Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Una trama classica affrontata con intelligenza per esplorare, attraverso sentimenti intimi e personali, un problema che si estende alla geopolitica toccando drammaticamente gli equilibri di un territorio, ma che di fatto è la cristallizzazione e l’eco di confini, separazioni e conflitti che sono anzitutto una forma del pensiero. scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: montaggio: scenografia: musica: distribuzione: 105 MINUTI FRANCIA 2012 LORRAINE LÉVY NOAM FITOUSSI NATHALIE SAUGEON, LORRAINE LÉVY, NOAM FITOUSSI EMMANUEL SOYER SYLVIE GADMER MIGUEL MARKIN, EYTAN LÉVY VARDA KAKON TEODORA interpreti: EMMANUELLE DEVOS (Orith), PASCAL ELBÉ (Alon), JULES SITRUK (Joseph), MEHDI DEHBI (Yacine), AREEN OMARI (Leïla), KHALIFA NATOUR (Saïd), MAHMOOD SHALABI (Bilal), BRUNO PODALYDÈS (David), EZRA DAGAN (Il rabbino). premi: 25°Festival di Tokyo Gran Premio della Giuria e il Premio per la miglior regia Lorraine Lévy Sorella del celebre scrittore Marc Lévy (di cui ha portato sullo schermo il romanzo Mes amis, mes amours), Lorraine Lévy inizia la sua carriera come regista e autrice per il teatro. Dopo la fondazione della Compagnie de l'Entracte nel 1985, scrive e dirige Finie la comédie (1988), Zelda (Prix Beaumarchais nel 1991) e Le Partage (1993, presentato al festival d’Avignon). All’inizio degli anni 2000 comincia a lavorare per la televisione come sceneggiatrice, firmando più di 30 copioni per le maggiori reti nazionali, incluse France Télévision, Canal+ e TF1. Il suo primo film per il grande schermo, La première fois que j'ai eu 20 ans, è del 2005, anche se il successo arriva con Mes amis, mes amours (2008), una commedia brillante con un cast che comprende Vincent Lindon, Pascal Elbé e Virginie Ledoyen. Nel 2010 firma come regista, oltre che come sceneggiatrice, Un divorce de chien!, sempre per la tv. Il figlio dell’altra è il suo ultimo film per il cinema. La parola ai protagonisti Note di regia Quando la produttrice Virginie Lacombe mi ha mandato la sceneggiatura del film, ho pensato che era la prima volta che ricevevo un progetto che mi colpiva così profondamente a livello emotivo. Inoltre, era in sintonia con i temi a cui tengo maggiormente: qual è il posto che occupiamo nella nostra vita e in quella degli altri, il nostro rapporto con l’infanzia, l’essere genitori... La famiglia è un microcosmo da cui trae origine ciò che siamo. Ma cos’è un bambino? E cos’è un adulto? Si può scegliere di restare l’uno o diventare l’altro? Mi piace molto la definizione di Kenneth Branagh: “Un adulto è solo un bambino che ha dei debiti”... Nel film, Yacine sta per lasciare la famiglia per proseguire gli studi in Francia: egli è proiettato in una realtà che l’obbliga a essere un uomo. Joseph invece, che vive in un ambiente familiare superprotetto, è rimasto un bambino. Ho voluto che questa differenza saltasse agli occhi, che fosse incarnata fisicamente dai due attori. Nel film, i padri si lasciano sopraffare dalla scoperta della verità sui propri figli, per loro insopportabile. Preferiscono fuggire che affrontarla. La sofferenza li paralizza. Le madri, invece, riescono presto a chiarirsi tra di loro, cosa che naturalmente non esclude la sofferenza. Il fatto è che le due donne sono capaci di comprendere alcune cose fondamentali: capiscono che i figli che hanno allevato continuano a essere i loro figli; che ora c’è un altro figlio per ciascuna di loro e che non possono ignorarlo, né rifiutarsi di conoscerlo e di imparare ad amarlo; che se occorre tendere una mano, bisogna farlo al più presto, convincendo gli uomini che non esiste alternativa possibile. Il mio film dice che la donna rappresenta il futuro dell’uomo e che quando le donne si alleano possono spingere gli uomini a essere migliori. Io sono ebrea e l’ebraismo fa parte di me. Non sono praticante, sono atea, ma non posso dimenticare che gran parte della mia famiglia è stata sterminata nei campi di concentramento. E comunque sono ebrea ma non sono israeliana, sono due cose diverse. Non essendo né israeliana né palestinese, avevo dei dubbi sull’opportunità di lanciarmi in questo progetto e non volevo girare un film che avesse l’aria di impartire lezioni. Per me, l’unico modo sensato di affrontare questo soggetto era mantenere un atteggiamento di umiltà e raccontare soprattutto la storia di tutti i giorni. Non la Storia con la S maiuscola, che può esacerbare gli animi e le situazioni. Non ho mai avuto intenzione di fare un film politico, anche se alla fine lo è, mio malgrado. Per Il figlio dell’altra ho scelto due “padri spirituali”. Il primo, Yasmina Khadra (pseudonimo femminile di Mohammed Moulessehoul, ndr), è uno scrittore algerino, uno dei maggiori intellettuali arabi: gli ho fatto leggere la sceneggiatura per evitare che fosse in qualche modo squilibrata e lui ha annotato il copione con diverse indicazioni poi inserite nel film. Il secondo, Amos Oz, il grandissimo scrittore e pacifista israeliano, non l’ho mai incontrato ma è come se facesse parte della mia famiglia: ho distribuito ai membri della troupe un suo libro, Imaginer l’Autre, che contiene lo stesso messaggio che il film vuole comunicare. Ai piedi del muro che divide Israele e Palestina abbiamo girato la scena notturna con Pascal Elbé che va a piedi alla ricerca del figlio. Erano le due del mattino e le luci e il rumore della troupe attiravano l’attenzione, al punto che abbiamo notato dei ragazzini palestinesi che erano riusciti a salire fino in cima al muro e, non so come, si tenevano in equilibrio per vedere cosa succedeva. Io ero impallidita: un muro ne richiama altri, inevitabilmente, e mi venivano alla mente le immagini del muro di Berlino, o, ancora più violente, quelle del Ghetto di Varsavia... Poi è arrivata la polizia israeliana e le riprese si sono di nuovo interrotte per i controlli... A quel punto mi sono chiesta dov’era il film: in quello che stavamo vivendo o in quello che stavamo raccontando? Sicuramente in entrambi. Il conflitto israelo-palestinese sembra senza fine ed è stato estremamente difficile trovare un finale al film. Nella sceneggiatura iniziale si concludeva con un attentato, ma io volevo qualcosa di meno prevedibile. Nel corso delle riprese ho capito che bisognava lasciare gli adulti da parte e affidarsi ai personaggi più giovani. All’inizio avevo previsto una panoramica di 360° su un palazzo diroccato dove Yacine viene a rifugiarsi: ho deciso di girare la scena, ma con una panoramica di 180°, perché per il finale ho aggiunto la stessa panoramica, all’inverso, con protagonista Joseph al posto di Yacine. È come se ciascuno dei due fosse la metà dell’altro. Josef e Yacine incarnano la speranza delle nuove generazioni. I giovani che ho conosciuto, da entrambe le parti del muro, non nutrono sentimenti di odio, ma aspirano alla vita normale degli uomini liberi. Volevo fare un film sull’apertura e la speranza. Non credo che il cinema possa cambiare il mondo, ma credo nel suo potere di condivisione, di scambio, di comunicazione. Un film è un dialogo con chiunque voglia parteciparvi. È un mezzo per vivere e comprendere l’umanità dell’Altro. Intervista alla regista Nel suo film, la tragedia è sempre dietro l'angolo ma non colpisce mai. È una scelta molto particolare e ottimista. Quindi lei è ottimista sulla risoluzione del conflitto tra Israele e Palestina? Non avevo intenzione di fare un film drammatico perché non è nella mia natura. Volevo trattare una storia che affrontasse temi sociali in maniera profonda, ma anche con una certa leggerezza, perché desideravo che il pubblico uscisse dal cinema immedesimato nelle vicende, ma non per forza sopraffatto dal dolore. E quindi sì, sicuramente è un film pieno di speranza e non mi stancherò mai di dirlo: in questo film ho raccontato una visione di pace che non è solo la mia, ma è condivisa da tante persone. Nelle testimonianze che ho raccolto questi ragazzi sanno di non essere figli biologici dei loro genitori ma non sanno davvero di chi sono figli. Per quanto riguarda l'idea di speranza questo film è una reale testimonianza, perché le troupe miste hanno collaborato e tutti credevano molto in questo lavoro. A proposito delle donne voglio raccontarvi un aneddoto. Quando ho fatto il casting per le madri c'è stato un attentato e, visto il caos che sì è creato subito dopo, eravamo sicuri che non sarebbe venuta nessuna delle dodici donne che dovevano fare il provino. Io però sono rimasta comunque e alla fine sono venute solo in tre. Una di questa, Areen Omari che poi ho scelto, è venuta a piedi sotto un sole cocente camminando per quattro ore a piedi. Aveva letto la sceneggiatura e ci teneva davvero a interpretare il ruolo, a dimostrazione del fatto che la forza di volontà e il desiderio a volte sono davvero tutto. Poi la cosa bella è che ho fatto il provino senza la traduttrice che era andata via, eppure solo guardando recitare quella donna ho capito che era lei. Forza, desiderio e intensità possono avvicinarci alla fratellanza. Poi certo ci sono sempre delle esigue minoranze che inquinano un po' questi slanci positivi. Pensa che il cinema possa cambiare la realtà? Sicuramente penso che non solo il cinema ma l'arte in generale, quindi letteratura, pittura, musica, abbiano un po' questo messaggio. Propongono scenari utopici, si esprimono attraverso dei sogni che però possono essere tradotti e applicati alla realtà. Il film è strutturato secondo l'archetipo classico dello scambio di vite e ricorda ad esempio Il principe e il povero di Mark Twain. Quanto è importante, nel raccontare una situazione così complicata, utilizzare una struttura semplice? Avevo la possibilità di raccontare o un film ermetico o uno che fosse aperto alla speranza e accessibile, e ho scelto questa seconda opzione. La struttura narrativa molto sobria è stata una scelta registica ben precisa, e anche dopo aver scritto la sceneggiatura ho fatto un lavoro a togliere, tagliando tutto quello che era eccessivo. A volte la scena era già scritta e l'ho cambiata, oppure c'erano delle battute e ho preferito il silenzio. Emblematica in questo senso è la scena in cui i due padri si incontrano al bar e non si dicono nulla, ma il silenzio parla molto di più dei dialoghi forti che avevo scritto. Oppure la scena in cui Emmanuelle Devos vede sul marciapiede Yacine (Mehdi Dehbi), le cadono le buste della spesa e lui la aiuta a raccoglierle, le mani si sfiorano... Sono convinta che più si è sobri più si lascia spazio a emozioni e sentimenti. E quanto spazio ha lasciato invece all'improvvisazione sul set? Non c'è mai stata improvvisazione sul set, ma un grande lavoro di preparazione a monte. Durante le prove ho lasciato a tutti la libertà di esprimersi come volevano, ma poi, nel momento in cui abbiamo deciso che la scena sarebbe stata costruita in quella maniera e abbiamo cominciato a girare, tutto doveva essere preciso al millimetro. I cittadini israeliani e palestinesi hanno ‘muri’ rigidi tra loro? Speso non li hanno, ci sono israeliani e palestinesi che lavorano insieme, sono amici, si fidanzano. C'è una vita in comune, però è anche vero che ci sono tante difficoltà. Purtroppo, come sempre, sono gli estremisti a prendere in ostaggio un intero popolo. Comunque ci tengo a dire che, anche se evoca delle questioni politiche, il mio è un film che, come diceva Frank Capra, parla della gente alla gente. Volevo parlare della storia di tutti i giorni, della quotidianità di queste famiglie. Cosa dicono le parole della canzone che cantano tutti insieme a tavola? Si tratta di una canzone semplice che appartiene al folklore arabo tradizionale. Le parole non le ho volute tradurre di proposito perché ho voluto conservare le emozioni del momento e del personaggio e temevo che, traducendo il testo, ci si poteva attaccare al significato intellettuale della canzone e perdere di vista l'emozione del momento. Il testo poi non è così fondamentale, parla semplicemente di una donna che torna a casa. Il film è stato visto nei paesi arabi, e se sì come è stato accolto? No, per il momento non è stato ancora proiettato ma spero che accadrà a breve. Ad ogni modo dalle testimonianze di musulmani che ho ricevuto, so che il film è stato accolto bene sia dagli ebrei sia dagli arabi perché si sono sentiti entrambi rispettati e sono ovviamente molto contenta perché questo era esattamente ciò che desideravo. Mi è piaciuto l’equilibrio del film e il fatto che l’apartheid sia esplicitamente nominata. Come ha scelto l'ultima inquadratura e perché ha scelto di inquadrare Joseph e non Yacine? Innanzitutto c'è da dire che se avessi fatto il contrario mi avreste comunque chiesto il perché di tale scelta. Ad ogni modo in quell'inquadratura c'è l'immagine di Joseph ma la voce di Yacine. Inoltre si tratta esattamente dell'immagine speculare rispetto a quella che si vede a metà film, quando si capisce che quello è un luogo dove il ragazzo si rifugia quando ha bisogno di evadere. Sono due panoramiche di 180 gradi che insieme, sostanzialmente, danno una visione unitaria a 360 gradi. La scena a cui fa riferimento per l'apartheid è invece quella in cui i due padri si incontrano e non possono non parlare di politica. È stata una scena molto difficile da girare anche perché entrambi gli attori sono molto molto coinvolti nella questione palestinese. La sera prima mentre ci preparavamo per la scena abbiamo dovuto affrontare il problema di chi avrebbe avuto l'ultima parola, ed entrambi insistevano nel voler chiudere. Alla fine ho girato la scena lasciando che parlassero uno sopra l'altro, in modo che nessuno dei due avesse l'ultima parola e in maniera da rispettare entrambe le identità. Quello che ho voluto rappresentare è un po' quello che dice Amos Oz (anche se non ho la presunzione di paragonarmi a lui) nel suo saggio Contro il fanatismo: "Né proIsraele né pro-Palestina ma per la pace". Ha citato due scrittori: Amos Oz e Yasmina Khadra. C'è stata una vera e propria collaborazione con loro o solo una supervisione finale? La sceneggiatura è stata scritta da due ebrei e da una cattolica. Alla fine ho sentito la necessità di avere una sorta di voce di conforto anche del mondo arabo, così ho contattato Khadra, lui ha letto la sceneggiatura e ci ha anche dato dei suggerimenti. Per quanto riguarda invece Amos Oz non ho avuto mai il piacere di conoscerlo, però sono molto vicina alla sua idea di compromesso storico in cui ognuna delle parti rinunci a un po' della sua parte. Quanto si è documentata o ispirata alla realtà? Ho raccolto molte testimonianze di scambi di neonati che per via della guerra del ‘91 e delle evacuazioni si sono ritrovati con genitori non biologici. Nel mio film, poi, per scopi drammaturgici sono andata oltre e ho inserito ‘l'aggravante' di una famiglia israeliana e una palestinese. I giovani secondo lei portano un messaggio di speranza? Io parlo di speranza perché le nuove generazioni le ho conosciute e hanno solo voglia di spensieratezza, di vivere come in tante altre parti del mondo (luoghi che ora sono più vicini grazie a internet e ai social network). E poi, in fondo, se non avessi speranza sarebbe molto triste. Però è anche vero che lì c'è una situazione molto semplice e complessa allo stesso tempo. Ad esempio quando ero là io avrei dovuto incontrare Juliano Mer-Khamis, un intellettuale di 45 anni che aveva fondato Il teatro della libertà e che aveva ricevuto per questo motivo molte minacce di morte. Ebbene, proprio il giorno prima del nostro incontro è stato assassinato all'uscita del teatro da estremisti palestinesi. È stato un enorme shock per tutti perché si trattava di una figura che dava gran voce proprio a quella speranza. Recensioni Luciana Morelli. Movieplayer Neonati scambiati alla nascita, famiglie sconvolte, crisi d'identità. Un tema sicuramente già trattato in passato ma mai affrontato nei termini in cui la regista francese di origine ebrea Lorraine Lévy ha scelto di raccontarcelo. I due ragazzi coinvolti non sono semplicemente un musicista che sogna di arruolarsi nell'esercito e uno studente di medicina che vive a Parigi e sogna di aprire un ospedale per salvare le vittime della guerra. Joseph è israeliano e Yacine è palestinese. (…) La verità sullo scambio di identità viene fuori durante la visita medica di Joseph per il servizio di leva nell'Aeronautica Militare israeliana, quando i medici scoprono che il suo gruppo sanguigno è incompatibile con quello dei genitori. Dalle indagini risulterà essere figlio biologico di Saïd e Leïla Al Bezaaz, i coniugi palestinesi che a differenza di Orith e Alon, che hanno una bella casa nei sobborghi di Tel Aviv, vivono nei territori occupati della Cisgiordania. Due genitori che dal canto loro hanno cresciuto Yacine, il figlio che ha vissuto fino a quel momento la vita che sarebbe spettata a Joseph. La rivelazione getta nel panico le due famiglie che da quel momento in poi saranno costrette ad interrogarsi sulle rispettive identità, sulle ragioni e sull'effettivo significato del conflitto politico e religioso che continua a dividere i due popoli. Di scottante e drammatica attualità, Il figlio dell'altra è un film in cui la regista, ebrea di origini ma atea, né palestinese né israeliana, è riuscita a raccontare una storia così piena di risvolti attraverso un dramma familiare ed umano intenso e toccante dal largo respiro e dallo sguardo aperto verso il futuro. Il tutto senza mai prendere posizione né impartire lezioni, soprattutto senza pretendere di trovare risposte alla questione diverse da quelle dettate dal cuore della gente comune che vive il conflitto in prima persona nella quotidianità, affidando l'unica speranza di una risoluzione alle donne e alle giovani generazioni. La sensazione è che la Lévy abbia cercato in tutti i modi di non fare un film politico ma di soffermarsi molto di più sul risvolto umano e familiare della vicenda, non una storia insomma che potesse contribuire ad esacerbare gli animi ma solo unicamente raccontare cosa accade quando israeliani e palestinesi sono costretti a guardarsi negli occhi senza vedere dall'altra parte il nemico. Il film funziona sotto tutti i punti di vista grazie alla regia misurata e ariosa della Lévy e all'ottima prova del cast, un gruppo multietnico di bravi attori, capitanato da una straordinaria Emmanuelle Devos, che riesce a mantenere i toni in equilibrio senza mai esasperare le situazioni o prestare il fianco a facili sentimentalismi. Un ruolo cruciale è giocato dalle numerose suggestive scene girate ai piedi del muro che divide Israele dalla Palestina, scene in cui la tensione si fa palpabile, in cui si susseguono perquisizioni e controlli di sicurezza che generano angoscia e pathos tenendo lo spettatore col fiato sospeso, soprattutto verso il finale, ingabbiato nell'attesa incombente di un evento tragico che spazzi via tutte le premesse concilianti fatte fino a quel momento. Una tensione giustificata dal fatto che sino all'ultimo la regista è stata in dubbio sul finale, rinunciando all'impatto emotivo dell'attentato in favore di una conclusione sospesa che apre con speranza lo sguardo verso l'orizzonte. Ad essere esplorato con grande delicatezza dal film è l'effetto destabilizzante che travolge le vite di due famiglie che non riescono ad accettare il fatto che il loro figlio biologico, la carne della loro carne e il sangue del loro sangue, sia stato cresciuto oltre le linee nemiche, e che le conseguenze della battaglia che hanno sempre portato avanti con convinzione si siano loro rivoltate contro per colpa di un bizzarro scherzo del destino. Figli cresciuti con ideali e possibilità diverse, uno costretto a diventare uomo prima del previsto mentre l'altro rimasto un po' bambino perché cresciuto in un ambiente familiare super confortevole, uniti dalla voglia di vivere la vita normale degli uomini liberi. E poi ci sono i due padri, assolutamente incapaci di comunicare tra loro, uomini sopraffatti dalla verità e dal rancore etnico che preferiscono fuggire anziché affrontare il problema. Il figlio dell'altra è un'opera emozionante che affronta temi cruciali tristemente contemporanei cercando le risposte nel cuore della gente comune e affidando le speranze per il futuro alle donne, le uniche in grado di spingere gli uomini ad essere migliori, di capire che quando non c'è un'alternativa possibile l'unica soluzione è tendere la mano verso l'altro. Dentro di loro Leila e Orith sanno che i figli che hanno allevato con tanto amore continueranno a essere loro figli e che il figlio cresciuto dall'altra non può essere ignorato solo perché è cresciuto dalla parte sbagliata della barricata. I legami di sangue vanno oltre qualsiasi barriera e decenni di conflitti non potranno mai fermare l'amore di una madre per suo figlio né potranno mai arginare il sogno di libertà di un ragazzo che combatte una guerra non sua. Fabio Ferzetti. Il Messaggero Ci sono film che rischiano a ogni passo di finire ostaggio del loro soggetto. Succede quando il cinema prende di petto la realtà con tutte le sue contraddizioni anziché renderla più leggibile seguendo le leggi di questo o quel genere, commedia, thriller, melodramma, eccetera. Quando poi qualcuno porta la macchina da presa in Medio Oriente, i rischi diventano altissimi. Eppure proprio Israele ci ha dato alcuni dei più bei film di questi anni. Per originalità di scrittura, densità del tratto, verità dei personaggi. Come se la massa di problemi che pesa su ogni centimetro di ogni inquadratura costringesse i registi a fare i conti fino in fondo con ciò che riprendono (in Israele ogni immagine è politica, per definizione). Figuriamoci cosa succede se una regista francese, ebrea non praticante, decide di aggiornare la favola dei figli scambiati in culla alla situazione odierna di Israele. Immaginando cosa accadrebbe se un giorno due coppie, una israeliana e una palestinese, scoprissero che i figli oggi 18enni allevati con tanto amore sono in realtà figli «degli altri», ovvero del «nemico». (...) La metafora e la predica para-politica sono in agguato. Invece - miracolo - il film di Lorraine Lévy non cade in nessuna di queste trappole. E se non sempre vola altissimo, ci conquista scena dopo scena pedinando in tutta semplicità e con un pizzico di benedetta ingenuità la vita quotidiana di queste due famiglie, comprensibilmente sconvolte dalla scoperta. Evitando tutte le tentazioni «massimaliste» (...) per affidarsi al buon senso, alla pazienza, alla speranza custodita naturalmente dalle madri, più che dai padri, e dai figli. Non un capolavoro, ma un film fragile e insinuante, ravvivato da attori eccellenti, che sceglie e percorre la via del cuore con coraggio e coerenza. Marzia Gandolfi. Mymovies.it (…) Scambiato diciotto anni prima con Yacine Al Bezaaz, palestinese dei territori occupati della Cisgiordania, Joseph è sconvolto e confuso. La rivelazione getta nel caos le rispettive famiglie che provano a incontrarsi e accorciare le distanze culturali. Ma le 'questioni politiche' hanno la meglio sul buon senso e sui padri, che finiscono per rinfacciarsi in salotto il dolore dei rispettivi popoli. Rifugiatisi in giardino, Joseph e Yacine provano a interrogarsi sulla loro identità e sul loro destino. I loro incontri si faranno sempre più frequenti, fino a quando non decideranno di entrare l'uno nella famiglia dell'altro, frequentando la vita che avrebbero dovuto vivere e rientrando in quella che gli è capitato di vivere. Privilegiando un equilibrio (anche estetico) politicamente corretto, Il figlio dell'altra sceglie la forma del dramma familiare per raccontare la questione israelo-palestinese. Diretto da Lorraine Lévy, francese di origine ebraica, Il figlio dell'altra è un film di soglie e di confini, che riflette sulla stratificazione complessa dei rancori accumulati dalla Storia. Scambiando letteralmente le esistenze di due bambini, la regista produce l'occasione, per occupati e occupanti, di osservare, vedere e magari anche capire l'altro, uscendo dal cul de sac in cui il mondo pare essersi infilato. Ebreo cresciuto da palestinesi Yacine, palestinese cresciuto da israeliani Joseph, i due giovani protagonisti vivono al di là e al di qua di un confine odioso, alimentato dalla paranoia e dai pregiudizi che ogni divisione, muro o recinto porta con sé. Di quel confine, Il figlio dell'altra dice pure e sinceramente l'inalienabile necessità, raccontando l'intimità, la tradizione, la casa, la terra, la speranza. Il film della Lévy conduce il conflitto e la convivenza tra israeliani e palestinesi, mai privi di lotte e di lutti, a una dimensione quotidiana e privata, provando a cogliere l'essenza e insieme l'universalità dell'infinita vicenda mediorientale. Le idee sono allora veicolate dai personaggi, che interpretano con grande sensibilità la complessità di due punti di vista, le contraddizioni di uno stato di cose, il dolore e la resistenza a immedesimarsi nell'altro. Se i padri dei giovani protagonisti sembrano irriducibili a qualsiasi apertura, almeno nei loro primi incontri, le madri colgono veramente l'opportunità nello scambio e accolgono il figlio dell'altra (il figlio biologico cresciuto dall'altra), indicando l'amore come possibile via di uscita da una condizione paradossale. In mezzo ci sono due ragazzi che gettano il cuore al di là dell'ostacolo e di una riga tracciata idealmente su una carta geografica. Nella realtà quella linea si traduce in un check point, una barra che interrompe una strada, che separa due popoli, che determina due destini. Da una parte i territori occupati dall'esercito israeliano, dall'altra Israele, da una parte gli ebrei, dall'altra gli arabi, da una parte un ritorno alla propria terra, dall'altra una conquista della propria terra. Una duplice versione che ha condotto alla tragedia. Tragedia che Joseph e Yacine possono correggere, vivendo al meglio la vita dell'altro. Mariarosa Mancuso. Il Foglio Un paio d’anni fa il “Guardian” pubblicò un lungo articolo firmato Ahmed Masoud. Una storia di bombardamenti e di culle, di documentari televisivi e di una prova del Dna considerata inutile: se fino a 17 anni cresci in una famiglia con 5 sorelle e 6 fratelli, è difficile rimettere tutto in discussione per un dubbio, sia pure atroce. In tv andava in onda un documentario sui neonati frettolosamente trasferiti durante i bombardamenti, negli ospedali della striscia di Gaza. L’adolescente Ahmed vide il padre impallidire, e la madre parecchio turbata. Quando chiese il perché, dopo molte insistenze il padre gli raccontò la storia. In una situazione d’emergenza, poco dopo la nascita, Ahmed e la madre erano stati separati. Il padre era corso a prendere il bambino nella stanza indicata dalle infermiere. Trovò due neonati, senza nessun’altra indicazione. Ne prese uno e con lui si mise in salvo. Ahmed Masoud non fece mai il test del Dna, dopo qualche mese smise di pensare che un’altra famiglia avrebbe potuto reclamarlo, raccontò la sua storia in un documentario radiofonico mandato in onda per la festa della mamma e continua a lavorare come scrittore e regista (c’è anche chi lo accusa di essersi inventato l’intera e triste storia). Lorraine Lévy raddoppia l’incidente. (...) Vivere la vita di un altro – in una situazione complicata dalla politica e dal fatto che per gli ebrei nella discendenza identitaria conta la madre, mentre gli arabi danno più importanza ai padri – ha potenzialità drammatiche che la regista non si lascia sfuggire. Non se erano lasciate sfuggire neppure i drammaturghi e i romanzieri che avevano raccontato in precedenza la stessa storia, giocando perlopiù sullo scambio tra il ragazzo ricco e il ragazzo povero, tra il figlio di re e il figlio del popolo. Alla brava Emmanuelle Devos, mamma di Joseph, toccano le manovre di avvicinamento. Cristina Piccinni. Il Manifesto Il figlio dell’Altra, nel titolo originale francese ha la ”A” maiuscola. E non è solo un dettaglio lessicale, perché l’“altra” a cui si fa riferimento è qualcosa di più di una persona. È un mondo, una cultura, un nemico, qualcuno che ha distrutto la tua vita, la tua terra, i tuoi legami, qualcuno che ti insegnano ad odiare o a temere. (…) Lorraine Levy sposta il conflitto tra Israele e Palestina in una dimensione intima, anche se, in fondo, non così privata come potrebbe sembrare. La questione del sangue e dell’appartenenza basta da sé a far vacillare i sentimenti provati fino ad un attimo prima verso qualcuno che si pensava il proprio figlio. I due padri, uno importante funzionario del Ministero della Difesa israeliano, non riescono ad accettare quei ragazzi come i loro figli. Imprecano, piangono, ma, come dice il padre palestinese: “Non dobbiamo dirlo a nessuno. Immagina se lo sanno i miei fratelli, i miei vicini…” Così, sia Yacine, il prediletto della madre, ragazzo dolcissimo, che Joseph dall’altra parte, diventerebbero all’improvviso il Nemico. La regista sposta l’obiettivo sulle madri e sui ragazzi, quasi che nell’alleanza tra i più giovani che la guerra la subiscono e, soprattutto nel potere femminile, ci possa essere l’arma con cui superare questa guerra. Nelle pieghe, a volte ingenue, a volte brusche, di questa situazione surreale, le due madri, affrontano la tempesta dei sentimenti contro la realtà in cui vivono. Non possono rinunciare a un pezzo di sé da cui sono state separate, ma nemmeno a colui che hanno amato e cresciuto per anni. E insieme a loro ci sono i ragazzi, un futuro possibile, specchio uno dell’altro, del destino che gli era riservato, se quello scambio non fosse mai avvenuto. L’“Altro” è ancora lontano, ma – sembra dirci la regista – forse, da qualche parte si può ancora essere diversi. Arianna Pagliara. Cinecriticaweb Tra le pieghe della grande storia ci sono sempre infinite piccole storie intime e private, che spesso si fanno metafora e specchio della Storia più grande che le contiene: è questo il caso della vicenda che lega i giovani protagonisti de Il figlio dell’altra, vicenda singolare e complicata che nel contesto sociale e storico in cui prende vita non può non avere dei risvolti anche drammatici. (...) Il film è il racconto dell’incontro difficile tra queste due famiglie, che vengono messe di fronte non solo ad un evento assurdo e sconvolgente in sé, ma anche all’esigenza di ripensare il proprio rapporto con l’altro, un altro che è (o è stato, fino a questo momento) aprioristicamente nemico, e che vive una vita opposta e diversa rispetto alla propria al di là di un muro (che diviene qui anche simbolico e ideale) sorvegliato notte e giorno da pattuglie armate. Yacine e Joseph tuttavia riescono pian piano a stringere un’amicizia sincera che diviene una commovente metafora della possibilità di sovvertire e annientare la violenza e l’odio attraverso un atto di fiducia. Saranno le loro madri, Orith (israeliana di origini francesi) e Areen (palestinese), le prime ad allacciare un dialogo e a trovare una via pacifica che le condurrà – insieme – verso una nuova, riscoperta maternità. I più restii e in parte incapaci di scendere a patti con quanto accaduto sono i padri dei due ragazzi: sembrano non poter uscire da quella dimensione di conflitto, rancore e rivalità che segna le loro vite, quasi fosse connaturata ad esse. Anche Bilal, il fratello maggiore di Yacine, nonostante il suo affetto non riesce ad accettare la situazione. Accanto a sé ora vede un nemico, quasi che suo fratello fosse responsabile di essersi appropriato di un’identità (musulmana e palestinese appunto) che non gli appartiene. Di contro, quando Joseph si interroga sulla propria appartenenza religiosa, si vede rispondere dal rabbino che per “tornare” ad essere ebreo dovrà riconvertirsi, come se l’identità religiosa coincidesse con quella biologica piuttosto che con quella culturale. La lettura della regista Lorraine Lévy tende quindi verosimilmente a individuare due poli diversi (maschile e femminile) che coincidono con due differenti modi di rapportarsi a questo evento inaspettato e, in ultimo, all’altro: uno più cerebrale e rigido (quindi acquisito, culturale), l’altro più viscerale, emotivo e spontaneo (cioè istintivo, in un certo senso innato). I due protagonisti tuttavia – sia perché ancora giovani e al di fuori da certe dinamiche di pensiero, sia perché coinvolti in prima persona – non si allineano con il “pensiero dei padri” ma anzi implicitamente li guidano verso un modo rinnovato (costruttivo e finalmente positivo) di affrontare quanto sta succedendo e, in definitiva, di confrontarsi con una realtà complessa, fatta di imprevisti e incognite a volte dolorosi e sconcertanti. Ben recitato, costruito in maniera solida e non scontata, Il figlio dell’altra è una riflessione intimista, sobria ma coinvolgente, che prende le mosse dalla descrizione di una dimensione affettiva e familiare per arrivare poi a comprendere, di questa dimensione, anche gli echi – per così dire – storici, sociali e politici. (...)