Untitled - CoolClub
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coolibrì luglio-agosto 2005 Avrei fatto la doccia, e sarei andato dalla mia ragazza, senza traumi e senza vittorie. Volevo riempirmi di strada, di nulla, del pensiero che fissa dei dettagli senza venirne a capo. due txt Toni Sozzo PER FAVORE, FATE PIANO Dovevo uscire da quella casa. Solo gli occhi del mio gatto non tentavano di incendiarmi. E solo perché era troppo pigro. Non andava nemmeno a caccia di topi morti. Rimaneva nel suo sonno, immobile, invidiabile. Non ero come lui. Faceva caldo. Erano le quattro del pomeriggio. La mia strada era un forno a manovella. Avrei voluto avere un po’ più di forze. Ero debole e inadatto a simili tenzoni. Sudavo ed avevo dei pantaloncini di cinque anni prima. Era da un po’ che mi sentivo sempre fuori posto. Anche in macchina con gli amici. Stavo seduto e non capivo se dovessi andarmi a stendere sul cruscotto. Ero l’errore da trovare in quei giochetti da Settimana Enigmistica. Il classico pinguino nella Savana. E non c’era mai nessuno che mi passasse un ghiacciolo. Tutto quel sole non doveva farmi bene. Avevo un amico che lavorava a quelle temperature. Saliva sui tetti e li riempiva di tegole. Un giorno mi aveva chiesto se volessi lavorare con lui, ma ho rifiutato. A quel punto meglio fare il trapezista. Anche se mi affascinava avere a che fare solo con il crudo lavoro. Sono riuscito a pentirmi della mia mossa dopo trenta metri. Ormai era tardi. Non potevo deludere mamma e ritornare. Per dispetto si sarebbe messa a lavare a terra il corridoio tutte le volte che dovevo andare al bagno. Mi sono trovato da solo col solleone. Avevo dei problemi a trionfare persino con l’ombra. Neanche i cani se ne andavano in giro con quelle condizioni. Forse piangevano per non poter avere un condizionatore per la loro specie. L’aria condizionata spopolava. Ma non era solo l’aria ad essere condizionata. Le strade vicino casa non cambiavano mai tanto da farmi sbalordire. Al massimo si poteva trovare il segnale di dare la precedenza a qualche incrocio rimasto ambiguo fin troppo a lungo. La sera prima mi ero trovato in mezzo a dei giovani tanto impegnati. Volevano fare qualcosa di intelligente a tutti i costi. Chi scriveva statuti pieni di valori, chi cercava di creare un cortometraggio. Io mi sono grattato, e mi sono vergognato un po’. Ci ospitava una signora che aveva arredato personalmente la sua casa. Ne era orgogliosa. Io ero spettinato. Credo che lei pensasse che non meritassi di sedermi su una delle sue sedie a tre zampe. Avevo una maglietta insulsa e non facevo mai una smorfia. Abbassavo il livello. Anche ad essere stato intelligente, non me lo meritavo. Cosa me ne veniva di sudare da solo nel mio paese disadattato? Non riuscivo neanche più a far uscire dagli angoli i soliti ricordi, sempre gli stessi. Quella volta che avevo in mano due buste piene di Piccolo Ranger. Non sarei riuscito a prendermi nulla di buono. Continuavo ad avanzare. Avrebbero fatto a gara per darmi del coglione. Ed io non potevo neanche addormentarmi. Stendermi su un materassino schivando le alghe sminuzzate, tritate come prezzemolo. Il mare era ad una ventina di chilometri, assolato, come piaceva a me. Avrei sognato fino alla tomba di rotolarmi nell’acqua calda per tre mesi di fila. La tappa più probabile del mio vagabondare era la casa di un mio vecchio amico d’infanzia. Sarei ritornato ad essere un po’ sensato. Al mio pigiare sul campanello è comparsa sua madre. Subito. Non mi è piaciuto non tre confuso non sapeva dove accamparsi. Non mi sentivo nemmeno comodo. Appena sono entrato i finestrini si sono chiusi e l’aria condizionata ha cominciato ad invadere il mio spazio vitale. Il mio amico senza dare troppo peso alle mie orbite fuori dalla norma ha detto che non sarebbe sopravvissuto un’estate senza l’aria condizionata. Era una confidenza non richiesta, nemmeno una giustificazione. Il mio precedente impulso a fuggire quando mi trovavo sulla terra ferma aveva ragione. L’unica mia speranza era che non ci mettesse molto ad arrivare a destinazione. Ma non avevo speranze neanche da quel punto di vista. Si sarebbe goduto la mia cattività fino all’ultima goccia. Deve averlo fatto apposta. I suoi discorsi si sono concentrati sul futuro dell’associazione, la sua creatura. Il nostro paese ha bisogno di iniziative culturali, ha buttato fuori nell’aria rinfrescata. Una cosa del genere deve averla detta anche Andreotti. Io non volevo cominciare i miei discorsi. Mi guardavo intorno stordito da tutti quei bottoni che avevo di fronte. E da quella faccia che mi ricordava la scuola, il greco, l’ora di educazione fisica, le belle ragazze che era arduo raggiungere, le sere rimpicciolite da uno studio che mi faceva dolore, sul momento. Gli ho domandato di quegli anni. Il suo sguardo è stato duro, quasi un rimprovero senza attenuanti. A lui non importava del passato. Doveva sistemarsi. Doveva sapersi sistemare. Doveva pensare a come avere i soldi per circondarsi da prato inglese. Lui leggeva Diabolik in bagno, dopo i compiti. Me lo aveva detto, ed io me lo ero immaginato. Adesso non più. Stringeva mano ed accalappiava consensi. E salutava solo se conveniva. Fumava, anche. Come se solo a lui non facesse male. Gli ho detto di lasciarmi andare. Non avevamo fatto che qualche centinaio di metri. Lui aveva ancora le sue solite paroline, ma io questa volta ho aperto lo sportello. Non avrebbe rischiato il volto della sua giunonica macchina targata Armani. Sono riuscito ad uscire da quel luogo privilegiato. L’unico rimpianto non essermi fatto addosso su quel sedile spropositato. Mi sono sentito invincibile. Sarebbe durato dai venti ai trenta secondi. Lui mi ha consigliato di cambiare, ma non ci credeva neanche lui. Lui non credeva più a nulla. E non leggeva più Diabolik dopo essersi abbuffato di Storia Romana. Non c’era più gusto ad immaginarmelo quando andava in bagno. Mi sono trovato abbastanza lontano da casa. I piedi mi sudavano come nelle loro peggiori abitudini. Mi scivolavano nei sandali. L’altrui gente era intenta al lavoro e a tutti i suoi riti sconsacrati. La strada era piena di macchine parcheggiate male. Meglio arrivare quanto prima all’obiettivo. È quello che capivo da quelle lamiere scomposte. La sera dovevo andare dalla mia ragazza. Mi tranquillizzava conoscere tanto bene una strada. Sempre la stessa, con quel tale semaforo e quella tale curva. Sapevo dove accelerare e dove frenare. Sapevo quanti minuti ci volessero per arrivare a parcheggiare. Parcheggiare dove c’era tanto posto. Non come a Lecce che devi pagare, e che non si paga solo dove c’è divieto di sosta o un passo carrabile. Non come a Lecce che devi parcheggiare in periferia se sei un morto di fame. Era più sopportabile vagare. Avevo detto di no ad una parte di quello che non mi piaceva. Non come quella volta che mi presentai a casa di un tipo che non faceva altro che darmi consigli. La sua canotta era larga e di un colore che non mi piaceva. Intorno aveva la sua televisione, la sua stiratrice. Là la madre gli aveva stirato le camicie per i giorni importanti. Per il suo giorno di laurea, per il suo primo appuntamento. Quel giorno non ero stato tanto bravo a dire di no. Mi ero portato nel suo mondo per sentire quello che mi doveva dire, quello che mi poteva dire. E lui mi aveva consigliato di entrare in mezzo alle file di qualcosa che si muoveva nel paese. Mi voleva al suo fianco nel conquistare i posti cardine della politica da quattro soldi di un paese qualunque. Io non volevo rispondere nulla. Solo sentirlo parlare, in mezzo alla sua televisione e alla sua stiratrice. Volevo capire quanto fosse bravo ad aggiustare i suoi comportamenti per farsi aiutare dalla politica. E quanto io fossi un uomo senza qualità, un inetto, un omuncolo, un idiota. Un uomo di pena. Ero un momento dell’estate in cui quel giorno si sarebbe mosso a fluire, tranquillo. Il tempo è fatto così, non fa coolibrì luglio-agosto 2005 aspettare un po’. Non mi sembrava cambiata dai tempi delle Medie. I capelli forse si erano diradati, ed erano tinti con maggiore forza. Mi ha detto che non c’era, e che io lo sapevo. Già, lo sapevo. Era nella mia personalità non approfittare delle mie conoscenze. Il mio amico si trovava a catalogare archivi gratis. Ed era considerata una fortuna un po’ da tutti. Per sei mesi avrebbe avuto un ruolo, senza dover passare almeno un paio d’ore a fissare un lampadario con delle palle brutte esteticamente. Non era come me che perdevo il mio tempo. Che non ero né ingranaggio né motorino né il tale che si fotte tutto. Senza arte né parte. Mi sono allontanato con lo sguardo dubbioso della signora. Forse pensava che non avrei raggiunto casa. Di preoccuparsi non si preoccupava. Davanti a me avevo case allineate che tra qualche ora si sarebbero arricchite di vecchie attaccate alle proprie sedie come dentiere con la colla migliore sul mercato. Era meglio passare ora. Con loro presenti avrei fatto la figura del drogato. I piedi non si usavano più per camminare. Ultimamente solo per ragionare. Forse avrei dovuto anche pagare una multa. Non stava bene agire come non se lo aspettava nessuno. Anche io le volte che vedevo qualcuno andarsene in giro senza consumare benzina pensavo stesse passando qualche momento. Da qualche giorno i pensieri della mia inadeguatezza mi stavano sommergendo. La notte dormivo, ma quando mi svegliavo cominciava l’incubo. Ero nato in un mondo che non mi voleva. Sapeva andare in malora da solo. Tutte le mie belle idee, che mi avrebbero fatto fucilare ai tempi del fascismo, erano un lusso che non mi potevo più permettere. Il mondo era sempre in piena estate. Le chiacchiere da spiaggia erano ovunque. L’Università, il centro del sapere, non sapeva più di nulla. I docenti erano tanti burocrati che cercavano di non bruciarsi con il loro potere. Io intanto mi sentivo un esiliato esistenziale. La mia terra era quel sole in testa. Ed una fine molto più dolorosa del mio vagare senza un risultato. Mia zia non mi stimava più da anni. Quando andavo a casa sua mi faceva pagare un pedaggio. Mi gustavo benissimo la mia carenza di prestigio. La sorseggiavo fino a strozzarmi. Ho sentito una macchina avvicinarsi. Era di quelle macchine che si possono parcheggiare solo nei viali perché nelle strade normali non entrano. Era un mio ex-compagno di liceo. Voleva darmi un passaggio a tutti i costi. Il suo sorriso stagnava ad un metro. Non mi avrebbe fatto andare via. Per lui era come salvarmi da una fine certa. Giorni prima mi aveva convocato per creare un’associazione socioculturale. All’inizio era stato un vorticare di belle parole e, nonostante avessi ancora seri problemi di sopravvivenza materiale, ero stato tentato di farne parte. Poi i loro discorsi limitati e privi di quello che cercavo mi avevano portato ad allontanarmi da loro. Ero troppo onesto per dividere il mio tempo con sciocchi che usavano la cultura come elmo, spada, spezzato e anello da un sacco di carati. Quel mio snobismo non gli era piaciuto. Mi ha proposto di andare con lui in un paese vicino. Stavano organizzando un concerto e doveva parlare con certe persone. Me lo ha detto come se dovessi divulgarlo a qualche organo di stampa. Io non ci volevo andare. La sua faccia era troppo soddisfatta e sicura per farmi fare quattro risate. Lui ha insistito quando io dovevo ancora ribattere. Non ero che in trappola. Alla fine a casa non avevo urgenze. Così sono salito. Il sedile della macchina era il doppio del sedile della mia. Il mio sedere coolibrì luglio-agosto 2005 troppi problemi. Basta non fargli troppe domande. Basta non andargli a chiedere perché fa così o perché fa cosà. L’importante è non farlo diventare una bestia con delle domande stupide. Mio padre non sarebbe stato contento di me nel vedermi buttato da una strada all’altra di un paese che dicevo di non amare. Proprio quando Bush chiudeva gli occhi di molta parte del mondo. Proprio quando il Campionato era fermo e il Milan non capiva come era potuto accadere che in sei minuti avesse preso tre gol dal Liverpool. Lui, mio padre, non era contento di vedermi tanto incorruttibile, retto. Se avesse studiato m’avrebbe paragonato al vecchio Catone. Proprio a chi non avrei sopportato. Un vivente del bel mondo m’avrebbe sputato a trovarmi coinvolto tra i segnali comuni di Carmiano. Carmiano non sa quanto non conti. Aveva delle belle strade chiuse, e forse ce le aveva ancora. Per molti è un modo per rimanere buttato nella massa ottusa del Sud. Un mio amico è andato a lavorare su. Al cellulare mi parlava del suo lavoro soddisfacente, dei suoi programmi ben strutturati. Qualche anno su per acquisire le competenze che gli permetteranno di ritornare di nuovo a casa e fare un lavoro soddisfacente. Io non riesco ad avere quel genere di lucidità. Mi vedo coinvolto nei miei continui rifiuti di dare tutto il meglio di me nel lavoro. Vorrei dare tutto il meglio di me nello scrivere un capolavoro assoluto della letteratura, nell’organizzare al meglio un’orgia in cui ci sia una minoranza maschile, nel buttarmi nell’erba a dormire. Non ho voglia di cercare di comprarmi una macchina tutta per me. Farei subito un incidente, andando per sbaglio in senso vietato, e facendomi fregare l’autoradio da quello che mi doveva fare da testimone. Il mio amico, ex compagno di classe, avrebbe fatto strada nell’ambiente che lo meritava. Ne ero sicuro. La gente fa strada negli ambienti in cui è fatto per fare strada. Io potrei essere un grande vagabondo. Un barbone. Però con un certo stile, e con delle competenze. Un vero distinto barbone, acculturato nella storia dell’elemosina e del mendicaggio, simpatico intrattenitore di gente per strada, conoscitore del grado di umidità notturna che può stramazzarti. Sarei libero, perdente squisitamente, con dei libri insudiciati nello zaino, pronto ad affrontare un’influenza all’aperto, al vento, senza una minima protezione, senza una mamma che ti prepari una spremuta d’arancia. Ho deciso di non tornare a casa prima di sera. Non se ne sarebbe accorto nessuno. Avrei fatto la doccia, e sarei andato dalla mia ragazza, senza traumi e senza vittorie. Volevo riempirmi di strada, di nulla, del pensiero che fissa dei dettagli senza venirne a capo. Come quelli del nouveau roman, che fotografavano gli oggetti, li facevano diventare i protagonisti di tutto, nel loro mutismo. Una penna, una pera, una strada grigia tra altre strade. Un’ennesima macchia d’olio a terra, sull’asfalto. Un’insegna trascurata che fa comunque bene il suo dovere, che non ha bisogno di essere riparata. Oggetti, duri materiali, fatti piccoli ed insignificanti. Tutto quello che il mondo poteva darmi di bello ed appagante. Gli uomini mi avevano stancato. Non erano neanche capaci di togliersi di mezzo. Mormoravano, si rincorrevano, ruttavano forte. Ruttavano forte. Sono arrivato vicino alla stazione. Davanti agli uffici c’era uno spiazzo con un palo della luce al centro. Più in là il motivo per cui mi ero trovato lì. Vagoni abbandonati di vecchi treni. Tanti anni fa venni qui con il mio motorino fuori moda. Era una domenica mattina. Faceva un freddo accettabile. Le chiome di alti alberi stormivano al forte vento. Forte, tanto che per strada non riuscivo a dimenticare quei suoni. Quelle mischie di foglie agonizzanti mi avevano colpito. Quel fruscio continuo e devastante, promessa di spiriti nella Natura. Faceva caldo su quello spiazzo. Prima di arrivare ho visto lo studio del mio vecchio medico di famiglia. Ai tempi aveva un pastore tedesco nel giardino intorno. Io avevo paura ad avvicinarmi alla ringhiera. Avevo paura della ringhiera. Una volta ci andai perché mi aveva punto un insetto che non aveva avuto il coraggio di farsi vedere. Non avevo bisogno del futuro. Basta non dimenticarmi di troppe cose. Ero ai margini del mio paese. Lì le macchine quattro arrivavano solo per dei motivi validi. Non passavano. Nessuno notava quei vagoni di sfuggita. Doveva venirci apposta come avevo fatto io. Doveva essere reduce dalla faccia sporca del suo tempo, da tutte quelle ore morte, che arrossiscono il collo. E può darsi che qualcuno venisse, ancora incravattato da un lavoro che non gli piaceva affatto, con il retrogusto scaduto di un caffè offerto da un cliente coglione. Ci saremmo seduti a terra a guardarci intorno. Non è arrivato nessuno. Un vento leggero mi aiutava a respirare. Mancava poco a ritornare ai miei limiti, ai miei percorsi quotidiani con il sottofondo di telegiornali fatti per far capire tutt’altro. Però prima di andare via volevo avvicinarmi a quegli scarti. Quel regno era tutto mio. Non c’erano drink da consumare, bancomat da inserire per ogni nonnulla. Mi piaceva succhiare le cose abbandonate. Su quei vagoni da adolescente ero venuto insieme ad un amico a fare delle fotografie particolari. In una facevo la parte di una spia in missione che deve entrare dentro il treno dal finestrino. Avevo la speranza che quel vagone si trovasse ancora là. Non si sentivano rumori. Non arrivava nulla. I vagoni invecchiavano gradualmente. Si staccavano i pezzi giusti, quelli che si dovevano staccare. Non c’erano forzature. Non avevo più voglia di tornare da dove ero venuto. Ero pronto a rimanere lì fino a quando non avessi avuto paura per la mia vita. Ma non avrei potuto farlo. Qualcuno mi avrebbe visto, mi avrebbe detto che ero impazzito, avrebbe chiamato qualcuno e mi avrebbero identificato. Quel mio ex compagno magari, con la sua testa che va di qua e di là facendo capire che sapeva come sarebbe andata a finire. Il sole era tramontato. Avevo degli impegni. C’era da fare tardi con la mia ragazza. Nessuno era stato presente al mio momento. Dovevo sforzarmi di non scordarlo. Il caldo mi convinceva che il Salento era la terra di storie con gente scalza che si accoppia nell’afa estiva. Senza macchine, Internet, discorsi intermedi di ordinaria piccolezza. Senza tutti quei pesi che erano arrivati negli ultimi anni, l’immaginario collettivo monopolizzato dalla tv, il pensare alla differenza tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato. Ero in ritardo. C’erano almeno due chilometri tra me e la mia doccia. Con la sera ritornavo ad essere uno dei tanti. Avevo almeno quattro ore di altro. Parole in mezzo agli amici, momenti d’indecisione, e una notte da passare al caldo. Il giorno dopo ci sarebbe stata ancora la mia vita da sviluppare prima che scadesse il mio mandato. Si sapeva. I miei vagoni, i miei rifiuti mi sarebbero venuti incontro qualche altra volta, sparsi nella mente. Avrei sorriso senza conseguenze, felice di avere certi amici. C’erano gli scooter con addosso adolescenti. Sulla strada del ritorno mi passavano accanto con la loro voce rauca. Uscivano a svolazzare allo stesso orario dei pipistrelli. Anche loro inconsapevoli, superficiali, tristi. Giovani per diventare vecchi, almeno adulti, indirizzati da qualche parte. Mi sentivo a disagio, pronto ad abbandonare tutto per un po’ di ingenuità. Persino di bontà. Ero un Tolstoj provinciale in procinto di uscire fuori dal mercato. Ho rivisto il mio amico nella sua macchina. Aveva un’andatura decisa. Non sarebbe mai andato a sbattere. Poteva solo impiegarci un po’ più tempo. Ero io a sbattere sui vetri, anche su quelli non miei. txt Dario Goffredo cinque L’OPINIONE DEI PADRI È QUELLA CHE CONTA Agli uomini nudi impiccati lungo le pareti laterali dell’androne ormai ci aveva fatto il callo. Non li guardava neanche più, passava veloce, con la testa bassa, tanto li conosceva a memoria. Conosceva tutte le differenze fra i vari corpi, conosceva l’odore nauseabondo che emanavano, conosceva le macchie giallastre di liquidi corporei che si erano seccate sul pavimento. Conosceva ogni centimetro di pelle di quelli uomini, i loro membri flaccidi, i loro scroti pendenti, il loro colorito grigiastro. Li aveva guardati mille volte, si era soffermato a lungo di fronte a ognuno di loro, a quello magro, con le costole sporgenti e il ventre rilasciato, a quello grasso, con la pancia che gli copriva il pisello e le pieghe sotto le ginocchia, all’ex culturista ormai non più aitante e sexy. Conosceva ogni pietra di quei muri spessi e alti, le catene che sporgevano, i grossi anelli di metallo e, più in alto, le sbarre di ferro da cui penzolavano i corpi senza vita di quei poveracci. In questa prima stanza il silenzio era irreale, non si sentiva nulla, solo i suoi passi morbidi sulle suole di gomma delle scarpe da ginnastica che indossava ormai da sempre. Nella seconda stanza, quadrata e più piccola della prima, lo spettacolo non era meno scioccante del precedente. Dal soffitto pendevano delle gabbie di metallo. E dentro le gabbie corpi di donna, alcuni vivi, altri no, ma distinguere non era facile. Braccia o gambe pendevano dalle gabbie e si tendevano in spasmi feroci, dolori che arrivavano da dentro, da troppo in fondo per capire da dove. Qui il suono era la cosa più tremenda, oltre all’odore di escrementi, ma all’odore ci si abitua, ce lo si tiene dentro, non va più via e alla fine lo si dimentica. Il suono, invece, ogni volta lo colpiva come la prima volta. Rantoli lenti e lunghi, mozziconi di fiato che stentavano a uscire dalle bocche semichiuse, in alcuni casi urla stridule e acute, che facevano venire il vomito a sentirle. Al centro di quella stanza c’era una vasca circolare piena d’acqua con delle catene attaccate ai bordi. Le catene avevano degli anelli all’estremità che penzolavano nell’acqua. Una volta vide una ragazza incatenata nella vasca che veniva tirata sul fondo da un sistema di pesi e carrucole. Quando era quasi sul punto di affogare veniva tirata fuori. Una variante prevedeva che la ragazza venisse violentata ripetutamente da oggetti di diverse dimensioni. Impossibile descrivere lo strazio provocato dalla visione del suo volto segnato dal dolore. Ma la parte peggiore dell’incubo, quella a cui non sarebbe mai riuscito ad abituarsi era quando entrava nell’ultima stanza. Era piccola e buia. Alle pareti c’erano dei lunghi drappi rossi che scendevano dal soffitto e candelabri alti e stretti con in cima grossi ceri che la illuminavano. Al centro della stanza c’era una grossa sedia in legno scuro. Su quella sedia c’era seduta Nora, la sua fidanzata, completamente nuda. Due anelli le bucavano i capezzoli. A questi anelli erano appesi due pesi che le tiravano giù i seni che penzolavano come due mozzarelle bianche e gocciolanti. Lungo i seni c’erano attaccate delle mollette da bucato. Lo spettacolo non era dei più gradevoli. Nella bocca spalancata Nora aveva una palla di plastica legata intorno al viso con una stringa di cuoio. Aveva i capelli bagnati dal sudore e negli occhi un’espressione di puro terrore. Su tutto il corpo aveva delle macchie di cera colorata, segno che qualcuno le aveva sciolto addosso delle candele. Era seduta in una posizione oscena. Aveva le gambe completamente divaricate, le caviglie legate strette alle gambe della sedia, che mostravano apertamente la fica che le era stata depilata. A terra, intorno a lei, c’erano vari strumenti di tortura, fruste e frustini, falli di plastica e vetro, vibratori di diverse misure e altre oscenità del genere. In un angolo della stanza, seduto su una sedia, che riposava sonnecchiando, c’era il padre di Carlo. Indossava un camice da macellaio, sporco e imbrattato del sangue di Nora. Ogni volta che provava ad avvicinarsi a lei per cercare di liberarla e di restituirle la dignità, Carlo si svegliava di soprassalto madido di sudore. Si alzò dal letto barcollando, e si diresse in cucina a bere un bicchiere d’acqua, la bocca secchissima. In cucina trovò Nora che indossava un paio di pantaloncini e una canottiera di quelle di Carlo. Carlo era ancora scosso dall’incubo. “Ho fatto di nuovo quel sogno” le disse. Lei si voltò e gli sorrise: “Ti preparo il caffé” gli disse “Ti sentirai meglio. Lo sai che ore sono?” coolibrì luglio-agosto 2005 La sua Nora era in uno stato sempre più degradato. Ma la cosa più assurda era che più lui la sognava in quelle condizioni e più la desiderava, e la desiderava così come la vedeva nei sogni. coolibrì luglio-agosto 2005 “No” disse lui, mentre beveva a lunghi sorsi direttamente dalla bottiglia dell’acqua. “Sono le dieci e mezzo, quasi, dovresti vergognarti”. “Ho rifatto di nuovo quel sogno” disse di nuovo Carlo. “E dovresti anche smetterla di dare peso a quei sogni stupidi”. “Stavolta era terribile Nora. Tu non hai idea in che stato ti ho trovato stavolta”. “Adesso smettila Carlo. Smettila davvero, lo sai che mi dà fastidio. Un casino fastidio tutta questa storia!”. Lui si accese una sigaretta e bevve il caffé che Nora gli aveva portato. Nora non capiva, non poteva capire, che quei sogni dovevano voler dire qualcosa. Era assurdo, gli faceva quasi ogni notte. E ogni volta era sempre peggio, la sua Nora era in uno stato sempre più degradato. Ma la cosa più assurda era che più lui la sognava in quelle condizioni e più la desiderava, e la desiderava così come la vedeva nei sogni. Voleva farle male, voleva vederla piangere di dolore, voleva legarla, frustarla, ma ovviamente lei non glielo avrebbe permesso, lo avrebbe lasciato per una cosa del genere. Nora finì di preparargli la colazione e disse: “Ora esco un po’. Tu sai tranquillo, cerca di calmarti”. I padri non sbagliano mai. I padri hanno sempre ragione. I padri difficilmente perdonano. Ai padri non si perdona. Ai padri non si rinfacciano gli errori e gli sbagli. Le madri sbagliano e poi le si prende in giro tutti insieme intorno alla tavola per i loro sbagli. Ma le madri non ridono. Le madri non partecipano allo scherzo. I padri non piangono mai. I padri hanno sempre una loro opinione. Ed è diversa dalla tua. I padri bisogna deriderli, sconfessarli, svergognarli. Un’ora più tardi Nora rientrò in casa. Carlo era seduto davanti al computer, internet, siti porno, siti sadomaso. Era un’ossessione che non riusciva a togliersi dalla testa. Chiuse in fretta le finestre dei siti porno e spense il pc. “Che fai?” gli chiese Nora. “Niente, passavo il tempo. Dove sei stata?” Nora aveva delle buste che sembravano puttosto pesanti, e tra le altre ne spiccava una di una ferramenta. “A fare un po’ di spesa, ho preso delle cose che ti piaceranno”. Un paio d’ore dopo, Carlo sciolse i nodi che stringevano i polsi di Nora alla sedia dello studio. Si piegò a slegarle anche le caviglie. Lei piangeva silenziosamente. Le aveva fatto male, era andato giù pesante, più di quanto in realtà voleva forse, ma aveva perso il controllo ad un certo punto, non riusciva più a fermarsi, la sua fantasia continuava a suggerigl nuove piccole sevizie a cui sottoporla. Aveva provato un gran piacere, Carlo, più di quello si sarebbe aspettato, e alla fine non era riuscito a trattenersi dal lasciare andare tutto il suo piacere sul viso di lei. La corda aveva lasciato dei segni profondi e rossi che cominciavano a gonfiarsi. Carlo mise un po’ di hirudoid sei intorno alle caviglie e ai polsi di Nora, le portò dei fazzoletti per ripulirsi il viso e dell’alcool per disinfettarle le ferite che le aveva fatto sulla schiena, sulle gambe e sul torace. Sui seni le mise del ghiaccio perché non si gonfiassero troppo, soprattutto i capezzoli, sui quali poi le mise anche della pomata disinfettante perché non si infettassero. Raccolse da terra le mollette di legno del bucato e le mise in un cestino di vimini, che portò sul terrazzino, poi la accompagnò, che lei zoppicava, sotto la doccia dove la lavò delicatamente, per non farle male. Lei continuava a piangere, non riusciva a smettere, neanche ora, neanche mentre lui la ripuliva piano sotto la doccia, neanche mentre la insaponava e poi la risciacquava, con l’acqua fredda, per lavare via tutto. Sempre piangendo, Nora uscì dalla doccia, indossò una minigonna nera e una maglietta gialla con le maniche lunghe e il cappuccio e mentre Carlo la guardava senza riuscire a dire niente per fermarla, riempì una borsa con alcune delle sue cose. Poi, senza guardare Carlo negli occhi, gli chiese un fazzoletto, ed era la prima cosa che diceva da due ore. Carlo continuava a guardarla in silenzio. In viso non le aveva lascciato segni, ma sulle gambe lasciate scoperte dalla gonna, soprattutto sulle caviglie, era evidente quello che era successo poco prima. Nora prese i suoi occhiali da sole, scansando visibilmente le chiavi di casa ed uscì per l’ultima volta dall’appartamento di Carlo. Carlo, lui smise di fare quelli incubi con suo padre e Nora. I padri hanno fatto prima di te quello che ora fai tu. I padri fanno ora quello che tu farai domani. I padri hanno sempre un’opinione. Che prima o poi avrai anche tu. I padri bisogna perdonarli. coolibrì luglio-agosto 2005 SOLO IL NIPOTE CAPISCE LO ZIO Che fai zio? txt Osvaldo Piliego Vieni qui Vincenzo, stenditi… Erano giorni che non si muoveva da quella posizione, steso sul letto a pancia in su fissava per ore il soffitto, a stento mangiava. Lì immobile con un sorriso accennato, come quello del quadro famoso, e io che mi chiedevo cosa ci fosse di tanto interessante in tutto quel bianco. -Che guardi zio? anzi undici ‘chè uno non è sposato, cioè si stava per sposare -Tu cosa vedi? e poi lei è sparita da un giorno all’altro. Più o meno ogni -Il soffitto. famiglia di due ha fatto tre figli. A conti fatti, perché alcuni -No Vincenzo, non devi guardare e basta, pensa forte a una cugini più grandi le vacanze le fanno da soli in Grecia perché cosa bella, a un desiderio e vedi che compare. è di moda e costa poco se prendi il traghetto e poi affitti gli Mi sforzo come se dovessi guardare oltre il cemento, come scooter per girarti le isole, siamo 24 cugini. Lo zio Rocco dice Superman, quello dei fumetti e del film alla televisione, e lo che possiamo fare una bella squadra di calcio mista maschi vedo. e femmine con tanto di panchina lunga. La casa è bellissima, Finale dei mondiali 82 e io che segno tutti i goal, pure quelli ha le volte come stelle e noi piccoli siamo sistemati in due avversari, vedo la ragazza della quarta F che mi offre la sua stanze. Come le camerate delle colonie, come quando merendina e mi chiede se da quel giorno in poi possiamo andai in Calabria con la chiesa e in stanza eravamo otto e tenerci per mano e dire di essere ufficialmente fidanzati, le nessuno ha mai capito chi scoreggiava come un pazzo tutta nostre due figure di spalle si allontanano verso il sole e io c’ho la notte. I maschi divisi dalle femmine, ma tanto noi poi le ancora su la maglia numero 10. Questo vedo. spiavamo dalla serratura quando si mettevano il costume E tu cosa vedi zio? anche se a me mi faceva strano perché vedevo pure le mie Il mare. sorelle nude e so che non si fa. Come il mare? Ma se basta che ti affacci alla finestra per Noi piccoli ci si divertiva tantissimo, la notte quasi non vederlo il mare, è qui di fronte zio tutto il mare che desideri. dormivamo a parlare in continuazione, a raccontarci tutto quello che avevamo visto sui giornali che lo zio Nicola teneva Ogni estate io e tutta la mia famiglia veniamo qui a Santa nascosti dietro la poltrona. Francesco ne aveva rubato uno. Cesarea. C’abbiamo una casa che il nonno ci ha lasciato A un certo punto una delle donne nude stese sui divani, storte quando è morto. Fanno una cosa allucinante i nonni quando tra le lenzuola, scomode secondo noi in alcune posizioni, muoiono, lasciano di tutto quello che hanno accumulato in guardava fissa verso di noi. Cioè le altre avevano tutte gli vita un po’ a tutti. Questo significa che ad esempio questa occhi quasi chiusi, come quando ti stai per addormentare, casa al mare è divisa in parti uguali tra tutti i sei figli di mio quella invece guardava noi come se volesse dirci “lo so che nonno. In poche parole nessuno voleva rinunciare alla casa mi state guardando, vi piaccio eh?”. al mare, barattare la sua parte, che ne so, con un pezzo di Ogni volta, si perché quel giornale lo guardavamo uliveto nell’entroterra ugentino, e neanche uno ha voluto in continuazione tanto che alla fine dell’estate si era seguire il consiglio del mio zio laureato che aveva proposto consumato, che arrivavamo a quella pagina era un sussulto, di usarla in stile multiproprietà. Cioè lui diceva di dividerci la tutti diventavamo rossi come quando ti sgamano che ti stagione, due settimane a ciascuna famiglia. Intelligente, stai fottendo i soldi dal comò. Confesso che quando gli altri pratico, poi però ci ha provato dicendo che comunque lui non c’erano lo guardavo pure da solo il giornale e quando avrebbe preferito le due settimane alla fine di agosto. Tutti gli arrivavo a quella pagina pensavo che solo a me era rivolto altri si sono sentiti presi in giro ed è venuto su un casino. quello sguardo, che gli altri li guardava per educazione, forse -Si che mo’ solo perché è dottore si deve fare il signore alla un po’ per mestiere, pensavo che la bionda a pagina sedici alta stagione....diceva mio padre…col cazzo. era innamorata di me, io si. -Col cazzo si… sottolineava mio zio cassa integrato… e Poi alla fine non è che ci stavamo molto in casa, noi bambini rincarava…non basta che ce la siamo presi in culo dalla vita, sempre a mollo come savoiardi e i grandi, chi al bar a mo’ pure dai parenti, quando mai s’è visto. giocare a tre sette, chi ai comunisti italiani seduto fuori E andavano avanti per ore e si prendevano tanto che le sulle sedie di plastica bianca a guardare male quelli che femmine si dimenticavano quasi di cucinare. passavano con i macchinoni. Sospesi in aria sembravano Lo zio Rocco, partiva come un treno, si ingollava una con tutto il bianco dei muri dietro che si confondeva a sequela di limoncelli, bestemmiando e maneggiando con quello delle sedie facendole sparire come in una magia il pacchetto di nazionali, finché non crollava sul divano e si finta. Quando il sole nostro picchia forte, tipo a mezzogiorno addormentava anche in mezzo tutto al bordello dei parenti. o poco dopo, quasi non le puoi guardare le case bianche Che poi mica si incazzavano veramente, tanto che alla fine tanto brillano, come stelle cadute a caso sulla costa. Noi mettevano il chicco di caffè nel naso dello zio Rocco che cugini maschi c’avevamo tutti la bici e andavamo in giro zompava in piedi buttava giù un paio di madonne e noi ci come fossimo una banda. Tutti con carta e molletta in pisciavamo tutti di risi. dotazione che faceva rombare i raggi delle ruote. Così Allora, alla fine di un pranzo domenicale di quaranta portate pensavamo che eravamo motociclisti, quelli che quando e settanta bottiglie di vino paesano si è deciso di andare tutti arrivano nei film americani tutti se la fanno sotto. In realtà insieme a fare le vacanze, e lo zio Antonio, quello artista, ha facevamo solo un gran casino. Avevamo pure tutti un nastro preso la chitarra e ha arraffazzonato una pizzica mentre le zie colorato sul manubrio, diverso il colore, perché ognuno era ballavano sventolando gli strofinacci della cucina, quelli con un elemento, un personaggio a scelta come nei cartoni dei cui fanno tutto, tovaglietta per gli spuntini fuori orario, base robot giapponesi che ogni robot (di quelli che poi si uniscono d’appoggio per le stoviglie appena lavate, asciuga stoviglie e ne fanno uno grande che spacca il culo a tutti) hanno appena lavate, presina per pentolame vario appena stato colori diversi: giallo, rosso, verde, blu. Io ero il rosso. sul fuoco. In questa caso lo strofinaccio diventa fazzoletto per Tutti volevano il rosso. Ma io l’ho vinto perché ho superato la ballare la pizzica, un aggeggio fantastico pensavo, come prova di coraggio. Prova: vince chi si buttava dallo scoglio il mantello di Superman (quello dei fumetti e del film alla più alto e io non me ne frego niente, manco guardo quando televisione) per le mamme, poliedrico, indispensabile. mi tuffo, corro come un pazzo e mi butto. E ho vinto, sono una -Tanto è grande. Hanno detto i grandi, ed era tutto sulla specie di capo, perché nei cartoni dei robot giapponesi quelli questione casa a mare. rossi sono solitamente i più fichi. In famiglia siamo sei, di famiglie dico. Quindi dodici genitori, Le mamme, questa cosa non l’ho mai capita, mica facevano sette Uei zio andiamo a mare, che fai, vieni? No Vincenzo, sto qua grazie. Ma zio, le femmine hanno fatto tutti gli stanati, fa afa e lo zio Nicola dice che affittiamo il pattino per fare i tuffi a largo. Vincenzo, fammi un favore, guarda fuori dalla finestra. Apro le imposte verdi e pesanti nascoste dietro le tende bianche e mi affaccio. Lui ha chiuso gli occhi e mi fa: che vedi? Allora, c’è un ape gialla con dietro le damigiane, il fruttivendolo, una comitiva di tedesche che le riconosci perché appena arrivano sono bianche bianche e dopo diventano rosse rosse e non si abbronzano mai. Poi c’è la comare Tetta sempre con la sedia fuori la porta, un cane steso al sole che pare morto e poi il mare zio, oggi e azzurro come il costume di superman, ti ricordi quando lo abbiamo visto alla televisione zio? C’era anche Silvia… Grazie Vincenzo, ora vai dai… Mamma dice che lo zio Luca ha una malattia. Però non è una malattia di quelle che si curano con le medicine. La mamma dice che la medicina è il tempo. Ma cosa ti senti, gli ho chiesto alla mamma, quando c’hai sta malattia? Ti fa male il cuore e ti senti debole e allora poi non fai niente, aspetti. Lo zio Rocco, che è troppo forte soprattutto dopo pranzo, ha fatto: sono kinghi konghi e ha cominciato a inseguirci a tutti facendo lo scimmione. Quando ti prendeva faceva arrgh ti prendeva in braccio ti alzava sulla schiena e ti fotteva a mare. E noi ci piaceva un casino, tanto che ci facevano prendere e correvano tutti più piano di quanto potevamo. Poi le femmine si sono incazzate peggio del kinghi konghi vero perché dicevano che dopo che mangi se ti fai il bagno rischi la congestione e muori. Io però una volta dopo il Calippo ho fatto i tuffi e non mi è successo niente. Qualche volta, la sera sempre, stanco proprio, mi stendevo accanto allo zio nel letto, stavo zitto e guardavo con lui il soffitto e poi quando si faceva tardi che mi si chiudevano gli occhi, sempre zitto mi alzavo e andavo a dormire. otto coolibrì luglio-agosto 2005 vacanza veramente. Se ne stavano tutto il giorno a casa a fare le pulizie, cucinare, rassettare, pettegolare e uscivano solo alla domenica, come durante l’inverno. Perché domenica si stava tutti insieme, così vorrebbe il nonno… dicevano i grandi. Le mamme preparavano gli stanati con la lasagna, si affittava l’ombrellone al lido, e si passava tutto il giorno al mare. Una migrazione in piena regola, tranne i letti e gli arredi del bagno non ci mancava niente, pure il fornellino a gas per il caffè portavano sugli scogli. Perché dobbiamo buttare soldi quando le teniamo le cose… dicevano… e all’inizio non ci facevi caso, poi però crescendo ti vergognavi che volevi diventare piccolo come una biglia di vetro e rotolare diretto in acqua. Francesco faceva quindici anni quell’anno. Dopo i quattordici in famiglia scatta una specie di promozione. La prima grande conquista è il tavolo dei grandi. Finchè sei piccolo i grandi ti sistemano al tavolino piccolo, con le sedie piccole, i piatti di carta e se proprio sei un coglione pure la bavetta casomai sporchi con lo schizzo malefico della polpetta al sugo la camicia appena stirata. Ma in concomitanza con la cresima o giù di lì, un giorno il padre di turno con fare fiero ti guarda e fa: vieni qua, siediti accanto a me. Seconda conquista è la fiducia dei soldi. Cioè quando fai quattordici anni le mamme si fidano e ti possono lasciare anche i soldi di carta per fare la spesa allo spaccio. Terza e più importante conquista: il motorino. Fino a quel momento lo guidavi solo con lo zio dietro che in caso fai lo scemo prende subito il manubrio. Mo’ invece se riesci a ingraziarti zio Rocco quello mbriaco ti fa: Na, fatti nu giro. Francesco era un mito, si fotteva pure le sigarette di nascosto, però non ce le dava perché diceva che noi eravamo troppo piccoli e il fumo ci uccideva. Io però avevo visto alla televisione che il fumo uccideva tutti ma mica glielo dicevo. Un giorno ho pensato che se lui moriva, il motorino, la fiducia dei soldi e il posto a tavola toccavano a me perché avevo dodici anni, ero il più grande dopo di lui, ma poi mi sono pentito tantissimo e quasi mi veniva da piangere. Francesco alcune volte, quando mi vedeva tornare dalla sua stanza, mi coglionava. Diceva che quello zio era pazzo, che era diventato pazzo dopo che la femmina lo aveva lasciato, che da quel giorno era depresso, pazzo, come quelli che al paese stanno sulla piazza e ripetono sempre le stesse cose. Mi diceva che se stavo con lui, diventavo pazzo pure io, che le femmine sono buone solo a cucinare e a fare le cose sporche. Ma io pensavo alla bambina della quarta f a quella nuda sul giornale ed ero sicuro che le donne c’avevano pure l’amore, quello che, mi ha detto la mamma, fa nascere i bambini. L’estate alla fine è tutta uguale anche se non c’hai il tempo di annoiarti. Cioè succede che il pomeriggio, magari tra le quattro e le cinque proprio non sai che devi fare, ma poi pensi che a settembre torni a scuola e allora sfrecci come un pazzo con la bici e gridi forte. E proprio un giorno che avevo giocato al pallone e che poi sudato avevo corso con la bici gridando come un pazzo fino al mare che l’ho vista. Era lì, con il gelato che noi prendevamo solo la domenica, quello con le nocciole sbriciolate che costa di più, ma era martedì e la cosa era strana come se per me quel gelato lo fabbricavano solo la domenica. Era sola, ed era una cosa strana perchè tutti c’hanno il gruppo, mica puoi uscire da solo che se no sembra che di amici proprio non ne hai. Guardava il mare e se ne fotteva di tutto quello che dietro passava. Manco per me si è girata, pure se gridavo e avevo la molletta rombante che sfotteva i raggi della bici. Era come se era lì ma come se non c’era distante anche se a pochi metri, guardava il mare come se quello che c’era dietro già l’aveva visto e ormai gli faceva noia. Riccia come i ricci che scendono dalla pianta dell’uva, nera di capelli come i ricci che pesca lo zio, leggera come il suo vestito che la tramontana non faceva che agitare. La pazza la chiamavano, perchè una volta ha tirato i capelli a una che la sfotteva e io che pensavo che mai avevo visto una femmina che si azzuffava con un’altra, che mai le femmine le avevo viste incazzate, solo la mamma con me o con papà. Era diversa da quella della quarta f e non solo perchè non aveva il grembiule ma perchè quando incrociavi i suoi occhi sembrava che era arrabbiata anche se non lo era, come una che vede le cose che tu non riesci a vedere, grande mi sembrava, anche se pure lei faceva la quarta. E la cercavo, ogni volta che uscivo con i cugini, guardavo alla gelateria, al lido ma quasi mai c’era. Ma quando c’era, quasi perdevo l’equilibrio sulla bici, mi sentivo la pancia come quando ti fotti un casino di turcineddri per fare a gara con gli altri cugini. Una sera steso accanto allo zio gliel’ho pure detta sta cosa e lui per un attimo mi ha guardato, un secondo e basta e mi dice che dovevo fermarla, non lasciarla andare, che poi te ne penti se non lo fai. Un secondo in cui come mai prima mi ha guardato in faccia, bianco come il muro e le lenzuola, serio come sempre, triste però come se altrimenti sarebbe successa una cosa brutta veramente. Ricordo che quella sera ho pure guardato il giornale e la tipa con gli occhi dritti verso di me non mi faceva sentire così. E ho guardato il soffitto, la volta bianca e mi sembrava di capire lo zio, avevo male, ero malato e in fondo a quel candore solo lei c’era, di spalle, lontana e mi mancava. IL CALDO AVANZA SULL’EUROPA CENTRO-OCCIDENTALE Questo caldo che è scoppiato tutto insieme uno non se lo spiega. Considerato che ieri mattina la signora A. R., 66 anni, pensionata della IV Circoscrizione, ha dato spettacolo togliendosi tutto tranne l’orologio a bordo dell’autobus 335 che la stava portando al mercatino rionale, il governo o chi per lui che fa? A noi anziani non ci pensa nessuno. A noi anziani ci fanno capire chiaro e tondo che prima ci facciamo scavare la fossa e meglio è. Allora la signora A. R., 66 anni, vedova dal ’93, ha fatto bene a sbroccare in luogo pubblico. Ha fatto bene a rompere con la decenza. È successo un po’ prima della fermata davanti ai campetti di tennis della Bufalotta. Tutto in pochi secondi, come un attacco al cuore dello stato. Il caldo, forse. Temperature africane. Un colpo di sole. «Col gran caldo gli anziani iniziano a soffrire e tutte le estati, specie nelle grandi città, si vedono cose orribili», ha detto il ministro della salute. Il primo sintomo è un improvviso malessere generale, poi seguono mal di testa, nausea e sensazione di vertigine, senso di pesantezza e gonfiore alle gambe. Si può avere perdita di conoscenza. La temperatura corporea aumenta rapidamente nel giro di 10-15 minuti fino anche a 40-41°C. La pressione arteriosa diminuisce all’improvviso. La pelle diventa secca e arrossata perché manca la sudorazione, un meccanismo di raffreddamento fisiologico che funziona finché c’è acqua in abbondanza nell’organismo. Dopodiché cominciano le incognite. La signora A. R., incensurata, ha detto «Basta, bastardi!» ed è saltata addosso all’autista coprendogli gli occhi con il reggipetto di pizzo nero. Tutto in un attimo. L’autista ha fatto appena in tempo a gridare «Signora, che fa?» che l’autobus è finito addosso a un furgoncino della frutta con pere e mele, banane e kiwi al prezzo di un diamante è per sempre. «Signora, che fa?» E patatracchete! Troppo tardi per salvarsi. È che a noi anziani ci vedono come cose inutili. I figli: buoni, quelli. Avessi avuto i poteri del mago Othelma mi sarei fatta legare le tube. Doppio nodo, giusto per stare sicuri. Il governo (o chi per lui): mascalzoni depravati pigliainculo che non sono altro. Mio figlio Enzo ha 34 anni, è un ragazzo alto e stempiato con la testa sulle spalle che fa la guardia del corpo a un senatore a vita. Quando vedo in televisione mio figlio che scorta quella scimmia in doppiopetto a qualche cerimonia importante, penso sempre che dovrebbe pigliargli un cancro a tutti e due nello stesso momento. Pazienza se certe cose una mamma non dovrebbe pensarle: mio figlio è più marcio di chi gli dà da mangiare. Dice: «’A mà, che mi hai fatto oggi? Ci ho un subbuglio nelle budelle che nun te dico.» Dice: «Mi sa che hai perso il tocco magico in cucina.» Ma dalla Debby non ci torna. Un giorno la Debby si è fatta trovare sul divano in soggiorno senza scarpe e senza un delirio di Nino G. D’Attis nove coolibrì luglio-agosto 2005 Il primo sintomo è un improvviso malessere generale, poi seguono mal di testa, nausea e sensazione di vertigine, senso di pesantezza e gonfiore alle gambe. Si può avere perdita di conoscenza. mutande, attorcigliata in posizione eretica al maestro di nuoto di Torvajanica e allora Enzo ha detto: «Va bene, allora io mi prendo il televisore, lo stereo, la foto incorniciata con il presidente del consiglio scattata a Montecitorio e da oggi in avanti è finita.» Il maestro di nuoto: «Bravo! Così si fa.» E ha incassato una nespola in bocca dalla Debby che oltre al nuoto pratica anche il pugilato thailandese con un maestro che somiglia molto a Raoul Bova. Il governo (o chi per lui) non fa niente per questi giovani che si conoscono, si sposano in capo a un mese e il mese dopo già si tradiscono, si lasciano, non sono più capaci di tenere unita una famiglia. Anziani: consigli per vincere il caldo Indossare indumenti chiari, non aderenti, di cotone o lino. Fare pasti leggeri, preferendo la pasta, la frutta e la verdura alla carne e ai fritti. Evitare le bevande gasate, zuccherate e troppo fredde. Evitare le cozze non di allevamento. Al sole ripararsi la testa con un cappellino. Vivere in un ambiente rinfrescato da un ventilatore o condizionatore. Sarà anche una gran puttana, non dico di no, ma mia nuora è una che ci ha palle. È una ragazza che sa quel che vuole e proprio per questo non si farebbe mai mettere i piedi in testa da nessuno. Non a caso tifa giallorosso e invece quel cornuto di mio figlio è laziale fino al midollo. Così laziale che certi momenti vorrei dargli un fracco de botte, ma tante di quelle botte da renderlo irriconoscibile anche ai miei stessi occhi. Da gonfiarlo come una camera d’aria, questo ingrato. Dico: «Magica Roma» e lui: «Forza Lazio!» Dico: «La squadra, come la mamma, non si cambia» e lui si tocca queste brutte orecchie grosse che gli abbiamo fatto io e suo padre buonanima e risponde che si è fatto tardi e deve andare fino a Prati a prendere il senatore che lo aspetta per le nove. Allora gli urlo dietro che la Debby sarà pure mignotta ma ha fatto bene a darla gratis a tutto il quartiere quando lui non era in casa. «Perché si vede che tu non sei buono» gli urlo per le scale. «Perché sei la mia vergogna e anche quella di tuo padre buonanima che abbiamo fatto tanti sacrifici per tirarti su normale!» Ma lui fa finta di niente, scende a testa bassa senza rispondere. Non gli frega della vicina che apre la porta e mi guarda con la sua faccia da esaurita calabrese, si alliscia i capelli finti e dice «Buongiorno, signora, che caldo, eh? Tutto insieme è arrivato.» «Mavattelappijà ‘nderculo pure te, stammatina!» coolibrì luglio-agosto 2005 Venne a trovarmi il macellaio che non indossava il suo grembiule bianco schizzato con bordate di sangue animale, ma era avvolto da un completo di velluto grigio che gli conferiva un aspetto ancora più laido, con quei capelli tendenti al bianco proiettati tutti a sinistra grazie ad un uso smodato di brillantina da collezione. txt Rossano Astremo dieci Quando avevo sette anni mio padre decise di ficcarsi in bocca una magnum di grosso calibro detenuta illegalmente e di farsi esplodere un colpo secco che gli fece saltare parte della testa trasformandola in una palla da bowling con qualche buco in più sparso nella zona della nuca. Mia madre, quando vide mio padre steso per terra nel salotto conciato così male, non la prese nei migliori dei modi. Aprì la finestra, poggiò i piedi nudi sul cornicione e si scagliò dal terzo piano della nostra abitazione per poi finire a velocità sostenuta con il cranio sulla cassetta della posta che si trovava appena sopra il marciapiede che costeggiava il portone del nostro palazzo. Si narra che quando cercarono di ricomporla per metterla nella bara, gli addetti delle pompe funebri non ne furono entusiasti. Non ricordo molto di quel giorno. Ero nella mia stanzetta a giocare con i miei soldatini di plastica. Quelli di colore blu erano gli americani, quelli di colore verde erano i tedeschi, quelli di colore rosso erano i giapponesi. I giapponesi erano dei gran figli di puttana. Si inserivano nella diatriba tra americani e tedeschi e alla fine la spuntavano sempre loro. In realtà la loro imbattibilità era dovuta all’intervento dell’uomo tigre plastificato che mi aveva regalato mio zio Mario il giorno del mio ultimo compleanno. L’uomo tigre era molto più grande di tutto l’esercito americano e tedesco messo assieme, quindi quando il rosso generale Nagasawa decideva di porre termine al conflitto, richiamava all’ordine l’uomo tigre che si palesava nel campo di battaglia e in pochi secondi compiva una strage immonda, con spargimento sanguinolento di caduti il cui conteggio sfuggiva a qualsiasi logica umana. Questo accadeva quasi sempre quando la mia voglia di giocare era scemata del tutto. Generalmente, dopo appena dieci minuti. Il campo di battaglia che creavo nello spazio limitato delle mie pareti non corrispondeva ad alcuna logica storica. O, almeno, non in maniera consapevole. Il mio era un lavoro di abbinamento cromatico tra fazioni opposte. L’intarsio del blu nella fluida scansione di rossi e verdi aveva per me un suo fascino, quelle striature color mare profondo erano accostabili a delle fresche pennellate informali di un Emilio Vedova. Questo lo capii molto più tardi. Il giorno dopo il fattaccio si svolsero i funerali. La sera precedente e tutto il giorno seguente la mia casa si riempì delle persone più improbabili. Erano lì per accertarsi delle mie condizioni. “Vedi come ti vogliono bene”, diceva mia zia Rosa. Io ostentavo perplessità. Vedevo la tv, grattandomi la caviglia sinistra con il pollice della mano destra. In questa postura da contorsionista accoglievo i visitatori, non spiaccicando sillaba. Le salme dei miei genitori erano in ospedale. Venne a trovarmi il macellaio che non indossava il suo grembiule bianco schizzato con bordate di sangue animale, ma era avvolto da un completo di velluto grigio che gli conferiva un aspetto ancora più laido, con quei capelli tendenti al bianco proiettati tutti a sinistra grazie ad un uso smodato di brillantina da collezione. Poi la maestra Caterina, con una gonna rosa FUNERALE CARNALE shock, degna dell’Amanda Lear più trash, delle scarpe rosse appuntite e una camicia grigia con i primi tre bottoni aperti, che lasciava intravedere parte delle sue poppe a melone. Mia zia Rosa mi costrinse a stare tutto il tempo in cucina. Lì la televisione non aveva il televideo, ma non ne facevo un dramma. Mio zio Mario mi faceva compagnia. Disse che la mia maestra era una gran zoccolona, io annuii. Poi mi prese in braccio, mi posò su una sedia, si inginocchiò e prese a farmi un discorso strambo: “Guarda… inizia una nuova vita per te, per il sottoscritto e per la zia Rosa. Il fatto è che la mamma e papà non ci sono più…cioè, non fraintendermi, non è che non ci sono più, è soltanto che hanno fatto una scelta coraggiosa, hanno deciso di intraprendere un lungo viaggio, per vivere una nuova vita, per ricongiungersi con lo spirito, per intridersi di eterno…ma ecco, lo sapevo che poi collassavo in logiche mistiche dentro le quali tu ti saresti perso…cercherò di essere più schietto…tuo padre era un gran figlio di puttana, capisci, un tipo da evitare, io ho sempre detto a tua madre, ‘Patrizia, guardati bene da Franco, quello è un gran figlio di puttana, amici miei tossici mi hanno detto che sta nel giro’, capisci, tuo padre stava nel giro dello spaccio, capisci, aveva un sacco di debiti, si era immerdato sino al collo con gente che conta, capisci, non aveva fatto una scelta felice, doveva dare un sacco di soldi a un tipo che ha ammazzato gente a sangue freddo e se non avesse rispettato determinate scadenze tua padre sarebbe stato la prossima vittima… ecco, se entriamo in quest’ottica, il fatto che quel figlio di puttana di tuo padre si sia fatto esplodere un colpo secco in pieno volto fa di lui una sorta di eroe, capisci, eroe nel senso che non ha accettato di farsi fare fuori dalla mafia… perché lui, in fin dei conti, era un mafiosetto da quattro soldi…ecco, a me piacerebbe fartelo vedere come è ridotto ora, ma zia Rosa mi ha detto che non è il caso, capisci, non ha più gli occhi, ha dei denti che fuoriescono dal labbro superiore e gli penzolano da una parte e dall’altra senza senso, ha un orecchio slabbrato, fuori forma, capisci, non è un bello spettacolo da vedere, ma io avrei voluto tanto che tu gli avessi dato un’occhiata, anche piccola, giusto per tenerlo a mente per quanto poi diventerai grande, perché tuo padre, ti ripeto, era un gran figlio di puttana, Cristo se non lo era, ma è morto con dignità, capisci, se non si è fatto fottere, capisci, e questo fa la differenza quando qualcuno muore, non si è fatto fottere da quei unidici coolibrì luglio-agosto 2005 mafiosi del cazzo, allora…allora quello che ti voglio dire, Fabio, è che quando sarai grande, dovrai portare con orgoglio il tuo cognome, capisci, non dovrai vergognartene, la vergogna è una brutta bestia, tu Fabio Terlizzi, dovrai essere orgoglioso di aver avuto un padre che, pur di non farsi fottere da gente merdosa, ha deciso di farla finita trasformando la sua faccia in un colabrodo… eppure vorrei tanto scattargli una foto a quella faccia del cazzo, perché vorrei che tu la portassi sempre con te, magari nelle mutande, nella parte più intima di te, perché, ti ripeto, tuo padre è morto con dignità e, cazzo, non dimenticarlo mai, Fabio.” Alla fine di questo discorso, mio zio spalancò gli occhi più del solito, mi poggiò le sue mani sulle spalle e cominciò a piangere come un bambino, senza distogliere il suo sguardo dal mio. Poi, di scatto, si voltò, tirò fuori dalla tasca uno dei suoi fazzoletti bianchi su cui erano ricamate a mano i versi del D’Annunzio dell’Alcyone, diede una soffiata vigorosa al suo naso, tornò a guardarmi, si mise nella posizione assunta all’inizio del suo monologo e riprese a sproloquiare: “Tua madre, poi… guarda Fabio, non ho mai visto nella mia vita una persona amare tanto la sua famiglia, capisci, lei poneva la sua esistenza al servizio tuo e di Franco… zia Rosa mi diceva sempre, quando cominciammo a frequentarci, guarda Mario, ho una sorella fantastica, cioè non riesco a spiaccicartelo con la semplice successione delle frasi, ma cazzo, ti giuro che è fantastica’, capisci, fantastica… il suo folle gesto, poi, capisci…non è facile vedere il tuo uomo con la faccia ridotta come la retina di un canestro da basket, è normale che il cervelletto comincia a ruotare al contrario, è normale che i neuroni cominciano a sfibrarsi e a lasciarsi andare ad azioni senza senso, è normale che cominci a muovere il tuo corpo a cazzo di cane, è normale che la prima cosa che pensi di fare è metterti in piedi sul cornicione della finestra della tua casa sfidando le leggi della fisica, è normale che dopo un volo di cinque secondi riduci il tuo corpo come una cozza nera frantumata, di quelle che trovi attaccata sugli scogli di Gallipoli… ma è qui che comincia il bello, Fabio, proprio quando la vita ti volta le spalle, proprio quando ti rendi conto che sei nella merda fino al collo, proprio in quel momento, ti dico, devi tirare fuori i coglioni, e se potessi, ti giuro, te le farei vedere i miei coglioni, te li farei toccare con mano, ma, cazzo, zia Rosa non sarebbe consenziente… quindi, Fabio, il succo del discorso, è che ci sono io qui con te, che ti proteggerò e ti tratterò come tratterei mio figlio, ma io, cazzo, non posso avere figli, sai, è per colpa dello sperma che mi circola in corpo, il mio dottore mi ha detto che non serva un cazzo, che potrei metterlo nelle bottigliette di succo di frutta e scagliarlo in mare aperto, perché nessuno se ne farebbe uno stracazzo della mia accozzaglia di spermatozoi senza vita”. Zio Mario mi abbracciò con tutta la sua forza, versando le sue lacrime sulle mie spalle. Poi ci furono solo minuti di silenzio. Ricordo la presenza di altre persone nella mia casa in quei giorni. Quella del collega di mio padre, Sandro Trevisani, perché, bisogna dirla tutta, mio padre non è che fosse poi uno di quegli stronzi che vivevano alle spalle della brava gente, mio padre aveva un suo lavoro dignitoso, con il quale portava avanti la famiglia, era un rivenditore all’ingrosso della cosa migliore che questo lembo di terra aveva prodotto nella sua gloriosa esistenza, carta igienica Salento, resistente, morbida, per un culo sempre pulito, carta igienica Salento, la migliore per combattere i residui di merda che ti rimangono attaccati su per il buco del culo. Sandro venne in cucina, mi passò la mano sui capelli, io guardavo la pubblicità su Canale 5, poi si rivolse a mio zio Mario e cominciò a bestemmiare, non faceva altro che bestemmiare, mise in fila, l’un dietro l’altro, Sant’Oronzo, San Cataldo, San Gennaro, Cristo Morto, la Madonna Puttana e quel ricchione di Gesù Bambino. Come se fosse stato richiamato dallo spirare del male in quelle mura, comparve d’improvviso zio Umberto, lo zio della mamma, il sacrestano della chiesa di Sant’Irene, un tipo squilibrato, che indossava un paio di occhialoni dalla montatura marrone che gli coprivano l’intera faccia ossuta, sempre con un mazzetto di santini tra le mani che vendeva in strada per fare un po’ di soldi, perché non aveva un cazzo di lavoro, prendeva solo una piccola pensioncina di invalidità che non gli bastava ad alimentare i suo vizi. Zio Umberto venne arrestato qualche anno più tardi perché, a quanto pare, amava giocare con i chierichetti. Alla fine della messa domenicale si bardava nella sacrestia, dopo che Don Leopoldo si recava con la sua Bmw grigio metallizzata a Maglie dalla giovane amante colombiana che manteneva da anni, e, con il pretesto di educarli ad evitare il peccato della carne, abbassava loro i pantaloni per poi sfiorarli nelle parti intime. Si narra, ma in casi del genere la legenda prende il sopravvento sulla realtà, che zio Umberto, durante queste sue pratiche degeneri, cominciasse a perdere dell’appiccicosa bava biancastra da entrambi i lati della sua bocca. Fatto sta che uno dei chierichetti sputtanò tutto, dopo un po’ che andava avanti sto giochetto erotico del palpeggiamento testicolare e non solo, al padre, che poi non era altro che Peppino il carrozziere, quello che aggiustava ogni settimana la marmitta della 128 verde pisello di mio padre, il quale, inviperito oltre ogni misura, andò a trovare zio Umberto a casa. Senza dilungarsi oltre modo, quello che è certo è che Peppino il carrozziere sferragliò una serie mitragliante di pugni in pieno volto a zio Umberto, poi lo prese per i capelli e lo trascinò nella sua macchina per poi portarlo in questura. Si narra, ma in questo caso la legenda lascia spazio al volto frantumato di mio zio Umberto visto da zia Rosa quella volta che gli portò dei biscotti allo zenzero in carcere, si narra, dicevo, che Peppino il carrozziere esagerò con la successione di mazzate inflitte al mio caro zio pedofilo, tant’è che zia Rosa stentò a riconoscere il sangue del suo sangue. Ci furono i funerali, ma io venni lasciato a casa assieme a Caterina, la figlia del macellaio. Dopo le istruzioni di zia Rosa a Caterina, la casa assunse un silenzio spettrale. Andarono tutti via. La cosa non mi dispiaceva affatto, perché Caterina, quindicenne che aveva deciso di abbandonare la scuola dopo la licenza media per dedicarsi alla vendita di fettine di vitello e salsicce di maiale, aveva le tette più grosse che io avessi mai visto nei miei primi sette anni di vita. Fu in quel giorno particolare della mia vita, lo stesso giorno in cui i miei genitori furono seppelliti sotto terra, che, durante un frenetico zapping televiso, abbracciato alla figlia del macellaio, infilai i miei occhi nel maglioncino scollato della stessa, intravedendo il capezzolo appuntito del suo seno sinistro, e sentii agitarsi sotto le mutande il piccolo gioiello di famiglia, che, per la prima volta, assunse una posizione eretta irreversibile. I miei genitori erano morti. Io avevo il cazzo duro. Ero diventato un uomo. coolibrì luglio-agosto 2005 Appena fuori la porta si ritrovò già grondante sudore. La fronte gli si imperlò. L’aria era stagnante, il tasso di umidità aveva raggiunto livelli equatoriali. LA VENTOLA dodici txt Antonietta Rosato Quando il sig. Poletti aprì gli occhi erano appena le otto del mattino e l’afa era già così insopportabile da soffocare ogni spinta vitale, così il sig. Poletti allungò la mano e mise il ventilatore a quattro, si voltò sul fianco e si riaddormentò. Era luglio, il luglio piu’ caldo e umido dei suoi trentasette anni, il quattro luglio per la precisione e mentre dall’altra parte dell’oceano milioni di tacchini passavano a miglior vita il sig. Poletti decise che lui quel giorno sarebbe morto un po’, tanto che s’ allungò il signor Poletti, mise il ventilatore a quattro e tornò a dormire. E gli venne così bene che lo fece per due giorni di fila. Morì un po’ per due giorni. Fuori c’erano tanti gradi quanti i suoi anni. Quando il sig. Poletti aprì gli occhi erano già le otto di sera e una zanzara gli ronzava così insopportabilmente nelle orecchie che decise di alzarsi e farle una piazzata, così si alzò e le vomitò addosso tutto il suo disprezzo, tutto il rancore e lo schifo gli erano usciti, così d’amblè, dalle viscere. Fu una scenata memorabile, Poletti paonazzo, la zanzara per niente scomposta, avvezza a certe intemperanze, volò via dalla finestra nel cielo stellato di quella serata afosa a ronzare nelle orecchie di chi avrebbe saputo apprezzare. Il ventilatore del sig. Poletti non ventilava più, si era fermato nel mentre che lui moriva un po’, gli era sembrato uno sforzo inutile ventilare un morto, così due minuti dopo che il Poletti si voltò quello già aveva fermato le tre eliche stremate dal caldo e dal tanto ruotare. Il sig. Poletti guardò con sufficienza il ventilatore, pensò tra sé e sé che meritava neppure la benché minima considerazione, bofonchiò solo: «Tsè!» e andò in bagno accomodandosi pesantemente sulla tazza. Cercava di farla, si rilassò quel tanto che bastava, si concentrò anche ma mentre stava per concedersi sentì una specie di formicolio su per la coscia destra e vide un’ombra scura fuggire nell’intercapedine della porta. Alla vista della blatta Poletti si deconcentrò, storse la bocca in una smorfia di rassegnazione, si alzò, tirò su gli slip sdruciti e andò in cucina, passando per la camera da letto lanciò un’occhiata feroce al ventilatore. Quello lo guardò con sufficienza, non volle generare altre tensioni, faceva troppo caldo, le tre eliche gli dolevano, voleva solo trovare un po’ di riposo in quella stanza torrida di calura e fetida di sudore. L’aria era irrespirabile, Poletti aprì il freezer, tirò fuori del ghiaccio e se lo passò sulla fronte e sui polsi. Il telefono trillò. Poletti: pronto chi parla. Signorina all’altro capo del telefono: Uè Poletti son io. Poletti: io chi? Signorina all’altro capo del telefono: come chi?? Ma son La Carla, Poletti ma mi ti sei rincitrullito dal caldo? Poletti: La Carla l’amica di Saverio? La Carla: massììì l’amica di Saverio! Ci siam conosciuti l’altra sera ricooordi? Sono ospite da lui, sono in Puglia per altri due giorni e mi son detta taaac ora chiamo il Poletti e vediam di uscire insieme. Ho Fatto maaale? Ho voglia di veder la città, in questi giorni il Saverio solo maremaremare, da Gallipoli a Santa Maria di Leuca e su fino a Otranto. Posti bellissimi dico, ma stasera voglio fare un giro per la città. Mi ci porti? Poletti: oh.. beh… non avevo intenzione di uscire stasera a dire il vero. Fa caldo, non ce la faccio… La Carla : uèè Poletti non ti farai pregare! Poletti: mannò mannò. La Carla: allora? Dai vien su tra mezz’ora che t’aspetto dal Saverio. Prima che il sig. Poletti potesse dir altro La Carla riattaccò. La Carla non era malaccio. Un po’ troppo bionda e troppo tinta e con troppo mascara sulle ciglia, troppo ciarliera pensò Poletti, ma tutto sommato non era male e forse gli avrebbe fatto bene uscire, così per prendere una boccata d’aria. Mangiò una fetta di melone rancido, si fece un bel bicchiere di acqua e zucchero in ghiaccio, fece una doccia e uscì. Appena fuori la porta si ritrovò già grondante sudore. La fronte gli si imperlò. L’aria era stagnante, il tasso di umidità aveva raggiunto livelli equatoriali. Poletti vacillò, era sul punto di rientrare in casa ma si fece forza, si diresse verso la macchina e partì a tutta velocità verso Saverio. E partì a tutta velocità per fare entrare quanta piu’ aria possibile dai bocchettoni. Fanno un giro per la città Poletti e La Carla, Poletti è tutto sudato, La Carla è tutta ciarliera con il mascara che le si scioglie ogni due tre e La Carla ogni due tre specchietto in mano se l’asciuga. In due minuti è a casa, si dirige con un ghigno inquietante verso il ventilatore e gli strappa ad una ad una le eliche, piano piano, per far durare più a lungo possibile lo strazio. Con un martello lo fa in mille pezzi. Ci salta su, ci sputa addosso gli dice brutto stronzo pure. Poi, con calma, scopa e paletta ripulisce tutto, getta tutto nel camino e dà fuoco. Con un panno spolvera e lucida il comodino e con cura ce lo mette su, toglia con delicatezza la targhetta in plastica che dice: un eccellente Ventilatore da Tavolo solido nella struttura ed unico nella robustezza.Una pala da 23 Cm per un prodotto a ventilazione oscillante. 35 W. Pala 23 Cm. Inclinazione Regolabile. 5 Velocità per un prodotto stabile sempre. DANZICA D’ESTATE Ci avrebbe accolto in un abbraccio appagante, la città, al ritorno dalla traversata del Baltico, dalla nauseante perfezione di Stoccolma, da diciotto ore di puro digiuno, inframmezzato da una fetta di pane raffermo imbevuto di tonno oleoso e caffellatte in lattina, gli ultimi residui delle nostre scorte di viaggio. Ci mancava la semplicità polacca, quella specie di ingenuità che leggevi facilmente nei volti per strada, mista a timore e allo stesso tempo fiducia assoluta negli altri. Per questo decidemmo di passare ancora una volta la notte da Waldemar, in quell’ostello ancora in costruzione dove non c’era bisogno di prenotare, ché lui avrebbe trovato un posto per chiunque anche col tutto esaurito, figurarsi per i primi italiani che varcavano la soglia del suo regno disordinato, festaiolo, della sala d’aspetto dagli immensi divani blu dove la sera ci si incontrava prima di uscire, si confrontavano idiomi cercando di tenere sotto controllo le lingue stoppose dalla troppa wòdka entrata in circolo. Mentre attraversavamo la zona industriale pigiati nell’autobus, tra facce stanche di vita o di viaggio, e buste da duty free cariche d’alcool per i mariti e fusti di detersivo per lavatrice per le consorti, continuavo a chiedermi cosa fosse rimasto delle rivoluzioni operaie, degli scioperi ai cantieri navali, di Lech Walesa e Solidarnosc, se mai una volta in città avrei potuto respirare ancora quell’aria, la rabbia pronta ad esplodere, la determinazione a cambiare la realtà e la speranza in un futuro migliore che allora, più di vent’anni prima, non sembrava ridicola. I polacchi coltivano accanitamente la loro memoria storica, portano addosso evidenti ferite, non dimenticano. Ma il sole era stranamente così forte, quel primo pomeriggio a Danzica, che dopo la tanto desiderata birra ghiacciata e due salsicce ad ottimo prezzo era inevitabile volgere il viso all’insù, chiudere piano gli occhi, e stendere le gambe. La conversazione sarebbe continuata in quel modo, parlando al cielo. L’incontro gioioso con i compagni di viaggio abbandonati nel Sud coolibrì luglio-agosto 2005 La città è piccola, in tre quarti d’ora La Carla ha visto tutto e ora vuol bere qualcosa da qualche parte. «Neh, Poletti, se ci sedessimo a quei tavoli laggiù eh, che ti sembra eh?» Si siedono laggiù, La Carla ordina una bottiglia di prosecco e due flute. La sera trascorre tranquilla, La Carla parlaparla Poletti beve e trasuda prosecco, bofonchia e a volte parla anche lui. Il vino finisce e Poletti le fa torniamo a casa. La Carla gli fa torniamo a casa tua. «Uè ma fa un caldo boia in questa casa, Poletti ma com’è niente condizionatooore?» «Niente» «Oè dico, ma come fai dio bono?» «Non mi piace il condizionatore, mi sento male. Ho il ventilatore però» Quella fa per accenderlo. «Non funziona, ci ho litigato prima di uscire» dice nervoso. La Carla dice fa niente, spinge Poletti fino al letto e gli si butta sopra. Si strofina, si gira, gli si preme contro, geme e poi sbuffa: Oh dico, ma non ti piaccio? Ma non mi tocchi? Ma sei gay? ma ci hai un colore bianco bianco che sembri morto! Uèèè poletti ma che scherzi fai?? « no..è.. che.. la pressione bassa..caldo..scusa.» Poletti respira a fatica, suda freddo La Carla prova a fare su e giù, ma quello niente, sviene e non viene. La sgualdrina si cura punto di Poletti, si alza, si sistema e seccata se ne va. Sbatte forte la porta e Poletti si alza di scatto e come una furia si veste, spia dalla finestra che La Carla sia davvero andata via. Esce anche lui. Parte a tutta velocità, corre in fretta Poletti, va dritto verso Electrocasa, lì, in periferia. S’avventa come una furia sulla vetrina buia e ci si sbatte contro la testa frignando come un bambino. Torna in macchina, apre il bagagliaio e veloce prende il crick e lo scaglia contro la vetrina. Scatta l’allarme ma Poletti è lesto, prende e scappa. tredici txt Anna Puricella del Paese ci aveva infatti ulteriormente spossato. Incroci di viaggi, noi torniamo a Cracovia, finisce qua per adesso, la Svezia ipocrita come una modella rifatta, da qualche parte quella città una falla deve pure averla, ma non siamo riusciti a trovarla, voi invece so che vi muovete ad Occidente, Berlino, saluti alle corazze degli angeli, da qualche parte vicino al Muro sono convinta che ne troverete qualcuna. Dopo una lenta ripresa tornammo da Waldemar a chiedergli in prestito le bici, a farlo ridere implorandolo di abbassare le selle, troppo alte per noi italiani, e a perderci soddisfatti per le strade della città, tra le bancarelle cariche di gioielli d’ambra, i tavolini dei locali messi all’aperto, i turisti e le mense per i poveri, realtà paradossale ma impossibile da sradicare, squarcio di silenzio aperto sul passato. Ci saremmo fermati incantati davanti alla cattedrale, immensa, tetra e gotica, richiamati da un cupo suono d’organo e da canti sacri, deviando poi per il lungomare, per il vecchio porto e il pesce fritto che Pawel e sua moglie ti costringevano a mangiare sul loro barcone, tra le risate provocate dal solito menu incomprensibile e dalle gentili spiegazioni che il gestore aveva tentato in un primo momento di offrirci, per poi rassegnarsi con un sorriso comprensivo alla pigrizia delle nostre orecchie. Il mattino risuonavano ancora nella testa le profezie alcoliche di Nancy della notte appena terminata, una volta tornata nel tuo Paese ti rendi conto che tante cose cambiano, che tanta gente è cambiata, impari prima ad apprezzare o disprezzare, per poi capire che in fin dei conti quella che sei cambiata sei tu, che hai spalancato gli occhi di fronte alle novità e non vorresti più chiuderli; la stazione cominciava a riversare per le strade i barboni che aveva maternamente tenuto al caldo durante la notte, assonnati, silenziosi e sempre discreti, dando loro il tempo di cestinare le bottiglie vuote e piegare con cura i loro cartoni, mentre io chiedevo svogliatamente il biglietto di ritorno. coolibrì luglio-agosto 2005 Francesco Venditti My sweet family Manni editore Confesso che non sono del tutto alieno ai pregiudizi. Quando una persona non mi sta simpatica a pelle difficilmente riesco a credere che possa piacermi quello che fa. Inutile dire che sono felice quando i fatti mi smentiscono e qualcuno riesce a farmi cambiare idea. È il caso di questo libro, scritto da un attore più famoso forse per il cognome ingombrante che porta che per i film che ha fatto, di cui il più noto è sicuramente Io no di Simona Izzo e Ricky Tognazzi, film che mi è rimasto impresso esclusivamente per l’interpretazione di Tognazzi nella prima parte. Comunque non è dei film di Francesco Venditti che parlo qui. Questo suo esordio letterario con My sweet family uscito con Manni editore ad aprile non ha avuto forse il successo che ci si aspettava visto l’autore e vista l’indubbia qualità del lavoro. Dicevo che quando qualcuno non mi sta particolarmente simpatico non riesco a credere che mi possa piacere quello che fa. Non mi aspettavo molto da questo libro, in realtà mi aspettavo qualcosa di completamente diverso da quello che ho trovato. È un libro duro, a tratti fastidioso, per nulla facile da leggere se per facile da leggere intendiamo un best seller con tematiche post o preadolescenziali. Una storia scura, anzi nera, come l’incazzatura continua del protagonista Luca, che se la prende con tutto e tutti in questa sorta di viaggio avanti e indietro fra le storie e i personaggi della sua famiglia, alla ricerca di una rivincita con se stesso e il suo passato. Uno stile frammentato, come il carattere del protagonista, a tratti poetico, a tratti filmico. Un linguaggio scarno e duro, gergale, sporco. “Spengo la voce e lo mando a a cagare. Non sto bene. Mi vedo brutto, specchietto, forse sono realmente brutto. Nello stomaco l’alcool ribolle. Milkshake di bile. Metto la freccia. Tic-tac-tic-tac. Autogrill. Parcheggio. Posto per gli handicappati sempre libero. Doppia fila”. Dicevo che questo libro non ha avuto grandissimo successo. Forse il motivo sta nel fatto che non è storia facile, leggera, che scende giù come una sorsata d’acqua fresca. È denso, compatto, poco annacquato. Tutti gli elementi per farne un grande romanzo ci sono, forse quello che manca è un po’ di maturità artistica all’autore ancora giovane e alla sua prima fatica letteraria, ma quello che mi auguro è che lui continui a scrivere e che Manni riesca a trovare ancora prodotti di qualità come questo. Per il bene suo e per il bene nostro. Dario quattordici Chissà se Berlusconi sa di avere inaugurato un nuovo genere letterario. Infatti il premier, e per essere più precisi, il suo omicidio, sembra ispirare di più la fantasia dei giovani scrittori. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati quattro autori radunatisi sotto l’etichetta Babette Factory, con “2005 dopo Cristo” (Einaudi). Gli autori in questione sono il barese Nicola Lagioia, Christian Raimo, Francesco Pacifico e Francesco Longo. Tutti scrittori cresciuto all’interno della casa editrice romana Minimum Fax. Ma nel tempo c’è stato Andrea Salieri con il suo “L’omicidio Berlusconi” (Edizioni Clandestine), Giuseppe Caruso con “Chi ha ucciso Silvio Berlusconi” (Ponte alle Grazie), Oliviero Beha, “Sono stato io” (Marco Tropea), e Roberto Vacca “Kill?” (Marsilio). Sembra che sia pronta una sceneggiatura per il cinema firmata da Bernardo Carboni intitolata “Shooting Silvio”. In “2005 dopo Cristo” un gruppo di giovani rivoltosi imbevuti di miti televisivi, due inquietanti registe underground, un killer senza arte né parte, un conduttore di successo sono scagliati nel centro di una storia più grande di loro. Romanzo che possiede i ritmi frenetici della migliore cinematografia d’azione. Il paragone con Wu Ming, il collettivo di autori bolognesi, è d’obbligo, non solo per la logica dello scrivere collettivo, ma soprattutto per le tecniche utilizzate per la resa della storia, per l’utilizzo di molteplici punti di vista, di narrazione a più voci tutte proiettate alla risoluzione finale dell’intreccio multiplo. Esperimento da ripetere. Rossano Astremo Gianluca Gigliozzi Nueropa Luca Pensa Editore “Neuropa” è un esperimento folle e ambizioso, libro-mondo, forse irrisolto, che vorrebbe dar corpo alla domanda: è possibile vedere qualcosa del nostro oscuro presente indagando le sue radici storiche? È dunque innanzi tutto un viaggio comico e stravolto nel Seicento e Settecento alle origini del pensiero scientifico e del diritto moderno. Riprende il tema archetipico della ricerca del Padre, della Legge, ma anche quello della sua uccisione, di una liberazione da ogni principio precostituito. Allo stesso tempo è un libro che sbeffeggia una tradizione tutta italiana e libresca: quella dei romanzi storici, con il loro illusionismo coatto, con la loro assurda pretesa di far rivivere mondi perduti per sempre. Sul piano dello stile è una prova di pirotecnica linguistica e di libertà compositiva che ha i suoi numi tutelari in Sterne e Swift. Il suo modo può essere definito come cubismo istrionico perché la teatralità barocca e allucinata costituisce il centro generatore della sua visione sempre alterata, sempre tesa verso ciò che non ha ancora forma. Gianluca Gigliozzo è di L’Aquila. Il suo è un esordio che è già espressione di maturità linguistica ed espressiva. Per ogni informazione sull’autore e sul romanzo rivolgersi al blog neuropa.splinder.com. Rossano Astremo coolibrì luglio-agosto 2005 Babette Factory 2005 dopo Cristo Einaudi Stile Libero quindici a cura di Giancarlo De Cataldo Crimini Einaudi 2005 Cosa c’è di meglio di un giallo sotto l’ombrellone? E cosa c’è di meglio di una raccolta di testi inediti di alcuni dei migliori giallisti e noiristi italiani? Ecco che poco prima del caldo afoso la Einaudi pubblica questo Crimini a cura di Giancarlo De Cataldo. Già definito come le olimpiadi del noir, il successo del volume entra in scia al più generale rilancio di un genere considerato per troppi anni di serie B o di scarto. Poco letterario e molto televisivo, snobbato dalla critica, comunque il giallo (o chiamatelo come volete voi) negli ultimi anni ha dato molte soddisfazioni agli editori ma anche ai lettori con prodotti sempre più di qualità e storie sempre più intrecciate e coinvolgenti. Dai maestri Gadda e Scerbanenco, solo per citarne un paio, a queste nuove generazioni di pittori del crimine. Nel volume, molto vario ed eterogeneo, si passa dal giovane (ma non troppo) Niccolò Ammaniti al vecchio saggio e best seller Andrea Camilleri, dal fuggiasco Massimo Carlotto ai comici e assassini di Sandrone Dazieri, dallo scrittore e sceneggiatore napoletano Diego De Silva all’ex comico, cantante e presentatore Giorgio Faletti, da Marcello Fois all’onnipresente Carlo Lucarelli. Una implacabile fotografia del degrado sociale e spirituale della nostra Italia tra corruzione, malavita, immigrazione clandestina e ossessione del successo. Pierpaolo Lala Fàbio Moon, Gabriel Bà Ursula Lain Una grapich novel per chi ama le storie è come per un appassionato di musica vedere il dvd di un concerto bellissimo. Unire immagini e parole crea suggestioni immediate,veicola l’immaginario a trovare risposta alla fantasia. La storia raccontata e disegnata in Ursula, dei fratelli brasiliani Fabio Moon e Gabriel Ba, edita da Lain è una fiaba dolcissima. Inno all’amore lungo una vita, al bambino che è in ognuno di noi e che mai ci abbandona, ai sentimenti capaci di superare qualsiasi ostacolo questo libro è una metafora dei sogni che alla fine se ci credi davvero si avverano. Testi e matite ci immergono in un mondo fantastico dove le fate non possono amare, gli uccelli possono parlare, ci sono i draghi, i re. Ma la fiaba è solo uno dei modi per leggere Ursula che è al contempo poesia, tavola dal tratto personale e suggestivo, invito a non perdere mai la speranza e a prendere le cose con la semplicità e la determinazione che solo un bambino può avere. Osvaldo coolibrì luglio-agosto 2005 Franco Matteucci Festa al blu di Prussia Fazi Editore Una villa cinquecentesca fuori dal tempo, un baobab maestoso e spaesato strappato ai rossi tramonti del Senegal, una natura beffarda e indifferente testimoni delle strane vicende umane che si consumano sul suo sfondo. Questo il contesto in cui la storia prende il via, partendo dall’organizzazione di una spettacolare festa barocca per celebrare la nascita del primogenito, Manlio jr, una festa per pochi intimi nelle intenzioni del padre, nobile e raffinato e colto, che affida l’incarico ad un architetto di grido perché ricrei fedelmente il settecentesco scenario dei festeggiamenti in onore della nascita del “delfino” di Francia. La televisione riprenderà l’evento in diretta, per la vanità di Tiziana, madre del nascituro ed ex modella, che sogna un rientro memorabile nella mondanità. Ma tutto si complicherà terribilmente in un crescendo di eventi che sconvolgeranno per sempre l’esistenza degli abitanti di Villa Carobbi, trascinandoli in un incubo senza fine. Favola amara e irriverente, scritta con stile lieve ed ironico, Festa al blu di Prussia trascina il lettore in un mondo posticcio ed ingannevole dal quale si vorrebbe scappare, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Silvia Visconti Valerio Marchi Il derby del bambino morto DeriveApprodi Sembra un libro di cronaca ma è molto di più. Il 21 marzo 2004 una partita di calcio, una delle più importanti e pericolose del campionato italiano, il derby della capitale Roma-Lazio viene sospeso per l’intervento dei tifosi. Sulle gradinate si è sparsa la voce che un bambino è morto nel corso degli scontri con la polizia. Una voce incontrollata che rimbalza di gradino in gradino, di sedia in sedia. Nonostante le rassicurazione del prefetto e delle forze dell’ordine la partita non può continuare con i giocatori sconvolti e increduli. Ma Marchi (e qui finisce la cronoca) va oltre e delinea delle raccapriccianti somiglianze nel comportamento delle forze dell’ordine per “placare la situazione” con le maniere adottate a Genova e in altre circostanze. Un libro ben documentato che suscita riflessioni e ripensamenti rispetto a molte immagini viste in tv. Pierpaolo Lala sedici Melissa P. L’odore del tuo respiro Fazi Editore “Se lo conosci lo eviti” diceva qualche anno fa la pubblicità progresso sull’Aids. Una perfetta sintesi per commentare il nuovo libro scandalo della giovanissima scrittrice catanese che passerà alla storia della “non letteratura italiana” con il nome di Melissa P. Il suo primo romanzo Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire è stato un caso editoriale (come dieci anni fa il va dove di porta il cuore della Tamaro). Tra poco uscirà anche il film, girato interamente a Lecce, che si preannuncia abbastanza piccante (altro che Alvaro Vitali e le giovannone coscelunghe). Questo L’odore del tuo respiro è un libro “perfetto”. Giusto numero di pagine, meno di 150, che non spaventano l’acquirente e il lettore. Scrittura agile ma non troppo sgangherata, storia abbastanza striminzita ma con quelle trovate un po’ così che ti fanno pensare che forse quella frase voleva dire qualcos’altro. E poi c’è dentro l’esperienza pregressa, l’autobiografia di una ragazzina lanciata nel gossip per le porcate raccontate nel libro (che poi si sa che siamo tutti guardoni, spioni e un po’ maiali). “Non sei innamorata di un altro, sei innamorata del tuo successo e credi che io sia un povero sfigato che non riesce a soddisfare appieno i tuoi capricci”, le viene detto da un ragazzo. Successo o non successo “Mellissa P2 la vendetta” è buono da vendere, è buono da leggere ed infatti è in classifica (insieme ai cento colpi rilanciati per l’occasione) e tanto di cappello all’editrice Fazi che ha scommesso su questa autrice. Pierpaolo Lala Il libro è come un ghiacciolo… ce n’è per tutti i gusti (anonimo cinese) Andrea Camilleri La luna di carta Sellerio Maurizio Maggiani Il viaggiatore notturno Feltrinelli Nick Hornby Non buttiamoci giù Guanda Stefano Benni Margherita Dolcevita Feltrinelli Beppe Severgnini La testa degli italiani. Una visita guidata Rizzoli Magdi Allam Vincere la paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente Mondadori Woody Allen Io, Woody e Allen. Un regista si racconta Minimum fax Cesare Battisti Travestito da uomo DeriveApprodi Osvaldo Capraro Né padri né figli E/o edizioni Vindice Lecis Togliatti deve morire. Il luglio rosso della democrazia Robin Boris Vian Sputerò sulle vostre tombe Marcos y Marcos Gianluca Morozzi L’era del porco Guanda Gianni Celati Fata morgana Feltrinelli Mariangela Mianiti Una notte da entraineuse Deriveapprodi Massimo Loche Lo scottante problema delle caldarroste Manni Julie Myerson Può sempre succedere Einaudi Simon Kuper Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah Isbn edizioni Vittorio Giacopini Al posto della libertà. Breve storia di John Coltrane E/o edizioni