuttosto della resistenza non armata, non perché quella armata non sia
importante, anzi oggi è importante parlarne per una serie di motivi, ma perché le donne sono più lì,
più presenti in quest’altra forma di resistenza, che usa anziché le armi il coraggio morale, la
furbizia, l’abilità, la capacità di manipolare le persone, come ne casi che vi dicevo, facendosi
passare per quello che non si è.
Voi avete visto con la lotta di Carrara un caso classico di donne che fanno barriera contro un
comando che avrebbe distrutto completamente il tessuto della città e che riescono ad averla vinta:
sono in parte donne dei Gruppi di difesa, in parte donne che si mettono insieme a questo scopo.
Questo è uno dei casi più tipici di uso della forza d’urto non armata. Non è detto che sia non
violenta, spesso le armi non ci sono solo perché le donne non le hanno materialmente, o non le
saprebbero usare. Sono soprattutto le donne a fare barriera e questa è una vecchissima tradizione.
Nell’Inghilterra sei-settecentesca, quando c’erano tumulti contadini, o andavano davanti le donne, o
andavano davanti uomini vestiti da donna. Sempre con quell’illusione che le donne destino meno
sospetto, che siano colpite meno duramente.
Comunque questo di Carrara è proprio un caso classico di resistenza non armata, gestita
dalle donne, vinta dalle donne, che si oppongono ad un comando strapotente. Dal punto di vista
militare è chiaro che non avrebbero potuto assolutamente vincere, il che dimostra che spesso le lotte
non violente hanno più successo di quelle violente, con le armi. E’ una cosa difficile da far entrare
nella testa delle persone, ma è così.
Le donne poi sono molto presenti nel lavoro di salvataggio: parlo degli ebrei, ma anche dei
disertori, dei prigionieri alleati usciti dai campi di concentramento dopo l’8 settembre, dei tantissimi
sbandati, decine di migliaia, che sono sul territorio nazionale dopo l’armistizio dell’8 settembre
1943. Qui le donne sono proprio tante. La storiografia non se n’è accorta, soltanto un grande autore
di memorialistica come Luigi Meneghello, nel suo bellissimo libro I piccoli maestri, racconta di
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come le donne nascondevano materialmente i soldati: dietro le proprie gonne, lui dice. Li
prendevano sottobraccio e li portavano a casa, li vestivano con vestiti borghesi, cercavano di
salvare, come scrive Meneghello, un esercito che non era stato capace di salvarsi da solo.
In Italia questo fenomeno vede le donne in prima linea anche per un altro motivo, perché l’Italia,
come sapete, usciva da venti anni di regime. I partiti erano inesistenti, ridotti a niente, non avevano
nessun radicamento, per cui le uniche sedi di aggregazione, per usare una brutta espressione attuale,
erano i reticoli amicali, parentali, di colleganza, di cui vi dicevo prima. Sono strutture non
riconosciute come politiche, ma che funzionano, in cui ti fidi di far nascondere quel certo soldato
prigioniero presso la tua amica, tua sorella, la tua compagna di fabbrica. Sono stati questi reticoli
che hanno salvato il massimo delle vite, non c’erano altre strutture. In Italia questi reticoli erano
particolarmente forti, anche perché si trattava di un Paese ancora parzialmente rurale, se pure meno
di quanto avrebbe voluto il fascismo; e nella società rurale le donne hanno dei ruoli importanti in
questi reticoli informali, sono strutture in cui le donne contano: ad esempio c’è la maestra che
conosce i genitori dei suoi allievi. Di qui un grande ruolo loro, ma anche una scarsa visibilità,
proprio perché, essendo poca l’attenzione rivolta alle donne e molta quella rivolta alla politica
intesa nel senso tradizionale dei partiti, si usava in questi casi il termine “spontaneità” perché non si
sapeva quale altro usare, mentre invece dietro c’era una forma di organizzazione interessante di cui
io vi do un solo esempio. Si tratta di una torinese che io ho amato molto e che ora non c’è più:
un’operaia anziana comunista di cuore, anche se non iscritta al partito, la quale, quando ha visto
quanti sbandati giravano per Torino in quell’epoca, immediatamente ha capito che le cose non si
risolvevano dando un paio di pantaloni a qualcuno, ma ci voleva qualcosa di organizzato. Non è
andata da un partito, che non c’era, non è andata da nessuna parte. Si è messa a girare per il suo
quartiere, il quartiere operaio di Borgo S. Paolo, e ha contattato gli amici, i conoscenti, quelli di cui
si fidava, è andata anche dalle suore, perché c’era un istituto di suore lì vicino. Così ha raccattato
una grande quantità di indumenti civili, li ha messi nella propria cantina ed ha cominciato col
passaparola a rivestire in borghese una quantità ragguardevole di soldati sbandati, che uscivano da
questa cantina vestiti certo non elegantemente, ma da borghesi. Persino le scarpe le tingeva di nero,
perché le scarpe militari si riconoscono subito e sono il punto debole di ogni travestimento. Qui c’è
dunque un’organizzazione sofisticata e però, se tu cerchi soltanto certi criteri - il partito, la riunione
di partito, la decisione del partito, i comitati centrali -, non la vedi. Infatti non è stata vista. Di
questa vera e propria manager dell’8 settembre si è venuto a sapere soltanto perché sua figlia - e sia
benedetta la memoria familiare - ha conservato questa storia come una cosa importante della sua
famiglia, ed è stata ben felice che poi sia arrivata lì una storica, che le diceva che era importante
anche dal punto di vista politico. Ci sono molte storie analoghe, ma questa mi ha colpito perché non
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si può chiamare “spontanea”, come se fosse un’esplosione improvvisa, l’azione di questa signora
che se ne va passin passetto dai suoi conoscenti, poi dalle suore, poi dal prete e si mette nella
cantina una riserva di vestiti: non è certo la spontaneità intesa come moto istantaneo, è
un’organizzazione. Una grande autrice, Hannah Arendt, diceva “una forma di concertazione”, cioè
il mettersi d’accordo e agire collettivamente.
Vedete che ci sono già due esempi, i salvataggi dopo l’8 settembre e la rivolta delle donne di
Carrara, che mostrano l’importanza che questo tipo di azioni aveva per la popolazione civile, per la
tutela della comunità. In fondo le donne di Carrara fanno un intervento di tipo pubblico con la loro
lotta, e questa è una caratteristica di quasi tutte le azioni di donne; cioè le loro azioni possono essere
fatte per fini personali, per la famiglia per esempio, ma al tempo stesso hanno sempre un significato
che riguarda la tutela materiale e simbolica delle comunità. Anche nei casi in cui ci sono assalti ai
forni, o assalti ai treni carichi di combustibile, può darsi che ognuna vada lì per prendere il suo
pezzetto di pane, di farina, ecc., ma tutte insieme sono una forza d’urto che i fascisti e i tedeschi non
riescono a controllare, anche perché non siamo in Polonia dove c’è la politica dello sterminio.
Siamo in un Paese dove non si può, soprattutto in una città, andare al di là di un certo limite, anche
perché ci sono i partigiani che potrebbero fare delle ritorsioni. Non si spara in una città contro le
donne; lo si fa a S. Anna di Stazzema, a Marzabotto, nelle campagne.
Questo è dunque un modo con cui la comunità si autodifende. Allo stesso modo, una cosa
che fanno molti gruppi di donne è quella di organizzare i funerali dei morti, dei partigiani, delle
vittime dei fascisti. Io credo che non ci sia niente di più umiliante per il senso di sé di una comunità
di non potere rendere onore a chi è morto. E’ una cosa che devasta. In questo senso penso che il
discorso di Galli Della Loggia sulla morte della patria abbia una base reale. Che i tuoi morti siano lì
appesi, stiano tre giorni appesi, è una cosa terribile. Il fatto che appena possono le donne dei
Gruppi, con l’aiuto di altre, si preoccupino di organizzare i funerali, magari con un garofano rosso,
è un modo straordinario di dare coraggio alla collettività. E non per caso i tedeschi non vogliono, lo
proibiscono, perché sanno benissimo che per vincere non basta vincere militarmente. Il nazismo per
vincere deve schiacciare una società; non deve solo sfruttarla, ma deve proprio contagiarla con la
sua ideologia: col razzismo, col maschilismo, l’anti-ebraismo, tante altre cose di cui adesso non
possiamo metterci a discutere. Di qui una pressione sulla società che, se non si va a considerare
anche la vita quotidiana, non si vede.
Uno degli aspetti più interessanti delle resistenze non armate - e questo è tipico nell’Europa del nord
molto più che da noi - è il fatto che, quando si fanno i governi collaborazionisti nei vari Paesi, uno
dei primi obiettivi dei nazisti e dei collaborazionisti è di creare nuovi sindacati, sindacati nazificati.
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Per esempio il sindacato degli insegnanti, dei medici, dei farmacisti o, addirittura, associazioni
sportive nazificate. E si fa un battage pesantissimo su questo, si rende l’iscrizione obbligatoria.
Tuttavia queste sono società di secolare democrazia e hanno risorse interne notevoli e un senso
civico molto alto. Per esempio, in Norvegia gli insegnanti si rifiutano di iscriversi al sindacato
nazificato e addirittura gli sportivi rifiutano di aderire all’associazione nazificata. Col risultato che
per tutta la durata dell’occupazione non c’è una sola gara sportiva in Norvegia, il che, francamente,
io penso abbia aperto gli occhi ai giovani molto più dei proclami politici, perché vuol dire che non
siamo in una situazione normale, mentre l’obiettivo dei nazisti era: “La normalità è questa dove noi
comandiamo. Normali sono i nostri criteri di decisione sul valore delle persone”. Anche in Belgio i
medici si rifiutano. In realtà queste associazioni vengono create, ma non possono funzionare perché
non hanno organi decisionali, non hanno iscritti.
In Italia succede meno proprio perché è un Paese dove il senso civico è tradizionalmente più debole,
per ragioni storiche, non parlo di carattere nazionale; tuttavia queste sono interruzioni
dell’ingranaggio nazista che, tra l’altro, servono a quella forma di resistenza molto importante che
consiste nell’abbassare il morale del nemico. Ecco quindi una cosa che, se fosse fatta da un esercito,
verrebbe chiamata guerra psicologica: e se n’è fatta di guerra psicologica, soprattutto nella seconda
guerra mondiale, pensate ai manifestini, ai film... E’ stata una guerra combattuta anche su quel
piano lì, in modo molto intelligente, molto sofisticato, anche dai nazisti.
Però la guerra psicologica la può fare chiunque. E’ guerra psicologica, per esempio, rifiutare i
rapporti col nemico. In Danimarca, quando i tedeschi cominciano a cercare di arrestare gli ebrei,
improvvisamente i danesi, che sono bilingui, non capiscono più il tedesco. Le donne danesi non gli
rispondono più, per cui il soldato occupante è ricacciato nella sua qualità di membro ostile con cui
la gente non parla. Esiste un bellissimo romanzo uscito tanti anni fa, Il silenzio del mare di Vercors,
che è tutto centrato sul fatto che una famiglia francese è obbligata a dare ospitalità a un ufficiale
nazista e non gli parla mai. Gli dà la stanza più bella, gli fa da mangiare, tutto, ma mai gli parla. Gli
parlerà all’ultimo momento, soltanto dopo che lui, messo in terribile crisi dal silenzio ostile di
questa famiglia, sceglie di andare al fronte e di non restare nelle retrovie ad opprimere i francesi.
Questa è un’altra possibilità che può avere chiunque: rifiutarsi di parlare con una persona, trattarla
con estrema freddezza, la tecnica “della spalla fredda” la chiamavano i danesi. Non ci sarà nessuna
spalla su cui un soldato tedesco potrà piangere in Danimarca. Tutte cose che può fare chiunque.
Anzi io credo, tornando alla situazione attuale, che molte cose si possano fare anche oggi. Penso a
Irving e ai neo-nazisti e a una cosa che tutti possono fare, io per esempio la faccio: se uno è un
negazionista, nella mia casa gli nego la cittadinanza. Non parlo con te, finché tu non cambierai idea:
sei libero di dire tutto quello che vuoi, però non a casa mia, non in mia presenza. Sono tutte forme
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di azione che ci fanno vedere come la società non sia affatto passiva, sia innervata, abbia un sacco
di capacità e di risorse autonome.
Per chiudere, come mai tutte queste cose non sono state studiate, se non molto tardi? Qui bisogna
fare una dura critica, più che ai partigiani, agli storici e anche alle storiche. I partigiani vivevano la
presenza delle donne come un conflitto di cui vi ho fatto qualche esempio, perché la ragazza di cui
vi ho parlato prima, Elsa Oliva, era veramente una creatura bellissima e temibile, era durissima con
i suoi compagni e faceva rigare dritto tutti. Quindi questa presenza delle donne creava molte
contraddizioni - nel cui merito non posso entrare per ragioni di tempo - anche sul piano della
promiscuità, per esempio.
Gli storici hanno fatto propri i valori della Resistenza, che erano valori legati alla politica
intesa in senso tradizionale, e alle armi intese come unica forma in cui si potevano vincere i nazisti,
contribuire alla vittoria. Hanno praticamente eliminato gli aspetti problematici ed hanno ripetuto per
decenni il discorso della partecipazione: le donne hanno dato un contributo importante, punto e
basta. Cioè le donne sono state viste e citate come una massa indistinta, tutte uguali, di tutte le età,
di tutte le classi, di tutti i tipi, e usate per dimostrare come la Resistenza era radicata. A me sembra
un atteggiamento piuttosto autolesionista, piuttosto cieco, piuttosto ottuso.
Vorrei segnalare un momento di svolta che è intorno al 1976, quando due donne, Anna Maria
Bruzzone e Rachele Farina, cominciano ad intervistare le partigiane, e vengono fuori delle storie di
vita. Il loro libro La Resistenza taciuta, che bisogna assolutamente leggere (l’ha ripubblicato Bollati
Boringhieri nel 2003), porta alla luce moltissime cose. Per esempio la storia di Elsa Oliva, ma anche
una certa critica delle donne verso i loro compagni, anche alcuni elementi di revanche nelle più
decise. Questo ha rappresentato una svolta, però hanno dovuto farlo donne con donne. Se
aspettavamo che uno storico se ne accorgesse.... Adesso tutto è cambiato, anzi c’è molta attenzione,
però c’è voluto un circolo virtuoso. In quel caso donne storiche e donne partigiane; in altri casi
donne storiche e donne deportate; più avanti c’è stato anche l’intervento di donne delle istituzioni,
le storiche sono aumentate…. Però, vedete, è un lavoro che non sembra mai finito, perché
spessissimo si ritrova il discorso sul contributo delle donne e non invece sulla loro presenza a pieno
titolo. Se andate a vedere le decorazioni, c’è una sproporzione ridicola tra uomini e donne. Se
andate a vedere gli organici della Resistenza, vedete che le donne sono poche, anche perché non le
registravano. Se un uomo cucinava per i partigiani, era un cuoco partigiano; se una donna cucinava
era una cuoca. Quindi c’è una discrezionalità, una non-corrispondenza non più rimediabile,
purtroppo.
In Francia è successo che una signora che aveva nascosto a proprio rischio degli aviatori alleati, ha
fatto causa allo Stato e ha ricevuto un riconoscimento. Ha fatto benissimo, ma sono cose simboliche
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e a livello di massa non è più possibile un recupero complessivo. Si può però rendere onore a queste
donne, scrivendo libri, facendo cose come l’iniziativa di oggi, perché hanno molto da insegnare. A
volte anche loro hanno imparato da noi, questo è vero: una mia amica partigiana mi diceva: “Ma sai
che mi hai insegnato delle cose...” ed io ovviamente ero gonfia e tronfia di orgoglio, di fronte a
queste parole. Allora lei, per farmi vedere come eravamo in sintonia, mi raccontava delle storie di
donne che non avevano usate le armi. Però è un lavoro mai finito. La mia impressione è che, come
si smette di essere vigili, immediatamente salta fuori lo storico, magari un po’ anziano o anche
giovane - ci sono anche i giovani stupidi, non è una particolarità dell’età -, che continua a
dimenticarsi che discutere, come si fa sui quotidiani, se i partigiani erano 150 mila o 80 mila o 10
mila è una cosa ridicola. Visto che la Resistenza è stata fatta in larga parte attraverso azioni non
armate, ma ugualmente rischiose, che senso ha cercare di contare i partigiani? Io la trovo una cosa
assolutamente sciocca, e spero di riuscire a scriverlo abbastanza presto: voglio dirlo su un giornale,
non su un libro. Sui libri l’ho scritto centomila volte, ma i libri notoriamente non sono molto letti.
Vedo ottime persone che si scannano per sostenere: “erano un’infima minoranza”, “no, erano una
minoranza consistente”. Ma per favore…! C’erano scioperi a cui partecipavano mille persone,
quelle dove sono? Dove li mettiamo quelli che si sono schierati, hanno rischiato e sono finiti in
campo di concentramento? Poi c’è tutto il problema della resistenza nei lager che neanche comincio
a raccontare, perché ci tengo talmente che non mi fermerei più. Quindi bisogna sempre essere
attenti, in particolare sui giornali, dove non per colpa dei giornalisti, ma per la struttura del
quotidiano, queste cose sono dette abbastanza di corsa. La cosa buffa è vedere signori in età e brave
persone intelligenti che si scannano, oppure gentilmente divergono, su elementi come la quantità
numerica dei partigiani.
Ancora, e qui chiudo davvero, c’è un modo di giudicare la partecipazione alla sconfitta del nazismo
che si basa sempre e soltanto sui morti che ogni Paese ha avuto nelle battaglie e nei movimenti di
resistenza. Naturalmente bisogna rendere onore ai morti: la Russia ha avuto molti morti, e anche gli
Stati Uniti. Mi chiedo però perché non si usa, per definire la parte che un Paese ha avuto nella
sconfitta di Hitler, piuttosto la quantità di vite risparmiate, la quantità di vite sottratte a Hitler. Per
esempio la Danimarca, su cui io ogni volta scrivo, non ha avuto una resistenza armata consistente,
ma ha salvato il 90% dei suoi ebrei. Quindi, se consideriamo soltanto il criterio delle armi, dei
morti, la Danimarca non è un Paese eminente nella lotta contro il nazismo. Se consideriamo invece
il criterio del salvare le vite, cioè del sangue risparmiato, non di quello versato, la Danimarca, come
diceva Hannah Arendt, è il Paese più ammirevole dello schieramento antinazista nella seconda
guerra mondiale. Devo dire che l’ha scritto lei nel ’62-’63 e poi l’hanno scritto in molti, ma è dura
farlo passare, perché ancora adesso domina questa idea che, se si spara, si è più bravi, si è più
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resistenti. Si può però continuare a dire che a volte si ottengono più cose non sparando e usando
sistemi non violenti, che usando sistemi violenti. Non mi sogno neanche, non mi permetterei mai di
delegittimare la lotta armata che c’è stata in Europa in quegli anni: parlo in generale delle
componenti con cui ci si può opporre alla tirannide, che non sono certo soltanto le armi.
Alessandra Peretti
Io ringrazio a nome di tutti anche perché mi sembra, tra l’altro, che ci siano stati tantissimi spunti di
riflessione in questo intervento di Anna Bravo. Vorrei però, prima di congedarci, sollecitare un
ulteriore approfondimento. A me interessava molto quell’inizio che poi, inevitabilmente, essendo il
problema di fatto molto ampio, è stato messo da parte. Intendo il discorso del rapporto tra la donna
e le armi, che è molto complicato ed è anche, al di là di qualsiasi uso pubblico della storia,
comunque un discorso di stretta attualità. Capisco che i tempi ormai sono ridotti al minimo, ma se
potessi dirci qualcosa almeno della problematicità di questo tema...
Anna Bravo
Ho solo paura, di fronte ad una cosa così complicata, di non riuscire a fare un discorso coerente.
Quello che posso dire è come tutto questo fosse problematico per le donne di allora, tranne che per
alcune, e per l’opinione pubblica di allora. A me fa spavento vedere come diventi ovvio e
apparentemente naturale oggi per le donne usare le armi, ma come nello stesso tempo rimangano
alcuni stereotipi vecchi e ancora vivi.
Penso alla prima guerra del Golfo. Nella prima guerra del Golfo le donne non erano in prima
linea, ma guidavano gli aerei, e se non erano in prima linea era solo per ragioni politiche, non che
non ci volessero andare. Poi gli iracheni hanno catturato una giovane pilota che si chiamava Melissa
Nealy. Immediatamente è venuta fuori la questione: “La stupreranno o non la stupreranno?”.
Erano passati 50 anni e il problema era esattamente lo stesso che si sono trovate di fronte le
deportate, le poche che sono tornate dai lager nazisti. La domanda che le persone magari non
avevano il coraggio di formulare era: “Vi hanno violentate o no, le SS?”. Questo creando disastri
psichici e vere e proprio furie in alcune, perché non era stato così, innanzi tutto per motivi
legislativi: c’erano delle sanzioni molto dure contro la violenza sulle deportate. Era peccato di
razza: non si va con un’ebrea o un’assimilata all’ebrea come una politica. Ma vedete com’è radicato
questo cortocircuito tra prigionia femminile e stupro, che poi invece spesso riguarda anche i maschi:
però loro si difendono negandolo. Invece su questa ragazza, Melissa Nealy, immediatamente è
venuto fuori il discorso: “L’avranno stuprata.” E così, anche adesso, ogni volta che c’è una donna
catturata, questo è l’arrière pensée, l’interrogativo, lo si formuli esplicitamente o no.
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Lo dico per farvi vedere che comunque la donna in prima linea è problematica, un corpo femminile
in prima linea è problematico. Intanto perché è un corpo meno militarizzabile, proprio come corpo,
al di là delle ideologie. E’ un corpo che mestrua ed è un corpo che può rimanere incinto. Queste
sono due cose che con la struttura militare non dico che siano incompatibili, ma costituiscono un
problema, proprio per i rapporti tra soldati e soldate. Una delle cose che aveva colpito
sfavorevolmente gli americani era che dalla prima guerra del Golfo alcune donne erano tornate
incinte. Meno male, direi io: pur rischiando la vita, almeno avevano avuto, si spera, un momento o
un’occasione di rallegrarsi. Però il corpo femminile è davvero meno militarizzabile. Intanto perché
è più debole fisicamente. Io questo lo rivendico come un privilegio: io sono più debole di un uomo
e quindi posso anche permettermi, se proprio è il caso, di dare uno schiaffo ad un negazionista,
tanto non gli faccio quasi niente. Io credo che sia un nostro privilegio, una chance: più di tanto, con
le nostre sole mani, a meno di non essere una vigorosissima ragazza di 18 anni - e ce ne sono, buon
per loro - una donna non riesce a far del male. E’ comunque un corpo che non può esercitare la
stessa forza materiale e c’è sempre una componente di forza materiale nella guerra, non è che si fa
tutto soltanto con le tecniche automatiche. E poi ha in sé delle componenti non irreggimentabili:
l’esercito non può fare come facevano nei lager che davano la pillola alle donne e impedivano loro
di avere le mestruazioni.
Il corpo femminile deve essere quanto meno un ingombro, deve essere qualcosa che disturba. Io
almeno spero che sia così e che continui ad esserlo.
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