Sempre sulle vette dei monti e della ricerca

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Sempre sulle vette dei monti e della ricerca
VITA DI RICERCATORE
LL
Alberto Mantovani
In questo articolo:
Sempre sulle vette
dei monti e della ricerca
degli studi di Milano, la produzione scientifica complessiva dell’Humanitas ha continuato a crescere, fino a collocare la struttura, a fine 2013, nel dieci per cento delle
istituzioni di ricerca più apprezzate e citate al mondo secondo il database Scimago,
che tiene traccia della quantità di pubblicazioni e anche della quantità di volte che
ciascuna pubblicazione viene citata in
altri studi negli anni successivi, a riprova
del fatto che si tratta di una ricerca importante e originale: “Io raccomando sempre
ai miei studenti di puntare a pubblicare le
ricerche sulle riviste caratterizzate dal più
alto impact factor, ma ricordo loro che ci
sono comunque molti esempi di ricerche
che hanno fatto la storia della medicina
anche se pubblicate su riviste considerate
minori. Un esempio che cito sempre riguarda la scoperta da parte di Dennis Burkitt, nel 1958, del legame tra la malattia
che oggi porta il suo nome – il linfoma di
Burkitt – e l’infezione, che avrebbe poi
portato all’identificazione del primo
virus oncogeno, cambiando il nostro
modo di vedere il cancro, anche come
malattia dei geni”.
oncologia molecolare
immunologia
programma 5 per mille
Classificato al quinto posto tra i ricercatori
biomedici più influenti al mondo, Mantovani
ha dato un contributo essenziale alla scoperta
del ruolo che il sistema immunitario gioca nella
formazione dei tumori
a cura di FABIO TURONE
er uno scialpinista, la scalata del Piz Buin – che con
oltre 3.300 metri di altezza
segna il confine tra Svizzera e Austria – non è una
passeggiata. Per Alberto Mantovani la
recente scalata del Piz Buin ha rappresentato, in un certo senso,
una rilassante distrazione, per
staccare dopo l’ennesima settimana trascorsa con il pensiero costantemente rivolto
alla ricerca di laboratorio, con
una continuità e una determinazione che lo hanno portato
in cima a una vetta di tutt’altro genere: Mantovani figura
infatti al quinto posto nella
lista dei 400 ricercatori biomedici più influenti al
mondo, pubblicata sull’European Journal of Clinical Investigation in base al numero di
volte che le ricerche sono
state citate da altri scienziati.
Anche se non è una classifica
vera e propria, è certo che chi compare
nell’elenco ha dimostrato di saper aprire, con originalità e metodo, nuove vie
nella ricerca della conoscenza.
P
La passione
per le
scalate è
un indice
della sua
determinazione
4 | FONDAMENTALE | GIUGNO 2014
Tra gli scienziati
più influenti
Tra gli italiani, meglio di lui negli ultimi 15 anni hanno fatto solo Carlo Croce e
Napoleone Ferrara, entrambi da molto
tempo emigrati negli Stati Uniti, dove la
vita di ogni ricercatore è più semplice che
in Italia. La straordinaria carriera scientifica di Mantovani – oncologo e immunologo con una profonda passione per la biologia molecolare – è probabilmente inusuale anche per questa sua ricerca della
sfida, culminata nel 2005 con il passaggio
dall’Istituto Mario Negri – tempio italiano
della ricerca biomedica – alla direzione
scientifica dell’IRCCS Istituto clinico Humanitas, una struttura privata sorta meno
di dieci anni prima a Rozzano, alle porte
di Milano. “Quando arrivai era già avviata
la collaborazione con l’Università di Milano, ma tutto era ancora da costruire” racconta nel suo studio illuminato da un’ampia finestratura. “Da allora il lavoro non è
mancato, perché un ospedale che vuole
essere sempre di frontiera sia nell’insegnamento universitario sia nella ricerca è
un organismo vivo, che continua a rimodellarsi”. Sotto la guida di Mantovani, direttore scientifico dell’istituto e professore di patologia generale all’Università
Tutti a Londra,
con la Giardinetta
“Sono nato a Milano, nel dopoguerra,
da una famiglia della campagna parmense, contadini, falegnami e mugnai, e mi
considero un ‘figlio della zolla’” racconta
Mantovani. “Dopo la maturità classica, al
Liceo Manzoni, scelsi di fare un campo di
lavoro gestito da un’organizzazione pacifista e passai l’estate in Inghilterra come
volontario in un ospedale psichiatrico”.
Al ritorno, l’iscrizione a medicina, dove
già al secondo anno inizia a frequentare il
laboratorio di patologia generale diretto
da Guido Guidotti: “In quel laboratorio la
ricerca era vivace e di buona qualità. Lì
cominciai a studiare la biologia molecolare con una nidiata di giovani ricercatori
molto promettenti tra cui Sergio Ottolenghi, Massimo Gianni e Riccardo Della Favera, che poi hanno dato tutti un notevole contributo alla ricerca scientifica”.
La passione per l’immunologia scop-
pia quando ottiene una borsa di studio all’Istituto Mario Negri. È il 1972 e lui non è
ancora laureato ma insieme a Nicla, conosciuta sui banchi del liceo, decide di sposarsi. L’anno seguente, l’incontro con l’oncologia: “Subito dopo la laurea ho trascorso alcuni mesi all’Istituto nazionale tumori, lavorando in oncologia pediatrica
con Franca Fossati Bellani, dove ho scoperto la vocazione per la ricerca sperimentale”.
Durante la specializzazione in oncologia cerca e trova l’opportunità di andare a
lavorare all’estero, di nuovo in Inghilterra. Parte con la famiglia, cui nel dicembre
del 1973 si è aggiunta la piccola Giovanna, in auto: “Avevamo una Fiat 500 Giardinetta, che destava lo stupore generale. Era
di color azzurrino come una vasca da
bagno” ricorda col sorriso. “In Inghilterra
abbiamo passato due anni fantastici. Un’esperienza indimenticabile, anche perché
al Chester Beatty Research Institute, vicino a Londra, ho fatto un incontro che ha
segnato la mia vita: sotto la guida di Peter
Alexander ho incontrato per la prima
volta una cellula dell’immunità innata: i
macrofagi”.
L’esperienza lascia un segno duraturo
anche perché l’ambiente è caratterizzato
da un’estrema correttezza dei comportamenti: “Il mio primo studio importante
l’ho pubblicato da solo, ovviamente con
un ringraziamento per Alexander, poi ne
ho pubblicati altri come unico autore.
Anche se si trattava di idee mie e di lavoro
sperimentale realizzato con le mie mani
non era affatto scontato” rievoca. “Oggi
non sarebbe più possibile”.
Infiammazione
e microambiente
Di ritorno in Italia riprende a lavorare
al Mario Negri: “È stata una delle mie fortune, perché ho avuto totale libertà di
orientare il mio lavoro”. Riesce a isolare
macrofagi da tumori maligni, scoprendo
che anziché difendere l’organismo agiscono da poliziotti corrotti: “Abbiamo contribuito a cambiare completamente la visione dell’infiammazione, scoprendo che c’è
una componente infiammatoria essenziale nel microambiente che favorisce lo sviluppo del tumore” spiega. Dopo pochi
anni sente di nuovo la necessità di lavorare all’estero e si sposta ai National Institu-
tes of Health
di Bethesda
nel laboratorio in cui
Ron Herberman studiava le cellule dette
Natural Killer, in sigla NK: “Io
ero convinto che le NK fossero monociti macrofagi, ma lì
ho scoperto che mi sbagliavo” ricorda Mantovani. “Però ho dimostrato che i macrofagi umani sono
molto plastici e a seconda dell’ambiente in cui si trovano assumono
caratteristiche differenti, assolvendo a due diverse funzioni,
entrambe essenziali: nella
forma chiamata M1 stimolano la risposta immunitaria, mentre nella
forma M2 riparano i tessuti e contribuiscono
alla difesa contro i
parassiti e altri patogeni extracellulari, con
un meccanismo di immunoregolazione.
La famiglia nel frattempo è cresciuta con
l’arrivo del secondo figlio, Paolo (pochi anni
più tardi crescerà ancora con l’arrivo di
Marco e Sara), e rimane a Milano, ma seguirà Alberto quando nel
1985-86 tornerà negli
Stati Uniti, sempre ai
National Institutes of
Health, ma questa
volta a Frederick: “In
quegli anni era in
corso la rivoluzione
della biologia molecolare, che era stata
il mio primo amore
nel laboratorio di
patologia generale
all’università, e io
volevo acquisire la
capacità di usare
tutte le nuove tecniche con le mie
mani. L’approccio
molecolare si sarebbe
rivelato fondamentale da
quel momento in poi, perché ci
siamo trasformati in cacciatori di
Alberto
Mantovani fuori
dall’Istituto
Humanitas
L’immunologia
ha contribuito
a cambiare
l’oncologia
VITA DI RICERCATORE
Da sinistra: Franco Locatelli (Roma),
Alberto Mantovani (Milano
e Lorenzo Moretta (Genova)
geni e da allora ci piace molto lavorare
su geni e molecole scoperti da noi” spiega. “Una delle mie fortune di quegli anni
è stato l’incontro con due tecnici di laboratorio, o meglio ‘supertecnici’, come
Nadia Polentarutti e Giuseppe Peri, che
sarebbero stati i pilastri su cui costruire
un gruppo di ricerca costituito da giovani che hanno lavorato con me arricchendomi. Nel mio laboratorio, e poi nel mio
dipartimento, sono passati ricercatori
che hanno avuto un’eccellente carriera
accademica o nell’industria, come Claudio Bordignon, Elisabetta Dejana, Andrea Biondi, Alessandro Rambaldi, Aldo
Tagliabue (che è stato il mio primo ‘ragazzo di bottega’) e Francesco Colotta” e
mentre elenca questi nomi prestigiosi si
percepisce il desiderio di Mantovani di
riconoscere a ciascuno il contributo dato
alla sua carriera eccezionale, sull’esempio del suo primo mentore inglese.
“
I
Dal parmense
a Rozzano
Gli enormi contributi dati alla ricerca
immunologica e oncologica da Mantovani – divenuto professore ordinario di patologia generale all’Università di Brescia e
poi chiamato nel 2001 all’Università di
Milano – sono difficili da sintetizzare: ha
contribuito a modificare la visione del
cancro scoprendo il ruolo fondamentale
dell’infiammazione – suggerita come “settimo sigillo del cancro” quando l’attenzione degli oncologi si concentrava su altri
aspetti – e ha scoperto il ruolo di particolari sostanze dette chemochine, che in un
certo senso dirigono il traffico nel sistema
immunitario e così facendo richiamano i
macrofagi nel tessuto tumorale, con l’effetto di aiutare il tumore a proliferare.
Le chemochine fanno parte della famiglia delle citochine, usate dal sistema im-
UN PROGETTO SULL’IMMUNITÀ
l progetto coordinato da Alberto
Mantovani sulla cosiddetta
“immunità innata” nel cancro e
finanziato dal Programma AIRC di
oncologia clinica molecolare 5 per
mille coinvolge anche sei gruppi di
ricerca diretti da Lorenzo Moretta e
Alessandro Moretta (Genova), Andrea
Biondi (Monza-Brianza), Alessandro
Rambaldi (Bergamo), Franco
Locatelli e Angela Santoni (Roma).
Giunto vicino al termine del quarto
anno, ha prodotto quasi un centinaio
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”
di pubblicazioni anche su riviste di
primissimo piano come Science,
Blood, PNAS e New England Journal of
Medicine. Ora sono in fase di avvio le
sperimentazioni cliniche, che
riguardano sia nuovi strumenti
diagnostici sia nuovi farmaci o
terapie cellulari, su malati affetti da
tumori oncoematologici:
“Storicamente le innovazioni sono
arrivate dall’oncoematologia, prima
di essere trasferite ad altri ambiti
dell’oncologia” spiega Mantovani.
munitario per comunicare, e sono molto
importanti per l’oncologia perché alcune
di esse sono bersaglio di farmaci. Di questa famiglia fanno parte anche le interleuchine, che Mantovani ha iniziato a studiare fin dagli anni novanta scoprendo l’esistenza di un particolare recettore dell’interleuchina-1 che anziché far scattare la
serratura, la blocca: “Anche questa scoperta ha modificato radicalmente la visione
comune tra gli scienziati e aperto nuove
strategie terapeutiche. E pensare che
quando nel 1983 pubblicammo il nostro
primo articolo importante su Science eravamo quattro gatti a occuparcene. Lo stesso quando abbiamo iniziato a interessarci
ai macrofagi, che oggi sono argomento di
primo piano” commenta con orgoglio.
La pubblicazione più recente – uscita a
gennaio, anche grazie a un finanziamento
del Programma di oncologia clinica molecolare 5 per mille di AIRC, sul New England Journal of Medicine, la rivista clinica
più prestigiosa al mondo – riguarda una
molecola che Mantovani studia da anni:
“Si chiama PTX3 ed è un antenato degli
anticorpi che in alcune situazioni si sta dimostrando capace di predire la prognosi.
Per esempio, assieme a Luigina Romano e
Agostino Carvalho di Perugia, abbiamo
scoperto che nei trapiantati di midollo
una carenza genetica di PTX3 è associata a
un maggior rischio di infezione da Aspergillus fumigatus, un fungo spesso letale”.
Oggi Mantovani dirige una struttura
di ricerca e cura di prestigio internazionale e divide il suo tempo tra la famiglia, la
passione per l’opera verdiana, quella per
la montagna e lo sport: “Nel weekend
amo correre, nuotare e sono tifoso dell’Inter, ma allo stadio l’ultima volta sono andato con uno dei quattro nipotini, che voleva vedere il Milan” racconta divertito.
Non di rado la ricerca occupa anche le
serate e i fine settimana: “Ho il ruolo di direttore scientifico ma ho voluto mantenere un mio gruppo di ricerca – composto
da Paola Allavena, Barbara Bottazzi e Cecilia Garlanda – perché continuo a coltivare
l’ambizione di mettere un mattone originale nella grande costruzione della biologia e della medicina” conclude, rivolgendo un pensiero a chi lo ha sostenuto:
“Senza AIRC non avrei combinato niente.
È stata per tutta la mia carriera di scienziato indipendente una fonte di finanziamento, per cui tutte le citazioni dei miei
studi vanno condivise con AIRC”.