Kant e la mente ermeneutica

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Kant e la mente ermeneutica
Marco Sgarbi
Kant e la mente ermeneutica*
Che cosa significa l’espressione “mente ermeneutica”? In che senso una
mente può essere “ermeneutica”? Cosa ha a che fare l’ermeneutica con l’idealismo trascendentale kantiano? Quale ruolo ha il modello della mente kantiano
nei diversi approcci contemporanei della filosofia della mente?
In generale si può dire che “ermeneutica” è quella mente che è capace di
“significare” le cose del mondo, ovvero di istituire relazioni e rapporti dotati di
senso di ciò che si ha esperienza. Questa provvisoria definizione porta con sé
due assunti teorici piuttosto importanti e di certo non condivisi da tutti gli epistemologi e gli ermeneuti contemporanei.
Il primo assunto teorico riguarda il fatto che ciò di cui si ha esperienza non
ha di per sé un valore puramente oggettivo, ovvero non ha un “significato” senza la mente. D’altra parte lo stesso “essere oggettivo” delle cose è sempre rispetto ed in relazione ad un “essere soggettivo”. L’“essere soggettivo” è ciò che
fornisce significato all’“essere oggettivo”, e quest’ultimo non può “essere” senza il primo. Si badi bene, questo non significa che l’oggetto “non sia”, cioè non
abbia una consistenza ontologica al di fuori del soggetto, ma significa solamente che esso non ha un significato, o almeno non ha un significato determinato,
senza il soggetto. Non è messa in discussione la realtà ontica dell’oggetto, bensì la sua capacità di “essere per noi”. Inoltre questo non significa nemmeno riproporre il “terzo dogma” dell’empirismo, ovvero la distinzione fra soggetto e
oggetto, schema concettuale e contenuto, infatti l’“essere soggettivo” e l’“essere oggettivo” riguardano due aspetti, se si vuole due punti vista, dello stesso
“essere”. Per l’esperienza, anche rispetto ad un empirismo minimalista, appare
innegabile dal punto di vista logico l’esistenza di un “essere soggettivo” e di un
“essere oggettivo” delle cose. Infatti l’“essere soggettivo” e l’“essere oggettivo” delle cose garantiscono da una parte che rispetto alla cosa si possano avere
soggettivamente punti di vista differenti, d’altra parte garantiscono anche che la
cosa di cui si parla sia la stessa. Se poi l’“essere soggettivo” della cosa riguar* A Maurizio Ferraris per il suo cinquantacinquesimo genetliaco.
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da una semplice apparenza della cosa, cioè il suo fenomeno, o il “ciò che è”
della sua cosa, cioè il noumeno, non è ora materia di discussione. L’importante
è segnalare che l’“essere soggettivo” e l’“essere oggettivo” della cosa sono
mantenuti anche in quegli approcci che vogliono scardinare il terzo dogma dell’empirismo1.
Il secondo assunto teorico riguarda il fatto che la mente non riceve passivamente il contenuto dell’esperienza, ma che in un qualche modo esercita un’attività. L’attività della mente è proprio quella di “significare” le cose, ovvero di
far propria l’esperienza, cioè portare alla luce l’“essere soggettivo” della cosa.
L’“essere soggettivo” della cosa, tuttavia, si dà alla mente, la quale appunto
esperisce e significa che una cosa che “c’è” nel suo “essere oggettivo” al di là
del suo “essere soggettivo”. Perciò in un certo senso la mente riceve l’esperienza e in questa ricezione la significa. Questo vuol dire che il momento della passività e dell’attività della mente, così come l’“essere soggettivo” e l’“essere oggettivo”, sono solo logicamente distinti, ma che in realtà costituiscono un solo
momento, che è “il” momento dell’esperienza per la mente ermeneutica. Sia
passività che attività concorrono insieme al momento esperienziale per dare un
senso a ciò di cui si fa esperienza, che può essere tanto un mondo esterno quanto un mondo interiore.
Questi due assunti teorici, considerati dai più vari punti di vista, conducono
a diversi approcci filosofici e svariate dottrine ermeneutico-epistemologiche. In
questa sede interessano innanzitutto quelle teorie che si riferiscono direttamente alla filosofia kantiana o a sue originali interpretazioni. L’obiettivo di questo
articolo è mostrare il contributo kantiano nell’elaborazione di una teoria della
“mente ermeneutica” e la sua relazione con la fondazione dell’idealismo trascendentale.
Per idealismo trascendentale si intende quella dottrina che afferma che la
distinzione fra fenomeno e noumeno, non è una distinzione fra due entità, apparenze e cose in sé, ma piuttosto fra due distinti modi nei quali l’oggetto dell’esperienza umana può essere considerato. In particolare l’idealismo trascendentale si occupa dell’analisi delle strutture trascendentali che sono le condizioni necessarie per la rappresentazione e l’esperienza degli oggetti2.
Un pilastro fondamentale della filosofia kantiana e dell’idealismo trascendentale è senza dubbio la cosiddetta “rivoluzione copernicana”, secondo la
quale non è la mente che deve conformarsi agli oggetti, bensì sono gli oggetti
che devono regolarsi sulla mente stessa. Questa rivoluzione permette a Kant di
1. Lo stesso D. Davidson, tuttavia, che dichiarava la fine del “terzo dogma” dell’empirismo e la fine del “mito del soggettivo”, ammetteva nei suoi scritti o la prevalenza dello
schema concettuale o del contenuto. Per una prevalenza dello schema concettuale cfr. D.
Davidson, On the Very Idea of Conceptual Scheme, in Proceedings and Addresses of the
American Philosophical Association, 47 (1974), pp. 5-20; per una prevalenza della sensibilità cfr. D. Davidson, A Coherence Theory of Truth and Knowledge, in D. Henrich (hrsg.),
Kant oder Hegel?, Klett-Cotta, Stuttgart 1981, pp. 423-438.
2. Questa tesi è stata sostenuta principalmente da H.E. Allison, Kant’s Transcendental
Idealism. An Interpretation and Defense, Yale University Press, New Haven 1983.
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garantiscono validità e universalità3. Questo è sicuramente un cardine fondamentale della dottrina epistemologica kantiana esposta nella Kritik der reinen
Vernunft.
Il grande problema degli interpreti kantiani, tuttavia, rimane quello di capire in che modo i concetti della mente determinano l’esperienza del mondo.
Una soluzione è stata proposta da John H. McDowell in Mind and World.
McDowell afferma che ogni esperienza è costituita congiuntamente dalla ricettività della sensibilità e dalla spontaneità, cioè che queste due “facoltà” della
mente non agiscono mai separatamente, ma le capacità concettuali sono già utilizzate nella ricettività4. Questo significa che l’esperienza ha già da sé un contenuto concettuale5, e che non c’è nulla dell’esperienza al di fuori di ciò che è
compreso attraverso concetti. Dunque per McDowell le impressioni del mondo
sui sensi sono già intrinsecamente dotate di contenuto concettuale6. L’aspetto
interessante dell’interpretazione di McDowell della teoria kantiana è che la
realtà viene identificata con tutto ciò che è concettuale7, tanto che la famosa
frase, «ciò che è razionale, è reale; e ciò che è reale, è razionale»8, sarebbe meglio applicata al filosofo di Königsberg che al suo ideatore Georg Wilhelm
Friedrich Hegel. McDowell è esplicito su ciò: «siamo lasciati in una visione in
cui la realtà non è localizzata all’esterno dei confini di ciò che il concettuale
racchiude»9. McDowell si impegna perciò a difendere la tesi che non esiste un
contenuto che non sia in un qualche modo concettuale: ogni sensazione è concettualizzata perché ogni esperienza è costituita da sensibilità e spontaneità. Il
problema dell’analisi del pensiero kantiano di McDowell è che si riferisce solo
alla dottrina kantiana della Kritik der reinen Vernunft, dove effettivamente sembra che ogni esperienza sia sempre strutturata dai concetti dell’intelletto e dalla
sua spontaneità. Se le cose stessero così come le presenta McDowell si dovrebbe concludere che ogni esperienza, nonostante l’“essere soggettivo” che essa
implica, sia scienza. Il mondo non potrebbe essere diversamente da così come i
concetti lo apprendono e lo spiegano, e ogni esperienza diventerebbe esperienza concettuale. Ma è proprio vero che ogni esperienza è scienza? È proprio
vero che la mente kantiana è innanzitutto una “mente epistemologica”? E se
così fosse quale spazio rimarrebbe all’ermeneutica?
Uno dei punti deboli dell’interpretazione di McDowell consiste nel fatto
che la spontaneità non è una caratteristica fondamentale solo dell’intelletto, ma
lo è anche del Giudizio (Urteilskraft) e della ragione. McDowell tenta di ovviare il problema in vari luoghi proponendo una sostanziale identificazione fra in-
condurre una serrata indagine su quelle strutture mentali a priori che governano
la conoscenza degli oggetti. Ciò non significa che Kant ammetta un tipo di conoscenza indipendente dall’esperienza, bensì semplicemente che non tutta la
conoscenza deriva dall’esperienza, sebbene tutta incomincia da questa. In questo senso Kant è assai leibniziano nel rigettare il locus classico ripetuto da
Locke nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu, aggiungendo, excipe: nisi intellectus ipse.
Per Kant così ogni conoscenza scaturisce da due sorgenti fondamentali dell’animo, la sensibilità o ricettività delle intuizioni, e la spontaneità dell’intelletto o dei concetti. Per mezzo della prima, un oggetto viene dato, per mezzo della seconda, l’oggetto viene pensato. Intuizioni e concetto così vengono a costituire i due elementi fondamentali della conoscenza di modo che né i concetti
senza un’intuizione, né l’intuizione senza concetti possano fornire una conoscenza, infatti: «i pensieri, senza contenuto, sono vuoti; le intuizioni, senza
concetti, sono cieche».
La teoria kantiana della conoscenza così esposta appare assai chiara ed evidente, tanto che non sembra bisognosa di ulteriori approfondimenti. Invece,
non sembra ancora ben chiaro per gli studiosi e gli interpreti di Kant quale sia
l’effettivo ruolo della mente nei confronti dell’esperienza.
In generale è possibile dire che la mente riceve e significa l’esperienza o attraverso delle strutture che sono presenti in essa, cioè nel caso kantiano appena
menzionato attraverso i concetti puri dell’intelletto, o significa indipendentemente e liberamente da ogni sua struttura, ma non è questo il caso esposto nella Kritik der reinen Vernunft. Entrambe le teorie recano con sé numerosi problemi. In primo luogo se la mente significa attraverso concetti, sorge la questione di capire se questi concetti siano qualcosa che essa ha in modo innato,
cioè se questi concetti siano determinati e siano così una volta per tutte, o se
questi concetti siano qualcosa che si acquisisce nel tempo con l’esercizio della
mente. Se i concetti sono innati poi sorgono almeno due ordini di problemi. Il
primo problema è giustificare come sia possibile che in tempi diversi la mente
significhi le esperienze in modo diverso. Basti pensare a come vengono significate differentemente le nuove esperienze da bambini e da adulti. Il secondo
problema è stabilire se i concetti sono “privati” o “comuni”, cioè se appartengono congenitamente ad una determinata mente o appartengono a tutte le menti, cioè sono uguali per tutti gli esseri dotati di una mente. Se appartengono
congenitamente solo ad una determinata mente poi sorge il problema di come
condividere, anche solo linguisticamente, le esperienze: l’esperienza diventerebbe un fatto totalmente privato. Se, invece, appartengono a tutte le menti bisogna spiegare come sia possibile che rispetto alle stesse cose e agli stessi
eventi si hanno esperienze differenti.
Fortunatamente, in relazione a Kant, tutti questi problemi sembrano svanire
perché i concetti puri dell’intelletto non sono assolutamente qualcosa di innato,
ma sono delle disposizioni originarie, degli abiti, che si acquisiscono con il
tempo e che nella loro acquisizione sono soggettivi, cioè un abito può essere
più o meno sviluppato in una mente rispetto ad un’altra, ma nel loro uso reale
3. Mi permetto di rinviare al mio La Kritik der reinen Vernunft nel contesto della tradizione aristotelica, Olms, Hildesheim 2010, pp. 176-185.
4. Cfr. J. McDowell, Mind and World, Harvard University Press, Harvard 1994, pp. 9,
11, 24.
5. Cfr. Ivi, p. 10.
6. Cfr. Ivi, p. 18.
7. Cfr. Ivi, p. 41.
8. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Nicolai, Berlin 1820, p. XIX.
9. J. McDowell, Mind and World, cit., p. 44.
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telletto e ragione, ma in Kant intelletto e ragione sono due facoltà ben distinte
l’una dall’altra con confini e limiti ben diversi.
La mente di Kant non si riduce al mero intelletto, cioè ad una “mente epistemologica”, e soprattutto la spontaneità non opera solo attraverso concetti.
Anzi, la vera spontaneità per Kant non è quella dell’intelletto che è vincolato
sia ai suoi stessi concetti che al mondo esterno, bensì è quella libera da ogni
vincolo concettuale, quella che o produce da sé i suoi concetti (ragione pratica)
o quella che valuta senza concetti (o con concetti indeterminati) nel libro gioco
delle facoltà conoscitive (Urteilskraft). Inoltre, se la spontaneità dell’intelletto
fosse l’unica, e ci fosse così realmente coincidenza fra esperienza e conoscenza
scientifica, non si potrebbe dare ragione della famosa frase kantiana secondo
cui «tutta la nostra conoscenza comincia dall’esperienza»10. Che bisogno ci sarebbe di distinguere la conoscenza dall’esperienza, se queste non fossero realmente due cose distinte? E visto che ogni conoscenza implica un coinvolgimento fra sensazioni e concetti, bisogna supporre che almeno in parte l’esperienza non sia determinata concettualmente, cioè che vi sia un’esperienza concettuale e un’esperienza non concettuale. È vero però che in molti luoghi della
Kritik der reinen Vernunft e dei Prolegomena, Kant sembra sottointendere l’identità fra esperienza e conoscenza. Tuttavia, proprio in uno di questi luoghi,
cioè nei Prolegomena, Kant ammette la possibilità di giudizi della percezione
a-concettuali o senza concetti determinati11. Non tutti i giudizi empirici, cioè
quei giudizi che hanno il loro fondamento nella percezione, sono giudizi di
esperienza, ma solo quelli che oltre all’elemento empirico aggiungono i concetti puri dell’intelletto. Sembra così confermata l’ipotesi secondo cui per Kant i
giudizi di esperienza coincidono con i giudizi conoscitivi. I giudizi empirici
non concettuali hanno un semplice valore soggettivo e sono anche chiamati
giudizi della percezione (Wahrnemungsurteile) e necessitano semplicemente di
un collegamento logico della percezione in un soggetto pensante. Fanno parte
di questo tipo di giudizi della percezione i cosiddetti “giudizi estetici”. È interessante notare come proprio nei Prolegomena Kant afferma che tutti i giudizi
inizialmente sono sempre giudizi della percezione12. Ciò significa che anche i
giudizi dell’esperienza prima ancora di essere tali, cioè prima di essere concettualizzati, sono giudizi della percezione e questo non fa nient’altro che ribadire
la possibilità di un “esperire”, o se si vuole “percepire”, senza concetti.
Contro un’identificazione fra esperienza e conoscenza è la posizione ermeneutico-ontologica di Maurizio Ferraris13, che aiuta ad illuminare meglio la posizione kantiana, più di quanto egli sia disposto ad ammettere. Ferraris, come
McDowell, afferma che per Kant il reale è solo ciò che è oggetto della fisica,
dove per fisica intende quella conoscenza scientifica fondata sui concetti puri
dell’intelletto14. Per Ferraris, gli schemi kantiani determinano l’esperienza in
10. KGS, III, B 1.
11. Cfr. KGS, V, p. 297.
12. Cfr. KGS, V, p. 298.
13. Cfr. M. Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001, p. 21.
14. Ivi, pp. 29-30.
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modo tale che essa non può che divenire scienza. In reazione a questo supposto
livellamento dell’esperienza alla scienza, Ferraris elabora una concezione
estremamente originale che aiuta a comprendere ancor meglio la posizione
kantiana: «ci sono moltissime zone della nostra esperienza che rimangono,
spesso per sempre non concettualizzate, pur risultando di principio concettualizzabili e senza perciò apparire chimeriche: se mi muovo, apro una scatola
[…] non sto compiendo esperienze concettuali»15. In primo luogo quello che
vuole affermare Ferraris è che si fanno esperienze che non sono concettuali, ribadendo così la distinzione fra esperienza e scienza. L’aspetto interessante però
è che queste esperienze non concettualizzate sono di principio concettualizzabili. Cosa vuol dire questo? Che tutta l’esperienza può divenire scienza? Se
così fosse si cadrebbe nuovamente nell’errore imputato a Kant, cioè di progettare l’esperienza in vista della scienza. Secondo Ferraris «la concettualizzazione avverrebbe se mi si domandasse che cosa sto facendo, e, allora si tratterebbe
altresì di appurare se ho ragione o torto, ossia se la mia descrizione risulta
scientificamente accurata»16. Da questa affermazione emergono importanti
spunti di riflessione. Il primo spunto è che per verificare se una cosa sia corretta, o no, è necessaria una spiegazione scientifica. Tuttavia, si potrebbe obiettare
che per sapere di aver sbattuto la testa non serve una spiegazione scientifica e
che forse basterebbe un giudizio di percezione. Il secondo spunto è che la concettualizzazione avviene quando si domanda il “che cosa è”. All’opposto della
domanda sul “che cosa è”, rispetto agli oggetti non concettualizzati, si dovrebbe porre, secondo Ferraris, la domanda sul “che cosa c’è”. Ciò che sta a cuore
a Ferraris è sostanzialmente una reale distinzione fra ontologia ed epistemologia. Il problema però è capire se è possibile scindere la domanda del “che cosa
è” dal “che cosa c’è”. Se si sbatte la testa contro il muro si sa che si è sbattuto
contro qualcosa, cioè che qualcosa c’è, ma non si sa che si è sbattuta la testa
proprio contro il muro. In questo senso la questione ontologica sul “che cosa
c’è” non dice nulla o è propriamente “insignificante” dal punto di vista ermeneutico se non è accompagnata dalla domanda sul “che cosa è”: infatti non si
potrebbe nemmeno fare l’elenco delle cose che ci sono. Certo si può immaginare che tutto sia costituito da particelle, come fanno alcuni ontologi analitici, e
che quindi tutto quello che c’è sono solo particelle, ma in questo caso l’informazione sarebbe davvero scarsa e difficilmente spiegherebbe perché si percepisce tanta differenza, nel momento in cui si esperisce, a sbattere la testa contro
un muro o contro un materasso. Anche ammettendo che le particelle siano disposte in modo diverso in un tavolo o in un muro, dovrei spiegare il perché
sono disposte diversamente e perché hanno proprio quella forma e non un’altra,
altrimenti non potrei dire che c’è un muro anziché un tavolo. D’altra parte non
posso dire c’è un tavolo, c’è un muro, senza sapere cosa siano sono i tavoli e i
muri. Ma questo significa effettivamente concettualizzare? Significa veramente
dare una risposta scientifica?
15. Ivi, p. 100.
16. Ibidem.
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I punti di vista di McDowell e di Ferraris, sebbene opposti, convergono nell’affermazione che la mente di Kant sarebbe meramente “epistemologica” e il
suo approccio filosofico sarebbe una sorta di newtonismo della mente: McDowell crede che questo sia l’approccio fondamentale per dare ragione dell’esperienza, Ferraris, invece, crede che questo approccio sia riduttivo e che l’esperienza non sia necessariamente scienza17. Ferraris ha kantianamente ragione, soprattutto se si prendono in considerazione alcuni passi importanti della
Kritik der reinen Vernunft e li si mettono in relazione Kritik der Urteilskraft.
Attraverso una rilettura di queste dottrine è possibile affermare che Kant proponga una vera e propria teoria della “mente ermeneutica”, che racchiude in sé
la teoria della “mente epistemologica”, ma che non è esaurita in essa.
La teoria kantiana della conoscenza alla domanda “che cosa è” non risponde necessariamente con una descrizione scientifica, cioè attraverso l’utilizzo
dei concetti. Infatti, come si è visto attraverso i giudizi della percezione non
solo si determina “che qualcosa c’è”, ma si sa anche “che cosa è”, almeno per
il soggetto in un determinato spazio e in un determinato tempo: questo è tutto
ciò che serve a Kant per avere un minimum di esperienza che non sia scienza.
Cioè c’è un livello di significazione non scientifica che entra in atto rispetto ad
oggetti singolari e che riguarda direttamente il soggetto. In questo senso va interpretato il famoso esempio del selvaggio che vede una casa, ma non sa che è
una casa18. Il selvaggio ha davanti agli occhi la rappresentazione di un oggetto
(la casa) che non sa riconoscere come casa e che corrisponde alla medesima
rappresentazione che ha un uomo che conosce (scientificamente) la casa come
abitazione. Questo non vuol dire che l’oggetto non conosciuto non abbia alcun
significato. Anzi è proprio in questa situazione di “vuoto significazionale” che
la mente kantiana si fa effettivamente “ermeneutica”, cioè può esercitare compiutamente la facoltà di dare significati e istituire relazioni di senso. È proprio
in questo contesto che la rivoluzione copernicana ha più effetto e l’idealismo
trascendentale acquista vero significato. Infatti, l’oggetto trascendentale è compreso nella sua totale a-priorità e trascendentalità prima di ogni intervento categoriale che già in un qualche modo lo determina. L’obbiettivo dell’idealismo
trascendentale di Kant è elaborare quella logica che possa stabilire a priori i
modi di significazione dell’esperienza e fare in modo che i significati attribuiti
all’esperienza non siano solo per un soggetto, ma che valgano per tutti i soggetti.
Nella Kritik der reinen Vernunft la trans-oggettività degli oggetti era in un
certo senso garantita dalle categorie, le quali conducevano ad una conoscenza
(scientifica) condivisibile, cioè ad una Weltanschauung comune a tutti i soggetti razionali dotati di un intelletto ben formato. Questo tipo di trans-oggettività
però trasforma ogni esperienza in scienza. Nelle due successive Kritiken, la
trans-oggettività o universalità non è più garantita dalle categorie, ma dal fatto
di poter assumere come condivisibile il proprio punto di vista anche per altri
soggetti: ciò che si instaura è una sorta di olismo semantico. Ad esempio nella
Kritik der praktischen Vernunft si stabilisce la regola che prescrive di agire in
modo tale che la massima della propria volontà possa sempre valere in ogni
tempo come principio di una legislazione universale19. Si tratta per Kant di agire come se la massima di una volontà singola (la propria) valga per tutti gli uomini, cioè un’azione morale compiuta da un soggetto è tale se e solo se può essere considerata morale da tutti gli esseri razionali. Nella Kritik der Urteilskraft,
invece, la deduzione dei giudizi di gusto è fondata proprio sul fatto che essi possano valere non solo per il soggetto singolo per tutti gli uomini dotati di “senso
comune”.
La trans-oggettività in generale è fondata perciò su “pratiche” comuni morali o estetiche, che si possono anche più generalmente chiamare semantiche,
ma non concettuali. Dare significati intenzionati alle azioni, alle opere d’arte,
così come anche alla natura, coinvolge un tipo di attività, l’interpretazione, che
non coincide con una spiegazione che porta ad una conoscenza scientifica degli
oggetti. D’altra parte una spiegazione propriamente non fornisce significati, ma
tenta di dare una descrizione degli oggetti o degli eventi tramite una struttura
semantica già definita che nel caso di Kant coincide con quella categoriale.
L’interpretazione è, invece, l’unica “pratica” capace di significare veramente
senza alcuna pre-struttura semantica.
Se è di interpretazione che Kant parla, allora si può veramente parlare di
una “mente ermeneutica”, la quale opera senza concetti. Sebbene Kant non elabori esplicitamente una teoria dell’interpretazione, è possibile affermare che
l’indagine kantiana, volta a ricercare i limiti dell’intelletto umano, determini
alla fine la necessità di una teoria dell’interpretazione per comprendere la coerenza e il significato dell’esperienza20. Tale teoria dell’interpretazione muove
verso una prospettiva olistica della considerazione della natura rispetto alla teoria elaborata nella Kritik der reinen Vernunft. Non è che non si possa parlare di
interpretazione anche per le dottrine sviluppate nella Kritik der reinen Vernunft,
infatti, ogni filosofia che richiede la mediazione di ciò che è direttamente o indirettamente accessibile all’esperienza richiede un processo ermeneutico21.
Tuttavia, nella Kritik der reinen Vernunft Kant fornisce una rigida e fissa lettura della natura dal punto di vista scientifico quasi come se i soggetti coinvolti
dell’esperienza non ci fossero, la cosiddetta view from nowhere22. Al contrario,
l’estetica kantiana contribuisce a un’ermeneutica nella quale la prospettiva trascendentale non è più concepita come esclusivamente fondante per le scienze
della natura, ma orientativa per la totalità del soggetto umano nel mondo23.
17. Questi due approcci sono legittimati da diverse affermazioni kantiane e anche in un
certo senso dalle posizioni del neo-kantismo, in particolare quella di Hermann Cohen, che
partono proprio da questa concezione dell’esperienza kantiana per elaborare i propri sistemi
filosofici.
18. KGS, IX, p. 33.
19. Cfr. KGS, V, p. 30.
20. Cfr. R.A. Makkreel, Imagination and interpretation in Kant. The Hermeneutical Import of the Critique of Judgment, The University of Chicago Press, Chicago 1990, p. 1.
21. Cfr. Ivi, p. 2.
22. Cfr. T. Nagel, The View from Nowhere, Oxford University Press, Oxford 1989.
23. Cfr. R.A. Makkreel, Imagination and interpretation in Kant, cit., p. 2.
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L’interpretazione deve perciò essere distinta da una semplice lettura della natura: laddove la lettura della natura procede architettonicamente sulla base di regole fisse, l’interpretazione procede sulla base di linee guida che sono rivedibili e indeterminate. La grande differenza tra una visione “scientifica” del mondo, proposta nella Kritik der reinen Vernunft, e una visione “ermeneutica” del
mondo, proposta nella Kritik der Urteilskraft, sta quindi nel fatto che l’ermeneutica propone più “visioni del mondo”, e non è un caso che l’espressione
“visione del mondo” venga coniata in ambito filosofico per la prima volta propria nella terza Critica kantiana.
La teoria dell’interpretazione kantiana diviene così genuinamente ermeneutica e olistica perché le parti di un tutto dato sono utilizzate per arricchire e specificare la comprensione iniziale di esso ed inoltre esse istituiscono significati
quando manca una diretta connessione concettuale24.
Alla base della teoria dell’interpretazione sta per Kant la funzione di qualsiasi significazione slegata da concetti o da vincoli concettuali: la schematizzazione senza concetto. Prima di definire l’attività specifica della schematizzazione senza concetto, è necessario delineare la funzione della schematizzazione e
del suo funzionamento per capire in che senso il soggetto possa fornire delle
autentiche interpretazioni.
Il fatto che lo schematismo sia la funzione significante per eccellenza si riscontra in Kant già a partire dalla Kritik der reinen Vernunft dove l’oggetto percepito era posto in relazione con i concetti: «gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le vere e le uniche condizioni per procurare ai concetti un rapporto con gli oggetti, quindi un significato»25. Senza la funzione schematizzatrice dell’immaginazione i concetti sarebbero privi di significato. È particolarmente interessante la direzione verso cui si stabilisce questo rapporto, cioè è lo
schematismo che significa, non i concetti. Le categorie sono qualcosa che si
aggiunge per dare un significato determinato agli oggetti percepiti, ma non per
dare un significato in generale, che è, come si è visto, una funzione che compete semplicemente allo schematismo. La funzione schematizzatrice così come
viene articolata nella Kritik der reinen Vernunft assegna significati oggettivi
alle categorie come parte di una lettura fissa e generale della natura, cioè gli
schemi possono essere considerati come regole semantiche che determinano la
conformità dell’oggetto alle categorie specificando i suoi possibili predicati
empirici26.
Gli oggetti, tuttavia, non sono esclusivamente in conformità alle categorie
dell’intelletto, altrimenti ogni percezione dovrebbe diventare, come si è detto,
conoscenza. Gli oggetti possono essere dotati di significato indipendentemente
dai concetti dell’intelletto attraverso la schematizzazione senza concetti della
Kritik der Urteilskraft.
Kant tematizza il problema della schematizzazione nel § 35 della Kritik der
Urteilskraft27. Per Kant il giudizio di gusto non ha a fondamento alcun concetto dell’oggetto percepito, quindi l’attività del l’Urteilskraft non può consistere
nel sussumere, attraverso l’immaginazione, l’intuizione sotto le categorie. In
questo senso l’immaginazione è originariamente spontanea, cioè è libera trascendentalmente di attribuire significati agli oggetti che vengono percepiti:
schematizza senza concetto28. Kant spiega poi che schematizzare senza concetto ovviamente non può consistere nella sussunzione delle intuizioni sotto le categorie, ma consiste piuttosto nella sussunzione dell’immaginazione sotto l’intelletto. Questo tipo di sussunzione non è nient’altro che il libero accordo delle
facoltà conoscitive fra loro che è stato introdotto da Kant nella Zweite Einleitung. Nel § IV della Zweite Einleitung dedicato all’analisi della’Urteilskraft
come facoltà legislativa a priori Kant spiega che siccome le leggi universali
della natura analizzate nella Kritik der reinen Vernunft hanno fondamento solo
nell’intelletto che le prescrive alla natura stessa, le leggi empiriche particolari
trattate nella Kritik der Urteilskraft, rispetto a ciò che è rimasto indeterminato
dalle leggi universali devono essere considerate come se appartenessero anche
ad un intelletto, sebbene non un intelletto umano, che le avesse date a vantaggio della facoltà conoscitiva per costituire un sistema completo dell’esperienza
secondo leggi particolari della natura. La natura viene rappresentata dal concetto di conformità a scopi (Zweckmässigkeit) come se un intelletto contenesse il
fondamento dell’unità del molteplice delle sue leggi empiriche29. Tale concetto
rappresenta l’unico modo in cui si deve procedere nella riflessione sugli oggetti della natura con l’intento di avere un’esperienza che sia coerentemente connessa in modo completo, infatti esso a partire da percezioni date di una natura
che contiene una infinita molteplicità di leggi empiriche, permette un’esperienza coerente degli oggetti. Questa conformità a scopi non deve essere letta né
come una finalità, né come un teleologismo e nemmeno come una strumentalità, ma semplicemente nel senso che in ogni esperienza il soggetto è intenzionato verso l’oggetto rispetto a particolari aspettative di senso che l’oggetto
stesso potrebbe fornire. In questo senso l’immaginazione per mezzo della schematizzazione senza concetto significa gli oggetti come se il senso di questi fosse stato pre-determinato a priori attraverso l’intelletto, in modo tale che l’esperienza di ogni singolo soggetto possa essere rispetto le aspettative di senso di
un oggetto valida per ogni soggetto. Questo significa che quando si interpreta
attraverso la reflektierende Urteilskraft per Kant si suppone che questa interpretazione possa essere non solo privata, ma anche condivisa da tutti gli esseri razionali che intenzionano rispetto ai medesimi oggetti particolari e rispetto alle
infinite leggi empiriche: ciò che si presuppone e si pretende è il consenso sul-
24. Cfr. Ivi, p. 5.
25. KGS, III, A 145-6/B 185.
26. Cfr. R.A. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant. The Hermeneutical Import of the Critique of Judgment, cit., p. 41; R. Butts, Kant’s Schemata as Semantical Rules,
in L.W. Beck, Kant. Studies Today, Open Court, La Salle 1969, pp. 290-300.
27. Cfr. KGS, V, p. 287.
28. Inoltre nel § 49 Kant è chiaro nell’affermare che l’immaginazione libera è collegata
solo con una molteplicità di rappresentazioni parziali che non potranno mai essere concettualizzate in un concetto determinato, ma che rimandano a un concetto ineffabile. Cfr. KGS,
V, p. 316.
29. Cfr. KGS, V, pp. 179-180.
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l’interpretazione. È questo un aspetto fondamentale della mente ermeneutica
che Kant sviluppa nel tentativo di dare ragione dell’esperienza. Già a partire
dalla Kritik der reinen Vernunft, anche se spesso si tende a dimenticarlo, Kant
aveva affermato che qual’ora non fosse possibile stabilire a priori, attraverso il
criterio intrinseco dei concetti puri dell’intelletto, l’universalità e la verità rispetto all’oggetto dell’esperienza, sarebbe stato comunque possibile fare appello ad un criterio estrinseco30. Tale criterio estrinseco per il quale si stabilisce la
verità e quindi l’universalità rispetto all’oggetto dell’esperienza è determinato
dall’accordo dei giudizi di tutti gli intelletti, cioè nella possibilità di comunicarlo e nel trovarlo valido per la ragione di ogni uomo: «in tal caso, infatti, per lo
meno si presume che il principio dell’accordo di tutti i giudizi, nonostante la
diversità dei soggetti fra di loro, si baserà su un fondamento comune, cioè sull’oggetto, con il quale concorderanno dunque tutti i giudizi, dimostrando con
ciò la verità»31. Il fatto che la produzione della Weltanschauung condotta attraverso i mezzi euristici della logica della mente ermeneutica non sia arbitraria è
garantito per Kant dalla necessità di un accordo fra i vari intelletti. In questo
senso anche nelle interpretazioni è possibile stabilire un criterio di verità che
permette di significare in modo corretto, senza concetti, le cose del mondo.
Posti questi elementi è possibile affermare che l’idealismo trascendentale
kantiano ha come obiettivo trovare quelle strutture e quelle leggi a priori della
mente che permettono la fondazione di un’autentica ermeneutica che riesca a
dare un significato all’esperienza, indipendentemente o in aggiunta ad una descrizione scientifica della natura. Presentare la mente kantiana come una mente
prevalentemente epistemologica, cioè fondante rispetto le scienze della natura,
significa tradire l’originale intento dell’idealismo trascendentale kantiano che
vuole essere una teoria generale dell’esperienza intesa nella sua totalità alla cui
base sta una teoria della mente ermeneutica.
30. KGS, III, A 820/B 848.
31. KGS, III, A 821/B 849.
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