di Davide “Boba Fonts” Canavero

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di Davide “Boba Fonts” Canavero
 Il topolino ha partorito una montagna di Davide G. Canavero Avvertimento: questo è un poema, perciò chi ama gli articoletti di dieci righe che tritano tutto alla velocità della luce e trinciano giu‐
dizi brillanti riassumendo la valutazione di un’opera con un paio di battute cattive… vada a leggersi quelli, spuntano ovunque come funghi. La rapidità è nemica del vero e del bene. E ovviamente ‐ inutile a dirsi ‐ chi non avesse visto il film deve starne alla larga perché ogni suo segreto viene “spoilerato” e dis‐
sezionato accuratamente. Antefatto: il pisolino della Forza Premessa sul recente passato. Saltare se si vuole arrivare subito al sodo. Nessun film di Star Wars potrà mai più, da qui all’eternità, soddi‐
sfare e stupire come fece l’originale joyride di George Lucas nel 1977; il particolare contesto storico e sociologico nel quale il film “detonò”, la sua novità assoluta, lo stesso stadio di sviluppo dell’arte del cinema: tutto irriproducibile. Non a caso quel film è considerato uno spartiacque che settò uno standard qualitativo così elevato che solo L’impero colpisce ancora seppe superare nel 1980, osando la novità e scioccando, mentre lo stesso Il Ritorno dello Jedi, nel 1983, deluse le aspettative chiudendo la saga in modo forse troppo conservativo. Dopo uno iato interminabile di 16 anni, le attese schiacciarono orribilmente, come in un compattatore di rifiuti, La Minaccia Fan‐
tasma nel 1999 e stanno schiacciando anche Il Risveglio della For‐
za in questo scorcio di 2015, sebbene le critiche nel mondo an‐
glosassone ‐ e non solo ‐ sembrino favorevolissime (93% su Rot‐
tenTomatoes con 90% di gradimento popolare e un ottimo 81% su Metacritic); ma la situazione è un po’ diversa nella sospettosa Italia. I nerd, custodi delle Verità Rivelate, bocciarono senza pietà la grandiosa e innovativa visione di Lucas nei Prequel, poiché il regi‐
sta si spingeva troppo lontano dallo stile dei film originali, privan‐
doli di quello humour “a la Han Solo” che ne aveva stemperato l’epicità e la tragedia, sostituendolo con Jar Jar Binks, la somma pietra dello scandalo del mondo nerd negli ultimi sedici anni. Epi‐
sodio I era un film troppo infantile per i fan adulti ‐ funestato da accenti ridicoli, gag scatologiche e battaglie fra giocattoli in CGI nelle pianure di Naboo ‐ e al tempo stesso troppo contorto e ver‐
boso per i fanciulli, con dispute sulla tassazione delle rotte com‐
merciali, trattati dagli scopi oscuri da firmare a tutti i costi e di‐
scussioni in Senato; e, in particolare nei film seguenti, molti dia‐
loghi con gente seduta su divani: talking heads (no, non nel senso del gruppo di David Byrne ma in quello di “teste parlanti”, tante parole e tanta staticità). Roba poco starwarsiana a giudizio dei più. Lucas aveva perso il tocco degli anni ’70, e a onor del vero anche a quel tempo non aveva mai amato né scrivere né dirigere gli at‐
tori. Parole sue. Dopo vent’anni di inattività i meccanismi della sua creazione erano alquanto arrugginiti e ciò apparve evidente nel modo maldestro in cui sceglieva di raccontare la sua storia e nei metodi inefficaci con cui chiedeva ad attori solitamente dotati di dare corpo alle sue visioni; che poi, a ben vedere, le sue visioni non erano tanto i personaggi quanto paesaggi, macchine, mondi fantastici, vale a dire ciò in cui egli è sempre stato più versato, la teoria del “film muto” che egli ha spesso postulato. Il sense of wonder era fortissimo ne La Minaccia Fantasma, c’erano cose mai viste, idee originali e geniali, gli sgusci, il Senato coi palchi flottanti, le rastrelliere di droidi da battaglia scaricati sul terreno: cose che incollavano lo sguardo dello spettatore allo schermo per cercare di capire cosa stesse osservando. Il mai visto, il nuovo: il segreto dell’emozione dell’infante, che osserva un mondo di no‐
vità di cui non ha esperienza e gode e impara mentre le scopre con stupore. In questo Lucas era bravissimo. Nonostante l’ingresso ingombrante delle trame politiche nella narrazione, la storia era a tratti ancora favolistica, biblica, con un nuovo “messia” che proveniva dal deserto: dopo il Luke della fat‐
toria dei Lars del ’77 era la volta (a ritroso nel tempo) del padre Anakin, sullo stesso pianeta Tatooine, 32 anni prima, vero Messia concepito per partenogenesi (e basta, basta una volta per sem‐
pre con questa storia dell’“immacolata concezione”, sono 16 anni che viene ripetuta erroneamente da chi non sa cos’è l’immacolata concezione, che riguarda Maria e non Cristo… basta per sempre parlare a vanvera di Star Wars e dei miti ad esso raf‐
frontabili! Studiare prima, parlare poi!). Il messia nato schiavo, il Figlio della Forza, le corse degli sgusci alla “Ben Hur”, la liberazio‐
ne dalle catene: nella sezione di Tatooine si respirava aria di co‐
lossal biblico, non solo a livello visivo‐cinematografico, ma anche di sostanza. La funzione narrativa del piccolo Anakin prometteva mistero, destino, grandi disegni soprannaturali. A uccidere queste sensazioni ci si metteva la brutta faccenda dei midichlorian, diffi‐
cile da difendere perché mentre da una parte si introduceva la sontuosa visione della Forza dotata di una sua “volontà” provvi‐
denziale, dall’altra la si inchiodava a terra sul piano scientifico, biologico; mettersi a difendere questo sarebbe troppo da nerd, e non lo faremo. Il risultato fu un film imperfetto, una specie di visione confusa e piena di inciampi. Nella cacca. In senso strettamente letterale. Ed anche un film che costituiva già una specie di remake dell’originario Star Wars ’77 in alcuni snodi della trama: l’eroe biondo, uno Skywalker, che vive nel deserto e sogna di andarse‐
ne, un mentore Jedi destinato a morire più avanti nel film la‐
sciandolo da solo, lo stesso eroe che distrugge una stazione/nave spaziale (qui nave controllo droidi) con un colpo fatale. I fan massacrarono Lucas, ma egli aveva regalato loro un nuovo inizio, un vero nuovo inizio, molto lontano dalle aspettative. L’iconico Darth Vader, incarnazione del titanismo del Male, era ora un putto biondo di nove anni degno di un affresco rinasci‐
mentale: quale scelta più spiazzante si poteva immaginare? Inter‐
rogati su ciò che avrebbero voluto vedere negli attesi Prequel, i fan avrebbero risposto in maggioranza che speravano di vedere la caduta di Vader, le guerre dei cloni e il Signore dei Sith che mas‐
sacrava i Jedi. Invece a Lucas interessava mostrare la lenta caduta di un Jedi legato morbosamente agli affetti, soprattutto a quelli femminili, segnato dal distacco, orfano di una madre abbandona‐
ta troppo presto e di una figura paterna come quella di Qui‐Gon trovata e subito perduta; uno ossessionato dall’idea di impedire alla gente che gli era cara di morire ‐ un tema non banale. A Lucas premeva dimostrare come dal bene si potesse scivolare verso il Male senza rendersene conto, scegliendolo consapevolmente so‐
lo quando era troppo tardi per tornare indietro (cioè, nel caso di Anakin, dopo aver aiutato Palpatine a uccidere Mace Windu); e, parallelamente, mostrare l’ascesa di un Grande Burattinaio che orchestrava in modo geniale la propria presa del potere, la distru‐
zione della Repubblica e dei Jedi. Tutto questo è stato effettiva‐
mente narrato, ma con gravi lacune sul piano strettamente e‐
spressivo, artistico. In mano ad altri registi e con Lucas nel ruolo che gli riusciva me‐
glio, quello di visionario Autore del soggetto della storia, ne sa‐
rebbero venuti fuori eccellenti film. Purtroppo così non è stato e il creativo di Modesto ha tenuto saldamente nelle proprie mani maldestre tutto il processo creativo, dall’ideazione, alla scrittura, alla regia con i risultati che conosciamo: vale a dire “pura spazza‐
tura” per i più ingenerosi e affrettati, coloro che pensano che tre film possano essere riassunti in una formula semplicistica; o piut‐
tosto “film difettosi”, occasioni mancate, per chi riesce a formula‐
re giudizi più prudenti e meno adolescenziali dedicando tempo e pazienza all’analisi critica e operando tutti i necessari distinguo. L’odio verso i Prequel ha raggiunto vette macchiettistiche, spesso da parte di gente che non li ha più riguardati. I Prequel non hanno rovinato la nostra infanzia: Internet l’ha fatto. L’era dei Prequel è durata oltre un decennio, includendo serie te‐
levisive d’animazione, e infine è giunto il momento del passaggio di testimone nel fatidico 2012 con l’acquisizione della Lucasfilm da parte della Disney. Dead film walking Oggi, tre anni dopo, esce un nuovo film della saga e la storia si ri‐
pete. Si entra in sala, si abbassano le luci e ha inizio la sfida impari tra un singolo film, nuovo, non interiorizzato e studiato, contro… tutto il resto della saga. Ma nessun film può competere con tutti i precedenti e soprattutto con il cumulo pluridecennale di ricordi ed emozioni stratificati, insomma con il monumento eretto come un mausoleo intorno ai precedenti capitoli. Accadde con Ep1 e accade di nuovo con Ep7. Il rullo compressore della mitizzazione; che peraltro distorce i ricordi, come accade nella finzione scenica ai miti sugli eroi della passata Ribellione. L’arrivo nelle sale de Il Risveglio della Forza ha riorganizzato le forze in campo: da una parte numerosi detrattori dei Prequel hanno abbracciato il nuovo film come la Venuta del Salvatore Abrams, che dimostra quanto Lucas abbia lavorato male e quanta speranza ci sia ancora per la saga se finisce nelle mani giuste, po‐
sto che quelle di Abrams lo siano; nell’altro schieramento trovia‐
mo i sostenitori dei Prequel, spesso coloro che ci sono cresciuti, che attaccano il nuovo film come riciclo, mancanza di visione, o‐
perazione meramente commerciale (come se l’industria del ci‐
nema fosse finalizzata alla beneficenza, come se l’Arte non fosse sempre stata creata su commissione e pagata, inclusi i Virgilio e i Michelangelo!). C’è poi la campana dell’ “aridatece i Prequel, ari‐
datece Lucas: ora mi pento di averli detestati”; e infine quella dei talebani oltranzisti, quelli‐che‐Star‐Wars‐è‐morto‐nel‐1983. Molti pretendono le scuse di Lucas, alcuni ora pretendono le scuse di Abrams. La pancia parla di esaltazioni incondizionate o di stronca‐
ture senza appello. Gigabyte di dati in rete sul nulla. Non che le accuse siano tutte infondate e che il settimo episodio sia privo di difetti: non ne è affatto privo ed è tutt’altro che per‐
fetto. Cosa che si poteva dire anche di tutti i precedenti film, per motivi diversi. Si è detto che Lucas era imbattibile nell’immaginare mondi sem‐
pre nuovi e favolosi. Abrams molto meno, o forse per niente, poi‐
ché vive di luce riflessa in ognuna delle sue visioni, che, per que‐
sta ragione, non si possono definire tali: non visioni, dunque, ma riflessi. Sotto questo profilo il suo è un fan film da 200 milioni di dollari che non reinventa il modello come Star Wars reinventava Flash Gordon. Ne ripropone ambientazioni planetarie classiche senza renderle esotiche e innovative: il pianeta desertico (è ugua‐
le a Tatooine, ma attenzione: non è Tatooine!), il pianeta boscoso (che però non è Endor!), il pianeta ghiacciato (no, non è Hoth: stavolta sono i cattivi ad avere nascosto fra le nevi la loro base). E ciascuno di questi mondi non ha nulla di stravagante, quel mix di naturale/tecnologico, antico/moderno che ci fece innamorare del Tatooine del 1977. C’è appena qualche struttura fantastica su Jakku… inventata? No, proveniente dai disegni di Ralph McQuar‐
rie per il palazzo di Jabba e non utilizzata ne Il Ritorno dello Jedi. E a metà film troviamo anche i corridoi di un’astronave semibuia ‐ il nuovo, massiccio mercantile di Han Solo ‐ che ricorda fin troppo da vicino la Nostromo di Alien. Insomma, nell’immaginario visivo Abrams è ‐ creativamente ‐ un’autentica frana. Fece di meglio almeno nel discutibile Star Trek: Into Darkness, con l’esotica e “starwarsiana” foresta rossa del pianeta tribale su cui il film inizia: era tanto difficile cercare di regalare un minimo di sense of wonder a chi era stato abituato così bene da Lucas per 40 anni? Se Rey doveva vivere su un mondo desertico per rafforzare i pa‐
rallelismi con Anakin e Luke (ne parleremo tra poco) era proprio necessario clonare Tatooine con un altro comunissimo deserto? Certo, ci sono i giganteschi relitti del passato (e anche di questa bella idea metacinematografica parleremo più avanti) ma è anco‐
ra identico al pianeta‐ombelico della precedente Esalogia. Costa‐
va tanto dare alla sabbia una colorazione grigio‐azzurrognola e punteggiarne la superficie di giganteschi quarzi ‐ tanto per dirne una ‐ in modo da rendere il tutto più esotico, alieno, nuovo? Op‐
pure una landa sconfinata di nerissimo carbone. O ancora riela‐
borare il concept di “deserto” dandone una rilettura non letterale ponendo l’eroina in una immensa desolazione d’acqua anziché di sabbia? Avremmo avuto un’altra immagine forte, iconica, un colpo d’occhio che ti fa dire “quello è Jakku”. C’è da chiedersi cosa ci sia di davvero affascinante nei tradizionali libri illustrati che accom‐
pagnano l’uscita di un nuovo film: Dentro i Mondi di Star Wars quali tavole mozzafiato avrà da proporre? E così pure Dentro le Astronavi? Temo basti un “vedere i precedenti volumi”. Forse si è voluto portare a casa il massimo risultato col minimo sforzo e senza assumersi rischi. Lucas osò troppo nei Prequel; Abrams ha osato troppo poco, al‐
meno nell’estetica. Ma un film non è solo il suo guscio esteriore. Il Risveglio della Forza è derivativo Proviamo a vedere cosa c’è sotto la superficie, sul piano della narrazione. “Niente di nuovo sotto il sole” (Qohelet 1,9), nel senso che si ripe‐
te la storia… del ripetere le storie! Ci si meraviglia come se tutti gli altri film non fossero stati a loro volta un sapiente collage delle più disparate influenze culturali degli ultimi 4.000 anni; come se Return of the Jedi non fosse già stato costruito per replicare ele‐
menti dell’originario Star Wars; come se ogni fumetto, romanzo, videogioco ed episodio di serie animata non vivesse al 40‐50% sul riciclo di topoi della Trilogia Classica. L’universo espanso è stato ‐ ed è ‐ un mondo asfittico nel quale l’originalità e l’inventiva sono merce rara e l’autoreferenzialità è talvolta imbarazzante, all’inseguimento servile ‐ per immagini, situazioni, citazioni di battute e nessi musicali ‐ dei rimandi a scene della Trilogia Classi‐
ca, nel tentativo di replicarle banalmente: un brutto vizio che af‐
fligge le pur belle serie Clone Wars e Rebels. Ci si può lamentare, ma Abrams non ha “clonato” il modello fino a quei livelli da produzione spin‐off. E se vogliamo dircela tutta, la ciclicità nella saga lucasiana è una regola del gioco. Se non la si accetta, ci sono altre storie cui ap‐
passionarsi. Lucas, l’Autore, ha teorizzato le “trilogie in rima” fra loro: che i figli e i figli dei figli rivivano le stesse situazioni con va‐
rianti è voluto. Di più: la ciclicità, la ripetizione del mito in modo uguale e diver‐
so è il suo stesso scopo! Se pretendiamo significative novità strutturali siamo fuori strada. Ragionando così, già il ciclo bretone con la leggenda del Re Pescatore sarebbe da considerare ridon‐
dante rispetto a quello di Edipo. La cultura sarebbe ferma al mondo greco (che peraltro, curiosamente, quasi nessuno studia). I miti lavorano per eco; echeggiano ritornando nei secoli, nei de‐
cenni, nelle trilogie. Forse ispirarsi direttamente al passato ricalcandone pedissequa‐
mente i topoi narrativi era necessario non solo per attirare e blandire il pubblico dei fan (fatto indiscutibilmente deciso a tavo‐
lino per garantire gli incassi), ma anche per rievocare come in un rito quella che era divenuta una leggenda, dentro e fuori dalla storia narrata: è vero, è tutto vero! Questa saga era grande e può tornare a esserlo. Lucas era fan di Flash Gordon e lo “clonò” nel primo Star Wars; ora il fan della generazione successiva Abrams “clona” l’originale per una nuova epoca, per ripartire… sempre dalle origini, dai me‐
desimi archetipi, perché la storia si ripeta uguale e diversa. Con buona pace di chi vuole storie totalmente originali, impossibil‐
mente originali. Il peccato di Abrams è quello di aver esagerato in alcuni punti: un pizzico di variatio sarebbe stata gradita per rendere l’omaggio e la ciclicità meno scoperti. Questo è un errore che Lucas non a‐
vrebbe mai fatto. Già, Lucas… Senza l’Autore l’Opera è defunta Per un po’ ho condiviso anch’io questa tesi e da un certo punto di vista la condivido ancora. Lo Star Wars di Lucas, l’Esalogia, appar‐
tiene al passato, oggettivamente, storicamente: è un dato di fatto incontrovertibile. L’Anakineide è terminata. Si aprono nuovi oriz‐
zonti. Il punto è che Lucas non ha creato solo una saga di film, ha dato vita a un intero universo con sue regole, capace di “cammi‐
nare da solo” e destinato a continuare il suo percorso evolutivo. Ha fabbricato un intero mondo mitologico più originale di quello ‐ raffinatissimo ma ben più derivativo ‐ di Tolkien. Lucas ha inven‐
tato la Forza, i Jedi, le spade laser, vere rielaborazioni di archetipi esistenti o talvolta anche novità assolute. Quello di Lucas fu un vero aggiornamento al mondo contemporaneo degli archetipi, l’opera magistrale di Tolkien no, era una rielaborazione dei vec‐
chi: gli elfi continuavano a essere elfi, gli orchi orchi, gli stregoni stregoni (banalizzando il concetto). La differenza stava nella sproporzione tra la sensibilità e la profonda cultura di Tolkien e quella più formato “bignami” di Lucas, il quale ha realizzato qual‐
cosa di a prima vista meno dotto e molto più pop ma altrettanto ricco nel suo cuore nascosto. Una nuova epopea che ci è giunta dalle lande estreme della civiltà occidentale, la California, il nuovo continente, la frontiera contemporanea: quella “[…] edge of the world / And all of western civilization” di una certa canzone che qualche strofa più avanti, curiosamente, cita proprio… “Alderon (sic) is not far away” (refuso d’assonanza: è ovviamente “Aldera‐
an”). Star Wars è l’unica vera grande mitologia popolare dell’era in cui viviamo. E il merito della sua visione e della sua creazione va interamente a uno degli uomini più vituperati e dileggiati degli ul‐
timi vent’anni, George Lucas. La presenza dell’Autore californiano nella sua opera è stata fortis‐
sima ‐ nel bene e nel male ‐ fino al 2005. Ma egli non è immortale. L’opera invece sì. Star Wars esiste e de‐
ve esistere dopo di lui. Tutte le epopee antiche, dai cicli omerico, norreno, bretone, carolingio, sono opere collettive, sono fabbri‐
cate da un popolo, non solo da un singolo autore, benché poi tro‐
vino un rapsodo/poeta che ne dà una sistemazione secondo il suo genio personale. Se dunque anche Star Wars ha l’apporto di altre menti… dov’è lo scandalo? Lucas stesso non fu forse aiutato nel realizzare la Trilogia Classica? Le sue stesse visioni non sono state ispirate dagli scritti di Joseph Campbell, dalle tavole magistrali di Ralph McQuarrie, dai professionisti che lavorarono con lui? An‐
che la Trilogia Classica è opera collettiva, e la sua bellezza lo te‐
stimonia. Sono stati semmai i Prequel a essere troppo opera dell’Autore: un demiurgo senza freni e inibizioni, senza controllo e contradditto‐
rio: quei film imperfetti dimostrano che l’autorialità è buona cosa ma non garanzia di qualità a priori. Se le scelte sono giuste, un’opera può essere proseguita da altri, può essere proseguita su commissione, per motivi commerciali, come è sempre stato per l’arte. Se le scelte sono giuste, se la sto‐
ria è affascinante, il resto sono solo chiacchiere. Le scelte giuste Nel concepire l’Universo Espanso di ambientazione post‐filmica (inaugurato da Timothy Zahn nel 1991 con L’erede dell’impero), uno sterminato mondo di romanzi e fumetti parallelo ai film forse fin troppo glorificato, i curatori di quelle storie sono stati molto meno coraggiosi di Arndt/Abrams/Kasdan: ci veniva dipinta una situazione scolasticamente derivata dalle scene finali di Return of the Jedi con i nostri eroi tutti insieme appassionatamente. Ci so‐
no state raccontate per anni le vicende di uno Han Solo imbor‐
ghesito, divenuto Generale, una Leia “presidenziale”, sposati, con figli… nella triste routine di salvare ogni due/tre anni la galassia dal nuovo rigurgito di sopravvissuti imperiali. Quella sì era ripeti‐
zione e serializzazione. Alcune storie erano molto valide, altre e‐
rano imbarazzanti. In The Force awakens ci ritroviamo davanti una situazione del tut‐
to diversa e molto meno banale: i nostri eroi storici, gli eroi di Ya‐
vin ed Endor, si sono scompaginati, si sono allontanati, come i Cavalieri della Tavola Rotonda dispersi e sconfitti per anni, come la Compagnia dell’Anello, anch’essa sciolta. Leia è rimasta sola, col il peso di un figlio “drogato” di Lato Oscuro, una sconfitta per‐
sonale; e con il peso della semiclandestina Resistenza sulle spalle, mal tollerata dalla Nuova Repubblica. Han è sfuggito agli obblighi del matrimonio, della paternità, della politica e della lotta arma‐
ta, tornando sorprendentemente a fare ciò che sa fare meglio: la canaglia; ma senza il successo di un tempo, perché gli anni lo hanno segnato e… uno in più a bordo gli farebbe comodo, con tutte le bande che gli stanno alle calcagna. Luke, schiacciato dai sensi di colpa per la perdita del nipote Ben, è sparito, è lontano, in luoghi remoti, alla ricerca dei segreti della Forza. Persino R2‐
D2, simbolo del dinamismo tuttofare della Trilogia Classica, non è al suo posto a risolvere problemi con le sue mille risorse ma è sprofondato in un “sonno magico” cibernetico. Quasi nulla ‐ insomma ‐ è come ce lo aspetteremmo pensando all’ultima idilliaca immagine che avevamo in mente, quella “foto di gruppo” finale di Return of the Jedi. Se i vecchi sono stanchi e sconfitti dopo le loro antiche vittorie, è il tempo per una nuova generazione di eroi di raccoglierne il te‐
stimone. E se c’è qualcuno che voleva fare esattamente questo nei Sequel… era proprio il povero George. Semmai è stata la pro‐
duzione Disney a voler lasciare ancora molto spazio al vecchio trio. Troppo spazio? Personalmente l’equilibrio tra il vecchio e il nuovo mi è parso più che buono. Coraggiosamente The Force awakens è il secondo film a ricevere negli USA un PG‐13 per scene di violenza, e questa per molti po‐
trebbe essere da annoverare tra le “scelte giuste” di cui diceva‐
mo. Il Primo Ordine viene da subito mostrato come ancora più crudele dell’Impero: il massacro di innocenti nel villaggio non è certo scena da film per bambini. Lo humour infantile è quasi as‐
sente e l’unico personaggio pensato soprattutto per i più piccoli è ovviamente BB‐8. Ma qualcuno può dire di averlo trovato sgrade‐
vole? Qualcosa è cambiato… Nei suoi raduni oceanici il Primo Ordine assomiglia ai gruppi neo‐
nazisti rifugiati in Sud America, solo molto più organizzato. Dà l’idea di essere meno vasto e consolidato del vecchio Impero, che teneva in pugno l’intera galassia: è qualcosa di molto più limitato e raccogliticcio. Le parole di lucida, fanatica follia irresponsabile rivolte dal giovane Generale Hux nel suo fascistissimo “discorso dal balcone” allo schieramento “nazista” delle truppe, i suoi occhi che si riempiono del rosso del raggio mortale, lucidamente fissi nello spingere fino in fondo l’acceleratore della violenza: il Primo Ordine appare mosso non tanto dal Lato Oscuro della Forza, quanto da un più terreno fanatismo e dall’indottrinamento for‐
zato che compensa una potenza ancora limitata. Solo il Leader Supremo Snoke ci fa capire che ci sono ancora le forze del Male dietro tutto ciò; ma allo spettatore viene concesso di capire ve‐
ramente poco sotto questo profilo. Per ora. Solo apparentemente il Primo Ordine è la pigra continuazione del vecchio Impero: agli osservatori più attenti non potrà essere sfuggito come vi sia una presenza di donne (mai apparse nei pre‐
cedenti film: qui ci sono il capitano Phasma ma anche operatrici), neri (Finn all’inizio serve regolarmente come assaltatore) e addi‐
rittura alieni: il leader stesso del regime, Snoke, è un essere non umano. Per chi ricorda il razzismo anti‐alieno di Palpatine e la composizione dei quadri dell’Impero di soli umani maschi di pura razza “ariana” tutto ciò è piuttosto innovativo. E come nota più leggera si può far rilevare che gli assaltatori imperiali sembrano finalmente aver imparato a prendere la mira… Specularmente anche la Nuova Repubblica insediata su Hosnian Prime, prima di venire spazzata via, sembra il germoglio di un’istituzione che dovrà rinascere ma che è ancora limitata per vastità e poteri, per non parlare della piccola Resistenza. La base della Resistenza su D’Qar è una sorta di villaggio hobbit fatto di collinette verdeggianti che nascondono alla vista struttu‐
re sotterranee: ciò rende più evidente la condizione di movimen‐
to “sotterraneo”, corsaro, legato alla Repubblica, che non lo ri‐
conosce ufficialmente, a quanto si intuisce dalle parole di Hux, ma che lo appoggia controvoglia come un male necessario contro il Primo Ordine. Inoltre il pianeta è nascosto dietro una cintura d’asteroidi che rende meno facile identificarlo e raggiungerlo. Il fatto che i vertici della Nuova Repubblica siano stati spazzati via (in una scena in cui la musica di John Williams cita il tema dolen‐
te che accompagnava ne La vendetta dei Sith le scene dell’Ordine 66) e quelli del Primo Ordine siano vivi e vegeti mette i villain in una posizione di forza per il futuro Episodio VIII e pone sulle spalle di Luke il peso di una grande responsabilità: salvare ancora una volta la galassia; o, più probabilmente, aiutare altri a farlo. Un film materico La prima interazione tra personaggi che il film mostra è quella delle mani di Max Von Sydow che prendono quelle di Oscar Isaac deponendovi la fatidica mappa, per poi richiuderle premurosa‐
mente. Calore umano. Sabbia, sangue, mani insanguinate, tocchi, mani che si toccano, visi che si toccano, la carezza di un padre infilzato dalla spada la‐
ser del figlio: se c’era una cosa che non funzionava nei Prequel era la sensazione che quasi tutto fosse fake, quel senso di imma‐
terialità che scenari, ambienti e interazioni trasmettevano; e la mancanza di contatto tra i personaggi. Era un problema piuttosto serio perché erodeva il godimento del film a livello subliminale. Abrams ha scelto di abbandonare l’abuso della computer grafica e di ricorrere ovunque fosse possibile a trucchi tradizionali, og‐
getti reali, costumi, pupazzi: lo sappiamo, ci è stato ripetuto in tutte le salse per oltre due anni, finendo per diventare uno dei punti focali della promozione del film. E i risultati si vedono: si sente il “tocco Henson”, sembra di tornare ai puppets di quell’indimenticato laboratorio artigianale degli anni ‘70/’80 da cui uscì lo stesso Frank Oz/Yoda. C’è profumo di Dark Crystal, La‐
byrinth, con i loro adorabili bestiari fantastici. Operazione nostal‐
gia furbescamente riuscita anche sotto questo aspetto. E meno male! Sparita ‐ inoltre ‐ è l’asetticità asessuata di Lucas. C’è più tensione amorosa (potenziale, certo) tra Finn e Rey, che si comportano in superficie da semplici amici, che nelle bolse scene d’amore tra Anakin e Padme nei Prequel, ingessati e impalati com’erano. In quei controversi film raramente ci si toccava, non c’era contatto, specchio della repulsione che il puritano Lucas ha, forse incon‐
sciamente, per il suo prossimo. Non ama dirigere gli attori, non ama la sensualità, non ama i tocchi. Vi fece ricorso ‐ costretto dal‐
la sua stessa storia ‐ ne L’attacco dei cloni, ma maldestramente. Ama starsene nel suo studio davanti a un block notes a immagi‐
nare mondi lontani: e lì fu più bravo di chiunque altro. Qui Abrams mostra di tenere così tanto al contatto da spingersi a far mettere a Finn sgarbatamente una mano in faccia a Rey men‐
tre si arrampica per guardare fuori dall’oblò del Falcon. E poi gli abbracci. L’abbraccio di Poe e Finn che si ritrovano, quelli tra Finn e Rey, quello fra Rey e Leia. Tutto sembra possedere un “peso” e un volume in uno spazio non virtuale ma reale. Il casco di Kylo Ren, pesante, vero, non un effetto aggiunto in postproduzione come i cloni dei Prequel, e per di più pesante come l’Unico Anello; e ancora i colpi che il giovane dannato assesta al proprio fianco ferito e sanguinante per accen‐
tuare il dolore e dunque la discesa nel Lato Oscuro della Forza, ma anche per far uscire da sé il sangue della colpa; e poi ancora la sua spada laser, irregolare, sfrigolante, imperfetta e irrequieta come il suo padrone, fuori controllo. Un’altra cosa vera, che si sente di poter toccare, opportunamente accostata al collo di Rey in una scena tesa per trasferire a noi la sensazione di tangibilità e pericolo. Persino i poteri soprannaturali di Kylo Ren vengono giocati come qualcosa di tattile, più fisico che in passato: la sua abilità (innova‐
tiva, per la cronaca…) di “congelare” in aria persino una salva di energia sparata da un fulminatore, e, allo stesso modo, le sue vit‐
time, paralizzandole a lungo come marionette (succede sia a Poe Dameron che a Rey), trasmette sensazioni fisiche. La percezione di un film dove tutto è reale e si può toccare è uno dei traguardi raggiunti da Abrams nello stabilire la continuità col realismo della prima Trilogia; e, insieme, traccia una linea di de‐
marcazione forte rispetto ai Prequel. Eppure, anche se il film è così “fisico”, terreno, torna l’aspetto più soprannaturale della Forza, di cui avevamo quasi perso le tracce negli Episodi I ‐ III: torna a più riprese il caratteristico “rombo” che trasmette allo spettatore tutto il fascino e l’alterità di quell’energia, lavorando sull’inconscio tramite le vibrazioni basse. E la spada laser di Luke, di cui diremo in seguito, è il mas‐
simo esempio di recupero dell’elemento magico‐soprannaturale andato perduto nel recente passato. Un universo usato… di seconda mano Lo used universe fu una delle carte vincenti dell’estetica (e non solo) lucasiana fin dal 1977, in contrapposizione all’estetica lucida e lussuosa dei successivi Prequel; e anche Abrams, ovviamente, nel riallacciarsi a quella tradizione recupera il design “industria‐
le”, lo sporco, la ruggine, i rottami, ma con un ulteriore grado di separazione: adesso gli oggetti, i mezzi, le “reliquie” dei primi film sono feticci con un valore iconico, oggetti d’archeologia da lasciare a pezzi nel deserto, monumenti di un passato tramontato (…ma non troppo). Non solo un universo realistico e “usato”, dunque, ma anche costituito da pezzi da museo che molti degli abitanti della galassia conoscono poco e il cui significato frainten‐
dono, imbottiti di leggende contraddittorie. Geniale l’introduzione del Millennium Falcon, cui si allude mentre è fuori scena, giocando a farne indovinare l’identità ai fan nel momento stesso in cui una nave non inquadrata viene definita “un pezzo di ferraglia” (e chi non ha colto al volo la citazione messa in bocca a Rey può bruciare negli Inferi del fandom). Ma subito dopo… “La ferraglia va bene!” e finalmente vediamo un’altra delle preziose reliquie della Trilogia Classica, che non sfrecciava sugli schermi cinematografici dal 1983. Era facile cade‐
re nella tentazione di rendere epica l’introduzione del Falcon, renderla celebrativa con inquadrature lente e musica solenne… ma Abrams ha scelto di dargli un posto anonimo in mezzo al resto dei relitti nella desolazione di Jakku. Questo non è fanservice be‐
cero. Tra gli oggetti delle leggende ci sono anche i personaggi stessi: il Vader‐feticcio di Kylo Ren dalla parte dei villain (idolatrato e idea‐
lizzato rimuovendone la “scomoda” redenzione, con una ingenui‐
tà pari solo a quella di Dave Prowse che lo interpretò…) e, di con‐
tro, coloro che furono gli eroi di Yavin ed Endor visti come leg‐
gende sfocate e confuse da chi aspira la bene: Han Solo… era un eroe della Ribellione? O piuttosto un contrabbandiere? E Luke Skywalker chi era? Forse, dopotutto, non è mai esistito… no? Sei personaggi in cerca di Luke Il Trio originale viene sostituito da un nuovo trio di eroi che in parte rispetta le simmetrie, mentre per altri tratti no: Finn è sì l’uomo comune che si unisce ai ribelli come Luke, ma inizia dalla parte dei cattivi; Rey è sì la ragazza decisa e combattiva parago‐
nabile a Leia, ma è una stracciona e un abile meccanico e non cer‐
to una principessa e senatrice; Poe è sì un pilota bruno dal sorriso vincente come Han, ma è un membro della Resistenza e non una canaglia che obbedisce solo a se stesso. Tutto ruota intorno alla ricerca dell’evanescente Luke Skywalker e, curiosamente, i tre nuovi e giovani eroi incarnano frammenti di ciò che era Luke: Finn è il ragazzo dal cuore d’oro per molti versi ingenuo, Rey la giovane sognatrice che viene dal deserto e ha un destino da Jedi, Poe l’abile pilota di X‐Wing che distrugge la superarma nemica: ecco il giovane Luke in tre schegge distinte. Essi ci vengono introdotti in ordine inverso rispetto alla loro rile‐
vanza nella storia: Poe per primo, poi Finn e solo da ultima Rey; ed ella ci apparirà davvero centrale nella fabula solo quando toc‐
cherà la spada del destino scatenando le sue visioni. Novità al passo coi tempi ‐ e forse volutamente politically correct ‐ è poi il fatto che di questo trio non faccia parte nessun eroe ma‐
schio “ariano” (come erano, bene o male, sia Luke che Han) ma al contrario un nero, l’anglo‐nigeriano John Boyega, e un latinoame‐
ricano, il guatemalteco Oscar Isaac; senza contare che l’eroe cen‐
trale ora... è un’eroina. REY (cognome sconosciuto): il risveglio della Forza Rey è uno dei cuori pulsanti del film, è colei che con la sua fisicità, gli sguardi e l’umanità dà calore alla storia. Il casting della scono‐
sciuta Daisy Ridley è stato a dir poco una scelta indovinata ed è facile immaginare per la giovane londinese un futuro radioso. Affronta una vita dura tra sabbia, rottami e soprusi, vivendo nella carcassa di un camminatore AT‐AT (forse si allude alla protagoni‐
sta di Nausicaä della Valle del vento di Miyazaki), contando i gior‐
ni come un galeotto incidendo tacche sul metallo, mangiando po‐
co e male (e masticando con la bocca spalancata), costruendosi bambolotti a forma di piloti ribelli e vendendo la sua merce ar‐
rugginita. Sa difendersi e difendere gli altri (il suo rapporto con BB‐8 è subito tenero). Sa pilotare e riparare navi. È forte e fragile al tempo stesso. Si libera da sola nella base Starkiller. La ripetizione di un cliché? Sì, ma Leia in Ep4 rimaneva comunque in cella finché uno “troppo basso per appartenere alle truppe d’assalto” non la tirava fuori, Rey invece fa qualcosa di più rispetto al modello: resiste al suo aguzzino, lo sfida e poi inganna… James Bond (è Daniel Craig l’attore che si è divertito a nascondersi sotto l’armatura di quell’anonimo assaltatore beffato dal trucco mentale). La critica che in questi giorni i soliti fan dogmatici le riservano è che è inaccettabile che un Jedi impari da solo a usare i suoi poteri senza addestramento: è una bestemmia starwarsiana, credo di aver letto. Benissimo. Vogliamo vedere cosa fa Luke nella “sacra” Trilogia Classica, che qualcuno crede perfetta? In A New Hope l’addestramento di Luke con Ben Kenobi sostan‐
zialmente… non esiste. Obi‐Wan gli insegna a parole cos’è la For‐
za, salgono sul Falcon e il tutto dura… quanto? due ore di viaggio? Luke, mentre si allena coi remoti, dopo un paio di tentativi falliti riesce a deflettere i colpi: riesce quasi subito, come Rey. Non so‐
lo: quando lo spirito di Ben lo invita a usare la Forza nel canalone della Morte Nera, Luke, sempre senza ulteriore addestramento, riesce per istinto a fare miracoli, infilando il colpo fatale nel con‐
dotto di scarico. Ma i fan hanno notoriamente spessi strati di af‐
fettati sugli occhi, che sotto le feste ‐ come ora ‐ arrivano allo spessore del cotechino… Ne L’impero colpisce ancora Luke, dopo tre anni dall’ultimo con‐
tatto col maestro, usa la telecinesi. Poi si addestra con Yoda per qualche settimana al massimo e riesce a tenere testa in un duello a chi? Al debole Kylo Ren? No, tiene testa a Darth Vader in perso‐
na. Perché Luke è figlio del Prescelto e, in fondo, dell’addestramento non ha questo grande bisogno. Ciò vale an‐
che per Rey, se anche lei fa parte degli Skywalker come pare pos‐
sibile. Ne Il ritorno dello Jedi, Luke torna da Yoda per completare l’addestramento ma… non lo completa affatto: Yoda gli dice che ormai altro non gli serve, poiché la lezione finale non l’ha avuta da lui ma perdendo contro Vader e imparando sulla propria pelle a maturare. Rey, una Jedi che chiaramente scopriremo potentissima nei pros‐
simi film, è colpevole di riuscire al secondo tentativo a influenzare una mente debole; e di resistere contro Kylo Ren, “pareggiando” un duello più che vincendolo. Non sono risultati così sorprenden‐
ti; soprattutto per qualcuno che un addestramento Jedi forse lo ha avuto nella tenera infanzia, come si può intuire da alcuni indizi che Kylo Ren scova frugando nella mente della ragazza e da frammenti della sua visione. Perciò le imprese di Rey potrebbero risultare ancor meno inspiegabili di quelle del giovane Luke, del quale nessuno si è mai lamentato. Il film dà anche la sensazione che la Forza stessa si manifesti a Rey spontaneamente, chiamandola, ispirandola, offrendosi a lei: il titolo del film, Il Risveglio della Forza, sta a indicare anche que‐
sto, oltre alle altre chiavi di lettura più metacinematografiche di rilancio del franchise. Persino se si scoprisse che Rey non ha una parentela genetica con il sangue degli Skywalker, resterebbe in piedi la chiave di lettura di lei come “vergenza” nella Forza, nuova force‐user designata dal destino e docile all’istinto di una Volontà più grande. Si potrebbe anche osservare che in realtà, da un certo punto di vista, un mentore nella Forza Rey lo ha in questo film, benché in‐
consapevole, ed è lo stesso Kylo Ren: è decisamente paradossale, ma quando questi tenta di entrare nella mente di Rey, lei sembra quasi imparare la tecnica e la applica subito, rivolgendola contro il proprio torturatore; quando Kylo tenta di prendere la spada di Luke dalla neve con la telecinesi Rey impara a fare la stessa cosa. Che sia solo un “ripasso” di qualcosa appreso in un’infanzia “ri‐
mossa”? Nel romanzo Kylo Ren dice un enigmatico “It is you!” “Sei tu!” e di Rey viene detto che si meravigliò che ancora una volta lui sembrasse sapere su di lei più di quanto sapesse lei stes‐
sa. Nel film, inoltre, dopo lo sfogo isterico dello stesso Kylo Ren, quando l’impaurito ufficiale fa cenno a una ragazza, il giovane dannato perde davvero il controllo e lo strozza chiedendo in mo‐
do intimidatorio “Quale ragazza?”, lasciando intendere un’urgenza speciale e la conoscenza di qualcosa che noi non sap‐
piamo… L’adepto del Lato Oscuro si rende conto benissimo del potenziale della sua avversaria e durante il duello si offre di addestrarla, prima che lei si lasci assorbire dalla meditazione sentendo in mo‐
do diretto il contatto con la Forza e ribaltando le sorti dello scon‐
tro. Nell’economia del film ‐ e nei confronti di Rey ‐ Kylo Ren svolge la funzione favolistica e soprattutto esoterica del Guardiano della Soglia, la figura spettrale che si manifesta quando lo studente dello spirito inizia ad ascendere verso un più alto livello di cono‐
scenza spirituale (“il primo passo in un mondo più vasto” secondo le parole di Ben Kenobi al giovane Luke in Ep4 ripetute, come pu‐
ra voce, anche qui in Ep7 nella visione della stessa Rey con un mix delle voci di Alec Guinness e Ewan McGregor). Il Guardiano/Kylo sorveglia il simbolico ingresso nel “mondo speciale”, la dimen‐
sione del soprannaturale, in questo caso la foresta innevata or‐
mai priva della luce solare, mettendo alla prova la risolutezza dell’eroe/eroina. L’offerta di istruire Rey nelle vie della Forza (leggasi Lato Oscuro) è una prova da superare per verificarne la devozione alla Luce. Sconfitto il Guardiano e dopo aver resistito alla tentazione di finirlo cadendo subito nel baratro del Lato O‐
scuro (e infatti tra lei e il suo avversario si spalanca letteralmente un allegorico baratro), Rey è pronta a completare la propria a‐
scesa verso il mondo dello spirito, e infatti ascenderà i gradini dell’isola di Luke Skywalker per essere addestrata nelle vie della Luce. Quando gli spettatori e i fan criticano la plausibilità razionale di questa o quella scena, di questa azione o di quella vittoria appa‐
rentemente esagerate, è perché non comprendono tutto ciò. I personaggi non si muovono in un dramma realistico ma sono fun‐
zioni della fiaba. Sempre riguardo a Rey c’è un’altra differenza cruciale tra il film‐
modello, Ep4, e questo Ep7: al di là delle somiglianze esteriori alle quali troppi si fermano, resta il fatto pesante che il giovane Luke non rifiutava il suo ruolo di eroe, cui anzi andava incontro con de‐
cisione lasciandosi alle spalle tutto per diventare un Jedi e in‐
camminandosi sulle vie della Forza (esita solo brevemente a casa di Obi‐Wan, ma la morte degli zii lo convince subito dopo a “se‐
guire le vie della Forza e diventare un Jedi“ come suo padre); mentre invece Rey non abbraccia subito questo cammino, si lan‐
cia solo nella missione di aiuto di BB‐8, ma per quanto riguarda la Forza è inconsapevole e appena vi entra in contatto lo fa in modo traumatico: è atterrita dalle visioni che la spada le offre, se ne allontana rifuggendole: è dunque l’eroina riluttante, portandoci al paradosso di una storia persino più proppiana/campbelliana dell’originale Star Wars. L’accettazione del proprio ruolo di Jedi da parte della ragazza arriverà solo nella scena finale del film, e comunque in modo implicito: non sappiamo ancora esattamente se e quanto sia disposta a intraprendere quel cammino. L’arco narrativo di Rey la porta dalla desolazione sabbiosa del suo pianeta Jakku (quello sul quale è cresciuta, ma non nata) al polo opposto di un pianeta acquatico punteggiato di isole verdeggian‐
ti, una splendida Avalon in cui Luke/Artù attende ferito; la stessa Rey che a metà film ‐ non a caso ‐ si meraviglia che nella galassia possa esistere così tanto verde. Sentiamo che questo è solo l’inizio del suo viaggio e che il suo fu‐
turo sarà glorioso. FN‐2187, detto FINN (senza cognome, dunque): il “pezzo grosso” Tra le clamorose novità che allo spettatore sfuggono c’è, fin dall’inizio del film, il fatto di vedere l’Impero (qui la sua filiazione “neonazista”, il Primo Ordine) dal di dentro, dal punto di vista di uno di loro. Nel manicheismo favolistico dell’originale Star Wars ciò non accadeva mai. Qui un disertore del nemico diviene uno dei protagonisti stessi della saga. Il ragazzo è cresciuto con l’indottrinamento a sostituire gli affetti e senza neppure un nome: la sigla che designa la sua labile identi‐
tà è una chiara citazione del primo film di George Lucas, quel di‐
stopico e orwelliano THX 1138 in cui gli individui avevano sigle che sostituivano i nomi, mentre i nomignoli derivavano dalla so‐
norizzazione delle lettere: THX‐1138 era “Thix”, “LUH‐3417" era “Luh” e “SEN‐5241” era “Sen”, così come qui “FN” diverrà “Finn” per iniziativa di Poe Dameron (per la cronaca, il numero “2187” era la cella di Leia sulla prima Morte Nera). La mano insanguinata che lascia il segno sul casco di Finn ci fa su‐
bito capire che non è un soldato anonimo come gli altri quello sul quale il regista indugia. Quel segno cruento è il marchio di ricono‐
scimento di una presa di coscienza contro la violenza che lo di‐
stingue dagli altri. La Forza ‐ in qualche modo ‐ si sveglia anche dentro di lui facendogli sentire che aiutare il suo prossimo è la cosa giusta. Finn vuole proteggere le persone del villaggio di Niima che sareb‐
be suo dovere giustiziare e lo vediamo astenersi dal fare fuoco, finendo nel mirino dello sguardo attento di Kylo Ren che lo in‐
quadra subito come disertore. Poi al mercato di Jakku vuole proteggere Rey che appare in diffi‐
coltà contro i due loschi figuri inviati dal viscido Unkar Plutt per rubarle BB‐8, sennonché lei si libera da sola; poco dopo la prende ripetutamente per mano (ecco ancora i tocchi) mentre lei è trop‐
po indipendente per accettarlo; poi decide di andarla a salvare fingendo di essere esperto di installazioni imperiali, ma è solo una scusa per correre in soccorso di lei, che di nuovo, però, si è libera‐
ta da sola! Infine tenta di proteggerla contro Kylo Ren nel duello. Quella tra Finn e Rey è la più bella amicizia tra un ragazzo e una ragazza (amicizia, sì) che si ricordi al cinema, eppure senza alcuna repressione della carica sensuale, che promette molto. Finn e Rey si cercano e si salvano vicendevolmente, con un affetto che sullo schermo ha qualcosa di genuino e riflette la chimica forte creatasi tra i due giovani attori britannici. Il loro potrebbe eventualmente divenire il primo amore interraziale di questa epopea (ipotesi da verificare e, comunque, non rilevante in quel mondo fantastico). Anche l’amicizia in puro stile bromance con Poe Dameron è im‐
portante, perché Poe è colui che ha dato a Finn il suo nome, colui che ‐ provenendo dal mondo umano e solidale della Resistenza ‐ lo ha definitivamente umanizzato liberandolo da quell’odiosa si‐
gla mentre l’altro lo liberava dalla prigionia. Finn cerca di restare a galla negli eventi che lo travolgono ricor‐
rendo alla menzogna ingenua del “pezzo grosso” della Resistenza, eppure non riesce a risultarci antipatico mentre tenta di portare a termine la missione che era di Poe, creduto morto, sostituendosi a lui e persino indossando la sua giacca. Abbiamo in lui un altro esempio di eroe riluttante che tenta di darsela a gambe e allon‐
tanarsi il più possibile dal Primo Ordine, fino al punto di accettare l’idea di fuggire con dei contrabbandieri trovati da Maz Kanata. Ma al momento opportuno Finn sa trovare coraggio e, per difen‐
dere Rey, affrontare il suo ex esercito nella base Starkiller e infine persino brandire un’arma come la spada laser che gli è del tutto estranea… Finn è un magnifico cialtrone, un eroe per caso, un uomo comu‐
ne con una coscienza, impaurito, gaglioffo, mentitore, eppure altruista e disperatamente bisognoso degli altri: gli serve Poe, poi gli serve Rey, ma soprattutto ha urgente bisogno di una guida che lo raddrizzi; e questa guida la trova in... HAN SOLO: il fascino delle rughe Siamo a casa? Sì e no. Per fortuna. Han porta su di sé i segni del tempo, e questa è una fortuna perché un personaggio perfetta‐
mente identico allo Han giovane sarebbe stato sbagliato. Le ru‐
ghe devono vedersi. Ma c’è di più: questo è il primo film in cui vediamo Han impe‐
gnato a fare il suo mestiere, quello di contrabbandiere, lo osser‐
viamo con Chewbacca nel mezzo di un’azione, quella di recupera‐
re il suo Millennium Falcon, nella cui cabina di pilotaggio torna per la prima volta dopo il 1980 (in Jedi non lo vedevamo mai a bordo). Nella Trilogia Classica ci viene mostrato ormai coinvolto nelle vicende epiche e belliche della Ribellione, non mentre fa ciò che sa fare meglio, perché ormai quel mestiere se l’è lasciato alle spalle. Qui ne Il Risveglio la situazione si è nuovamente ribaltata: Han è un eroe decaduto, l’ombra di se stesso: “tu sei l’Han Solo che combatteva con la Ribellione?”. Non è più un eroe, sembra quasi averlo dimenticato: “Lo ero, almeno”. Ma neppure un contrab‐
bandiere di successo e rispettato: nessuno più gli crede. Anche a bordo del Falcon Rey sembra saperne più di lui. Ma davvero non ha più niente da dare a nessuno? A tratti può apparire una bella riflessione sulla vecchiaia, in un cinema giovanilistico, young adult come quello di oggi. Han svolge qui la funzione del mentore, la funzione di quel “vec‐
chio fossile” di Ben Kenobi. Ora è lui il vecchio fossile e tante cose sono cambiate: Han ormai crede alle fandonie sulla Forza e i Jedi, tocca a lui confermare ai giovani che di quei fatti lontani hanno solo brandelli di leggenda (“la nave che ha fatto la rotta di Kessel in 14 parsec” “12!”) che “è vero, è tutto vero”. Si tratta dello stesso inguaribile scettico che più di 30 anni prima, in quello stes‐
so salottino del Falcon, seduto poco più in là, aveva detto di non credere a quelle baggianate soprannaturali: semplici trucchi e i‐
diozie. Adesso nelle sue rughe c’è tutt’altra consapevolezza. Egli è ora un testimone. Le brevi scene con Leia possono ricordare a una prima visione quelle un po’ costruite, forzate, tra il vecchio Indiana Jones e la vecchia Marion Ravenwood nel fallimentare Teschio di cristallo lucas‐spielberghiano; ma quando si riesce ad andare oltre il primo impatto ci si accorge che sono giocate su toni completamente di‐
versi, non certo quelli della commedia romantica che con perso‐
naggi âgée finisce per stonare: in ballo c’è un rapporto tormenta‐
to, mai compiuto ma neppure interrotto; e soprattutto il tema scottante di un figlio perduto. A proposito di vecchiaia trattata con sensibilità, Leia trova il tem‐
po di dire a Han “mi fai ancora impazzire” e gli autori hanno sag‐
giamente resistito alla tentazione di fargli rispondere “Lo so”: sa‐
rebbe stato davvero troppo! Han, insieme a Rey, regge una parte significativa del film e nel terzo atto torna a essere un eroe a tutto tondo, per l’ultima volta. Nella base Starkiller non si limita a svolgere la missione primaria ma, insieme a Chewbacca, si spinge oltre, rischia grosso piazzan‐
do cariche esplosive per aprire la strada ai caccia della Resistenza e soprattutto affrontando la grande ferita aperta della sua vita: il figlio Ben. La scena della morte di Han è simmetrica, nell’economia del film, al sacrificio di Obi‐Wan contro Darth Vader, che però era del tut‐
to diverso da quello di Han, benché la funzione narrativa di lascia‐
re gli eroi soli, privi della loro guida, sia la medesima, vecchia co‐
me il mondo. Han cade come Gandalf, come Obi‐Wan, ma cade in un modo più doloroso. Piangiamo un eroe e soffriamo per un gio‐
vane che ha ucciso se stesso prima del padre. Quella scena è anche speculare e rovesciata rispetto al duello di Bespin: certo, lo scenario col confronto padre/figlio su un cam‐
minamento sospeso inquadrato dall’alto è una citazione. Ma c’è ancora una volta un rovesciamento di prospettiva: qui è il padre che deve redimere il figlio e non viceversa, come accadeva a Luke dal duello in avanti; ed è il padre a cadere e non il figlio; ma la simmetria c’è nella richiesta del “vieni con me”, che il padre rivol‐
ge al figlio. Vader rivolgeva quest’invito a Luke per condurlo al male e Luke rifiutava per il bene; qui Han lo rivolge al figlio per ri‐
portarlo al bene ma lui rifiuta per completare la sua discesa agli Inferi (rossa la luce sul viso di Adam Driver!). E non viene riciclata la battuta “Vieni con me” del duello di Bespin (già in ROTJ ribalta‐
ta da Luke verso suo padre). Non solo. Questa scena riprende e ribalta un terzo confronto cru‐
ciale: il tradimento di Vader verso l’imperatore in ROTJ. Là Vader tradiva una figura per così dire “paterna” facendola precipitate nell’abisso e segnando la propria redenzione; qui Kylo Ren tradi‐
sce il padre facendolo precipitare nell’abisso e segnando la pro‐
pria dannazione. Come sempre, come nei film di Lucas, simme‐
tria e contrapposizione, “rime”, giochi di specchi. Chi lo chiama riciclo non conosce bene la struttura dell’epopea: Abrams e Ka‐
sdan hanno giocato secondo le regole già fissate da Lucas. Se l’accusa è vera, allora tutta la saga è una minestra riscaldata. Co‐
me tutte le altre saghe da quattro millenni. La dipartita di un personaggio così iconico, ben giocata e toccan‐
te, è comunque riuscita a suscitare le immancabili polemiche. “Non è una morte da duro” è stato detto: l’obiezione è talmente superficiale che non meriterebbe di essere commentata. Abrams e Kasdan concedono al corelliano una morte ad un tempo nobile e umanissima. Han affronta una battaglia più dura di tutte le al‐
tre. Tenta. E cade. Non muore da contrabbandiere, o da eroe ri‐
belle, sparando, sacrificandosi o schiantandosi eroicamente col Falcon, insomma con qualcosa di riciclato, facile, prevedibile, all’insegna del fanservice di cui Abrams è accusato. No. Muore in modo spiazzante. Muore con una carezza al figlio che lo uccide. C’è bisogno di aggiungere altro? KYLO REN (BEN SOLO) : il ragazzo dietro la maschera Kylo Ren è indovinato come personaggio perché esteriormente tenta di essere il clone di Darth Vader, ma dietro la maschera si cela qualcosa di molto diverso dal titanismo del Vader maturo e corrotto. Sarebbe sciocco dire che è la brutta copia di Vader. Ben Solo è un ragazzo che soffre, “dilaniato” dal dubbio, dall’abbandono (come Rey!), dall’assenza di un padre che lo ha deluso, incerto sul compiere l’ultimo cruciale passo per asservirsi al Lato Oscuro. Fragile. Fragilissimo. Vader fuori, pieno di incertezze dentro. Ad‐
destrato dallo zio Luke, a quanto apprendiamo, sfuggì al control‐
lo, travolto dalle proprie emozioni e sofferenze, e uccise gli altri apprendisti per poi dare vita ai Cavalieri di Ren (altra scelta giusta è quella di non riesumare i Sith). Indossa un casco che non gli serve a nulla se non a “posare” co‐
me Vader. Metacinematograficamente è una sorta di cosplayer, ma vedremo che non c’è nulla di divertente in ciò, né per lui né per gli spettatori. Ben è un personaggio tragico, lacerato fino a divenire parricida, ma non nella maniera edipica: il suo gesto è quanto mai consa‐
pevole, non un atto involontario che emerge dall’inconscio. Ed è lì che il personaggio, quando più merita di essere odiato, riesce anche a suscitare la massima compassione. Specchio “meta” di una gioventù contemporanea allo sbando, fi‐
glia di genitori separati, dal vissuto sofferente, incapace di gestire la collera, capricciosa, che magari cerca di nascondersi dietro una maschera che celi il dolore. E la stoccata al cosplay vero e proprio probabilmente verrà colta da pochi. “Kylo Ren è stato una vera delusione. Avete presente quando per‐
de contro Rey nel testa a testa? E quando Finn riesce a ferirlo duellando con lui? Il Sith più debole mai visto”. Lasciamo queste perle ai ragazzini fruitori di action figures… Da un pubblico maturo è lecito attendersi un briciolo di profondità in più. Forse qualcuno ha scambiato l’epopea di Star Wars per una serie di filmetti su supereroi per teenager? Come se il valore di un personaggio consistesse nella sua coolness o nel suo punteggio da “badass”, da duro: “in una scala da 0 a 100, se Darth Vader è a 100 e Darth Maul a 70… Kylo Ren si ferma a 15…”. I ragazzini che si travestono da Sith “perché il Lato Oscuro è più figo, perché è bello far finta di essere il cattivo” sono spiazzati da un personaggio come Ben Solo perché esce fuori dagli schemi. Peggio per loro. Si tengano addosso la maschera come dei bam‐
bini a Carnevale. Ben Solo non ha paura di togliersela e offrire al pubblico il suo volto irregolare e umano. Ancora una volta, nel cuore del film, nelle cose che davvero contano e non nell’esteriorità, non c’è di certo una scopiazzatura dei vecchi film, ma al contrario qualcosa di del tutto inedito. Non è il giovane Anakin. Non è il Vader agonizzante che si fa togliere la maschera da Luke (qui semmai, nell’ennesimo ribaltamento, è il figlio a to‐
gliersi la maschera davanti al padre). I fan sono da sempre prigionieri di schemi mentali. “Darth Maul è tutt’altro da Vader, quindi non vale nulla!” (1999, salvo poi ampie rivalutazioni); “Kylo Ren è tutt’altro da Vader, quindi non vale nul‐
la!” (2015). La storia si ripete: lo dicano a se stessi i fan che si la‐
mentano che la storia si ripete uguale a se stessa… I primi a chie‐
dere in ginocchio la ripetizione pedissequa e impossibile degli schemi sono loro. Poi, quando le novità arrivano, le si rigetta, come accaduto con i Prequel e come accade ora con ciò che di innovativo ha da offrire il settimo episodio. Il punto focale del film è molto diverso dai precedenti: là un personaggio come Kylo Ren semplicemente non c’era. Ma ci si ferma alla superficie, ai classici MacGuffin hitchcockiani, come il plot marginale della base nemica da distruggere… Invece è Kylo Ren il cuore. Ed è un cuore nero e sofferente. La sua caduta non c’entra niente con la Trilo‐
gia Classica ed è molto diversa anche da quella di Anakin nei Pre‐
quel. Dov’è la ripetizione allora? “Lavori in corso” per un villain: eroe alla rovescia Ciò che molti spettatori non hanno compreso, convinti di avere in pasto subito un villain fatto e finito degno di Vader, se non supe‐
riore, è che Kylo Ren è un personaggio in fieri. È stato accusato di essere immaturo, “emo”, incapace di gestire la rabbia, bamboc‐
cione, capriccioso, viziato, “bimbominkia” persino. Seguiamo l’atto finale della sua crescita, dopo un suo percorso off‐screen con un Maestro buono, Luke, e poi uno oscuro, il leader Snoke, che gli impone un’ultima prova per diventare un darksider: af‐
frontare il padre. “Dovrai di nuovo confrontarti con lui”, come Yoda e Ben Kenobi imponevano a Luke. Ma qui il percorso è rove‐
sciato, ancora una volta: è il villain ‐non l’eroe‐ a dover affronta‐
re il padre uccidendolo, e non per il Bene bensì per il Male: qui abbiamo il classico percorso di crescita dell’eroe… applicato all’antieroe. Ne Il ritorno dello Jedi la prova di Luke, vestito di ne‐
ro, era “campbellianamente” (cfr. Il Potere del Mito) ‐ e dunque junghianamente ‐ quella di confrontarsi col Male, anche con il proprio lato oscuro, accettarlo, guardarlo in faccia, inglobarlo in sé per superarlo e diventare un eroe completo. Qui, in un sor‐
prendente ribaltamento, la prova è quella di affrontare il proprio lato luminoso sconfiggendolo per compiere la propria dannazio‐
ne. Non manca niente. Abbiamo l’(anti)eroe riluttante: Ben Solo ini‐
zialmente non se la sente di compiere il passo decisivo; e abbia‐
mo la prova impostagli dal “Guardiano della Soglia” (per lui è Snoke) per testare la sua devozione alla causa (malefica, in que‐
sto caso), che verrà regolarmente superata, come in ogni storia che si rispetti. L’(anti)eroe trionfa perché ingloba e supera… il be‐
ne: il parricidio avviene a volto scoperto, cioè a dire “eccomi con la mia debolezza, la conosco e la accetto ma la sconfiggo!”; ciò equivale a Luke vestito di nero che riconosceva, accettava ma superava la propria debolezza, la propria tentazione del male. In‐
fine l’(anti)eroe vittorioso entra nel mondo soprannaturale in cui la sua esperienza spirituale sale di livello: Kylo Ren è pronto a es‐
sere un servo dell’Ombra così come Rey, sempre alla fine del film, è pronta a diventare una vera Jedi (e così valeva per Luke). Il ri‐
sveglio della Forza racconta due storie di formazione parallele. Nonno Darth La maschera semifusa di Vader, recuperata dalla pira funebre vo‐
luta da Luke su Endor, è una delle reliquie più cariche di valore simbolico dentro e fuori dallo schermo. Il nipote è conscio del ce‐
dimento del nonno, che tradì Palpatine per salvare il figlio, tutta‐
via gli chiede la forza di essere degno di lui; e anzi migliore: capa‐
ce, cioè, di mettere a tacere i sentimenti. La specularità e diversità di Vader e Kylo Ren sta nel fatto che per Vader la tentazione del bene giunge alla fine del suo percorso e‐
volutivo, e preannuncia la redenzione; per Kylo Ren questa tenta‐
zione da mettere a tacere precede la caduta definitiva, è una premessa del film stesso, tant’è che il Lor San Tekka di Max Von Sydow gli risbatte in faccia la sua debolezza, la sua parentela col bene, coi buoni, con gli eroi, che lui vuole scrollarsi di dosso per‐
ché ha scelto di stare dall’altra parte per vendicarsi del suo dolore interiore. Sia l’anziano amico della Resistenza sia lo stesso padre Han Solo cercano di convincere il giovane che lui è migliore di quanto pensi; senza successo, perché in entrambi i casi la rispo‐
sta è l’omicidio a sangue freddo. Vader rifiutò la tenebra per salvare il figlio, Kylo Ren uccide il pa‐
dre per rifiutare la luce. C’è del buono in lui dopo il suo gesto e‐
stremo? Non più: non in Ben. Forse. Studiando il materiale promozionale di Kylo Ren c’era da temere che potesse trattarsi di un villain simile agli altri cloni di Vader comparsi nell’expanded universe, nei videogiochi, ecc. Sorpren‐
dentemente ne è venuta fuori una figura toccante e sfaccettata, patetica (no, non nel senso sarcastico del termine). Il personag‐
gio che nel film attraversa l’evoluzione più profonda, cosa che al Vader di A New Hope non era dato. Ben Solo si toglie la maschera spezzando il muro invisibile che separava il prototipo Vader (al quale lui vuole assomigliare) dalle schiere di fan e cosplayer. Così vediamo che il personaggio stesso si smaschera, con un gesto op‐
posto a quello dei fan cosplayer che vogliono celarsi dietro un’identità fittizia. Ben se la toglie in un gesto rivoluzionario, spiazzante, rivelando un volto umano, quello di un ragazzo brufo‐
loso, irregolare, brutto, interessante, intenso, triste, sofferente; dilaniato, come affermerà lui stesso nella scena madre; tormen‐
tato dal dolore personale, familiare, e da una debolezza che lo fa vacillare e soffrire; e, benché si tratti di una debolezza “alla rove‐
scia”, empatizziamo con lui. È fragile, è stato costruito così e chi non lo capisce e lo critica, de‐
luso perché non ha avuto un altro Vader intimidatorio… non ha capito nulla, al solito. Il nerd ottuso pensa “è una porcata perché non è come lo voglio io” mentre l’approccio da fruitore intelligen‐
te e umile (come non fummo umili verso le novità spiazzanti dei Prequel lucasiani!) dovrebbe essere “vediamo cosa mi offre di nuovo questa storia, accettiamolo com’è, senza reazioni di pan‐
cia, e riflettiamoci”. Le maschere del mito Il tema della rimozione della maschera/casco ricorre anche in altri punti della pellicola. Anche Finn fa la stessa cosa, un gesto inedito perché nessun assaltatore ha mai spezzato il muro dell’anonimato negli altri film. Per Finn è contro le regole militari, rammentate gelidamente dalla torreggiante Phasma di Gwendo‐
line Christie; per Kylo Ren è contro le regole cinematografiche, secondo quanto credono erroneamente alcuni. E anche Rey si mette un casco in testa mentre mangia ai piedi della sua casa‐AT‐
AT, quasi giocando a fare la cosplayer di una vagheggiata Ribel‐
lione contro l’Impero di cui si è persa quasi la memoria e che ha raggiunto lo status di mito, di fiction; per poi toglierselo e tornare se stessa e andare in soccorso di BB‐8. In questo film i personaggi si tolgono ciò che non li rende se stessi, le barriere, le maschere, abbattono i muri per andare a cercare un contatto visivo, fisico, emozionale con altri esseri; quel casco che il capitano Phasma non rimuoverà mai nel film, in quanto fanaticamente “chiusa” nelle sue convinzioni. La maschera di Kylo Ren viene rimossa davanti a Rey perché egli sta ancora cercando negli altri le ragioni e le motivazioni per completare il suo percorso oscuro; e nel venire deposta essa rive‐
la il peso del Male con un basso profondo, con un effetto simile al peso simbolico che ha l’Unico Anello nella Compagnia jacksonia‐
na, quando Bilbo lo lascia cadere sulla soglia di casa Baggins. La rimozione di quell’inutile maschera è un twist non banale, un gio‐
care a carte scoperte sul fatto che Kylo Ren desideri eguagliare Vader ma che gli Autori, sapendo di non poterlo fare narrativa‐
mente, esplicitano all’interno della storia il problema, mostrando l’ossessione del ragazzo e mettendo in bocca a Rey proprio l’irrisione del suo carnefice, alla cui tortura mentale resiste rivol‐
tandogli contro le sue paure nascoste, quelle di non poter egua‐
gliare il suo modello. E la paura, lo sappiamo bene, è la via per il Lato Oscuro. Abrams si sarà un po’ identificato in questo timore? Ha spesso di‐
chiarato di essere stato terrorizzato a prendere in mano Star Wars, a duellare col modello, cui si sentiva inferiore. E allora lo ha emulato (troppo, secondo molti); e infine lo ha ucciso: Han esce di scena come Lucas dalla sua saga. Il nuovo avanza. Quello di A‐
brams è un parricidio nei confronti di Lucas; e non conta che non sia dipeso da lui l’allontanamento dell’ex Autore: l’imbarazzo ne‐
gli ultimi due anni dev’essere stato paralizzante. (Star)killer Starkiller ‐ lo sa qualunque fan ‐ era il primo cognome dell’eroe nelle bozze di Lucas della prima metà degli anni ’70: “Annikin” Starkiller, poi Luke Starkiller. Starkiller era una persona (e lo è stato anche nella serie di giochi The Force Unleashed: l’ormai a‐
pocrifo apprendista segreto di Darth Vader); non una cosa. Forse la Base Starkiller, un pianeta convertito tramite una colos‐
sale opera di ingegneria planetaria in una superarma, e scambia‐
to da molti per un semplice riciclo dell’idea della Morte Nera (per la terza volta), è in realtà una sorta di gigantesca metafora di una persona, cioè di Kylo Ren. La base Starkiller è un pianeta sfigura‐
to dal Male, distorto, e reso “orfano” del suo sistema solare di appartenenza, costretto a errare nello spazio. Sotto la scorza di un pianeta di ghiaccio, dietro la maschera della freddezza in‐
somma, ci sono energie incandescenti pronte a esplodere in mo‐
do distruttivo. Consuma la benefica luce solare (cioè il calore de‐
gli affetti) per trasformarla in Male, Morte: è simbolo di Kylo Ren stesso, che sfrutta l’amore paterno di Han per lasciarlo avvicinare e finirlo. Quando la luce del sole morente risucchiato al suo inter‐
no si spegne, una luce rossa si dipinge sul volto di Kylo Ren e la scelta di precipitare nella dannazione è compiuta. Questo nesso empatico e simbolico tra il personaggio e l’ambiente, tra lu‐
ce/oscurità e speranza/dannazione, lungi dall’essere una chiave d’interpretazione forzata, è palese nel montaggio del film anche per l’osservatore meno attento (“fin quando c’è luce abbiamo speranza” viene fatto dire didascalicamente a Poe Dameron per aiutare i più distratti…). La fine della luce, l’eclissi del Bene: ed ecco che sulla base Starkil‐
ler piombano le tenebre perché il Male ha risucchiato tutta la lu‐
ce benefica di un sole dentro di sé facendola sparire… così come Kylo Ren ‐ col volto improvvisamente rosso sangue ‐ è riuscito a superare la sua ultima prova risucchiando dentro di sé e divoran‐
do il Bene, la tentazione che lo tratteneva. Per la cronaca, le note di John Williams qui citano palesemente la melodia che accompagna un’altra eclissi, quella cui assiste ne La vendetta dei Sith Anakin a Mustafar dopo aver sterminato tutti i leader separatisti, mentre le lacrime gli scorrono sul viso e os‐
serva un’altra grande allegoria in cui l’ambiente riflette l’animo del personaggio, cioè il fiume di lava “infernale”. Due eclissi, due dannazioni giocate sui simboli, un sottile legame tra esse (tra nonno e nipote) anche sul piano musicale. Ascoltare per credere. (Se poi vogliamo giocare con le parole per sorridere, e nulla più, possiamo anche aggiungere che non solo la base è letteralmente “star‐killer” perché consuma interamente la massa delle stelle, ma lo stesso Kylo Ren è anche letteralmente “star‐killer”, poiché uccide l’unica vera star del film, Harrison Ford/Han Solo!) R2‐D2: il sonno magico Topos mitologico è quello del “sonno magico”, come ne La bella addormentata nel bosco, Biancaneve e negli stessi Empire / Jedi con Han ibernato nella carbonite, con il rovesciamento delle parti rispetto all’archetipo (è lei che sveglia lui). Qui R2 è vittima di un sonno magico autoimposto per la scomparsa del suo padrone. Viene risvegliato da BB‐8. Ma c’è un altro elemento mitico che riguarda il droide più amato: la “grande cerca”, la quest per il Graal, che non è fuori da noi, ma è dentro, è già con noi, come nell’indimenticabile Excalibur di John Boorman (1981) basato su Le Morte d’Arthur (Malory, 1470): dentro il dormiente R2 c’era già la soluzione dell’enigma cercato in giro per la galassia. La spada spezzata… la mappa spez‐
zata. I riferimenti arturiani ci sono davvero perché sono sparsi per tutto il film, come vedremo, ed è tutto fuorché una coincidenza… LUKE: “In esilio devo andare. Fallito io ho” La storia si ripete: Yoda, incapace di sopraffare Palpatine, si ritirò sul paludoso Dagobah; Obi‐Wan/Ben Kenobi scelse il deserto di Tatooine come sua casa per due decenni; e così ora si è autoesi‐
liato anche il maturo Luke, reo di un qualche peccato, forse non solo l’aver addestrato e poi perso il nipote. Luke è il Re Pescatore del mito, è l’Artù boormaniano ferito e fuo‐
ri combattimento, senza il cui ausilio la terra deperisce, secondo uno dei mitologemi più antichi e potenti (cfr. già Edipo col suo peccato: Tebe è afflitta dalla pestilenza); e, proprio come l’archetipo, Luke porta in sé la ferita morale di ciò che è stato e, su di sé, la menomazione fisica: la sua mano bionica ora è scarni‐
ficata ed esposta. Il peccato orrendo di Edipo, il peccato di Artù, quello di Luke… tutto conduce al dolore, alla caduta del potere, alla sofferenza della terra e degli uomini. Ma qualcuno deve compiere una ricer‐
ca per riportare al “re” ciò che è perduto affinché possa tornare a lottare e la terra possa tornare a fiorire, mentre “Mordred”, Kylo Ren, il frutto marcio della stirpe, è in agguato (quale colpo di genio sarebbe scoprire che è figlio di Leia e Luke anziché di Han! Ma non oseranno tanto). Questa interpretazione arturiana è tutt’altro che forzata, come i più cinici commentatori della domenica si affretteranno a dire, perché il luogo dell’autoesilio di Luke, l’isola irlandese di Skellig Michael, spogliata di ogni elemento fantascientifico, brulla, “an‐
tica”, verdissima, è un indizio chiaro di quale sia il modello cultu‐
rale di riferimento: è l’allusione più palese che si possa immagina‐
re alla mitica Avalon. La sequenza finale del film è poetica, saggiamente priva di dialo‐
go, accompagnata solo dalle note meravigliose di John Williams (chi ha detto che la colonna sonora qui è non pervenuta? Stura‐
tevi le orecchie!). C’è anche una misteriosa tomba accanto al Maestro Jedi… Non vediamo Luke accettare la spada: il film si chiude sul suo sguardo sofferente e consapevole, ma non sappiamo se il “Re Pe‐
scatore” sia guarito o meno e se voglia tornare a combattere con noi. Ma soprattutto la spada è appunto Excalibur, la spada del potere che deve tornare a chi la merita, a chi la perse: una spada che, come nel meraviglioso film di Boorman, resta ad attendere per anni in una cassa! Là la conserva Ginevra nel suo monastero, qui la millenaria ex piratessa Maz Kanata nel suo castello‐osteria si‐
mile a un monastero sul pianeta Takodana. E, come la spada nella roccia (che non è Excalibur in tutte le ver‐
sioni del mito), essa chiama colei che dovrà brandirla ed estrarla dal suo posto. Rey, però, rifiuta di farlo, atterrita dalle visioni di cosa la Forza le mostra. Quella spada, appartenuta ad Anakin, persa dalla sua mano mentre egli veniva abbandonato da Obi‐
Wan sul sabbione ardente di Mustafar, segnando la fine di ogni traccia di innocenza nell’ex Prescelto, staccatasi 24 anni dopo dalla mano mozzata di Luke su Bespin, segnando la fine dell’innocenza dell’eroe ribelle, ora, altri 30 anni dopo, con lo shock e il contatto con la Forza che passa attraverso di lei, segna la fine dell’innocenza della nuova eroina che dovrà raccogliere quell’eredità. Inoltre il castello‐tempio, una volta svolta la sua funzione di forni‐
re all’eroe l’oggetto magico trovato nei suoi recessi, crolla come nella migliore tradizione mitica. Abrams e Kasdan si sono spinti oltre il dettato originale lucasiano nel caricare di potenza e simbolismo la spada, che nei film classici era l’arma dei Jedi, nobile, elegante, ma pur sempre un oggetto materiale, tanto che ne L’Attacco dei cloni il Conte Dooku la con‐
trapponeva all’uso stesso della Forza, come se la Forza non c’entrasse affatto con la spada laser (ed era Lucas a scrivere que‐
sto): qui la spada di Anakin e Luke ‐ proprio lei, la prima spada la‐
ser che vedemmo in vita nostra, con stupore, nel 1977 ‐, insom‐
ma la spada che segna i passaggi di eredità, è un oggetto magico come mai prima d’ora, è catalizzatrice della Forza, delle visioni, di un richiamo assolutamente soprannaturale. Sia oggetto‐
feticcio a livello metacinematografico che oggetto‐reliquia nell’intreccio narrativo. Rey ascende, secondo un modello orientale, fino al Maestro per‐
correndo un’impervia serie di ripidi gradini (impossibile resistere alla tentazione di ripensare a Beatrix Kiddo che sale verso il remo‐
to asilo di Pai Mei nel tarantiniano Kill Bill vol. II… pur lontanissi‐
mo da questi lidi tematici!). Oltre a essere colui al quale il Graal‐spada deve essere riportato, Luke stesso è il Graal in questo film, in quanto oggetto primario della Grande Cerca (fin dalla prima frase dell’opening crawl: “Luke Skywalker è sparito”): ma, come detto, non andava cercato fuori, nel mondo, poiché era già con noi, come il Graal in Excalibur: era il mito di Luke, la cui forza/Forza era già dentro gli altri eroi, sot‐
to i loro occhi, in attesa dentro R2‐D2, simbolo muto dell’inconscio (come alcune interpretazioni dicono di lui da tempi non sospetti), quel Luke già presente nei giovani eroi, scomposto in frammenti che ciascuno di loro portava in sé: l’ingenuo altrui‐
sta, il pilota scavezzacollo, l’eroina messianica dal deserto. Luke era già in mezzo a loro. Erano già loro. Si tratta di una quest che va avanti da anni e che solo l’eroina pu‐
ra di cuore riuscirà a portare a termine accompagnata dai suoi aiutanti magici, non umani, muti: Chewbacca, R2‐D2 e il Falcon stesso, le forze dell’irrazionale, afasiche, ancestrali (bestie: Che‐
wbacca è percepito più come animale che come essere umano, R2‐D2 è un fedele droide segugio e la nave… porta il nome di un animale!). Naturalmente sono tutte coincidenze partorite dalla mente distor‐
ta di fan con troppo tempo libero. Gli autori (Lucas/Kasdan, ora Abrams/Kasdan) non leggono libri e non hanno cultura, non sono consapevoli degli archetipi mitici, sono solo un branco di furbac‐
chioni senza sensibilità che ridono alle nostre spalle contando i dollari. E se anche ciò fosse vero… gli archetipi strisciano sul fondo della coscienza del genere umano dagli albori del tempo e saltano fuori con i loro simboli, le loro connessioni in barba a qualunque atto creativo cosciente. Dunque chi non crede all’atto d’amore creativo di chi produce sto‐
rie (che pure saranno “vendute” ovviamente!) può tenersi il suo cinismo… perché in ogni caso gli archetipi, se non vengono fatti entrare dalla porta, passano dalla finestra senza chiedere il per‐
messo… Letture consigliate: Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, 1964 Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, 1949 Joseph Campbell, Il potere del mito, 1988 Vladimir Jakovlevič Propp, Morfologia della fiaba, 1928 Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe (The Writer’s Journey: Mythic Structure For Writers), 2007