La Via della Seta/1

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La Via della Seta/1
IL CAFFÈ
20 settembre 2015
VITA IN COMUNE
Sandra Berisha Kikaj, 22anni,
col figlio di un anno e il marito;
a destra, Sandra Berisha Kikaj,
una ragazza bionda rom
di 22 anni; a lato, la casa di
Istog, in Kosovo,
la ex prigione occupata
abusivamente
da una decina di famiglie
dall’inizio del 2000
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Il reportage.
La Via della Seta/1
L’ITINERARIO
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“The Railway Diaries”è un progetto
giornalistico che racconta un viaggio via
terra da Venezia ad Almaty,in Kazakistan.
Quattro reportage
su alcuni Paesi
della famosa Via
della Seta,
privilegiando quelle
“terre di mezzo”
sconvolte oggi da
T U R C
H I A
violenze e tensioni.
Con un’attenzione
particolare
alle donne,custodi
di storie millenarie o vittime della miseria,
ma anche protagoniste decisamente
sottovalutate di un coraggioso progresso
Nella casa prigione
con dieci famiglie
e un bagno in comune
Informazione dal basso, allontanandosi dagli stereotipi, dando voce a storie e persone particolari, altrimenti destinate all’oblio. O peggio ancora all’indifferenza.
Con una serie di reportage, in quattro puntate, il Caffè
vuole offrire la sensazione affascinante che si prova
nel descrivere, e leggere, una storia sconosciuta ai
più, attraverso le parole e gli sguardi degli stessi protagonisti.
In questo caso il fascino delle storie ha un sapore
antico e, al tempo stesso, di pressante attualità. Di
antico, in realtà, ci dovrebbe essere solo l’itinerario,
quella famosa “Via della Seta” percorsa sino alla Cina
dal mitico esploratore veneziano Marco Polo otto secoli fa, che le giovani e intraprendenti giornaliste
freelance di Nawart (parola araba che vuol dire “illu-
Chi
sono
Nawart è un
collettivo
di giovani giornaliste
indipendenti:
Costanza Spocci,
29 anni, Giulia
Bertoluzzi,
29,Eleonora Vio,
30 e Tanja Jovetic,
27 anni. Sono loro a
firmare il reportage
in quattro puntate
che il Caffè inizia
a pubblicare da
questa settimana
GIULIA BERTOLUZZI, TANJA JOVETIC
COSTANZA SPOCCI e ELEONORA VIO
Q
uesta casa prima era una prigione, ma
non dovete avere paura”. Mentre cadono le ultime gocce di pioggia di un
violento temporale, Sekibe Morinaj,
una donna albanese di 41 anni, ci accoglie con un timido sorriso all’ingresso di quella
che da 14 anni è la sua improbabile dimora.
Siamo a Istog, un villaggio a trenta minuti dalla
città di Pec, la meta turistica di montagna per eccellenza in Kosovo. Il colonnello Corrado Prado che
comanda il contingente italiano di Kfor, la forza internazionale guidata dalla Nato stanziata nel Paese,
ha scoperto un anno fa la presenza di una “casaprigione” abitata da dieci famiglie Rom e kosovarealbanesi che non potendo permettersi nessun’altra
abitazione, hanno deciso di occupare l’ala di Gurrakoc dell’ex-penitenziario di Dubrova, in disuso dalla fine della guerra.
Entrando dalla porta principale dell’ex-penitenziario una violenta ondata di umidità penetra
IL VIAG
GIO
A PUN
TATE
TRA I RUDERI
Bambini,
adolescenti e
donne sono ospiti
fissi della vecchia
casa di Istog,
come la 41enne
Sekibe Morinaj, a
destra col figlio;
sotto, a destra in
basso, Shefkije
Talamiji, una
signora rom di 41
anni;
a sinistra in
basso, il lugubre
interno della casa
prigione
kosovara
Tra le donne albanesi
ecco le“burnesha”
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minami” usata per salutare i pellegrini al loro ritorno)
hanno ripercorso privilegiando quelle terre di “mezzo” di cui raramente si sente parlare. E privilegiando
soprattutto le donne, testimoni e custodi di culture e
tradizioni millenarie, ma anche portatrici di speranza
e di una determinazione spesso sottostimate. Dalle
madri coraggio che reggono le sorti della casa prigione ai confini del Kosovo alle incredibili “burnesha”, le
vergine giurate cresciute tra le montagne dell’ex Jugoslavia, fino alle guerrigliere curde del Kgk, il “braccio armato” tutto al femminile del Pkk, incontrate nei
boschi di Qandil, in Iraq, sul confine tra Turchia e
Iran. Quel rigidissimo Iran, dove dopo secoli di silenzio e divieti, le donne zoroastriane hanno conquistato
l’eguaglianza nella celebrazione religiosa. e.r.b.
sotto i vestiti e si deposita nelle ossa. Un getto d’acqua scroscia dall’alto e cade all’interno di una stanza distrutta e senza porta: è una fogna a cielo aperto, l’acqua proviene dall’unico bagno comune del
secondo piano che per pudore le famiglie negano di
utilizzare. Sekibe è la Virgilio del suo inferno, apre
le porte delle stanze in cui vivono le famiglie al primo e secondo piano, e si improvvisa interprete grazie all’inglese che ha imparato guardando la tv da
giovane, quando viveva in Svizzera per far da balia
ai figli del fratello: “Mi è sempre piaciuto imparare
- dice -, ma i miei genitori non mi hanno lasciato
studiare; secondo la tradizione il mio compito era
quello di sposarmi come ogni altra donna”. Così ha
dovuto lasciare la Svizzera per sposarsi appena
maggiorenne con un marito che sarebbe scappato
in Germania qualche anno dopo, lasciando lei e il
La tradizione
“Non ho potuto studiare.
Secondo la tradizione, il mio compito
era soltanto quello di sposarmi”
figlio senza un soldo e senza un tetto. “Non sogno
nemmeno di risposarmi, ma cosa posso fare, uccidermi? - aggiunge Sekibe, che come tutti gli abitanti della prigione non ha un lavoro -. Non so
nemmeno se sono viva, ma c’è mio figlio, devo vivere per occuparmi di lui”.
Nel maggio 1999, mentre i bombardamenti
Nato colpivano un Kosovo in piena guerra civile, la
prigione fu il teatro di un massacro: il mattino del
22, i carcerieri serbi diedero l’ordine ai mille detenuti albanesi-kosovari di allinearsi nel cortile in attesa di un trasferimento in una prigione più sicura.
Non appena la fila fu formata i serbi aprirono il fuoco dalla torre di guardia e dai muri della prigione.
Morirono 176 persone. Fu proprio in quei giorni
che l’ala di Gurrakoc, dove scontavano la pena i
prigionieri con sentenze brevi, fu definitivamente
chiusa e mai più riaperta, a differenza del resto del
complesso, oggi sotto amministrazione Kfor.
“Non avevamo un altro posto in cui vivere, abbiamo chiesto aiuto al Comune che in tutta risposta
ci ha detto che se volevamo potevamo venire qui”,
racconta Sandra Berisha Kikaj, una ragazza bionda
rom di 22 anni con il suo bambino di un anno tra le
Nella seconda puntata del
reportage un’attenzione
particolare alle donne custodi
di tradizioni millenarie. Come
le “burnesha” albanesi che in
questo terzo millennio
rispettano con caparbietà e
determinazione monacale un
antico codice di vita
Il braccio armato
tutto al femminile
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braccia. Suo marito viveva in Germania, ma è stato
rispedito in Kosovo diversi anni fa e fatica a trovare
lavoro, così tutta la famiglia vive con i 60 euro al
mese che il Comune dà alla madre di Sandra per
una malattia al cuore. “Questo posto è una follia afferma Sandra indicando i muri scrostati della sua
stanza, che ha provato in tutti i modi di rimettere a
posto negli ultimi otto anni -. Sono costretta a raccogliere l’acqua piovana dal tetto per pulire mio figlio!”. I rom costituiscono il 2% della popolazione
del Kosovo e si dividono in Roma, Ashkali ed Egyptians. Come i kosovari-albanesi hanno subito torture e, chi l’aveva, ha perso in egual modo la casa, ma
in un Paese dalle forti divisioni comunitarie come il
Kosovo, rimangono discriminati e tacciati come
collaborazionisti dei serbi. Sette anni da una guerra
sono pochi per dimenticare, il Paese è sospeso nel
Le etnie
“Qui vivono persone di etnie diverse,
ma a nessuno importa chi è chi e di
che origine è il suo sangue”
passato ed è ancora in fase di ricostruzione: poche
case testimoni del pre-guerra si notano per i fori
delle pallottole, mentre il paesaggio è occupato da
nuove abitazioni senza intonaco. Il problema abitativo rimane un’urgenza e i primi a pagarne le conseguenze sono i rom e le classi meno abbienti.
Shefkije Talamiji, una signora rom minuta di 41
anni con un sorriso che, nonostante tutto, non le si
cancella mai dal viso, soffre di asma da quando la
padrona di casa l’ha cacciata perché non poteva pagare l’affitto e si è trasferita a Gurrakoc. L’ambiente
della prigione l’ha invecchiata precocemente. “Vogliamo solo un posto in cui vivere fuori da qui”, dice abbracciando Sekibe, amica nella sventura, si
danno una mano a vicenda per sbarcare il lunario.
Le loro condizioni non miglioreranno nel breve futuro, ma in questi dieci anni la casa-prigione è diventato un “condominio” multi-comunitario in cui
gli abitanti convivono pacificamente. “Qui vivono
persone di etnie diverse, ma a nessuno importa chi
è chi e di che origine è il suo sangue - spiega Sekibe
- Siamo persone, non animali e viviamo tutti qui
come una grande famiglia”.
1 - continua
Età media sui vent’anni. In
comune la tenacia, il coraggio
e un’impressionante voglia
d’indipendenza. Sono le
guerrigliere curde del Kgk,
il “braccio armato” tutto al
femminile del Pkk, scese
sul campo di battaglia
per fronteggiare
l’aggressione dell’Isis
La ricomparsa
delle sacerdotesse
Dopo secoli di silenzio e divieti,
nel rigidissimo Iran,le donne
zoroastriane sono riuscite a
conquistare l’eguaglianza nella
celebrazione religiosa.
Otto di loro hanno finalmente
ottenuto il titolo di “mobed”
che nella lingua parsi vuol dire
prete
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LE GUERRIGLIERE
Un gruppo di guerrigliere
curde del Kgk, ovvero il
“braccio armato”
tutto al femminile del Pkk