Untitled - CoolClub

Transcript

Untitled - CoolClub
coolibrì luglio-agosto 2005
Avrei fatto la doccia, e sarei andato dalla mia ragazza, senza
traumi e senza vittorie. Volevo riempirmi di strada, di nulla,
del pensiero che fissa dei dettagli senza venirne a capo.
due
txt Toni Sozzo
PER FAVORE, FATE PIANO
Dovevo uscire da quella casa. Solo gli occhi del mio gatto non tentavano di incendiarmi. E solo perché era troppo
pigro. Non andava nemmeno a caccia di topi morti. Rimaneva nel suo sonno, immobile, invidiabile. Non ero come
lui.
Faceva caldo. Erano le quattro del pomeriggio. La mia strada era un forno a manovella. Avrei voluto avere un po’
più di forze. Ero debole e inadatto a simili tenzoni. Sudavo ed avevo dei pantaloncini di cinque anni prima.
Era da un po’ che mi sentivo sempre fuori posto. Anche in macchina con gli amici. Stavo seduto e non capivo se
dovessi andarmi a stendere sul cruscotto. Ero l’errore da trovare in quei giochetti da Settimana Enigmistica. Il classico
pinguino nella Savana. E non c’era mai nessuno che mi passasse un ghiacciolo.
Tutto quel sole non doveva farmi bene. Avevo un amico che lavorava a quelle temperature. Saliva sui tetti e li
riempiva di tegole. Un giorno mi aveva chiesto se volessi lavorare con lui, ma ho rifiutato. A quel punto meglio fare il
trapezista. Anche se mi affascinava avere a che fare solo con il crudo lavoro.
Sono riuscito a pentirmi della mia mossa dopo trenta metri. Ormai era tardi. Non potevo deludere mamma e
ritornare. Per dispetto si sarebbe messa a lavare a terra il corridoio tutte le volte che dovevo andare al bagno.
Mi sono trovato da solo col solleone. Avevo dei problemi a trionfare persino con l’ombra. Neanche i cani se ne
andavano in giro con quelle condizioni. Forse piangevano per non poter avere un condizionatore per la loro
specie. L’aria condizionata spopolava. Ma non era solo l’aria ad essere condizionata. Le strade vicino casa non
cambiavano mai tanto da farmi sbalordire. Al massimo si poteva trovare il segnale di dare la precedenza a qualche
incrocio rimasto ambiguo fin troppo a lungo.
La sera prima mi ero trovato in mezzo a dei giovani tanto impegnati. Volevano fare qualcosa di intelligente a tutti
i costi. Chi scriveva statuti pieni di valori, chi cercava di creare un cortometraggio. Io mi sono grattato, e mi sono
vergognato un po’. Ci ospitava una signora che aveva arredato personalmente la sua casa. Ne era orgogliosa. Io
ero spettinato. Credo che lei pensasse che non meritassi di sedermi su una delle sue sedie a tre zampe. Avevo una
maglietta insulsa e non facevo mai una smorfia. Abbassavo il livello. Anche ad essere stato intelligente, non me lo
meritavo.
Cosa me ne veniva di sudare da solo nel mio paese disadattato? Non riuscivo neanche più a far uscire dagli
angoli i soliti ricordi, sempre gli stessi. Quella volta che avevo in mano due buste piene di Piccolo Ranger. Non sarei
riuscito a prendermi nulla di buono. Continuavo ad avanzare. Avrebbero fatto a gara per darmi del coglione. Ed
io non potevo neanche addormentarmi. Stendermi su un materassino schivando le alghe sminuzzate, tritate come
prezzemolo. Il mare era ad una ventina di chilometri, assolato, come piaceva a me. Avrei sognato fino alla tomba di
rotolarmi nell’acqua calda per tre mesi di fila.
La tappa più probabile del mio vagabondare era la casa di un mio vecchio amico d’infanzia. Sarei ritornato
ad essere un po’ sensato. Al mio pigiare sul campanello è comparsa sua madre. Subito. Non mi è piaciuto non
tre
confuso non sapeva dove accamparsi. Non mi sentivo
nemmeno comodo. Appena sono entrato i finestrini
si sono chiusi e l’aria condizionata ha cominciato
ad invadere il mio spazio vitale. Il mio amico senza
dare troppo peso alle mie orbite fuori dalla norma ha
detto che non sarebbe sopravvissuto un’estate senza
l’aria condizionata. Era una confidenza non richiesta,
nemmeno una giustificazione. Il mio precedente impulso
a fuggire quando mi trovavo sulla terra ferma aveva
ragione. L’unica mia speranza era che non ci mettesse
molto ad arrivare a destinazione. Ma non avevo speranze
neanche da quel punto di vista. Si sarebbe goduto la mia
cattività fino all’ultima goccia.
Deve averlo fatto apposta. I suoi discorsi si sono
concentrati sul futuro dell’associazione, la sua creatura. Il
nostro paese ha bisogno di iniziative culturali, ha buttato
fuori nell’aria rinfrescata. Una cosa del genere deve
averla detta anche Andreotti. Io non volevo cominciare
i miei discorsi. Mi guardavo intorno stordito da tutti quei
bottoni che avevo di fronte. E da quella faccia che mi
ricordava la scuola, il greco, l’ora di educazione fisica,
le belle ragazze che era arduo raggiungere, le sere
rimpicciolite da uno studio che mi faceva dolore, sul
momento. Gli ho domandato di quegli anni. Il suo sguardo
è stato duro, quasi un rimprovero senza attenuanti. A lui
non importava del passato. Doveva sistemarsi. Doveva
sapersi sistemare. Doveva pensare a come avere i soldi
per circondarsi da prato inglese. Lui leggeva Diabolik
in bagno, dopo i compiti. Me lo aveva detto, ed io me
lo ero immaginato. Adesso non più. Stringeva mano ed
accalappiava consensi. E salutava solo se conveniva.
Fumava, anche. Come se solo a lui non facesse male.
Gli ho detto di lasciarmi andare. Non avevamo fatto che
qualche centinaio di metri. Lui aveva ancora le sue solite
paroline, ma io questa volta ho aperto lo sportello. Non
avrebbe rischiato il volto della sua giunonica macchina
targata Armani. Sono riuscito ad uscire da quel luogo
privilegiato. L’unico rimpianto non essermi fatto addosso
su quel sedile spropositato. Mi sono sentito invincibile.
Sarebbe durato dai venti ai trenta secondi. Lui mi ha
consigliato di cambiare, ma non ci credeva neanche lui.
Lui non credeva più a nulla. E non leggeva più Diabolik
dopo essersi abbuffato di Storia Romana. Non c’era più
gusto ad immaginarmelo quando andava in bagno.
Mi sono trovato abbastanza lontano da casa. I piedi
mi sudavano come nelle loro peggiori abitudini. Mi
scivolavano nei sandali. L’altrui gente era intenta al
lavoro e a tutti i suoi riti sconsacrati. La strada era piena
di macchine parcheggiate male. Meglio arrivare quanto
prima all’obiettivo. È quello che capivo da quelle lamiere
scomposte. La sera dovevo andare dalla mia ragazza.
Mi tranquillizzava conoscere tanto bene una strada.
Sempre la stessa, con quel tale semaforo e quella tale
curva. Sapevo dove accelerare e dove frenare. Sapevo
quanti minuti ci volessero per arrivare a parcheggiare.
Parcheggiare dove c’era tanto posto. Non come a Lecce
che devi pagare, e che non si paga solo dove c’è divieto
di sosta o un passo carrabile. Non come a Lecce che devi
parcheggiare in periferia se sei un morto di fame.
Era più sopportabile vagare. Avevo detto di no ad una
parte di quello che non mi piaceva. Non come quella
volta che mi presentai a casa di un tipo che non faceva
altro che darmi consigli. La sua canotta era larga e di
un colore che non mi piaceva. Intorno aveva la sua
televisione, la sua stiratrice. Là la madre gli aveva stirato le
camicie per i giorni importanti. Per il suo giorno di laurea,
per il suo primo appuntamento. Quel giorno non ero stato
tanto bravo a dire di no. Mi ero portato nel suo mondo
per sentire quello che mi doveva dire, quello che mi
poteva dire. E lui mi aveva consigliato di entrare in mezzo
alle file di qualcosa che si muoveva nel paese. Mi voleva
al suo fianco nel conquistare i posti cardine della politica
da quattro soldi di un paese qualunque. Io non volevo
rispondere nulla. Solo sentirlo parlare, in mezzo alla sua
televisione e alla sua stiratrice. Volevo capire quanto fosse
bravo ad aggiustare i suoi comportamenti per farsi aiutare
dalla politica. E quanto io fossi un uomo senza qualità, un
inetto, un omuncolo, un idiota. Un uomo di pena.
Ero un momento dell’estate in cui quel giorno si sarebbe
mosso a fluire, tranquillo. Il tempo è fatto così, non fa
coolibrì luglio-agosto 2005
aspettare un po’. Non mi sembrava cambiata dai tempi
delle Medie. I capelli forse si erano diradati, ed erano tinti con
maggiore forza. Mi ha detto che non c’era, e che io lo sapevo.
Già, lo sapevo. Era nella mia personalità non approfittare delle
mie conoscenze. Il mio amico si trovava a catalogare archivi
gratis. Ed era considerata una fortuna un po’ da tutti. Per sei
mesi avrebbe avuto un ruolo, senza dover passare almeno
un paio d’ore a fissare un lampadario con delle palle brutte
esteticamente. Non era come me che perdevo il mio tempo.
Che non ero né ingranaggio né motorino né il tale che si fotte
tutto. Senza arte né parte.
Mi sono allontanato con lo sguardo dubbioso della signora.
Forse pensava che non avrei raggiunto casa. Di preoccuparsi
non si preoccupava. Davanti a me avevo case allineate che
tra qualche ora si sarebbero arricchite di vecchie attaccate alle
proprie sedie come dentiere con la colla migliore sul mercato.
Era meglio passare ora. Con loro presenti avrei fatto la figura del
drogato. I piedi non si usavano più per camminare. Ultimamente
solo per ragionare. Forse avrei dovuto anche pagare una multa.
Non stava bene agire come non se lo aspettava nessuno.
Anche io le volte che vedevo qualcuno andarsene in giro
senza consumare benzina pensavo stesse passando qualche
momento.
Da qualche giorno i pensieri della mia inadeguatezza mi
stavano sommergendo. La notte dormivo, ma quando mi
svegliavo cominciava l’incubo. Ero nato in un mondo che non
mi voleva. Sapeva andare in malora da solo. Tutte le mie belle
idee, che mi avrebbero fatto fucilare ai tempi del fascismo,
erano un lusso che non mi potevo più permettere. Il mondo
era sempre in piena estate. Le chiacchiere da spiaggia erano
ovunque. L’Università, il centro del sapere, non sapeva più di
nulla. I docenti erano tanti burocrati che cercavano di non
bruciarsi con il loro potere. Io intanto mi sentivo un esiliato
esistenziale. La mia terra era quel sole in testa. Ed una fine molto
più dolorosa del mio vagare senza un risultato. Mia zia non mi
stimava più da anni. Quando andavo a casa sua mi faceva
pagare un pedaggio. Mi gustavo benissimo la mia carenza di
prestigio. La sorseggiavo fino a strozzarmi.
Ho sentito una macchina avvicinarsi. Era di quelle macchine
che si possono parcheggiare solo nei viali perché nelle strade
normali non entrano. Era un mio ex-compagno di liceo. Voleva
darmi un passaggio a tutti i costi. Il suo sorriso stagnava ad
un metro. Non mi avrebbe fatto andare via. Per lui era come
salvarmi da una fine certa. Giorni prima mi aveva convocato
per creare un’associazione socioculturale. All’inizio era stato
un vorticare di belle parole e, nonostante avessi ancora seri
problemi di sopravvivenza materiale, ero stato tentato di farne
parte. Poi i loro discorsi limitati e privi di quello che cercavo mi
avevano portato ad allontanarmi da loro. Ero troppo onesto per
dividere il mio tempo con sciocchi che usavano la cultura come
elmo, spada, spezzato e anello da un sacco di carati. Quel mio
snobismo non gli era piaciuto.
Mi ha proposto di andare con lui in un paese vicino. Stavano
organizzando un concerto e doveva parlare con certe persone.
Me lo ha detto come se dovessi divulgarlo a qualche organo
di stampa. Io non ci volevo andare. La sua faccia era troppo
soddisfatta e sicura per farmi fare quattro risate. Lui ha insistito
quando io dovevo ancora ribattere. Non ero che in trappola.
Alla fine a casa non avevo urgenze. Così sono salito. Il sedile
della macchina era il doppio del sedile della mia. Il mio sedere
coolibrì luglio-agosto 2005
troppi problemi. Basta non fargli troppe domande. Basta
non andargli a chiedere perché fa così o perché fa cosà.
L’importante è non farlo diventare una bestia con delle
domande stupide.
Mio padre non sarebbe stato contento di me nel
vedermi buttato da una strada all’altra di un paese che
dicevo di non amare. Proprio quando Bush chiudeva
gli occhi di molta parte del mondo. Proprio quando il
Campionato era fermo e il Milan non capiva come era
potuto accadere che in sei minuti avesse preso tre gol
dal Liverpool. Lui, mio padre, non era contento di vedermi
tanto incorruttibile, retto. Se avesse studiato m’avrebbe
paragonato al vecchio Catone. Proprio a chi non avrei
sopportato.
Un vivente del bel mondo m’avrebbe sputato a trovarmi
coinvolto tra i segnali comuni di Carmiano. Carmiano
non sa quanto non conti. Aveva delle belle strade chiuse,
e forse ce le aveva ancora. Per molti è un modo per
rimanere buttato nella massa ottusa del Sud. Un mio
amico è andato a lavorare su. Al cellulare mi parlava
del suo lavoro soddisfacente, dei suoi programmi ben
strutturati. Qualche anno su per acquisire le competenze
che gli permetteranno di ritornare di nuovo a casa e fare
un lavoro soddisfacente. Io non riesco ad avere quel
genere di lucidità. Mi vedo coinvolto nei miei continui rifiuti
di dare tutto il meglio di me nel lavoro. Vorrei dare tutto il
meglio di me nello scrivere un capolavoro assoluto della
letteratura, nell’organizzare al meglio un’orgia in cui ci sia
una minoranza maschile, nel buttarmi nell’erba a dormire.
Non ho voglia di cercare di comprarmi una macchina
tutta per me. Farei subito un incidente, andando per
sbaglio in senso vietato, e facendomi fregare l’autoradio
da quello che mi doveva fare da testimone.
Il mio amico, ex compagno di classe, avrebbe fatto
strada nell’ambiente che lo meritava. Ne ero sicuro.
La gente fa strada negli ambienti in cui è fatto per
fare strada. Io potrei essere un grande vagabondo.
Un barbone. Però con un certo stile, e con delle
competenze. Un vero distinto barbone, acculturato
nella storia dell’elemosina e del mendicaggio, simpatico
intrattenitore di gente per strada, conoscitore del grado
di umidità notturna che può stramazzarti. Sarei libero,
perdente squisitamente, con dei libri insudiciati nello
zaino, pronto ad affrontare un’influenza all’aperto, al
vento, senza una minima protezione, senza una mamma
che ti prepari una spremuta d’arancia.
Ho deciso di non tornare a casa prima di sera. Non se
ne sarebbe accorto nessuno. Avrei fatto la doccia, e
sarei andato dalla mia ragazza, senza traumi e senza
vittorie. Volevo riempirmi di strada, di nulla, del pensiero
che fissa dei dettagli senza venirne a capo. Come quelli
del nouveau roman, che fotografavano gli oggetti,
li facevano diventare i protagonisti di tutto, nel loro
mutismo. Una penna, una pera, una strada grigia tra altre
strade. Un’ennesima macchia d’olio a terra, sull’asfalto.
Un’insegna trascurata che fa comunque bene il suo
dovere, che non ha bisogno di essere riparata. Oggetti,
duri materiali, fatti piccoli ed insignificanti. Tutto quello
che il mondo poteva darmi di bello ed appagante. Gli
uomini mi avevano stancato. Non erano neanche capaci
di togliersi di mezzo. Mormoravano, si rincorrevano,
ruttavano forte. Ruttavano forte.
Sono arrivato vicino alla stazione. Davanti agli uffici c’era
uno spiazzo con un palo della luce al centro. Più in là il
motivo per cui mi ero trovato lì. Vagoni abbandonati di
vecchi treni. Tanti anni fa venni qui con il mio motorino
fuori moda. Era una domenica mattina. Faceva un
freddo accettabile. Le chiome di alti alberi stormivano
al forte vento. Forte, tanto che per strada non riuscivo
a dimenticare quei suoni. Quelle mischie di foglie
agonizzanti mi avevano colpito. Quel fruscio continuo e
devastante, promessa di spiriti nella Natura.
Faceva caldo su quello spiazzo. Prima di arrivare ho visto
lo studio del mio vecchio medico di famiglia. Ai tempi
aveva un pastore tedesco nel giardino intorno. Io avevo
paura ad avvicinarmi alla ringhiera. Avevo paura della
ringhiera. Una volta ci andai perché mi aveva punto un
insetto che non aveva avuto il coraggio di farsi vedere.
Non avevo bisogno del futuro. Basta non dimenticarmi di
troppe cose. Ero ai margini del mio paese. Lì le macchine
quattro
arrivavano solo per dei motivi validi. Non passavano. Nessuno
notava quei vagoni di sfuggita. Doveva venirci apposta come
avevo fatto io. Doveva essere reduce dalla faccia sporca del
suo tempo, da tutte quelle ore morte, che arrossiscono il collo.
E può darsi che qualcuno venisse, ancora incravattato da un
lavoro che non gli piaceva affatto, con il retrogusto scaduto di
un caffè offerto da un cliente coglione. Ci saremmo seduti a
terra a guardarci intorno.
Non è arrivato nessuno. Un vento leggero mi aiutava a
respirare. Mancava poco a ritornare ai miei limiti, ai miei
percorsi quotidiani con il sottofondo di telegiornali fatti per far
capire tutt’altro. Però prima di andare via volevo avvicinarmi
a quegli scarti. Quel regno era tutto mio. Non c’erano drink
da consumare, bancomat da inserire per ogni nonnulla. Mi
piaceva succhiare le cose abbandonate. Su quei vagoni da
adolescente ero venuto insieme ad un amico a fare delle
fotografie particolari. In una facevo la parte di una spia in
missione che deve entrare dentro il treno dal finestrino. Avevo
la speranza che quel vagone si trovasse ancora là.
Non si sentivano rumori. Non arrivava nulla. I vagoni
invecchiavano gradualmente. Si staccavano i pezzi giusti,
quelli che si dovevano staccare. Non c’erano forzature. Non
avevo più voglia di tornare da dove ero venuto. Ero pronto
a rimanere lì fino a quando non avessi avuto paura per la
mia vita. Ma non avrei potuto farlo. Qualcuno mi avrebbe
visto, mi avrebbe detto che ero impazzito, avrebbe chiamato
qualcuno e mi avrebbero identificato. Quel mio ex compagno
magari, con la sua testa che va di qua e di là facendo capire
che sapeva come sarebbe andata a finire.
Il sole era tramontato. Avevo degli impegni. C’era da fare
tardi con la mia ragazza. Nessuno era stato presente al mio
momento. Dovevo sforzarmi di non scordarlo. Il caldo mi
convinceva che il Salento era la terra di storie con gente
scalza che si accoppia nell’afa estiva. Senza macchine,
Internet, discorsi intermedi di ordinaria piccolezza. Senza tutti
quei pesi che erano arrivati negli ultimi anni, l’immaginario
collettivo monopolizzato dalla tv, il pensare alla differenza tra
lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato.
Ero in ritardo. C’erano almeno due chilometri tra me e la
mia doccia. Con la sera ritornavo ad essere uno dei tanti.
Avevo almeno quattro ore di altro. Parole in mezzo agli amici,
momenti d’indecisione, e una notte da passare al caldo. Il
giorno dopo ci sarebbe stata ancora la mia vita da sviluppare
prima che scadesse il mio mandato. Si sapeva. I miei vagoni,
i miei rifiuti mi sarebbero venuti incontro qualche altra volta,
sparsi nella mente. Avrei sorriso senza conseguenze, felice di
avere certi amici.
C’erano gli scooter con addosso adolescenti. Sulla strada
del ritorno mi passavano accanto con la loro voce rauca.
Uscivano a svolazzare allo stesso orario dei pipistrelli. Anche
loro inconsapevoli, superficiali, tristi. Giovani per diventare
vecchi, almeno adulti, indirizzati da qualche parte. Mi sentivo a
disagio, pronto ad abbandonare tutto per un po’ di ingenuità.
Persino di bontà. Ero un Tolstoj provinciale in procinto di uscire
fuori dal mercato.
Ho rivisto il mio amico nella sua macchina. Aveva un’andatura
decisa. Non sarebbe mai andato a sbattere. Poteva solo
impiegarci un po’ più tempo. Ero io a sbattere sui vetri, anche
su quelli non miei.
txt Dario Goffredo
cinque
L’OPINIONE DEI PADRI
È QUELLA CHE CONTA
Agli uomini nudi impiccati lungo le pareti laterali dell’androne ormai ci aveva fatto il callo. Non li guardava neanche
più, passava veloce, con la testa bassa, tanto li conosceva a memoria. Conosceva tutte le differenze fra i vari
corpi, conosceva l’odore nauseabondo che emanavano, conosceva le macchie giallastre di liquidi corporei che si
erano seccate sul pavimento. Conosceva ogni centimetro di pelle di quelli uomini, i loro membri flaccidi, i loro scroti
pendenti, il loro colorito grigiastro. Li aveva guardati mille volte, si era soffermato a lungo di fronte a ognuno di loro, a
quello magro, con le costole sporgenti e il ventre rilasciato, a quello grasso, con la pancia che gli copriva il pisello e
le pieghe sotto le ginocchia, all’ex culturista ormai non più aitante e sexy.
Conosceva ogni pietra di quei muri spessi e alti, le catene che sporgevano, i grossi anelli di metallo e, più in alto, le
sbarre di ferro da cui penzolavano i corpi senza vita di quei poveracci.
In questa prima stanza il silenzio era irreale, non si sentiva nulla, solo i suoi passi morbidi sulle suole di gomma delle
scarpe da ginnastica che indossava ormai da sempre.
Nella seconda stanza, quadrata e più piccola della prima, lo spettacolo non era meno scioccante del precedente.
Dal soffitto pendevano delle gabbie di metallo. E dentro le gabbie corpi di donna, alcuni vivi, altri no, ma distinguere
non era facile. Braccia o gambe pendevano dalle gabbie e si tendevano in spasmi feroci, dolori che arrivavano da
dentro, da troppo in fondo per capire da dove.
Qui il suono era la cosa più tremenda, oltre all’odore di escrementi, ma all’odore ci si abitua, ce lo si tiene dentro,
non va più via e alla fine lo si dimentica. Il suono, invece, ogni volta lo colpiva come la prima volta. Rantoli lenti e
lunghi, mozziconi di fiato che stentavano a uscire dalle bocche semichiuse, in alcuni casi urla stridule e acute, che
facevano venire il vomito a sentirle.
Al centro di quella stanza c’era una vasca circolare piena d’acqua con delle catene attaccate ai bordi. Le catene
avevano degli anelli all’estremità che penzolavano nell’acqua. Una volta vide una ragazza incatenata nella vasca
che veniva tirata sul fondo da un sistema di pesi e carrucole. Quando era quasi sul punto di affogare veniva tirata
fuori. Una variante prevedeva che la ragazza venisse violentata ripetutamente da oggetti di diverse dimensioni.
Impossibile descrivere lo strazio provocato dalla visione del suo volto segnato dal dolore.
Ma la parte peggiore dell’incubo, quella a cui non sarebbe mai riuscito ad abituarsi era quando entrava nell’ultima
stanza. Era piccola e buia. Alle pareti c’erano dei lunghi drappi rossi che scendevano dal soffitto e candelabri alti e
stretti con in cima grossi ceri che la illuminavano.
Al centro della stanza c’era una grossa sedia in legno scuro. Su quella sedia c’era seduta Nora, la sua fidanzata,
completamente nuda.
Due anelli le bucavano i capezzoli. A questi anelli erano appesi due pesi che le tiravano giù i seni che penzolavano
come due mozzarelle bianche e gocciolanti. Lungo i seni c’erano attaccate delle mollette da bucato. Lo
spettacolo non era dei più gradevoli. Nella bocca spalancata Nora aveva una palla di plastica legata intorno al
viso con una stringa di cuoio. Aveva i capelli bagnati dal sudore e negli occhi un’espressione di puro terrore.
Su tutto il corpo aveva delle macchie di cera colorata, segno che qualcuno le aveva sciolto addosso delle
candele. Era seduta in una posizione oscena. Aveva le gambe completamente divaricate, le caviglie legate strette
alle gambe della sedia, che mostravano apertamente la fica che le era stata depilata.
A terra, intorno a lei, c’erano vari strumenti di tortura, fruste e frustini, falli di plastica e vetro, vibratori di diverse misure
e altre oscenità del genere.
In un angolo della stanza, seduto su una sedia, che riposava sonnecchiando, c’era il padre di Carlo. Indossava un
camice da macellaio, sporco e imbrattato del sangue di Nora.
Ogni volta che provava ad avvicinarsi a lei per cercare di liberarla e di restituirle la dignità, Carlo si svegliava di
soprassalto madido di sudore.
Si alzò dal letto barcollando, e si diresse in cucina a bere un bicchiere d’acqua, la bocca secchissima.
In cucina trovò Nora che indossava un paio di pantaloncini e una canottiera di quelle di Carlo.
Carlo era ancora scosso dall’incubo.
“Ho fatto di nuovo quel sogno” le disse. Lei si voltò e gli sorrise: “Ti preparo il caffé” gli disse “Ti sentirai meglio. Lo sai
che ore sono?”
coolibrì luglio-agosto 2005
La sua Nora era in uno stato sempre più degradato. Ma la cosa
più assurda era che più lui la sognava in quelle condizioni e più
la desiderava, e la desiderava così come la vedeva nei sogni.
coolibrì luglio-agosto 2005
“No” disse lui, mentre beveva a lunghi sorsi direttamente
dalla bottiglia dell’acqua.
“Sono le dieci e mezzo, quasi, dovresti vergognarti”.
“Ho rifatto di nuovo quel sogno” disse di nuovo Carlo.
“E dovresti anche smetterla di dare peso a quei sogni
stupidi”.
“Stavolta era terribile Nora. Tu non hai idea in che stato ti
ho trovato stavolta”.
“Adesso smettila Carlo. Smettila davvero, lo sai che mi dà
fastidio. Un casino fastidio tutta questa storia!”.
Lui si accese una sigaretta e bevve il caffé che Nora gli
aveva portato. Nora non capiva, non poteva capire, che
quei sogni dovevano voler dire qualcosa. Era assurdo, gli
faceva quasi ogni notte. E ogni volta era sempre peggio,
la sua Nora era in uno stato sempre più degradato. Ma
la cosa più assurda era che più lui la sognava in quelle
condizioni e più la desiderava, e la desiderava così
come la vedeva nei sogni. Voleva farle male, voleva
vederla piangere di dolore, voleva legarla, frustarla, ma
ovviamente lei non glielo avrebbe permesso, lo avrebbe
lasciato per una cosa del genere.
Nora finì di preparargli la colazione e disse: “Ora esco un
po’. Tu sai tranquillo, cerca di calmarti”.
I padri non sbagliano mai.
I padri hanno sempre ragione.
I padri difficilmente perdonano.
Ai padri non si perdona.
Ai padri non si rinfacciano gli errori e gli sbagli.
Le madri sbagliano e poi le si prende in giro tutti insieme
intorno alla tavola per i loro sbagli. Ma le madri non
ridono. Le madri non partecipano allo scherzo.
I padri non piangono mai.
I padri hanno sempre una loro opinione.
Ed è diversa dalla tua.
I padri bisogna deriderli, sconfessarli, svergognarli.
Un’ora più tardi Nora rientrò in casa. Carlo era seduto
davanti al computer, internet, siti porno, siti sadomaso.
Era un’ossessione che non riusciva a togliersi dalla testa.
Chiuse in fretta le finestre dei siti porno e spense il pc.
“Che fai?” gli chiese Nora. “Niente, passavo il tempo.
Dove sei stata?”
Nora aveva delle buste che sembravano puttosto pesanti,
e tra le altre ne spiccava una di una ferramenta.
“A fare un po’ di spesa, ho preso delle cose che ti
piaceranno”.
Un paio d’ore dopo, Carlo sciolse i nodi che stringevano
i polsi di Nora alla sedia dello studio. Si piegò a slegarle
anche le caviglie. Lei piangeva silenziosamente. Le
aveva fatto male, era andato giù pesante, più di quanto
in realtà voleva forse, ma aveva perso il controllo ad un
certo punto, non riusciva più a fermarsi, la sua fantasia
continuava a suggerigl nuove piccole sevizie a cui
sottoporla. Aveva provato un gran piacere, Carlo, più di
quello si sarebbe aspettato, e alla fine non era riuscito a
trattenersi dal lasciare andare tutto il suo piacere sul viso
di lei.
La corda aveva lasciato dei segni profondi e rossi che
cominciavano a gonfiarsi. Carlo mise un po’ di hirudoid
sei
intorno alle caviglie e ai polsi di Nora, le portò dei fazzoletti
per ripulirsi il viso e dell’alcool per disinfettarle le ferite che
le aveva fatto sulla schiena, sulle gambe e sul torace. Sui
seni le mise del ghiaccio perché non si gonfiassero troppo,
soprattutto i capezzoli, sui quali poi le mise anche della
pomata disinfettante perché non si infettassero.
Raccolse da terra le mollette di legno del bucato e le
mise in un cestino di vimini, che portò sul terrazzino, poi la
accompagnò, che lei zoppicava, sotto la doccia dove la
lavò delicatamente, per non farle male. Lei continuava a
piangere, non riusciva a smettere, neanche ora, neanche
mentre lui la ripuliva piano sotto la doccia, neanche
mentre la insaponava e poi la risciacquava, con l’acqua
fredda, per lavare via tutto.
Sempre piangendo, Nora uscì dalla doccia, indossò una
minigonna nera e una maglietta gialla con le maniche
lunghe e il cappuccio e mentre Carlo la guardava senza
riuscire a dire niente per fermarla, riempì una borsa con
alcune delle sue cose.
Poi, senza guardare Carlo negli occhi, gli chiese un
fazzoletto, ed era la prima cosa che diceva da due ore.
Carlo continuava a guardarla in silenzio. In viso non le
aveva lascciato segni, ma sulle gambe lasciate scoperte
dalla gonna, soprattutto sulle caviglie, era evidente quello
che era successo poco prima.
Nora prese i suoi occhiali da sole, scansando
visibilmente le chiavi di casa ed uscì per l’ultima volta
dall’appartamento di Carlo.
Carlo, lui smise di fare quelli incubi con suo padre e Nora.
I padri hanno fatto prima di te quello che ora fai tu.
I padri fanno ora quello che tu farai domani.
I padri hanno sempre un’opinione.
Che prima o poi avrai anche tu.
I padri bisogna perdonarli.
coolibrì luglio-agosto 2005
SOLO IL NIPOTE CAPISCE LO ZIO
Che fai zio?
txt Osvaldo Piliego
Vieni qui Vincenzo, stenditi…
Erano giorni che non si muoveva da quella posizione, steso
sul letto a pancia in su fissava per ore il soffitto, a stento
mangiava. Lì immobile con un sorriso accennato, come
quello del quadro famoso, e io che mi chiedevo cosa ci fosse
di tanto interessante in tutto quel bianco.
-Che guardi zio?
anzi undici ‘chè uno non è sposato, cioè si stava per sposare
-Tu cosa vedi?
e poi lei è sparita da un giorno all’altro. Più o meno ogni
-Il soffitto.
famiglia di due ha fatto tre figli. A conti fatti, perché alcuni
-No Vincenzo, non devi guardare e basta, pensa forte a una
cugini più grandi le vacanze le fanno da soli in Grecia perché
cosa bella, a un desiderio e vedi che compare.
è di moda e costa poco se prendi il traghetto e poi affitti gli
Mi sforzo come se dovessi guardare oltre il cemento, come
scooter per girarti le isole, siamo 24 cugini. Lo zio Rocco dice
Superman, quello dei fumetti e del film alla televisione, e lo
che possiamo fare una bella squadra di calcio mista maschi
vedo.
e femmine con tanto di panchina lunga. La casa è bellissima,
Finale dei mondiali 82 e io che segno tutti i goal, pure quelli
ha le volte come stelle e noi piccoli siamo sistemati in due
avversari, vedo la ragazza della quarta F che mi offre la sua
stanze. Come le camerate delle colonie, come quando
merendina e mi chiede se da quel giorno in poi possiamo
andai in Calabria con la chiesa e in stanza eravamo otto e
tenerci per mano e dire di essere ufficialmente fidanzati, le
nessuno ha mai capito chi scoreggiava come un pazzo tutta
nostre due figure di spalle si allontanano verso il sole e io c’ho
la notte. I maschi divisi dalle femmine, ma tanto noi poi le
ancora su la maglia numero 10. Questo vedo.
spiavamo dalla serratura quando si mettevano il costume
E tu cosa vedi zio?
anche se a me mi faceva strano perché vedevo pure le mie
Il mare.
sorelle nude e so che non si fa.
Come il mare? Ma se basta che ti affacci alla finestra per
Noi piccoli ci si divertiva tantissimo, la notte quasi non
vederlo il mare, è qui di fronte zio tutto il mare che desideri.
dormivamo a parlare in continuazione, a raccontarci tutto
quello che avevamo visto sui giornali che lo zio Nicola teneva
Ogni estate io e tutta la mia famiglia veniamo qui a Santa
nascosti dietro la poltrona. Francesco ne aveva rubato uno.
Cesarea. C’abbiamo una casa che il nonno ci ha lasciato
A un certo punto una delle donne nude stese sui divani, storte
quando è morto. Fanno una cosa allucinante i nonni quando
tra le lenzuola, scomode secondo noi in alcune posizioni,
muoiono, lasciano di tutto quello che hanno accumulato in
guardava fissa verso di noi. Cioè le altre avevano tutte gli
vita un po’ a tutti. Questo significa che ad esempio questa
occhi quasi chiusi, come quando ti stai per addormentare,
casa al mare è divisa in parti uguali tra tutti i sei figli di mio
quella invece guardava noi come se volesse dirci “lo so che
nonno. In poche parole nessuno voleva rinunciare alla casa
mi state guardando, vi piaccio eh?”.
al mare, barattare la sua parte, che ne so, con un pezzo di
Ogni volta, si perché quel giornale lo guardavamo
uliveto nell’entroterra ugentino, e neanche uno ha voluto
in continuazione tanto che alla fine dell’estate si era
seguire il consiglio del mio zio laureato che aveva proposto
consumato, che arrivavamo a quella pagina era un sussulto,
di usarla in stile multiproprietà. Cioè lui diceva di dividerci la
tutti diventavamo rossi come quando ti sgamano che ti
stagione, due settimane a ciascuna famiglia. Intelligente,
stai fottendo i soldi dal comò. Confesso che quando gli altri
pratico, poi però ci ha provato dicendo che comunque lui
non c’erano lo guardavo pure da solo il giornale e quando
avrebbe preferito le due settimane alla fine di agosto. Tutti gli
arrivavo a quella pagina pensavo che solo a me era rivolto
altri si sono sentiti presi in giro ed è venuto su un casino.
quello sguardo, che gli altri li guardava per educazione, forse
-Si che mo’ solo perché è dottore si deve fare il signore alla
un po’ per mestiere, pensavo che la bionda a pagina sedici
alta stagione....diceva mio padre…col cazzo.
era innamorata di me, io si.
-Col cazzo si… sottolineava mio zio cassa integrato… e
Poi alla fine non è che ci stavamo molto in casa, noi bambini
rincarava…non basta che ce la siamo presi in culo dalla vita,
sempre a mollo come savoiardi e i grandi, chi al bar a
mo’ pure dai parenti, quando mai s’è visto.
giocare a tre sette, chi ai comunisti italiani seduto fuori
E andavano avanti per ore e si prendevano tanto che le
sulle sedie di plastica bianca a guardare male quelli che
femmine si dimenticavano quasi di cucinare.
passavano con i macchinoni. Sospesi in aria sembravano
Lo zio Rocco, partiva come un treno, si ingollava una
con tutto il bianco dei muri dietro che si confondeva a
sequela di limoncelli, bestemmiando e maneggiando con
quello delle sedie facendole sparire come in una magia
il pacchetto di nazionali, finché non crollava sul divano e si
finta. Quando il sole nostro picchia forte, tipo a mezzogiorno
addormentava anche in mezzo tutto al bordello dei parenti.
o poco dopo, quasi non le puoi guardare le case bianche
Che poi mica si incazzavano veramente, tanto che alla fine
tanto brillano, come stelle cadute a caso sulla costa. Noi
mettevano il chicco di caffè nel naso dello zio Rocco che
cugini maschi c’avevamo tutti la bici e andavamo in giro
zompava in piedi buttava giù un paio di madonne e noi ci
come fossimo una banda. Tutti con carta e molletta in
pisciavamo tutti di risi.
dotazione che faceva rombare i raggi delle ruote. Così
Allora, alla fine di un pranzo domenicale di quaranta portate
pensavamo che eravamo motociclisti, quelli che quando
e settanta bottiglie di vino paesano si è deciso di andare tutti
arrivano nei film americani tutti se la fanno sotto. In realtà
insieme a fare le vacanze, e lo zio Antonio, quello artista, ha
facevamo solo un gran casino. Avevamo pure tutti un nastro
preso la chitarra e ha arraffazzonato una pizzica mentre le zie
colorato sul manubrio, diverso il colore, perché ognuno era
ballavano sventolando gli strofinacci della cucina, quelli con
un elemento, un personaggio a scelta come nei cartoni dei
cui fanno tutto, tovaglietta per gli spuntini fuori orario, base
robot giapponesi che ogni robot (di quelli che poi si uniscono
d’appoggio per le stoviglie appena lavate, asciuga stoviglie
e ne fanno uno grande che spacca il culo a tutti) hanno
appena lavate, presina per pentolame vario appena stato
colori diversi: giallo, rosso, verde, blu. Io ero il rosso.
sul fuoco. In questa caso lo strofinaccio diventa fazzoletto per
Tutti volevano il rosso. Ma io l’ho vinto perché ho superato la
ballare la pizzica, un aggeggio fantastico pensavo, come
prova di coraggio. Prova: vince chi si buttava dallo scoglio
il mantello di Superman (quello dei fumetti e del film alla
più alto e io non me ne frego niente, manco guardo quando
televisione) per le mamme, poliedrico, indispensabile.
mi tuffo, corro come un pazzo e mi butto. E ho vinto, sono una
-Tanto è grande. Hanno detto i grandi, ed era tutto sulla
specie di capo, perché nei cartoni dei robot giapponesi quelli
questione casa a mare.
rossi sono solitamente i più fichi.
In famiglia siamo sei, di famiglie dico. Quindi dodici genitori,
Le mamme, questa cosa non l’ho mai capita, mica facevano
sette
Uei zio andiamo a mare, che fai, vieni?
No Vincenzo, sto qua grazie.
Ma zio, le femmine hanno fatto tutti gli stanati, fa afa e
lo zio Nicola dice che affittiamo il pattino per fare i tuffi a
largo.
Vincenzo, fammi un favore, guarda fuori dalla finestra.
Apro le imposte verdi e pesanti nascoste dietro le tende
bianche e mi affaccio. Lui ha chiuso gli occhi e mi fa: che
vedi?
Allora, c’è un ape gialla con dietro le damigiane, il
fruttivendolo, una comitiva di tedesche che le riconosci
perché appena arrivano sono bianche bianche e dopo
diventano rosse rosse e non si abbronzano mai. Poi c’è
la comare Tetta sempre con la sedia fuori la porta, un
cane steso al sole che pare morto e poi il mare zio, oggi e
azzurro come il costume di superman, ti ricordi quando lo
abbiamo visto alla televisione zio? C’era anche Silvia…
Grazie Vincenzo, ora vai dai…
Mamma dice che lo zio Luca ha una malattia. Però non è
una malattia di quelle che si curano con le medicine. La
mamma dice che la medicina è il tempo.
Ma cosa ti senti, gli ho chiesto alla mamma, quando c’hai
sta malattia?
Ti fa male il cuore e ti senti debole e allora poi non fai
niente, aspetti.
Lo zio Rocco, che è troppo forte soprattutto dopo pranzo,
ha fatto:
sono kinghi konghi e ha cominciato a inseguirci a tutti
facendo lo scimmione. Quando ti prendeva faceva arrgh
ti prendeva in braccio ti alzava sulla schiena e ti fotteva a
mare. E noi ci piaceva un casino, tanto che ci facevano
prendere e correvano tutti più piano di quanto potevamo.
Poi le femmine si sono incazzate peggio del kinghi konghi
vero perché dicevano che dopo che mangi se ti fai il
bagno rischi la congestione e muori.
Io però una volta dopo il Calippo ho fatto i tuffi e non mi è
successo niente.
Qualche volta, la sera sempre, stanco proprio, mi
stendevo accanto allo zio nel letto, stavo zitto e guardavo
con lui il soffitto e poi quando si faceva tardi che mi si
chiudevano gli occhi, sempre zitto mi alzavo e andavo a
dormire.
otto
coolibrì luglio-agosto 2005
vacanza veramente. Se ne stavano tutto il giorno a
casa a fare le pulizie, cucinare, rassettare, pettegolare
e uscivano solo alla domenica, come durante l’inverno.
Perché domenica si stava tutti insieme, così vorrebbe il
nonno… dicevano i grandi. Le mamme preparavano
gli stanati con la lasagna, si affittava l’ombrellone al
lido, e si passava tutto il giorno al mare. Una migrazione
in piena regola, tranne i letti e gli arredi del bagno non
ci mancava niente, pure il fornellino a gas per il caffè
portavano sugli scogli.
Perché dobbiamo buttare soldi quando le teniamo le
cose… dicevano… e all’inizio non ci facevi caso, poi però
crescendo ti vergognavi che volevi diventare piccolo
come una biglia di vetro e rotolare diretto in acqua.
Francesco faceva quindici anni quell’anno. Dopo i
quattordici in famiglia scatta una specie di promozione.
La prima grande conquista è il tavolo dei grandi. Finchè
sei piccolo i grandi ti sistemano al tavolino piccolo, con le
sedie piccole, i piatti di carta e se proprio sei un coglione
pure la bavetta casomai sporchi con lo schizzo malefico
della polpetta al sugo la camicia appena stirata. Ma in
concomitanza con la cresima o giù di lì, un giorno il padre
di turno con fare fiero ti guarda e fa: vieni qua, siediti
accanto a me. Seconda conquista è la fiducia dei soldi.
Cioè quando fai quattordici anni le mamme si fidano e ti
possono lasciare anche i soldi di carta per fare la spesa
allo spaccio. Terza e più importante conquista: il motorino.
Fino a quel momento lo guidavi solo con lo zio dietro che
in caso fai lo scemo prende subito il manubrio. Mo’ invece
se riesci a ingraziarti zio Rocco quello mbriaco ti fa: Na,
fatti nu giro.
Francesco era un mito, si fotteva pure le sigarette di
nascosto, però non ce le dava perché diceva che noi
eravamo troppo piccoli e il fumo ci uccideva. Io però
avevo visto alla televisione che il fumo uccideva tutti
ma mica glielo dicevo. Un giorno ho pensato che se lui
moriva, il motorino, la fiducia dei soldi e il posto a tavola
toccavano a me perché avevo dodici anni, ero il più
grande dopo di lui, ma poi mi sono pentito tantissimo e
quasi mi veniva da piangere.
Francesco alcune volte, quando mi vedeva tornare dalla
sua stanza, mi coglionava. Diceva che quello zio era
pazzo, che era diventato pazzo dopo che la femmina lo
aveva lasciato, che da quel giorno era depresso, pazzo,
come quelli che al paese stanno sulla piazza e ripetono
sempre le stesse cose. Mi diceva che se stavo con lui,
diventavo pazzo pure io, che le femmine sono buone solo
a cucinare e a fare le cose sporche.
Ma io pensavo alla bambina della quarta f a quella nuda
sul giornale ed ero sicuro che le donne c’avevano pure
l’amore, quello che, mi ha detto la mamma, fa nascere i
bambini.
L’estate alla fine è tutta uguale anche se non c’hai il
tempo di annoiarti. Cioè succede che il pomeriggio,
magari tra le quattro e le cinque proprio non sai che devi
fare, ma poi pensi che a settembre torni a scuola e allora
sfrecci come un pazzo con la bici e gridi forte.
E proprio un giorno che avevo giocato al pallone e che
poi sudato avevo corso con la bici gridando come un
pazzo fino al mare che l’ho vista.
Era lì, con il gelato che noi prendevamo solo la domenica,
quello con le nocciole sbriciolate che costa di più, ma era
martedì e la cosa era strana come se per me quel gelato
lo fabbricavano solo la domenica. Era sola, ed era una
cosa strana perchè tutti c’hanno il gruppo, mica puoi
uscire da solo che se no sembra che di amici proprio non
ne hai.
Guardava il mare e se ne fotteva di tutto quello che
dietro passava. Manco per me si è girata, pure se gridavo
e avevo la molletta rombante che sfotteva i raggi della
bici. Era come se era lì ma come se non c’era distante
anche se a pochi metri, guardava il mare come se quello
che c’era dietro già l’aveva visto e ormai gli faceva noia.
Riccia come i ricci che scendono dalla pianta dell’uva,
nera di capelli come i ricci che pesca lo zio, leggera
come il suo vestito che la tramontana non faceva che
agitare.
La pazza la chiamavano, perchè una volta ha tirato i
capelli a una che la sfotteva e io che pensavo che mai
avevo visto una femmina che si azzuffava con un’altra,
che mai le femmine le avevo viste incazzate, solo la
mamma con me o con papà.
Era diversa da quella della quarta f e non solo perchè non
aveva il grembiule ma perchè quando incrociavi i suoi
occhi sembrava che era arrabbiata anche se non lo era,
come una che vede le cose che tu non riesci a vedere,
grande mi sembrava, anche se pure lei faceva la quarta.
E la cercavo, ogni volta che uscivo con i cugini, guardavo
alla gelateria, al lido ma quasi mai c’era.
Ma quando c’era, quasi perdevo l’equilibrio sulla bici,
mi sentivo la pancia come quando ti fotti un casino di
turcineddri per fare a gara con gli altri cugini.
Una sera steso accanto allo zio gliel’ho pure detta sta
cosa e lui per un attimo mi ha guardato, un secondo
e basta e mi dice che dovevo fermarla, non lasciarla
andare, che poi te ne penti se non lo fai. Un secondo in
cui come mai prima mi ha guardato in faccia, bianco
come il muro e le lenzuola, serio come sempre, triste però
come se altrimenti sarebbe successa una cosa brutta
veramente.
Ricordo che quella sera ho pure guardato il giornale
e la tipa con gli occhi dritti verso di me non mi faceva
sentire così. E ho guardato il soffitto, la volta bianca e mi
sembrava di capire lo zio, avevo male, ero malato e in
fondo a quel candore solo lei c’era, di spalle, lontana e
mi mancava.
IL CALDO AVANZA SULL’EUROPA
CENTRO-OCCIDENTALE
Questo caldo che è scoppiato tutto insieme uno non se lo
spiega.
Considerato che ieri mattina la signora A. R., 66 anni,
pensionata della IV Circoscrizione, ha dato spettacolo
togliendosi tutto tranne l’orologio a bordo dell’autobus 335
che la stava portando al mercatino rionale, il governo o chi
per lui che fa?
A noi anziani non ci pensa nessuno. A noi anziani ci fanno
capire chiaro e tondo che prima ci facciamo scavare la
fossa e meglio è.
Allora la signora A. R., 66 anni, vedova dal ’93, ha fatto
bene a sbroccare in luogo pubblico. Ha fatto bene a
rompere con la decenza.
È successo un po’ prima della fermata davanti ai campetti
di tennis della Bufalotta. Tutto in pochi secondi, come un
attacco al cuore dello stato.
Il caldo, forse.
Temperature africane.
Un colpo di sole.
«Col gran caldo gli anziani iniziano a soffrire e tutte le estati,
specie nelle grandi città, si vedono cose orribili», ha detto il
ministro della salute.
Il primo sintomo è un improvviso malessere generale, poi
seguono mal di testa, nausea e sensazione di vertigine,
senso di pesantezza e gonfiore alle gambe. Si può avere
perdita di conoscenza. La temperatura corporea aumenta
rapidamente nel giro di 10-15 minuti fino anche a 40-41°C.
La pressione arteriosa diminuisce all’improvviso. La pelle
diventa secca e arrossata perché manca la sudorazione,
un meccanismo di raffreddamento fisiologico che funziona
finché c’è acqua in abbondanza nell’organismo. Dopodiché
cominciano le incognite.
La signora A. R., incensurata, ha detto «Basta, bastardi!»
ed è saltata addosso all’autista coprendogli gli occhi con il
reggipetto di pizzo nero. Tutto in un attimo. L’autista ha fatto
appena in tempo a gridare «Signora, che fa?» che l’autobus
è finito addosso a un furgoncino della frutta con pere e mele,
banane e kiwi al prezzo di un diamante è per sempre.
«Signora, che fa?» E patatracchete! Troppo tardi per salvarsi.
È che a noi anziani ci vedono come cose inutili.
I figli: buoni, quelli. Avessi avuto i poteri del mago Othelma
mi sarei fatta legare le tube. Doppio nodo, giusto per stare
sicuri.
Il governo (o chi per lui): mascalzoni depravati pigliainculo
che non sono altro.
Mio figlio Enzo ha 34 anni, è un ragazzo alto e stempiato
con la testa sulle spalle che fa la guardia del corpo a un
senatore a vita.
Quando vedo in televisione mio figlio che scorta quella
scimmia in doppiopetto a qualche cerimonia importante,
penso sempre che dovrebbe pigliargli un cancro a tutti e due
nello stesso momento. Pazienza se certe cose una mamma
non dovrebbe pensarle: mio figlio è più marcio di chi gli dà
da mangiare.
Dice: «’A mà, che mi hai fatto oggi? Ci ho un subbuglio
nelle budelle che nun te dico.»
Dice: «Mi sa che hai perso il tocco magico in cucina.»
Ma dalla Debby non ci torna. Un giorno la Debby si è
fatta trovare sul divano in soggiorno senza scarpe e senza
un delirio di Nino G. D’Attis
nove
coolibrì luglio-agosto 2005
Il primo sintomo è un improvviso malessere generale,
poi seguono mal di testa, nausea e sensazione di vertigine,
senso di pesantezza e gonfiore alle gambe.
Si può avere perdita di conoscenza.
mutande, attorcigliata in posizione eretica al maestro di
nuoto di Torvajanica e allora Enzo ha detto: «Va bene, allora
io mi prendo il televisore, lo stereo, la foto incorniciata con il
presidente del consiglio scattata a Montecitorio e da oggi in
avanti è finita.»
Il maestro di nuoto: «Bravo! Così si fa.» E ha incassato una
nespola in bocca dalla Debby che oltre al nuoto pratica
anche il pugilato thailandese con un maestro che somiglia
molto a Raoul Bova.
Il governo (o chi per lui) non fa niente per questi giovani che
si conoscono, si sposano in capo a un mese e il mese dopo
già si tradiscono, si lasciano, non sono più capaci di tenere
unita una famiglia.
Anziani: consigli per vincere il caldo
Indossare indumenti chiari, non aderenti, di cotone o lino.
Fare pasti leggeri, preferendo la pasta, la frutta e la verdura alla
carne e ai fritti.
Evitare le bevande gasate, zuccherate e troppo fredde.
Evitare le cozze non di allevamento.
Al sole ripararsi la testa con un cappellino.
Vivere in un ambiente rinfrescato da un ventilatore o condizionatore.
Sarà anche una gran puttana, non dico di no, ma mia
nuora è una che ci ha palle. È una ragazza che sa quel che
vuole e proprio per questo non si farebbe mai mettere i piedi
in testa da nessuno. Non a caso tifa giallorosso e invece quel
cornuto di mio figlio è laziale fino al midollo. Così laziale che
certi momenti vorrei dargli un fracco de botte, ma tante di
quelle botte da renderlo irriconoscibile anche ai miei stessi
occhi. Da gonfiarlo come una camera d’aria, questo ingrato.
Dico: «Magica Roma» e lui: «Forza Lazio!»
Dico: «La squadra, come la mamma, non si cambia» e lui si
tocca queste brutte orecchie grosse che gli abbiamo fatto io
e suo padre buonanima e risponde che si è fatto tardi e deve
andare fino a Prati a prendere il senatore che lo aspetta per
le nove.
Allora gli urlo dietro che la Debby sarà pure mignotta ma
ha fatto bene a darla gratis a tutto il quartiere quando lui non
era in casa.
«Perché si vede che tu non sei buono» gli urlo per le scale.
«Perché sei la mia vergogna e anche quella di tuo padre
buonanima che abbiamo fatto tanti sacrifici per tirarti su
normale!»
Ma lui fa finta di niente, scende a testa bassa senza
rispondere. Non gli frega della vicina che apre la porta e mi
guarda con la sua faccia da esaurita calabrese, si alliscia i
capelli finti e dice «Buongiorno, signora, che caldo, eh? Tutto
insieme è arrivato.»
«Mavattelappijà ‘nderculo pure te, stammatina!»
coolibrì luglio-agosto 2005
Venne a trovarmi il macellaio che non indossava il suo grembiule
bianco schizzato con bordate di sangue animale,
ma era avvolto da un completo di velluto grigio
che gli conferiva un aspetto ancora più laido,
con quei capelli tendenti al bianco proiettati tutti a sinistra
grazie ad un uso smodato di brillantina da collezione.
txt Rossano Astremo
dieci
Quando avevo sette anni mio padre decise di ficcarsi in
bocca una magnum di grosso calibro detenuta illegalmente
e di farsi esplodere un colpo secco che gli fece saltare parte
della testa trasformandola in una palla da bowling con
qualche buco in più sparso nella zona della nuca. Mia madre,
quando vide mio padre steso per terra nel salotto conciato
così male, non la prese nei migliori dei modi. Aprì la finestra,
poggiò i piedi nudi sul cornicione e si scagliò dal terzo piano
della nostra abitazione per poi finire a velocità sostenuta con
il cranio sulla cassetta della posta che si trovava appena
sopra il marciapiede che costeggiava il portone del nostro
palazzo. Si narra che quando cercarono di ricomporla per
metterla nella bara, gli addetti delle pompe funebri non ne
furono entusiasti. Non ricordo molto di quel giorno. Ero nella
mia stanzetta a giocare con i miei soldatini di plastica. Quelli
di colore blu erano gli americani, quelli di colore verde erano
i tedeschi, quelli di colore rosso erano i giapponesi. I
giapponesi erano dei gran figli di puttana. Si inserivano nella
diatriba tra americani e tedeschi e alla fine la spuntavano
sempre loro. In realtà la loro imbattibilità era dovuta
all’intervento dell’uomo tigre plastificato che mi aveva
regalato mio zio Mario il giorno del mio ultimo compleanno.
L’uomo tigre era molto più grande di tutto l’esercito
americano e tedesco messo assieme, quindi quando il rosso
generale Nagasawa decideva di porre termine al conflitto,
richiamava all’ordine l’uomo tigre che si palesava nel campo
di battaglia e in pochi secondi compiva una strage
immonda, con spargimento sanguinolento di caduti il cui
conteggio sfuggiva a qualsiasi logica umana. Questo
accadeva quasi sempre quando la mia voglia di giocare era
scemata del tutto. Generalmente, dopo appena dieci minuti.
Il campo di battaglia che creavo nello spazio limitato delle
mie pareti non corrispondeva ad alcuna logica storica. O,
almeno, non in maniera consapevole. Il mio era un lavoro di
abbinamento cromatico tra fazioni opposte. L’intarsio del blu
nella fluida scansione di rossi e verdi aveva per me un suo
fascino, quelle striature color mare profondo erano
accostabili a delle fresche pennellate informali di un Emilio
Vedova. Questo lo capii molto più tardi. Il giorno dopo il
fattaccio si svolsero i funerali. La sera precedente e tutto il
giorno seguente la mia casa si riempì delle persone più
improbabili. Erano lì per accertarsi delle mie condizioni. “Vedi
come ti vogliono bene”, diceva mia zia Rosa. Io ostentavo
perplessità. Vedevo la tv, grattandomi la caviglia sinistra con
il pollice della mano destra. In questa postura da
contorsionista accoglievo i visitatori, non spiaccicando sillaba.
Le salme dei miei genitori erano in ospedale. Venne a
trovarmi il macellaio che non indossava il suo grembiule
bianco schizzato con bordate di sangue animale, ma era
avvolto da un completo di velluto grigio che gli conferiva un
aspetto ancora più laido, con quei capelli tendenti al bianco
proiettati tutti a sinistra grazie ad un uso smodato di brillantina
da collezione. Poi la maestra Caterina, con una gonna rosa
FUNERALE
CARNALE
shock, degna dell’Amanda Lear più trash, delle scarpe rosse
appuntite e una camicia grigia con i primi tre bottoni aperti,
che lasciava intravedere parte delle sue poppe a melone.
Mia zia Rosa mi costrinse a stare tutto il tempo in cucina. Lì la
televisione non aveva il televideo, ma non ne facevo un
dramma. Mio zio Mario mi faceva compagnia. Disse che la
mia maestra era una gran zoccolona, io annuii. Poi mi prese
in braccio, mi posò su una sedia, si inginocchiò e prese a
farmi un discorso strambo: “Guarda… inizia una nuova vita
per te, per il sottoscritto e per la zia Rosa. Il fatto è che la
mamma e papà non ci sono più…cioè, non fraintendermi,
non è che non ci sono più, è soltanto che hanno fatto una
scelta coraggiosa, hanno deciso di intraprendere un lungo
viaggio, per vivere una nuova vita, per ricongiungersi con lo
spirito, per intridersi di eterno…ma ecco, lo sapevo che poi
collassavo in logiche mistiche dentro le quali tu ti saresti
perso…cercherò di essere più schietto…tuo padre era un
gran figlio di puttana, capisci, un tipo da evitare, io ho
sempre detto a tua madre, ‘Patrizia, guardati bene da
Franco, quello è un gran figlio di puttana, amici miei tossici mi
hanno detto che sta nel giro’, capisci, tuo padre stava nel
giro dello spaccio, capisci, aveva un sacco di debiti, si era
immerdato sino al collo con gente che conta, capisci, non
aveva fatto una scelta felice, doveva dare un sacco di soldi
a un tipo che ha ammazzato gente a sangue freddo e se non
avesse rispettato determinate scadenze tua padre sarebbe
stato la prossima vittima… ecco, se entriamo in quest’ottica, il
fatto che quel figlio di puttana di tuo padre si sia fatto
esplodere un colpo secco in pieno volto fa di lui una sorta di
eroe, capisci, eroe nel senso che non ha accettato di farsi
fare fuori dalla mafia… perché lui, in fin dei conti, era un
mafiosetto da quattro soldi…ecco, a me piacerebbe fartelo
vedere come è ridotto ora, ma zia Rosa mi ha detto che non
è il caso, capisci, non ha più gli occhi, ha dei denti che
fuoriescono dal labbro superiore e gli penzolano da una
parte e dall’altra senza senso, ha un orecchio slabbrato, fuori
forma, capisci, non è un bello spettacolo da vedere, ma io
avrei voluto tanto che tu gli avessi dato un’occhiata, anche
piccola, giusto per tenerlo a mente per quanto poi diventerai
grande, perché tuo padre, ti ripeto, era un gran figlio di
puttana, Cristo se non lo era, ma è morto con dignità, capisci,
se non si è fatto fottere, capisci, e questo fa la differenza
quando qualcuno muore, non si è fatto fottere da quei
unidici
coolibrì luglio-agosto 2005
mafiosi del cazzo, allora…allora quello che ti voglio dire,
Fabio, è che quando sarai grande, dovrai portare con
orgoglio il tuo cognome, capisci, non dovrai vergognartene,
la vergogna è una brutta bestia, tu Fabio Terlizzi, dovrai essere
orgoglioso di aver avuto un padre che, pur di non farsi fottere
da gente merdosa, ha deciso di farla finita trasformando la
sua faccia in un colabrodo… eppure vorrei tanto scattargli
una foto a quella faccia del cazzo, perché vorrei che tu la
portassi sempre con te, magari nelle mutande, nella parte più
intima di te, perché, ti ripeto, tuo padre è morto con dignità
e, cazzo, non dimenticarlo mai, Fabio.” Alla fine di questo
discorso, mio zio spalancò gli occhi più del solito, mi poggiò le
sue mani sulle spalle e cominciò a piangere come un
bambino, senza distogliere il suo sguardo dal mio. Poi, di
scatto, si voltò, tirò fuori dalla tasca uno dei suoi fazzoletti
bianchi su cui erano ricamate a mano i versi del D’Annunzio
dell’Alcyone, diede una soffiata vigorosa al suo naso, tornò a
guardarmi, si mise nella posizione assunta all’inizio del suo
monologo e riprese a sproloquiare: “Tua madre, poi… guarda
Fabio, non ho mai visto nella mia vita una persona amare
tanto la sua famiglia, capisci, lei poneva la sua esistenza al
servizio tuo e di Franco… zia Rosa mi diceva sempre, quando
cominciammo a frequentarci, guarda Mario, ho una sorella
fantastica, cioè non riesco a spiaccicartelo con la semplice
successione delle frasi, ma cazzo, ti giuro che è fantastica’,
capisci, fantastica… il suo folle gesto, poi, capisci…non è
facile vedere il tuo uomo con la faccia ridotta come la retina
di un canestro da basket, è normale che il cervelletto
comincia a ruotare al contrario, è normale che i neuroni
cominciano a sfibrarsi e a lasciarsi andare ad azioni senza
senso, è normale che cominci a muovere il tuo corpo a cazzo
di cane, è normale che la prima cosa che pensi di fare è
metterti in piedi sul cornicione della finestra della tua casa
sfidando le leggi della fisica, è normale che dopo un volo di
cinque secondi riduci il tuo corpo come una cozza nera
frantumata, di quelle che trovi attaccata sugli scogli di
Gallipoli… ma è qui che comincia il bello, Fabio, proprio
quando la vita ti volta le spalle, proprio quando ti rendi conto
che sei nella merda fino al collo, proprio in quel momento, ti
dico, devi tirare fuori i coglioni, e se potessi, ti giuro, te le farei
vedere i miei coglioni, te li farei toccare con mano, ma,
cazzo, zia Rosa non sarebbe consenziente… quindi, Fabio, il
succo del discorso, è che ci sono io qui con te, che ti
proteggerò e ti tratterò come tratterei mio figlio, ma io, cazzo,
non posso avere figli, sai, è per colpa dello sperma che mi
circola in corpo, il mio dottore mi ha detto che non serva un
cazzo, che potrei metterlo nelle bottigliette di succo di frutta
e scagliarlo in mare aperto, perché nessuno se ne farebbe
uno stracazzo della mia accozzaglia di spermatozoi senza
vita”. Zio Mario mi abbracciò con tutta la sua forza, versando
le sue lacrime sulle mie spalle. Poi ci furono solo minuti di
silenzio. Ricordo la presenza di altre persone nella mia casa in
quei giorni. Quella del collega di mio padre, Sandro Trevisani,
perché, bisogna dirla tutta, mio padre non è che fosse poi
uno di quegli stronzi che vivevano alle spalle della brava
gente, mio padre aveva un suo lavoro dignitoso, con il quale
portava avanti la famiglia, era un rivenditore all’ingrosso della
cosa migliore che questo lembo di terra aveva prodotto nella
sua gloriosa esistenza, carta igienica Salento, resistente,
morbida, per un culo sempre pulito, carta igienica Salento, la
migliore per combattere i residui di merda che ti rimangono
attaccati su per il buco del culo. Sandro venne in cucina, mi
passò la mano sui capelli, io guardavo la pubblicità su
Canale 5, poi si rivolse a mio zio Mario e cominciò a
bestemmiare, non faceva altro che bestemmiare, mise in fila,
l’un dietro l’altro, Sant’Oronzo, San Cataldo, San Gennaro,
Cristo Morto, la Madonna Puttana e quel ricchione di Gesù
Bambino. Come se fosse stato richiamato dallo spirare del
male in quelle mura, comparve d’improvviso zio Umberto, lo
zio della mamma, il sacrestano della chiesa di Sant’Irene, un
tipo squilibrato, che indossava un paio di occhialoni dalla
montatura marrone che gli coprivano l’intera faccia ossuta,
sempre con un mazzetto di santini tra le mani che vendeva in
strada per fare un po’ di soldi, perché non aveva un cazzo di
lavoro, prendeva solo una piccola pensioncina di invalidità
che non gli bastava ad alimentare i suo vizi. Zio Umberto
venne arrestato qualche anno più tardi perché, a quanto
pare, amava giocare con i chierichetti. Alla fine della messa
domenicale si bardava nella sacrestia, dopo che Don
Leopoldo si recava con la sua Bmw grigio metallizzata a
Maglie dalla giovane amante colombiana che manteneva
da anni, e, con il pretesto di educarli ad evitare il peccato
della carne, abbassava loro i pantaloni per poi sfiorarli nelle
parti intime. Si narra, ma in casi del genere la legenda prende
il sopravvento sulla realtà, che zio Umberto, durante queste
sue pratiche degeneri, cominciasse a perdere
dell’appiccicosa bava biancastra da entrambi i lati della sua
bocca. Fatto sta che uno dei chierichetti sputtanò tutto,
dopo un po’ che andava avanti sto giochetto erotico del
palpeggiamento testicolare e non solo, al padre, che poi non
era altro che Peppino il carrozziere, quello che aggiustava
ogni settimana la marmitta della 128 verde pisello di mio
padre, il quale, inviperito oltre ogni misura, andò a trovare zio
Umberto a casa. Senza dilungarsi oltre modo, quello che è
certo è che Peppino il carrozziere sferragliò una serie
mitragliante di pugni in pieno volto a zio Umberto, poi lo prese
per i capelli e lo trascinò nella sua macchina per poi portarlo
in questura. Si narra, ma in questo caso la legenda lascia
spazio al volto frantumato di mio zio Umberto visto da zia
Rosa quella volta che gli portò dei biscotti allo zenzero in
carcere, si narra, dicevo, che Peppino il carrozziere esagerò
con la successione di mazzate inflitte al mio caro zio pedofilo,
tant’è che zia Rosa stentò a riconoscere il sangue del suo
sangue. Ci furono i funerali, ma io venni lasciato a casa
assieme a Caterina, la figlia del macellaio. Dopo le istruzioni di
zia Rosa a Caterina, la casa assunse un silenzio spettrale.
Andarono tutti via. La cosa non mi dispiaceva affatto, perché
Caterina, quindicenne che aveva deciso di abbandonare la
scuola dopo la licenza media per dedicarsi alla vendita di
fettine di vitello e salsicce di maiale, aveva le tette più grosse
che io avessi mai visto nei miei primi sette anni di vita. Fu in
quel giorno particolare della mia vita, lo stesso giorno in cui i
miei genitori furono seppelliti sotto terra, che, durante un
frenetico zapping televiso, abbracciato alla figlia del
macellaio, infilai i miei occhi nel maglioncino scollato della
stessa, intravedendo il capezzolo appuntito del suo seno
sinistro, e sentii agitarsi sotto le mutande il piccolo gioiello di
famiglia, che, per la prima volta, assunse una posizione eretta
irreversibile. I miei genitori erano morti. Io avevo il cazzo duro.
Ero diventato un uomo.
coolibrì luglio-agosto 2005
Appena fuori la porta si ritrovò già grondante sudore.
La fronte gli si imperlò.
L’aria era stagnante, il tasso di umidità
aveva raggiunto livelli equatoriali.
LA VENTOLA
dodici
txt Antonietta Rosato
Quando il sig. Poletti aprì gli occhi erano appena le otto del mattino e l’afa era già così insopportabile da
soffocare ogni spinta vitale, così il sig. Poletti allungò la mano e mise il ventilatore a quattro, si voltò sul fianco e si
riaddormentò.
Era luglio, il luglio piu’ caldo e umido dei suoi trentasette anni, il quattro luglio per la precisione e mentre dall’altra
parte dell’oceano milioni di tacchini passavano a miglior vita il sig. Poletti decise che lui quel giorno sarebbe morto
un po’, tanto che s’ allungò il signor Poletti, mise il ventilatore a quattro e tornò a dormire. E gli venne così bene che
lo fece per due giorni di fila. Morì un po’ per due giorni. Fuori c’erano tanti gradi quanti i suoi anni.
Quando il sig. Poletti aprì gli occhi erano già le otto di sera e una zanzara gli ronzava così insopportabilmente nelle
orecchie che decise di alzarsi e farle una piazzata, così si alzò e le vomitò addosso tutto il suo disprezzo, tutto il
rancore e lo schifo gli erano usciti, così d’amblè, dalle viscere.
Fu una scenata memorabile, Poletti paonazzo, la zanzara per niente scomposta, avvezza a certe intemperanze,
volò via dalla finestra nel cielo stellato di quella serata afosa a ronzare nelle orecchie di chi avrebbe saputo
apprezzare.
Il ventilatore del sig. Poletti non ventilava più, si era fermato nel mentre che lui moriva un po’, gli era sembrato uno
sforzo inutile ventilare un morto, così due minuti dopo che il Poletti si voltò quello già aveva fermato le tre eliche
stremate dal caldo e dal tanto ruotare.
Il sig. Poletti guardò con sufficienza il ventilatore, pensò tra sé e sé che meritava neppure la benché minima
considerazione, bofonchiò solo: «Tsè!» e andò in bagno accomodandosi pesantemente sulla tazza.
Cercava di farla, si rilassò quel tanto che bastava, si concentrò anche ma mentre stava per concedersi sentì una
specie di formicolio su per la coscia destra e vide un’ombra scura fuggire nell’intercapedine della porta. Alla vista
della blatta Poletti si deconcentrò, storse la bocca in una smorfia di rassegnazione, si alzò, tirò su gli slip sdruciti e
andò in cucina, passando per la camera da letto lanciò un’occhiata feroce al ventilatore. Quello lo guardò con
sufficienza, non volle generare altre tensioni, faceva troppo caldo, le tre eliche gli dolevano, voleva solo trovare un
po’ di riposo in quella stanza torrida di calura e fetida di sudore.
L’aria era irrespirabile, Poletti aprì il freezer, tirò fuori del ghiaccio e se lo passò sulla fronte e sui polsi. Il telefono trillò.
Poletti: pronto chi parla.
Signorina all’altro capo del telefono: Uè Poletti son io.
Poletti: io chi?
Signorina all’altro capo del telefono: come chi?? Ma son La Carla, Poletti ma mi ti sei rincitrullito dal caldo?
Poletti: La Carla l’amica di Saverio?
La Carla: massììì l’amica di Saverio! Ci siam conosciuti l’altra sera ricooordi? Sono ospite da lui, sono in Puglia per
altri due giorni e mi son detta taaac ora chiamo il Poletti e vediam di uscire insieme. Ho Fatto maaale? Ho voglia di
veder la città, in questi giorni il Saverio solo maremaremare, da Gallipoli a Santa Maria di Leuca e su fino a Otranto.
Posti bellissimi dico, ma stasera voglio fare un giro per la città. Mi ci porti?
Poletti: oh.. beh… non avevo intenzione di uscire stasera a dire il vero. Fa caldo, non ce la faccio…
La Carla : uèè Poletti non ti farai pregare!
Poletti: mannò mannò.
La Carla: allora? Dai vien su tra mezz’ora che t’aspetto dal Saverio.
Prima che il sig. Poletti potesse dir altro La Carla riattaccò.
La Carla non era malaccio. Un po’ troppo bionda e troppo tinta e con troppo mascara sulle ciglia, troppo ciarliera
pensò Poletti, ma tutto sommato non era male e forse gli avrebbe fatto bene uscire, così per prendere una boccata
d’aria.
Mangiò una fetta di melone rancido, si fece un bel bicchiere di acqua e zucchero in ghiaccio, fece una doccia e
uscì.
Appena fuori la porta si ritrovò già grondante sudore. La fronte gli si imperlò.
L’aria era stagnante, il tasso di umidità aveva raggiunto livelli equatoriali.
Poletti vacillò, era sul punto di rientrare in casa ma si fece forza, si diresse verso la macchina e partì a tutta velocità
verso Saverio. E partì a tutta velocità per fare entrare quanta piu’ aria possibile dai bocchettoni.
Fanno un giro per la città Poletti e La Carla, Poletti è tutto sudato, La Carla è tutta ciarliera con il mascara che le si
scioglie ogni due tre e La Carla ogni due tre specchietto in mano se l’asciuga.
In due minuti è a casa, si dirige con un ghigno inquietante verso il ventilatore e gli strappa ad una ad una le eliche,
piano piano, per far durare più a lungo possibile lo strazio. Con un martello lo fa in mille pezzi. Ci salta su, ci sputa
addosso gli dice brutto stronzo pure.
Poi, con calma, scopa e paletta ripulisce tutto, getta tutto nel camino e dà fuoco.
Con un panno spolvera e lucida il comodino e con cura ce lo mette su, toglia con delicatezza la targhetta in
plastica che dice: un eccellente Ventilatore da Tavolo solido nella struttura ed unico nella robustezza.Una pala
da 23 Cm per un prodotto a ventilazione oscillante. 35 W. Pala 23 Cm. Inclinazione Regolabile. 5 Velocità per un
prodotto stabile sempre.
DANZICA D’ESTATE
Ci avrebbe accolto in un abbraccio appagante, la città,
al ritorno dalla traversata del Baltico, dalla nauseante
perfezione di Stoccolma, da diciotto ore di puro digiuno,
inframmezzato da una fetta di pane raffermo imbevuto di
tonno oleoso e caffellatte in lattina, gli ultimi residui delle
nostre scorte di viaggio. Ci mancava la semplicità polacca,
quella specie di ingenuità che leggevi facilmente nei
volti per strada, mista a timore e allo stesso tempo fiducia
assoluta negli altri. Per questo decidemmo di passare ancora
una volta la notte da Waldemar, in quell’ostello ancora in
costruzione dove non c’era bisogno di prenotare, ché lui
avrebbe trovato un posto per chiunque anche col tutto
esaurito, figurarsi per i primi italiani che varcavano la soglia
del suo regno disordinato, festaiolo, della sala d’aspetto
dagli immensi divani blu dove la sera ci si incontrava prima
di uscire, si confrontavano idiomi cercando di tenere sotto
controllo le lingue stoppose dalla troppa wòdka entrata in
circolo. Mentre attraversavamo la zona industriale pigiati
nell’autobus, tra facce stanche di vita o di viaggio, e buste
da duty free cariche d’alcool per i mariti e fusti di detersivo
per lavatrice per le consorti, continuavo a chiedermi cosa
fosse rimasto delle rivoluzioni operaie, degli scioperi ai
cantieri navali, di Lech Walesa e Solidarnosc, se mai una
volta in città avrei potuto respirare ancora quell’aria, la
rabbia pronta ad esplodere, la determinazione a cambiare
la realtà e la speranza in un futuro migliore che allora, più di
vent’anni prima, non sembrava ridicola. I polacchi coltivano
accanitamente la loro memoria storica, portano addosso
evidenti ferite, non dimenticano. Ma il sole era stranamente
così forte, quel primo pomeriggio a Danzica, che dopo la
tanto desiderata birra ghiacciata e due salsicce ad ottimo
prezzo era inevitabile volgere il viso all’insù, chiudere piano
gli occhi, e stendere le gambe. La conversazione sarebbe
continuata in quel modo, parlando al cielo. L’incontro
gioioso con i compagni di viaggio abbandonati nel Sud
coolibrì luglio-agosto 2005
La città è piccola, in tre quarti d’ora La Carla ha visto tutto e ora vuol bere qualcosa da qualche parte.
«Neh, Poletti, se ci sedessimo a quei tavoli laggiù eh, che ti sembra eh?»
Si siedono laggiù, La Carla ordina una bottiglia di prosecco e due flute. La sera trascorre tranquilla, La Carla
parlaparla Poletti beve e trasuda prosecco, bofonchia e a volte parla anche lui. Il vino finisce e Poletti le fa torniamo
a casa. La Carla gli fa torniamo a casa tua.
«Uè ma fa un caldo boia in questa casa, Poletti ma com’è niente condizionatooore?»
«Niente»
«Oè dico, ma come fai dio bono?»
«Non mi piace il condizionatore, mi sento male. Ho il ventilatore però»
Quella fa per accenderlo.
«Non funziona, ci ho litigato prima di uscire» dice nervoso.
La Carla dice fa niente, spinge Poletti fino al letto e gli si butta sopra. Si strofina, si gira, gli si preme contro, geme e
poi sbuffa: Oh dico, ma non ti piaccio? Ma non mi tocchi? Ma sei gay? ma ci hai un colore bianco bianco che
sembri morto! Uèèè poletti ma che scherzi fai??
« no..è.. che.. la pressione bassa..caldo..scusa.»
Poletti respira a fatica, suda freddo La Carla prova a fare su e giù, ma quello niente, sviene e non viene.
La sgualdrina si cura punto di Poletti, si alza, si sistema e seccata se ne va.
Sbatte forte la porta e Poletti si alza di scatto e come una furia si veste, spia dalla finestra che La Carla sia davvero
andata via. Esce anche lui. Parte a tutta velocità, corre in fretta Poletti, va dritto verso Electrocasa, lì, in periferia.
S’avventa come una furia sulla vetrina buia e ci si sbatte contro la testa frignando come un bambino.
Torna in macchina, apre il bagagliaio e veloce prende il crick e lo scaglia contro la vetrina. Scatta l’allarme ma
Poletti è lesto, prende e scappa.
tredici
txt Anna Puricella
del Paese ci aveva infatti ulteriormente spossato. Incroci di
viaggi, noi torniamo a Cracovia, finisce qua per adesso, la
Svezia ipocrita come una modella rifatta, da qualche parte
quella città una falla deve pure averla, ma non siamo riusciti
a trovarla, voi invece so che vi muovete ad Occidente,
Berlino, saluti alle corazze degli angeli, da qualche parte
vicino al Muro sono convinta che ne troverete qualcuna.
Dopo una lenta ripresa tornammo da Waldemar a chiedergli
in prestito le bici, a farlo ridere implorandolo di abbassare
le selle, troppo alte per noi italiani, e a perderci soddisfatti
per le strade della città, tra le bancarelle cariche di gioielli
d’ambra, i tavolini dei locali messi all’aperto, i turisti e le
mense per i poveri, realtà paradossale ma impossibile da
sradicare, squarcio di silenzio aperto sul passato. Ci saremmo
fermati incantati davanti alla cattedrale, immensa, tetra e
gotica, richiamati da un cupo suono d’organo e da canti
sacri, deviando poi per il lungomare, per il vecchio porto
e il pesce fritto che Pawel e sua moglie ti costringevano
a mangiare sul loro barcone, tra le risate provocate dal
solito menu incomprensibile e dalle gentili spiegazioni che il
gestore aveva tentato in un primo momento di offrirci, per
poi rassegnarsi con un sorriso comprensivo alla pigrizia delle
nostre orecchie.
Il mattino risuonavano ancora nella testa le profezie alcoliche
di Nancy della notte appena terminata, una volta tornata nel
tuo Paese ti rendi conto che tante cose cambiano, che tanta
gente è cambiata, impari prima ad apprezzare o disprezzare,
per poi capire che in fin dei conti quella che sei cambiata
sei tu, che hai spalancato gli occhi di fronte alle novità e non
vorresti più chiuderli; la stazione cominciava a riversare per le
strade i barboni che aveva maternamente tenuto al caldo
durante la notte, assonnati, silenziosi e sempre discreti, dando
loro il tempo di cestinare le bottiglie vuote e piegare con cura
i loro cartoni, mentre io chiedevo svogliatamente il biglietto di
ritorno.
coolibrì luglio-agosto 2005
Francesco Venditti
My sweet family
Manni editore
Confesso che non
sono del tutto alieno
ai pregiudizi. Quando
una persona non mi
sta simpatica a pelle
difficilmente riesco a
credere che possa
piacermi quello che
fa. Inutile dire che sono
felice quando i fatti mi
smentiscono e qualcuno
riesce a farmi cambiare
idea.
È il caso di questo libro,
scritto da un attore
più famoso forse per il
cognome ingombrante
che porta che per i film
che ha fatto, di cui il
più noto è sicuramente
Io no di Simona Izzo e
Ricky Tognazzi, film che
mi è rimasto impresso
esclusivamente per
l’interpretazione di
Tognazzi nella prima parte.
Comunque non è dei
film di Francesco Venditti
che parlo qui. Questo
suo esordio letterario
con My sweet family
uscito con Manni editore
ad aprile non ha avuto
forse il successo che ci si
aspettava visto l’autore e
vista l’indubbia qualità del
lavoro.
Dicevo che quando
qualcuno non mi sta
particolarmente simpatico
non riesco a credere
che mi possa piacere
quello che fa. Non mi
aspettavo molto da
questo libro, in realtà mi
aspettavo qualcosa di
completamente diverso
da quello che ho trovato.
È un libro duro, a tratti
fastidioso, per nulla facile
da leggere se per facile
da leggere intendiamo un
best seller con tematiche
post o preadolescenziali.
Una storia scura, anzi
nera, come l’incazzatura
continua del protagonista
Luca, che se la prende
con tutto e tutti in questa
sorta di viaggio avanti
e indietro fra le storie e
i personaggi della sua
famiglia, alla ricerca di
una rivincita con se stesso
e il suo passato.
Uno stile frammentato,
come il carattere del
protagonista, a tratti
poetico, a tratti filmico. Un
linguaggio scarno e duro,
gergale, sporco.
“Spengo la voce e lo
mando a a cagare.
Non sto bene.
Mi vedo brutto,
specchietto, forse sono
realmente brutto.
Nello stomaco l’alcool
ribolle. Milkshake di bile.
Metto la freccia.
Tic-tac-tic-tac.
Autogrill. Parcheggio.
Posto per gli handicappati
sempre libero.
Doppia fila”.
Dicevo che questo libro
non ha avuto grandissimo
successo. Forse il motivo
sta nel fatto che non è
storia facile, leggera, che
scende giù come una
sorsata d’acqua fresca.
È denso, compatto,
poco annacquato. Tutti
gli elementi per farne un
grande romanzo ci sono,
forse quello che manca
è un po’ di maturità
artistica all’autore ancora
giovane e alla sua prima
fatica letteraria, ma quello
che mi auguro è che lui
continui a scrivere e che
Manni riesca a trovare
ancora prodotti di qualità
come questo. Per il bene
suo e per il bene nostro.
Dario
quattordici
Chissà se Berlusconi sa
di avere inaugurato un
nuovo genere letterario.
Infatti il premier, e per
essere più precisi, il suo
omicidio, sembra ispirare
di più la fantasia dei
giovani scrittori. Gli ultimi in
ordine di tempo sono stati
quattro autori radunatisi
sotto l’etichetta Babette
Factory, con “2005 dopo
Cristo” (Einaudi). Gli autori
in questione sono il barese
Nicola Lagioia, Christian
Raimo, Francesco Pacifico
e Francesco Longo. Tutti
scrittori cresciuto all’interno
della casa editrice
romana Minimum Fax.
Ma nel tempo c’è stato
Andrea Salieri con il suo
“L’omicidio Berlusconi”
(Edizioni Clandestine),
Giuseppe Caruso con “Chi
ha ucciso Silvio Berlusconi”
(Ponte alle Grazie),
Oliviero Beha, “Sono
stato io” (Marco Tropea),
e Roberto Vacca “Kill?”
(Marsilio). Sembra che sia
pronta una sceneggiatura
per il cinema firmata
da Bernardo Carboni
intitolata “Shooting Silvio”.
In “2005 dopo Cristo”
un gruppo di giovani
rivoltosi imbevuti di miti
televisivi, due inquietanti
registe underground,
un killer senza arte né
parte, un conduttore di
successo sono scagliati
nel centro di una storia più
grande di loro. Romanzo
che possiede i ritmi
frenetici della migliore
cinematografia d’azione.
Il paragone con Wu
Ming, il collettivo di autori
bolognesi, è d’obbligo,
non solo per la logica dello
scrivere collettivo, ma
soprattutto per le tecniche
utilizzate per la resa della
storia, per l’utilizzo di
molteplici punti di vista, di
narrazione a più voci tutte
proiettate alla risoluzione
finale dell’intreccio
multiplo. Esperimento da
ripetere.
Rossano Astremo
Gianluca Gigliozzi
Nueropa
Luca Pensa Editore
“Neuropa” è un
esperimento folle e
ambizioso, libro-mondo,
forse irrisolto, che vorrebbe
dar corpo alla domanda: è
possibile vedere qualcosa
del nostro oscuro presente
indagando le sue radici
storiche? È dunque innanzi
tutto un viaggio comico
e stravolto nel Seicento e
Settecento alle origini del
pensiero scientifico e del
diritto moderno. Riprende
il tema archetipico della
ricerca del Padre, della
Legge, ma anche quello
della sua uccisione, di
una liberazione da ogni
principio precostituito.
Allo stesso tempo è un
libro che sbeffeggia una
tradizione tutta italiana
e libresca: quella dei
romanzi storici, con il loro
illusionismo coatto, con
la loro assurda pretesa di
far rivivere mondi perduti
per sempre. Sul piano
dello stile è una prova di
pirotecnica linguistica e
di libertà compositiva che
ha i suoi numi tutelari in
Sterne e Swift. Il suo modo
può essere definito come
cubismo istrionico perché
la teatralità barocca e
allucinata costituisce
il centro generatore
della sua visione sempre
alterata, sempre tesa
verso ciò che non ha
ancora forma. Gianluca
Gigliozzo è di L’Aquila. Il
suo è un esordio che è già
espressione di maturità
linguistica ed espressiva.
Per ogni informazione
sull’autore e sul romanzo
rivolgersi al blog
neuropa.splinder.com.
Rossano Astremo
coolibrì luglio-agosto 2005
Babette Factory
2005 dopo Cristo
Einaudi Stile Libero
quindici
a cura di Giancarlo De Cataldo
Crimini
Einaudi 2005
Cosa c’è di meglio di un
giallo sotto l’ombrellone? E
cosa c’è di meglio di una
raccolta di testi inediti di
alcuni dei migliori giallisti e
noiristi italiani? Ecco che
poco prima del caldo
afoso la Einaudi pubblica
questo Crimini a cura di
Giancarlo De Cataldo. Già
definito come le olimpiadi
del noir, il successo del
volume entra in scia al
più generale rilancio di un
genere considerato per
troppi anni di serie B o di
scarto. Poco letterario e
molto televisivo, snobbato
dalla critica, comunque il
giallo (o chiamatelo come
volete voi) negli ultimi anni
ha dato molte soddisfazioni
agli editori ma anche ai
lettori con prodotti sempre
più di qualità e storie
sempre più intrecciate e
coinvolgenti. Dai maestri
Gadda e Scerbanenco,
solo per citarne un paio, a
queste nuove generazioni
di pittori del crimine. Nel
volume, molto vario ed
eterogeneo, si passa dal
giovane (ma non troppo)
Niccolò Ammaniti al
vecchio saggio e best
seller Andrea Camilleri,
dal fuggiasco Massimo
Carlotto ai comici e
assassini di Sandrone
Dazieri, dallo scrittore e
sceneggiatore napoletano
Diego De Silva all’ex
comico, cantante e
presentatore Giorgio
Faletti, da Marcello Fois
all’onnipresente Carlo
Lucarelli. Una implacabile
fotografia del degrado
sociale e spirituale della
nostra Italia tra corruzione,
malavita, immigrazione
clandestina e ossessione
del successo.
Pierpaolo Lala
Fàbio Moon, Gabriel Bà
Ursula
Lain
Una grapich novel per
chi ama le storie è come
per un appassionato di
musica vedere il dvd di
un concerto bellissimo.
Unire immagini e
parole crea suggestioni
immediate,veicola
l’immaginario a trovare
risposta alla fantasia.
La storia raccontata e
disegnata in Ursula, dei
fratelli brasiliani Fabio Moon
e Gabriel Ba, edita da Lain
è una fiaba dolcissima.
Inno all’amore lungo una
vita, al bambino che è in
ognuno di noi e che mai ci
abbandona, ai sentimenti
capaci di superare
qualsiasi ostacolo questo
libro è una metafora dei
sogni che alla fine se ci
credi davvero si avverano.
Testi e matite ci immergono
in un mondo fantastico
dove le fate non possono
amare, gli uccelli possono
parlare, ci sono i draghi,
i re. Ma la fiaba è solo
uno dei modi per leggere
Ursula che è al contempo
poesia, tavola dal tratto
personale e suggestivo,
invito a non perdere mai
la speranza e a prendere
le cose con la semplicità e
la determinazione che solo
un bambino può avere.
Osvaldo
coolibrì luglio-agosto 2005
Franco Matteucci
Festa al blu di Prussia
Fazi Editore
Una villa cinquecentesca
fuori dal tempo, un
baobab maestoso e
spaesato strappato ai
rossi tramonti del Senegal,
una natura beffarda e
indifferente testimoni delle
strane vicende umane
che si consumano sul
suo sfondo. Questo il
contesto in cui la storia
prende il via, partendo
dall’organizzazione di una
spettacolare festa barocca
per celebrare la nascita
del primogenito, Manlio
jr, una festa per pochi
intimi nelle intenzioni del
padre, nobile e raffinato e
colto, che affida l’incarico
ad un architetto di grido
perché ricrei fedelmente
il settecentesco scenario
dei festeggiamenti in
onore della nascita del
“delfino” di Francia. La
televisione riprenderà
l’evento in diretta, per la
vanità di Tiziana, madre
del nascituro ed ex
modella, che sogna un
rientro memorabile nella
mondanità. Ma tutto si
complicherà terribilmente
in un crescendo di eventi
che sconvolgeranno per
sempre l’esistenza degli
abitanti di Villa Carobbi,
trascinandoli in un incubo
senza fine. Favola amara e
irriverente, scritta con stile
lieve ed ironico, Festa al blu
di Prussia trascina il lettore
in un mondo posticcio ed
ingannevole dal quale si
vorrebbe scappare, ma
sempre con il sorriso sulle
labbra.
Silvia Visconti
Valerio Marchi
Il derby del bambino morto
DeriveApprodi
Sembra un libro di cronaca
ma è molto di più. Il 21
marzo 2004 una partita
di calcio, una delle più
importanti e pericolose
del campionato italiano,
il derby della capitale
Roma-Lazio viene sospeso
per l’intervento dei tifosi.
Sulle gradinate si è sparsa
la voce che un bambino
è morto nel corso degli
scontri con la polizia.
Una voce incontrollata
che rimbalza di gradino
in gradino, di sedia in
sedia. Nonostante le
rassicurazione del prefetto
e delle forze dell’ordine la
partita non può continuare
con i giocatori sconvolti
e increduli. Ma Marchi
(e qui finisce la cronoca)
va oltre e delinea delle
raccapriccianti somiglianze
nel comportamento
delle forze dell’ordine per
“placare la situazione”
con le maniere adottate
a Genova e in altre
circostanze. Un libro ben
documentato che suscita
riflessioni e ripensamenti
rispetto a molte immagini
viste in tv.
Pierpaolo Lala
sedici
Melissa P.
L’odore del tuo respiro
Fazi Editore
“Se lo conosci lo eviti”
diceva qualche anno fa
la pubblicità progresso
sull’Aids. Una perfetta
sintesi per commentare
il nuovo libro scandalo
della giovanissima scrittrice
catanese che passerà
alla storia della “non
letteratura italiana” con
il nome di Melissa P. Il suo
primo romanzo Cento
colpi di spazzola prima
di andare a dormire è
stato un caso editoriale
(come dieci anni fa il va
dove di porta il cuore
della Tamaro). Tra poco
uscirà anche il film, girato
interamente a Lecce, che
si preannuncia abbastanza
piccante (altro che Alvaro
Vitali e le giovannone
coscelunghe). Questo
L’odore del tuo respiro è
un libro “perfetto”. Giusto
numero di pagine, meno di
150, che non spaventano
l’acquirente e il lettore.
Scrittura agile ma non
troppo sgangherata, storia
abbastanza striminzita ma
con quelle trovate un po’
così che ti fanno pensare
che forse quella frase
voleva dire qualcos’altro. E
poi c’è dentro l’esperienza
pregressa, l’autobiografia
di una ragazzina lanciata
nel gossip per le porcate
raccontate nel libro
(che poi si sa che siamo
tutti guardoni, spioni e
un po’ maiali). “Non sei
innamorata di un altro,
sei innamorata del tuo
successo e credi che io
sia un povero sfigato che
non riesce a soddisfare
appieno i tuoi capricci”, le
viene detto da un ragazzo.
Successo o non successo
“Mellissa P2 la vendetta”
è buono da vendere,
è buono da leggere
ed infatti è in classifica
(insieme ai cento colpi
rilanciati per l’occasione)
e tanto di cappello
all’editrice Fazi che ha
scommesso su questa
autrice.
Pierpaolo Lala
Il libro è come un ghiacciolo…
ce n’è per tutti i gusti
(anonimo cinese)
Andrea Camilleri La luna di carta Sellerio
Maurizio Maggiani Il viaggiatore notturno Feltrinelli
Nick Hornby Non buttiamoci giù Guanda
Stefano Benni Margherita Dolcevita Feltrinelli
Beppe Severgnini La testa degli italiani. Una visita guidata
Rizzoli
Magdi Allam Vincere la paura. La mia vita contro il
terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente
Mondadori
Woody Allen Io, Woody e Allen. Un regista si racconta
Minimum fax
Cesare Battisti Travestito da uomo DeriveApprodi
Osvaldo Capraro Né padri né figli E/o edizioni
Vindice Lecis Togliatti deve morire. Il luglio rosso della
democrazia Robin
Boris Vian Sputerò sulle vostre tombe Marcos y Marcos
Gianluca Morozzi L’era del porco Guanda
Gianni Celati Fata morgana Feltrinelli
Mariangela Mianiti Una notte da entraineuse
Deriveapprodi
Massimo Loche Lo scottante problema delle caldarroste
Manni
Julie Myerson Può sempre succedere Einaudi
Simon Kuper Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la
Shoah Isbn edizioni
Vittorio Giacopini Al posto della libertà. Breve storia di
John Coltrane E/o edizioni