Il salotto made in Mezzogiorno

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Il salotto made in Mezzogiorno
Osservatorio sul Mezzogiorno
Anno I n. 2
IL SALOTTO “MADE IN MEZZOGIORNO”
Storia di un successo e della crisi che lo affligge
di Umberto Antonio Castellano
SOMMARIO:
1.
I
distretti
industriali:quadro generale. 2. Il “triangolo del
salotto”. 3. Le ragioni della crisi. 4. La
situazione attuale e le prospettive di rilancio.
1. I
generale
distretti
industriali:
quadro
Quando si parla di distretto industriale,
genericamente si pensa ad un conglomerato
di aziende produttive tutte ubicate nella
stessa zona e tutte tendenzialmente
specializzate nella fabbricazione di prodotti
tra loro affini, se non addirittura dello stesso
prodotto. Per quanto vaga, quest’idea non è
molto distante da una definizione più
scientifica: economicamente infatti, quello
di distretto industriale è un concetto ben
preciso, cui illustri studiosi, primo tra tutti
Marshall, hanno dedicato la propria
attenzione.
Agli inizi del ‘900, il grande economista
studiò in maniera approfondita lo sviluppo
del sistema produttivo locale in Inghilterra,
evidenziando come nascita ed evoluzione di
un distretto siano strettamente connessi a
quella che lui definiva “industrial
atmosphere”. In altre parole è riconoscibile
in queste realtà economiche una fortissima
compenetrazione tra il tessuto economico ed
il vissuto sociale che vi sta alla base, in un
intreccio di intraprendenza borghese, abilità
artigiana e forte spirito associativo prima e
competitivo poi tra i soggetti, imprenditori sì
ma anche lavoratori, che nel distretto
operano.
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Proprio per la vocazione artigiana che vi
sta alla base, questi poli industriali tendono a
non superare certe dimensioni ed a
sviluppare una concorrenzialità tutta interna
che permette allo stesso tempo una crescita
della molecola industriale, ma anche una
parabola ascendente nella qualità della
produzione. Man mano che gli operatori
acquisiscono competenze specifiche nella
lavorazione del prodotto tipico del distretto,
non è raro che decidano di separarsi dal
nucleo originario che ha dato impulso allo
sviluppo creando, per mitosi (spin-off),
nuove
cellule
imprenditoriali
che
contribuiscono a mantenere un livello di
competizione assolutamente elevato.
Di non secondaria importanza è il dato
geografico che è parte integrante del
fenomeno. L’area territoriale in cui il
distretto si sviluppa è ben definita, ma non
completamente cristallizzata nei suoi confini
che risultano cangianti, frattali di un sistema
in mutamento. Essa vive non solo del
legame col bacino lavorativo cui attinge, ma
anche della struttura sociale che costituisce
quel bacino: nella stragrande maggioranza
dei casi si tratta di famiglie, una
riproduzione in miniatura di un modello
industriale che in qualche modo ricorda
quello italiano degli anni ’70, con l’industria
al centro di un sistema valoriale che spesso
vede interi rami familiari, se non proprio
padri e figli, impiegati nella stessa azienda.
Possono ben individuarsi dunque una
serie di costanti che interagiscono tra loro:
un tessuto sociale ben definito, un territorio
entro cui quella società si muove, un
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bagaglio di abilità artigiane che si
riferiscono ad un prodotto di riferimento:
sono questi gli ingredienti di un moderno
distretto.
Se quello appena descritto è il dato empirico,
non può trascurarsi che nel 1991 sia stata
fornita anche una definizione normativa di
“distretto” come modello socio-economico,
che ben riassume quanto riscontrato finora.
Per prima la legge n. 317/1991, intitolata
“Interventi per lo sviluppo delle piccole e
medie imprese”, disegna all’art. 36 i distretti
industriali come “le aree territoriali locali
caratterizzate da elevata concentrazione di
piccole imprese, con particolare riferimento
al rapporto tra la presenza di imprese e la
popolazione
residente,
nonché
alla
specializzazione produttiva dell’insieme
delle imprese”.
A questa generica definizione che ha
comunque avuto il merito di dare
riconoscimento normativo a quello che, dati
alla mano, si è dimostrato il più longevo e
positivo dei modelli industriali italiani, ne
sono seguite altre. Basti qui ricordare come
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con decreto del 21/04/1993 l’allora
Ministero dell’Industria si sia preoccupato di
individuare
più
stringenti
parametri
economici di riferimento come l’indice di
industrializzazione manifatturiera o la
densità imprenditoriale o come nel 1999,
nell’ottica di concedere alle amministrazioni
regionali maggiori spazi di manovra nella
elaborazione di piani territoriali per lo
sviluppo delle aree industriali, quello stesso
schema di cui al citato art. 36 sia stato
ulteriormente e volutamente generalizzato
per ricomprendervi praticamente tutti i
“sistemi produttivi locali” , ossia “contesti
produttivi omogenei, caratterizzati da
un’elevata concentrazione di imprese,
prevalentemente di piccole e medie
dimensioni,
e
da
una
peculiare
organizzazione interna” (legge n. 140/1999).
Qualora questi “contesti” facciano leva
su un prodotto ben preciso, dispongano di
elevata specializzazione dei lavoratori e
dimostrino quel sodalizio socio-industriale
di cui si è discusso, ebbene potrà parlarsi di
“distretti”.
2. Il triangolo del salotto
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Il distretto del salotto viene formalmente
riconosciuto in Basilicata nel 2001 e in
Puglia nel 2008, ma la sua genesi può
ricondursi alla fine degli anni ’60. Si tratta di
un unicum nel suo genere, se non altro per la
particolare collocazione che abbraccia
un’area abbastanza vasta a cavallo tra due
regioni, più precisamente tra le province di
Bari e Matera, insistendo su un triangolo
che vede ai suoi vertici i comuni di Matera,
Santeramo in Colle ed Altamura.
Nel tempo tale primigenia geometria
industriale sì è allargata fino a
ricomprendere in territorio
pugliese:
Altamura, Santeramo in Colle, Gioia del
Colle, Acquaviva delle Fonti, Gravina ed in
Basilicata Grassano, Irsina, Ferrandina,
Montescaglioso, Pomarico e, per l’appunto,
Matera.
Questa bella storia industriale comincia
con l’iniziativa di un singolo imprenditore,
Pasquale Natuzzi, fondatore dell’impresa
c.d. leader, ossia quella che ha tracciato la
strada per tutte quelle che sarebbero nate
successivamente. Figlio di un ebanista,
all’età di 19 anni apre un laboratorio
artigianale a Taranto dove con pochi
collaboratori costruisce divani e poltrone per
il mercato locale. Certo all’epoca la richiesta
interna è piuttosto limitata e quindi la
produzione punta sulla qualità artigianale
piuttosto che sui volumi. Nel 1962 si
trasferisce
a
Matera
dove
inizia
un’esperienza commerciale che gli consente
di conoscere a fondo problematiche e
meccanismi
della
distribuzione.
Le
competenze acquisite portano all’apertura
del primo impianto industriale, a Santeramo
nel 1967.
Tutto il progetto commerciale è
incentrato sulla fabbricazione di un prodotto
innovativo che coniughi la qualità
artigianale
ottenuta
assorbendo
le
competenze dei lavoratori autonomi già
presenti sul territorio e un costo che benefici
delle economie della produzione in larga
scala: salotti e divani in pelle di qualità
medio - alta con vasta possibilità di
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personalizzazione a prezzi inferiori rispetto
alla concorrenza europea (soprattutto
francese), ma anche extraeuropea e
segnatamente nordamericana.
L’idea funziona. Gli anni ’70 portano sì
un incremento della richiesta nazionale, ma
soprattutto un’impennata delle ordinazioni
da parte dei clienti nordamericani. Prima che
arrivino gli anni ’90, Natuzzi è in grado di
esportare direttamente in U.S.A. i suoi
salotti in pelle.
Supportate da un cambio estremamente
favorevole, le esportazioni diventano la
principale voce di profitto per le imprese
Natuzzi, perfettamente in grado di offrire
all’esigente cliente americano un prodotto di
alto profilo qualitativo con quel tocco di
design italiano che sbaraglia la concorrenza
e rappresenta uno dei migliori esempi di
made in Italy in grado di affermarsi sul
piano internazionale. Sull’ onda di questo
successo, cominciano a verificarsi i primi
spin-off, sebbene il prodotto offerto sia
praticamente identico. Le barriere di
ingresso sono basse: nonostante richieda una
certa cura, la lavorazione dei divani non è
particolarmente complessa, il processo
produttivo consta di pochi passaggi; inoltre,
c’è ampia disponibilità di forza lavoro a
basso costo.
A Matera due soci di Natuzzi decidono
di mettersi in proprio: grazie alla loro
iniziativa sorgono Calia Italia salotti e
Nicoletti.
Anche ad Altamura i vecchi divanifici
artigianali cominciano a “ripensarsi” in
chiave industriale, per non parlare
dell’enorme impulso che tutta l’area di
subfornitura subisce: la rete dei rapporti tra i
vari soggetti produttori comincia ad infittirsi,
costituendo un vero e proprio network.
Paradossalmente la presenza sul mercato
italiano è inferiore rispetto a quella sul
mercato estero.
Forte di un marchio ormai sinonimo di
qualità e stile apprezzati in tutto il mondo e
di un fatturato cresciuto tra il 1986 e il 1992
da 57 a 335 miliardi di lire, Pasquale
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Natuzzi lancia l’offensiva in Italia creando
una propria catena commerciale autonoma:
nasce Divani & Divani, presente con i propri
store monomarca su tutto il territorio
nazionale. Gli affari vanno talmente bene
che nel 1993 la holding Natuzzi S.p.a. viene
quotata in borsa (la Natuzzi S.p.a. è tutt’ora
l’unica azienda non americana del settore
arredamento quotata a Wall Street).
E’ il boom definitivo: trainati dalla realtà
industriale che Natuzzi ha costruito sorgono
altri produttori, altre imprese che si
specializzano nella fabbricazione della
componentistica del prodotto finito: fusti in
legno, poliuretano espanso, imbottiture,
stoffa e pelle. Alcune imprese decidono
invece di puntare su un prodotto più
economico, differenziando la propria offerta
con una linea di divani in tessuto.
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Contemporaneamente si perfezionano i
cicli produttivi con l’introduzione di
processi automatizzati di cucitura e di taglio
della pelle che consentono di ridurre al
minimo gli sprechi. I processi puramente
artigianali
vengono
progressivamente
riservati a vantaggio di fasce di prodotto più
costose.
All’acme della sua espansione, nel
2002, l’ormai articolato distretto del salotto
conta più di 500 imprese impegnate a vario
titolo e 14.000 lavoratori, è in grado di
fornire svariati mercati esteri oltre ad
imporsi con prepotenza su quello nazionale,
fattura nel complesso 2.200 milioni di euro e
rappresenta forse la realtà industriale di
maggior successo nel Mezzogiorno: all’alba
del nuovo millennio il triangolo del salotto
sembra non poter conoscere crisi.
Triangolo del salotto. Le dimensioni del distretto (2002)
3. Le ragioni della crisi
Gli strepitosi risultati raggiunti nel 2002
sono al tempo stesso punto di massimo
splendore del distretto e punto di partenza di
una crisi le cui proporzioni si fanno
immediatamente preoccupanti.
In realtà il declino del triangolo del
salotto non può imputarsi che ad una
eterogenea gamma di fattori, al cui interno
tuttavia non è difficile distinguere alcuni
fenomeni–chiave che più di altri hanno
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inciso sull’evoluzione negativa della realtà
dei salottifici del triangolo.
Come può evincersi dai dati riportati in
tabella, nel periodo in questione il 78% del
fatturato fa leva sull’export.
Dalla lettura delle seguenti elaborazioni
è evidente come l’area di esportazione
principale sia quella nordamericana, con una
crescita consistente dal 1991 al 2002 anche
della fetta relativa al Regno Unito.
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Dati ISTAT
E’ indubitabile dunque che un ruolo
fondamentale nella crisi del distretto sia da
ricondurre paradossalmente alla transizione
dal sistema economico nazionale a quello
europeo. Fino al 2001 infatti la debolezza
della Lira consentiva di lucrare moltissimo
in relazione alle esportazioni. Viceversa
l’introduzione della moneta unica e il suo
consistente apprezzamento nel confronto con
dollaro e sterlina hanno colpito duramente i
profitti proprio in relazione ai due principali
mercati di riferimento, disgraziatamente
entrambe al di fuori dell’Unione Economica
e
Monetaria,
compromettendo
la
competitività del prezzo del prodotto: uno
dei punti di forza storici del salotto italiano.
Un altro importante fattore critico lo
ritroviamo a livello strutturale. L’avvento di
nuovi competitors provenienti da mercati
emergenti, in primis quello cinese, ha
rapidamente soffocato tutti i nostri settori
manifatturieri, quelli delle produzioni
tradizionali, che non abbisognano di un
know-how di livello particolarmente elevato.
Non è un caso che alla perdita di terreno
delle esportazioni di divani italiani in U.S.A.
corrisponda un incremento di quelle cinesi
che viaggia dal 2002 ad una media del 50%
su base annua. Tale stato di cose ha colpito
gravemente
soprattutto
le
imprese
dell’indotto e i c.d. “contoterzisti”, ossia le
aziende di componentistica con un valore
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aggiunto lavorativo particolarmente basso,
che sono state le prime ad estinguersi.
Delle varie imprese che si sono ritrovate
a fronteggiare le mutate condizioni del
mercato, il gruppo Natuzzi è quello che si è
mosso con maggiore celerità, dimostrando il
piglio e l’esperienza di un’azienda
emancipata – quantomeno nella mentalità –
da
qualsivoglia
restrittive
logiche
provincialistiche.
La ricetta dell’ex artigiano di Matera,
prontamente copiata dalle aziende più grandi
come Calia, Nicoletti e Contempo, è stata
all’insegna
della
delocalizzazione
e
dell’investimento: per poter competere sulla
scena globale è assolutamente necessario
migliorare la rete di vendita e offrire un
prezzo ancora più appetibile.
Certo, non potendo incidere in maniera
significativa sui processi produttivi tramite
la razionalizzazione degli impianti o sul
costo dei materiali, occorre intervenire
sull’altra principale voce di spesa, ossia il
costo del lavoro.
Pur nel tentativo di mantenere quanto più
possibile – anche nell’ottica di preservare la
qualità – le fasi di progettazione e
assemblaggio finale in Italia, parte della
produzione è stata delocalizzata con la
costruzione di nuovi impianti in Brasile,
Cina e Romania.
In un primo tempo questa strategia
sembra dare i suoi frutti, dando modo di
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sostenere la stagnazione economica e
contenere cali di vendite che comunque
cominciano a tingere di rosso i bilanci delle
aziende del distretto.
L’unico in grado di assorbire il colpo in
maniera davvero egregia sembra essere il
colosso di Natuzzi, come si può rilevare
dalla tabella a seguire.
Tralasciando i dati in controtendenza
relativi
alla
Contempo
(un’azienda
particolarmente giovane), le tre principali
aziende del distretto registrano un tasso di
crescita dei ricavi negativo in relazione ad
un calo delle vendite nell’ordine medio del
12-13%.
D’altra parte Natuzzi è l’unico gruppo in
grado di effettuare da subito corposi
investimenti per la costruzione degli
impianti esteri.
La Contempo s.r.l., non disponendo della
liquidità dell’impresa leader, opta invece per
lo spostamento in Cina e Romania
addirittura del 75% della produzione,
costituendo con la Simest, merchant bank
del Ministero delle Attività produttive, una
società compartecipata.
Fortunatamente le banche credono
ancora nella redditività del settore e sono
favorevoli al finanziamento delle operazioni
di spesa.
Certo, gli investimenti cominciano a far
crescere l’indice di indebitamento, ma la
speranza è quella di adeguarsi con rapidità al
mercato globale, limitando al minimo le
perdite ed anzi, rilanciando con una strategia
di internazionalizzazione e abbattimento dei
costi.
Purtroppo la crisi prima finanziaria e poi
economica originatasi nell’ottobre del 2008
in seguito al fallimento della Lehman
Brothers stronca sul nascere gli effetti della
“cura” effettuata.
Lo scoppio delle bolle speculative in
U.S.A. colpisce duramente la middle class
benestante statunitense, principale bacino di
clientela per le maggiori industrie del
distretto e aggrava in maniera intensa le
criticità che abbiamo avuto modo di rilevare.
Anche il mercato interno registra una
caduta verticale della domanda.
Probabilmente se non fossero state
effettuate le delocalizzazioni di cui sopra, la
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situazione si presenterebbe oggi ancor più
drammatica, sebbene l’accumulata liquidità
avrebbe potuto essere d’aiuto in un momento
di così forte bisogno.
Di fronte alle difficoltà provenienti
dall’esterno, non bisogna commettere
l’errore
di
trascurare
problematicità
endogene che da sempre affliggono il
distretto. Si tratta essenzialmente delle
deficienze
infrastrutturali tipiche del
Mezzogiorno: il principale problema è la
mancanza di un polo portuale degno di tale
nome nelle vicinanze della zona di
produzione.
I containers sono costretti a viaggiare
lungo tratte autostradali non propriamente
moderne (le infrastrutture ferroviarie sono
largamente insufficienti, in alcuni tratti è
presente un’unica linea) per arrivare dopo
300 km nei porti commerciali di Napoli
piuttosto che di Salerno, con notevoli
aggravi alla voce “trasporti” che in alcuni
casi toccano addirittura il 20% dei costi
totali. Basterebbe investire nel porto di Bari
o magari dare finalmente compimento allo
sviluppo di quello di Taranto per consentire
consistenti risparmi sui costi di esportazione.
4. La situazione attuale e le prospettive
di rilancio
Nel 2008 la situazione del distretto è
desolante. La delocalizzazione prima e la
crisi
economica
poi
hanno
avuto
conseguenze pesantissime per le migliaia di
lavoratori del settore.
Prendendo come pietra di paragone la
branca italiana del gruppo Natuzzi, 1.540
dipendenti su 2.800 sono stati costretti ad
usufruire del trattamento straordinario di
integrazione salariale, senza contare quelli
collocati in mobilità.
Nell’intero distretto della Murgia, dal
2003 al 2009 dodici grandi aziende hanno
cessato l’attività e 3.740 lavoratori hanno
perso il posto.
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Le aziende contoterziste praticamente
nel distretto non esistono più.
La quota degli addetti è scesa molto al di
sotto della metà di quelli impiegati sino a
qualche anno prima.
Non
va
meglio
nell’originario
“triangolo”: delle 110 aziende censite nel
2006 ne resta poco più della metà.
Le esportazioni calano in un solo anno
del 16, 3 %.
La situazione continua a peggiorare fino
ai giorni nostri: nella roccaforte di Matera
nel 2010 i 5.000 addetti sono scesi a 2.500 e
una delle imprese di più vecchia data, la
Nicoletti, è fallita.
La forza lavoro impiegata si è ridotta ad
un terzo rispetto ai tempi d’oro, così vicini
eppure così distanti nella memoria di chi vi
ha partecipato.
Chi è riuscito a conservare il proprio
impiego in Italia si occupa essenzialmente di
assemblaggio e rifinitura di semilavorati
provenienti dagli stabilimenti esteri, in cui il
basso costo del lavoro consente di
sopportare le dinamiche imposte dalla crisi.
E’ il caso delle donne che a Jesce
impreziosiscono i divani ormai assemblati
con la loro abilità nel cucire, ma che col
tempo cominciano ad accusare patologie
lavorative legate ai ritmi sempre più frenetici
con cui bisogna terminare i lavori, muovere
le dita esperte ma stanche per stare dietro
alle moltitudini di lavoratori cinesi che
ormai cominciano a prendere piede anche in
qualche piccola manifattura murgiana.
Proprio nel momento più buio, in cui la
bella favola del mobile imbottito del Sud
sembra inesorabilmente avviarsi ad una
conclusione che non ha nulla del lieto fine,
cominciano però a studiarsi concrete
strategie per traghettare il distretto fuori
dalla tempesta.
Ancora una volta l’iniziativa ruota
attorno all’impresa leader, quella di Pasquale
Natuzzi. L’idea è molto semplice: creare una
task force tra enti locali e produttori in modo
tale da “fare distretto” per davvero, ossia
incentivare le sinergie tra i singoli soggetti
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industriali
abbandonando
l’esagerata
vocazione al profitto autonomo e alla
concorrenza fratricida tra il fronte pugliese e
quello lucano per proporre un soggetto
complesso a livello interregionale in grado
di rivaleggiare con nuovo vigore sui mercati
mondiali.
La parola d’ordine è fare quadrato
attorno al distretto.
La presenza degli enti di governo locali è
fondamentale in quanto qualsivoglia velleità
di rilancio non può che passare
dall’appianamento
delle
sfavorevoli
condizioni infrastrutturali presenti in
entrambe le regioni.
Sul piano interno poi è necessario
cominciare a differenziare in maniera netta
la produzione in modo tale da poter
contemporaneamente competere sui mercati
emergenti con un prodotto dal rapporto
qualità – prezzo conveniente, magari
prodotto avvalendosi della manodopera
locale, e creare parallelamente una linea di
altissimo livello da proporre sui mercati
tradizionali e nei circuiti del lusso, questa
volta
contando
sulla
professionalità
decennale degli artigiani italiani in modo
tale da aprire una finestra di consumo in cui
i competitors orientali, sbilanciati sui volumi
di produzione piuttosto che sulla qualità, non
possano arrischiarsi.
Occorre in altri termini seguire
l’esempio positivo di realtà piuttosto giovani
come la Delta Group di Santeramo il cui
titolare, Pietro Paolangelo, ha articolato la
propria produzione essenzialmente su tre
linee: “Delta salotti”, brand commerciale
tradizionale, presente sul mercato dal 1989,
ma soprattutto “Segni particolari” e
“Paulangelo”, serie di punta aventi come
target una clientela medio-alta.
Nondimeno bisogna continuare a puntare
sull’innovazione del design, del marketing,
sul consolidamento dell’immagine del
brand: le migliori opportunità offerte dal
made in italy, magari contando sull’apporto
degli istituti universitari che da questo punto
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di vista possono dare un grandissimo
contributo a costi praticamente irrisori.
Le proiezioni dicono che nel 2010
bisognerà stringere ancora i denti: il peggio
è passato ma per la ripresa bisogna guardare
al 2011, nella speranza di poter continuare a
raccontare questa bella storia di successo
dell’imprenditoria del Sud ancora per molti
anni e senza nostalgia, magari abbandonati
sulle morbide forme di un divano Made in
Mezzogiorno.
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