Il dodicesimo cammello
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Il dodicesimo cammello
Il dodicesimo cammello Vinciane Despret 1 Un uomo anziano, sentendo prossima la sua fine, chiamò a sé i suoi tre figli, per dividere con loro, ciò che gli restava dei suoi beni. Disse loro: figli miei, ho undici cammelli, ne lascio la metà al primogenito, un quarto al secondo, e a te, mio ultimo, ne lascio un sesto. Alla morte del padre, i figli si ritrovano molto perplessi: come suddividere? La guerra della divisione sembrava diventare inevitabile. Senza soluzione, essi si recarono al villaggio vicino, a chiedere il consiglio di un vecchio saggio. Costui pensò, poi scosse la testa: non posso risolvere questo problema. Tutto quello che posso fare per voi, è darvi il mio vecchio cammello. È vecchio, magro e non più molto valido, ma vi aiuterà a dividere la vostra eredità. I figli riportarono il vecchio cammello e divisero: il primo ricevette così sei cammelli, il secondo tre e l’ultimo due. Rimase quindi il vecchio cammello mingherlino che poterono rendere al suo proprietario. La parabola del dodicesimo cammello illustra innanzitutto una delle diverse modalità di risolvere un rapporto con l’eredità. Mi sembra particolarmente interessante che quello che si tratta di ereditare riguarda le questioni di ciò che noi siamo e di quello che sappiamo di noi stessi. Quando degli antropologi sono tornati dai loro viaggi di studi ci hanno insegnato che le modalità in cui noi pensiamo le emozioni sono circostanziate e non universali come noi pretendiamo, contingenti e non necessarie come le nostre scienze rivendicano, storiche e non naturali o biologiche come la psicologia ripeteva, noi ci siamo confrontati una prima volta con questo problema dell’eredità. Certo, il sapere delle emozioni degli altri avrebbe potuto aggiungersi al nostro, ma si doveva fare meglio/c’era da fare meglio: come il dodicesimo cammello, il sapere degli altri non era là per aumentare le nostre emozioni e le loro definizioni, ma per creare un effetto di contrasto che ci insegni/insegnasse l’essenziale: noi costruiamo le nostre emozioni affinché esse ci costruiscano. E tutti i domini del sapere e della cultura partecipano a questa impresa: la psicologia, per esempio, crea delle versioni dell’emozione nei laboratori, le terapie, le teorie della psicologia sociale, ecc. o, quando si analizzano i concetti delle emozioni per contrasto con le altre culture, ci si stupisce di una strana insistenza che non si ritrova altrove: esse sono prima e innanzitutto « contro la ragione» : «non ero più me stesso», «non riuscivo a controllarmi, a dominarmi, a sapermi dominare», «la collera mi invade»; «sii un po’ razionale» si dice ancora a colui che l’emozione trasporta. Perché questa insistenza, vera singolarità della nostra cultura che si ritrova, ma sotto altri travestimenti, nei campi scientifici della psicologia? 1 Filosofa, Psicologa. Università di Liegi. Le poste in gioco che hanno presieduto all’origine di questa concezione dell’emozione sono sempre all’opera? La razionalità è stata inventata dai Greci come un vero strumento di discriminazione: potranno partecipare allo spazio pubblico, potranno parlare sull’agorà, quelli che testimonieranno della razionalità. Exit gli schiavi, i bambini e le donne. Andiamo un po’ più lontano: chi sono oggi quelli a cui si dà così volentieri il privilegio delle passioni e che cosa implica questo? I «selvaggi», le donne, i bambini e il popolo (o i gruppi marginali) sono considerati come più emozionali; si sa che questa emozionalità è stata, e resta ancora, se non un fattore di esclusione dallo spazio pubblico (le emozioni sono al loro posto nello spazio domestico), tutt’al più al giorno d’oggi una ragione di sospetto. Da allora quando la psicologia studia, dimostra o teorizza sulle differenti maniere di essere emozionale, di simbolizzare o di non arrivare/riuscire a farlo, di controllarle o di non dominarle, di vivere piuttosto in accordo con la ragione o con le emozioni, che cosa fa? Quando gli scienziati oggi affermano, esperienza a supporto, che le donne sono più emozionali degli uomini, che cosa fanno? Non stanno prolungando un vecchio gesto politico di gerarchizzazione degli esseri, ma questa volta coperto di scienza? La psicologia, finalmente, non ha confiscato la questione politica impegnandosi a risolverla definitivamente con un sapere infine «scientifico»? Se noi abbiamo potuto seguirlo fin qui, questo vuol dire che il dodicesimo cammello può andare al di là della promessa di una semplice lezione del contrasto; esso permette di pensare l’eredità non solo come costruita ma come poteva essere costruita altrimenti: la scienza delle emozioni è prima di tutto una politica delle emozioni, e sono dunque delle questioni politiche che bisogna porre alle nostre emozioni e al ruolo che si fa giocare loro. Le emozioni sono venute dalla politica, è tempo di fare con esse ciò che abbiamo fatto con il dodicesimo cammello: restituire al politico e al dibattito collettivo ciò che la psicologia aveva confiscato loro. Questa è una delle preoccupazioni della Clinica della Concertazione. Aprendosi ai politici da una parte, agli utenti dall’altra, mette fine alla confisca dei problemi emozionali, psicologici, discriminatori da parte dei soli professionisti. Crea uno spazio pubblico di confronto, nel quale tutti i partecipanti mantengono una parte attiva. Cosi, tornando ai Greci, noi potremo discutere, questa volta senza discriminazione, della discriminazione.