Il governo delle reti inter-organizzative per la

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Il governo delle reti inter-organizzative per la
Working Paper
Il governo delle reti inter-organizzative
per la competitività
Federico Butera e Fernando Alberti
WP5 / 2012
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1
Il governo delle reti inter-organizzative per la competitività
Federico Butera e Fernando Alberti
Fondazione Irso
Indice
0.
Executive summary ................................................................................................................................. 1
1.
Prosperità, competitività e reti ............................................................................................................... 3
2.
Le reti inter-organizzative: varietà, grammatica e classificazione ..................................................... 6
3.
Reti inter-organizzative e competitività dei territori ........................................................................... 15
4.
Gli attori istituzionali nel rinnovamento delle forme reticolari ......................................................... 24
5.
La governance delle reti organizzative ................................................................................................ 28
6.
Il meta-management .............................................................................................................................. 36
Bibliografia ..................................................................................................................................................... 41
0.
Executive summary
I policy maker sono costantemente alla ricerca delle forme e degli strumenti per contribuire ad
aumentare la prosperità economica e sociale del proprio territorio. Gli studi a livello internazionale
ci dicono che la prosperità di un territorio è direttamente riconducibile alla sua competitività, e
quindi in primis al livello di produttività e innovazione del sistema delle imprese. Come verrà
ampiamente illustrato in questo rapporto, le reti inter-organizzative – nella varietà di forme che
l’evidenza empirica ci suggerisce – attraverso una flessibilità senza precedenti, una più veloce
circolazione delle informazioni, la condivisione di visioni, saperi e conoscenza, l’efficiente e rapido
scambio di risorse e competenze per competere, assicurano al tempo stesso specializzazione,
efficienza e alti livelli di produttività.
La configurazione e la natura di tali reti è in via di continua ridefinizione ed espansione e l’uso del
termine rete è spesso generico o inappropriato. Anche i confini delle reti vanno continuamente
ridefiniti, in un continuum che va dalle imprese tradizionali che esternalizzano e delocalizzano
parte della loro produzione fino al puro networking di varia natura. Noi ci concentreremo solo su
quelle reti interorganizzative che rappresentano forme nuove di impresa, di quasi impresa, di
sistemi di imprese che consentono una gestione competitiva e innovativa della catena del valore e
dei processi fondamentali, conseguendo risultati economici e sociali, in una parola prosperità. Ci
occuperemo in particolare del fenomeno più nuovo che caratterizza l’Italian way of doing industry,
ossia lo sviluppo e i successi delle medie imprese, nodi di reti inter-organizzative che coinvoglono
non solo imprese piccole ma anche imprese grandi, in una proiezione spesso globale.
Su queste nuove forme di reti inter-organizzative, si apre uno spazio di intervento straordinario per
i policy maker in azioni di attivazione, incentivazione e supporto, capaci di condurre a superiori
livelli di competitività le imprese componenti le reti, le reti stesse e i territori da cui esse muovono,
ovvero capaci di favorire una maggiore prosperità. Tali spazi di governo delle reti interorganizzative possono avere natura infrastrutturale (trasporti, edilizia, tecnologie, servizi, ecc.),
relazionale (governo della catena del valore, dei processi, dei flussi, delle architetture d’impresa,
dei sistemi informativi e di comunicazione, dei sistemi professionali ecc.) e cognitiva (capitale
umano, capitale intellettuale, sistema di valori e norme, ecc.). Tutte e tre queste dimensioni sono
importantissime e vanno gestite congiuntamente in nuove forme di management assicurate dalle
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imprese pivotali e nell’ambito di quello che nel rapporto di ricerca è definito come metamanagement, ovvero quelle posizioni di attori pubblici e privati – spesso in raccordo fra loro- che
assicurano una guida strategica alle reti. Nuovi modelli di management e di meta-management
implicano una conoscenza profonda della rete e, di conseguenza, una visione d'insieme attuale e
futura sicura e convincente e una capacità di execution che sappia consolidare o riorientare la rete;
valorizzare le risorse, materiali e personali, lì racchiuse: e soprattutto perseguire obiettivi e
misurare risultati.
Meta-management non significa favorire il mero networking tra imprese, ma attivarsi come agenzie
strategiche e provvedimenti concreti capaci di disegnare politiche di accompagnamento e
sostegno alla creazione e alla valorizzazione di robusti network tra imprese e tra imprese e
istituzioni, che trascendano le consuete filiere e agglomerazioni locali.
Una economia e una società fatta di reti inter-organizzative non è uguale a quella fatta
prevalentemente di singole imprese “castello”. Sulle reti di impresa e sull’impresa rete incombono
alcune rilevanti questioni a cui il nostro lavoro tenta di dare alcune risposte
Vediamole qui di seguito.
1. Diagnosi. L’organizzazione a rete è oggi scarsamente riconoscibile. Come diagnosticarla,
come identificarne le caratteristiche strutturali e comprenderne i problemi critici?
2. Sviluppo e progettazione. L’organizzazione a rete si può sviluppare intenzionalmente e
progettare, come qui si sostiene? E se sì, in che modo? I metodi da adoperare per
progettarla sono certo diversi da quelli adottati da strutture accentrate, sono meno topdown e meno razionalistici: ma quali possono essere?
3. Stabilità e mutamento. Ogni nodo o soggetto della rete fa parte di reti diverse, in alcuni casi
abbandona in rapida successione le une per legarsi ad altre. Come combinare l’estrema
mutevolezza di queste multiple appartenenze con l’esigenza di stabilità e crescita di ogni
singolo nodo, come far sì che l’intera rete si comporti come un “attore collettivo” capace di
un governo?
4. Risultati. Se e come definire obietti o ri-articolarli velocemente nel tempo? Come valutare i
risultati delle diverse dimensioni economiche e sociali?
5. Decisioni e misura. L’organizzazione a rete – come e più dell’impresa tradizionale – cambia
per repentine innovazioni, per adattamento, per micro-decisioni, per miglioramento
continuo, è il risultato di scelte su cosa fare dentro e cosa comprare, su quali funzioni
accentrare e quali decentrare, su quando acquisire o vendere unità aziendali e su quando
fare accordi, dove allocare geograficamente le attività. Vi sono criteri e metodi da adottare,
per operare in questi contesti di agilità, velocità e rapidità di processi decisionali?
6. Sistemi. Quali tecniche o sistemi operativi adatti all’impresa rete dovranno essere
sviluppati? Quali sistemi di pianificazione e controllo di gestione dell’impresa rete, if any? È
possibile stabilire standard di qualità per la rete? Come sviluppare dimensioni quali
linguaggi, culture, politiche di marchio e di della visibilità, come potenziare le comunità,
come promuovere formazione e apprendimenti?
7. Strutture. Le reti di impresa includono una grande varietà di forme, come vedremo La rete di
imprese può includere una parte di gerarchia: quali modelli di organigrammi sono compatibili?
Quali sistemi informativi e di telecomunicazioni sono adatti per la rete di imprese? Le risorse
umane in tutta la rete si possono gestire e sviluppare? E in che modo? E che dire dei sistemi
di controllo della qualità?
8. Nascita e morte. La rete di imprese e soprattutto i suoi “nodi” hanno un tasso di
natalità/mortalità più elevato dell’impresa tradizionale. Gestire la nascita e la morte delle
imprese diventerà ancora più importante che gestire le imprese. Chi lo farà e come?
9. Vincoli e opportunità. La legislazione, le relazioni industriali, la cultura manageriale sono
oggi vincoli allo sviluppo di forme di rete di imprese. La globalizzazione dell’economia, lo
sviluppo dei servizi, le nuove tecnologie, la cultura dei giovani, invece, sembrano operare
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più come fattori facilitanti quando addirittura non cogenti. Come gestire (e non subire)
vincoli e opportunità? Cosa può fare l’impresa, e cosa possono fare le istituzioni pubbliche?
In tale quadro, una agenzia strategica (una grande impresa, una media impresa, Ente
governativo, una Camera di commercio, una associazione imprenditoriale) può esercitare un ruolo
centrale nel governo delle reti inter-organizzative per la competitività dei territori, mettendo a fuoco
i propri interventi di policy avendo come oggetto prioritario queste nuove forme di impresa, quasiimpresa, sistemi di impresa usando diverse leve:




innanzitutto, fornendo o favorendo l’accesso a risorse chiave, come finanziamenti, sgravi
fiscali, strutture per l’internazionalizzazione, ecc.;
agendo da fluidificatore delle reti tra imprese, che sappia rimuovere ostacoli nelle strutture
relazionali e a irrobustire nodi, processi, strutture di governance laddove necessario;
inserendosi direttamente nelle strutture relazionali come ponte per connettere nodi
disconnessi;
esercitando a pieno il ruolo di meta-manager di reti inter-organizzative, imprimendo al
sistema locale un indirizzo strategico di fondo (l’orientamento strategico di fondo della rete
di imprese), governando i processi politici interni alla rete, gestendo la distribuzione di
potere e risorse e creando le condizioni culturali, strategiche e organizzative favorevoli
all’esplicarsi delle potenzialità della rete;
facendo leva sull’essere un policy maker di rappresentanza cross-settoriale e multiterritoriale.
La nostra tesi è che azioni di governo della rete attraverso nuove forme di management e di
meta-management sono tanto più efficaci quanto più contribuiscono a supportare e strutturare reti
organizzative robuste o che tendono a diventare tali, ossia imprese reti e reti di impresa governate;
sono tanto meno efficaci o quanto meno misurabili quanto più supportano solo processi di
networking poco definiti destinati a rimanere tali. Nei termini di Axelsson, policy e management
hanno effetto su reti che esprimono a) modelli di relazione fra diverse organizzazioni per
raggiungere fini comuni e molto meno quando le reti di cui si parla sono solo b) “connessioni
lasche fra organizzazioni legate da relazioni sociali” o c) un insieme di due o più relazioni di
scambio.
1.
Prosperità, competitività e reti
In questa prima sezione del lavoro si introduce il tema, l’obiettivo del rapporto, che muove dalla
considerazione che la prosperità del sistema Paese è direttamente connessa con la competitività
delle sue imprese, dei sistemi e dei territori e che questa passa sempre più attraverso forme di reti
inter-organizzative.
Non vi è dubbio che l’obiettivo ultimo di ogni policy maker sia quello di contribuire ad
aumentare la prosperità economica e sociale del proprio Paese e la qualità della vita delle
persone. Questo può certamente essere misurato dal potere d’acquisto e dalla capacità di
produrre ricchezza (come mostrato in Figura 1) e rimanda, in prima battuta al livello di reddito
disponibile e alla equa distribuzione dello stesso all’interno della società.
Perché ciò sia realizzabile un Paese deve mantenere alto il proprio potere d’acquisto, quindi
deve essere in grado di competere con successo con Paesi terzi, lavorando sull’efficienza del
proprio sistema economico, investendo in ricerca, cultura e innovazione, favorendo il progresso
sociale, economico e tecnologico di persone e imprese, costruendo e presidiando le regole del
gioco competitivo sui propri mercati, agendo sul livello d’imposizione, ecc.
Non si vuole qui certo aprire un dibattito macro-economico ad ampio spettro sulle leve che
necessariamente un policy maker deve muovere per migliorare la prosperità del proprio contesto di
riferimento, quanto piuttosto porre l’attenzione da un lato sul fatto che l’Italia si colloca nel
quadrante più debole (Figura 1) in termini di prosperità tra le economie “avanzate” e dall’altro sul
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fatto che la prosperità di un Paese è in larga misura riconducibile alla propria competitività (Porter,
2008).
Attenzione che non è tanto importante su cosa si competa (settori di base, industrie high-tech,
turismo e cultura o altro), quanto come si competa in tali settori, ovvero ciò che conta è la
produttività nell’uso del capitale umano, intellettuale, economico, tecnologico e fisico. Perché
dunque cresca la prosperità è necessario essere maggiormente competitivi sul fronte della
produttività e per esserlo è necessario lavorare sulla capacità di innovazione delle imprese (Porter,
2010).
Da cosa dipende dunque la capacità di innovazione di un sistema di imprese? Certamente le
leve di policy utilizzabili sono molteplici: la qualità del contesto industriale, economico e sociale, la
disponibilità di infrastrutture qualificate e all’avanguardia, un sistema di servizi di supporto, un
moderno sistema di ricerca e istruzione. Parimenti conta molto la qualità delle imprese di cui si
dispone, il loro profilo di efficienza, la qualità delle strategie messe in campo, l’appetibilità dei loro
sistemi d’offerta per il mercato, la robustezza societaria e finanziaria, ecc. Tuttavia, larga parte
degli studi in campo strategico e organizzativo (Butera, 1990) mostra come sempre più ciò che
pesa in maniera decisiva sulla capacità innovativa di un sistema è la disponibilità di reti di imprese.
Figura 1. La prosperità dei Paesi (OECD, escluso Lussemburgo)
Fonte: Porter (2010) su dati EIU (2010)
Come verrà ampiamente illustrato in questo rapporto l’organizzazione a rete (nelle sue varie
forme) consente, infatti, una più veloce circolazione delle informazioni, la condivisione di visioni,
saperi e conoscenza, l’efficiente e rapido scambio di risorse e competenze per competere,
assicurando al tempo stesso specializzazione, efficienza e quindi alti livelli di produttività (Porter,
2010). Si pensi alla straordinaria esperienza dei distretti industriali Italiani o degli attuali cluster
oggi molto diffusi nel mondo; alla trasformazione delle filiere in reti del valore; alla nascita di
moderni ed efficienti parchi scientifico-tecnologici, ecc.
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Ecco, dunque, che si apre uno spazio di intervento straordinario per i policy maker nella
attivazione, incentivazione e supporto di reti inter-organizzative capaci di condurre a superiori livelli
di competitività dei territori e quindi a una maggiore prosperità.
Simili strategie richiedono un deciso avanzamento delle conoscenze e della strumentazione
organizzativa su due terreni non convenzionali rispetto alla cultura economica e manageriale
classica: la piena comprensione della struttura e del funzionamento di soggetti economici nuovi,
poco noti e in continua trasformazione (le reti di imprese e le imprese rete), la identificazione e la
attuazione di forme innovative di governance esperite da singoli soggetti (ad esempio le medie
imprese) o da sistemi di governance istituzionale o multilivello (agenzie e enti costituite da
amministrazioni locali, associazioni imprenditoriali, banche, fondazioni bancarie, camere di
commercio, ecc.).
Il secondo capitolo di questo studio è dedicato appunto all’identificazione delle tipologie e della
grammatica delle reti organizzative e delle imprese rete, come base indispensabile per l’analisi,
gestione e progettazione di questi nuovi soggetti collettivi e l’attivazione di politiche industriali.
Il terzo capitolo contiene un’analisi della varietà delle forme reticolari e, attraverso una ampia
gamma di casi e esempi, mette in evidenza le loro profonde trasformazioni che la globalizzazione
e la crisi economica stanno operando sulle reti organizzative che avevano caratterizzato il sistema
produttivo italiano negli anni passati. Dalle esperienze di imprese e territori che si dispongono in
reti globali governate emerge la centralità delle reti di imprese per la competitività del Sistema
Paese, per la prosperità economica dei territori e un nuovo modello industriale, una Italian Way of
Doing Industry.
Il quarto capitolo descrive il ruolo degli attori istituzionali nel rinnovamento delle forme reticolari,
e in particolare la media impresa , i governi nazionale e regionali,le associazioni imprenditoriali, le
camere di commercio.
Il quinto capitolo affronta il problema della governance delle reti organizzative partendo
dall’allargamento del concetto di prossimità geografica a quello di prossimità cognitiva. Tre sono le
dimensioni della governance delle reti (policy e management): infrastrutturale (trasporti, edilizia,
tecnologie, servizi, ecc.), relazionale (governo dei flussi e delle architetture di connessione, dei
sistemi informativi e di comunicazione, ecc.), cognitiva (capitale umano, capitale intellettuale,
sistema di valori e norme, ecc.). Tutti e tre sono importantissimi e vanno gestiti congiuntamente ma
la scelta operata dalla nostra ricerca è quella di dare priorità alla dimensione relazionale in quanto
area su cui è più praticabile l’azione di chi si candida ad attivare sistemi di governance, quella che
definiremo l’area del management e del meta-management. Viene presentata in particolare
un’ipotesi nuova di un ruolo di meta-management di rete di cui vengono delineati i primi elementi
costitutivi.
Il quinto capitolo si concentra sulle opportunità delle agenzie strategiche nella governance delle
reti organizzative, nell’attivare e contribuire a sistemi di collaborazione fra pubblico e privato nella
promozione della competitività e innovazione sui territori e nella internazionalizzazione. Due sono
le principali funzioni identificate: la fluidificazione delle relazioni di rete (associazionismo,
cooperazione, soluzione di conflitti, ecc.) e la copertura di “buchi strutturali” (consorzi, sistemi
informativi, servizi avanzati, ecc.) Il rapporto pone le basi per lo sviluppo di una fase ulteriore di
ricerca empirica basata su casi e su un benchmark internazionale. Si sono così costituite le
premesse per ulteriori approfondimenti sulla nuova natura delle reti organizzative, sulla
governance (policy e meta-management) di rete.
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2.
Le reti inter-organizzative: varietà, grammatica e classificazione
Dalla confusione della polisemia a una scelta concettuale netta: la rete come
organizzazione complessa di nuova concezione
La centralità delle reti di impresa per la prosperità dei territori è ormai assodata. Si è sviluppata
in anni recenti un’intensa attività di ricerca sulle reti inter-organizzative, ma si è sviluppata anche in
vari contesti (pubblici, privati, associativi, mediatici, politici, giurisprudenziali, ecc.) una “retorica
delle reti”, il cui risultato è che oggi non si sa più cosa sia “rete”.
I paradigmi adoperati sono numerosi: una ricerca di Oliver e Ebers (1998) individuò almeno 12
paradigmi scientifici a cui si ispirano 78 autori che hanno scritto di reti organizzative nelle principali
riviste solo in campo organizzativo. Se rifacessero oggi il loro lavoro troverebbero certamente non
meno di 7.800 autori e non meno di 120 modelli di riferimento, senza contare la letteratura non
accademica. Nella corsa a coprire un “dominio” linguistico, gli informatici hanno finito con
l’occupare quasi totalmente il termine “rete”. Il linguaggio della prassi manageriale usa a proposito
e, talvolta, anche a sproposito il termine “rete”. Nei media il termine strabocca e molte norme e
politiche pubbliche usano lo stesso termine per indicare cose assai eterogenee.
Axellsson (in Axelsson e Easton, 1991) sintetizza la grande varietà di approcci adottati nelle
scienze organizzative in tre grandi gruppi: a) il primo gruppo vede la rete, il network, come modello
di relazione fra diverse organizzazioni per raggiungere fini comuni (Van de Ven e Ferry, 1980); b) il
secondo gruppo definisce il network come una serie di connessioni “lasche fra organizzazioni
legate da relazioni sociali” (Aldrich, 1999); c) il terzo gruppo vede i network come un insieme di
due o più relazioni di scambio (Emerson, 1972; Cook, 1981). Axellsson chiarisce bene che solo la
prima accezione implica appartenenze, confini, obiettivi, risultati, ossia qualcosa che assomiglia a
ciò che una volta si definiva una organizzazione. Nelle altre accezioni il network è piuttosto una
proprietà della relazione e dello scambio: ogni soggetto appartiene a più network e li attiva
secondo i propri interessi. Ciò che rimane stabile è il pattern della relazione ma non i processi
economici e sociali né la struttura né i soggetti. La modellazione della relazione che non ha confini,
membership permanenti, e non ha strutture sociali, si incontra con una concezione di network
come modello di sistema di comunicazione e sostenta la tecnologia ICT. Noi, sin dal volume “Il
castello e la rete” del 1990 (Butera, 1990), abbiamo adottato di Anellone la prima accezione: la
rete organizzativa è un modello di relazioni per raggiungere fini comuni, fra soggetti che tendono a
operare come un unico attore collettivo. Ogni componente della rete può appartenere a diverse reti
inter-organizzative e gli attori collettivi rappresentati dalle reti possono essere altamente mutevoli
nella loro strutturazione della catena del valore, dei processi, composizione. Tuttavia in un
momento nel tempo le reti inter-organizzative così concepite sono un nuovo attore collettivo
(Pichierri, 2005). Per questo chiameremo i casi sub a) networks, reti inter-organizzative e i casi b)
e c) sistemi di relazioni, networking.
Da un punto di vista organizzativo rete include certamente sistemi di relazione fra attori, legami
fra soggetti che convergono a realizzare un medesimo processo di produzione e/o di business,
legami fra sistemi di coordinamento e di governo (Grandori, 1995).
Per fuggire da una possibile e crescente babele concettuale attorno al concetto di “rete”, si
affronta qui di seguito il tema, inquadrandolo come forma di trasformazione dell’impresa, offrendo
una rassegna delle possibili forme di imprese a rete e di reti di impresa e suggerendo una lettura
“tassonomica” che possa guidare i policy maker nella comprensione del fenomeno e nell’esercizio
di un ruolo di governance delle reti di imprese.
Reti di imprese e imprese reti al centro del cambiamento del sistema industriale
italiano
Il sistema industriale italiano ha sviluppato in modo pionieristico e continua a produrre un
repertorio di nuove forme organizzative basate su forme di rete:

la grande impresa si è articolata in unità più autonome e ha decentrato e delocalizzato,
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





generando vere e proprie imprese-rete;
la media impresa ha attivato e animato filiere di imprese indipendenti su scala locale e
globale;
le piccole imprese che producono prodotti finiti o che forniscono componenti per altre
imprese oggi si sviluppano in nuovi distretti allungati, distretti tecnologici, metadistretti o
cluster;
oltre ai rapporti di subfornitura le relazione fra le imprese di diverse dimensioni hanno
preso la forma di consorzi, accordi di rete, partecipazione e sostegno di fiere,
programmi congiunti di internazionalizzazione, ecc.;
le imprese si legano fra loro in forma di rete non solo quando producono lo stesso bene
o servizio ma anche quando competono, quando condividono sul territorio gli stessi
beni comuni per la competitività;
le imprese sono spesso sono legate entro piattaforme che includono soggetti di
dimensioni e settori diversi: la piattaforma meccanica, il sistema moda, il sistema
dell’aerospazio, la piattaforma informatica, ecc.;
reti organizzative meticce che includono settori diversi (industria, servizi, commercio) e
entità diverse (imprese, istituzioni, professioni).
Tutti questi sono sempre più i nuovi attori con cui confrontarsi per la declinazione di politiche
industriali.
Reti di imprese e imprese rete: diverse manifestazioni di forme organizzative
reticolari
Perché esistono le reti tra imprese? Cosa sono le imprese rete? Quali sono le variabili che
spingono le imprese a costituire forme organizzative di tipo reticolare? Diverse sono le motivazioni
strategiche che spiegano la nascita di forme organizzative di tipo reticolare: dall’uso di risorse
comuni al potenziamento dei processi di internazionalizzazione, all’accrescimento della capacità di
ricerca e sviluppo e innovazione, allo sviluppo di nuove competenze o nuovi prodotti, al
perseguimento di processi di specializzazione o di diversificazione, alla focalizzazione sulle
competenze distintive e la corrispondente ricerca di efficienza operativa attraverso gli attori
coinvolti nelle relazioni.
Le reti di impresa attirano in maniera crescente l’attenzione degli studiosi a partire dagli anni
’80 a seguito del manifestarsi di alcuni fenomeni specifici. Ad esempio, Perro (199 ), osservando
il progressivo declino dell’impresa verticalmente integrata, evidenzia come nella seconda metà del
XX secolo si siano progressivamente diffuse forme di organizzazione economica, collocabili
idealmente all’interno di un continuum che vede ai propri estremi l’impresa verticalmente integrata
e le reti di piccole imprese.
Filiere, costellazioni e distretti sono forme di “imprese e territori in rete” già ben studiate e
addirittura oggetto di atti normativi e di politiche industriali.
In particolare, una classe di situazioni assai nota è quella che fa riferimento ai sistemi di
imprese (omogenee o disomogenee) su base territoriale, come quelle che Becattini (1998) ha
chiamato “distretti industriali”. Si tratta di sistemi che connotano uno specifico insediamento
regionale o anche aree regionali più vaste caratterizzate da una favorevole “atmosfera industriale”
e dall’uso di risorse comuni (esperienze, istruzione, marketing territoriale, ecc.). I distretti sono
costituiti da imprese indipendenti (tipicamente di piccole dimensioni) che producono prodotti o
servizi simili, o parti dello stesso prodotto-servizio o che sono nello stesso business: condividono le
stesse risorse, talvolta lo stesso marchio, la stessa base di conoscenza diffusa, spesso lo stesso
processo produttivo o processi paralleli. I loro meccanismi di regolazione sono basati su
competizione e cooperazione. Hanno sempre un confine, un sistema di appartenenze, un sistema
di governance. Lo studio delle economie regionali e dei distretti industriali (si vedano i lavori di
Bagnasco, Becattini, Brusco, Trigilia, Lorenzoni, Vaccà, De Rita e altri) rappresenta una delle aree
di investigazione scientifica più sviluppate e originali realizzate in Italia, tanto da avere influenzato
un autorevole filone di studi internazionali (si pensi ai lavori di Sabel, Sengerberger, Piore, Pyke e
altri).
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Una diversa tipologia è quella basata sulla frammentazione del ciclo del processo fra imprese
distinte è quella delle filiere o delle costellazioni di imprese ossia di sistemi di imprese che si
dividono il lavoro necessario per realizzare un intero ciclo di produzione e di valorizzazione. Esse
possono essere soggette alla regia di un’impresa grande o media “pivotale”, vale a dire di
un’agenzia strategica che tiene prevalentemente il rapporto con il mercato e che detta le condizioni
dei piani di sviluppo. Tuttavia, nella quasi totalità dei casi le imprese appartenenti a una filiera non
hanno fra loro collegamenti societari né organizzativi o anche solo accordi formalizzati di lunga
durata. Esse dispongono sempre di potenti sistemi di cooperazione operativa, di accordi
economici, di sistemi informativi, di sistemi di controllo di qualità. La “piccola impresa si fa grande”.
L’area di ricerca che ha esplorato l’economia dei costi di transazione (tra tutti, Williamson) e
l’emergenza degli accordi, dei network industriali, delle imprese rete (come nei lavori di Miles e
Snow, Imai, Eccles, Nohria, Grahber, Dioguardi, Butera, e altri) ha ulteriormente illuminato le reti a
base non territoriale. Autori come Lorenzoni, Varaldo, Rullani, Bertelè hanno sviluppato studi e
analisi sulla realtà italiana che hanno confermato la necessità di guardare non solo le reti di piccole
imprese ma anche quelle grandi e medie come organizzazioni a rete.
Negli ultimi decenni del
secolo l’impresa verticalmente integrata sembra sempre più
lasciare spazio a forme organizzative reticolari che connettono la grande impresa con le piccole
imprese e con i distretti, l’impresa rete.
Le grandi e medie imprese transazionali ricorrono in modo estensivo all’outsourcing o
all’offshoring. Tali imprese fanno anche un grande ricorso a strutture di subfornitura esterna o di
collaborazione esterna, verso cui adottano politiche e sistemi operativi per influenzarne
indirettamente l’organizzazione, gli standard di qualità, il know-how. L’impresa centrale
interamente decentrata e i suoi fornitori, quindi, fanno parte di un medesimo processo, anche se
per certi aspetti esso è fuori dal formale controllo giuridico e organizzativo dell’impresa centrale.
L’impresa centrale integra le proprie strutture interne con le aziende fornitrici non solo attraverso gli
strumenti di gestione degli acquisti (procurement, pricing, tempi di pagamento, vendor rating, ecc.)
ma soprattutto attraverso sistemi operativi (accordi, prezzi di trasferimento, sistemi di
pianificazione, sistemi logistici, CRM, sistemi di reporting, sistemi di controllo della qualità, ecc.),
strutture integratrici (team, task force, comitati fra interno ed esterno, ecc.) e soprattutto attraverso
modalità di regolazione sociale (corporate culture, management philosophy, brand, ecc.).
Molte di esse sono anche imprese piatte che, pur conservando un’unicità di struttura
proprietaria e organizzativa, si articolano al loro interno non solo in strutture gerarchico-funzionali,
ma anche in strutture operative cellulari. La “grande impresa si fa piccola”.
A questi tipi di imprese, dai confini e dalle identità labili, sono state attribuite nel passato
diverse denominazioni come impresa transazionale alla Coase, quasi-impresa alla Eccles e
Nohria, network organization, struttura dinamica di reti alla Miles, Snow, Mathews e Coleman,
macro-impresa nell’accezione di Dioguardi o impresa a sistema solare alla Piore e Sabel.
Costituisce un’altra tipologia di reti organizzative la divisione del lavoro fra imprese lungo
processi omologhi, come il caso di quei sistemi imprenditoriali consortili di imprese giuridicamente
autonome ma legate fra loro da forti vincoli associativi e da strutture consortili di servizio, come le
cooperative di consumo, che controllano in modo consortile alcune fasi della catena del valore del
sistema complessivo avendo messo in comune il marchio, gli acquisti e talvolta i magazzini.
Un caso a parte è quello degli accordi, come quelli nell’elettronica e nella chimica, studiati per
la prima volta da Ciborra (1983). Da questi studi risulta che tali accordi non hanno solo un
contenuto economico, ma configurano veri e propri sistemi di “quasi-impresa” costituiti non da
legami proprietari o gerarchici, ma da legami che hanno per oggetto, oltre alle dimensioni
economiche classiche di scambio, anche quelle tipicamente strutturali come la struttura del
portafoglio di business, i modi di fare ricerca e sviluppo, la logistica, la struttura dei sistemi
informativi e di telecomunicazioni, le politiche di sviluppo delle risorse umane, ecc.
Una forma introdotta da fonti normative è quella dei contratti di rete, in cui le imprese che
vogliono operare in rete su specifici progetti ricevono agevolazioni finanziarie, fiscali e di servizi.
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È in atto, in sintesi, una convergenza fra piccole imprese che si legano fra loro operando come
le grandi imprese e grandi/medie imprese che si articolano all’interno e all’esterno operando non
più con strutture massicce ma con unità intere ed esterne piccole e flessibili. Filiere, costellazioni,
distretti sono forme di “imprese e territori in rete” costituite da imprese indipendenti che producono
prodotti simili o parti dello stesso prodotto o che sono nello stesso business mentre l’impresa rete
può essere concepita come l’ultimo stadio di un ventennio di intensi processi di decentramento e di
riarticolazione della grande impresa. In essa imprese esterne e unità organizzative interne
rappresentano non solo alternative di fornitura (make or buy) scelte in base a costi e affidabilità,
ma anche nodi o sistemi vitali capaci di una propria strategia autonoma e dotati di strutture
adeguate
allo
sviluppo.
I vantaggi di operare in rete
La messa in rete dà alle imprese molti vantaggi perché le fa operare come se fossero un unico
soggetto collettivo, guidato da economie simili a quelle che assicurano vantaggi alle imprese di
maggiori dimensioni ma conservando la flessibilità e la responsabilità imprenditoriale diffusa.
Tra i principali vantaggi dell’operare in forma di rete si ricordano:








l’accesso ad un più alto volume e qualità di risorse finanziarie, informazioni, materie
prime, legittimazione, ecc.;
lo sviluppo di nuove competenze o di nuovi prodotti in forma collaborativa;
lo sviluppo di nuove conoscenze e di nuova informazione;
il perseguimento di processi di specializzazione o di diversificazione;
la condivisione dei rischi;
la riduzione dei costi di transazione;
la creazione di incentivi all’apprendimento e alla diffusione delle informazioni
la valorizzazione delle risorse intangibili come le conoscenze tacite.
Ad esempio, 10 piccole imprese metalmeccaniche di Unindustria Bologna hanno deciso di unire le
proprie forze per un obiettivo comune: conquistare i mercati esteri. Integrated Subcontractor Bologna
(IS Bologna) è una aggregazione di piccole e medie imprese complementari della stessa filiera:
Meccanica Sarti (lavorazioni meccaniche), Fiocchi Libero (lavorazioni meccaniche), CB (lavorazioni
meccaniche), FAM (fonderia), Fonderia Atti (fonderia), Fonderie Palmieri (fonderia), Wegaplast
(stampaggio plastica), OZ (carpenterie), Tecnolamiera (carpenterie), Tinti & Tolomelli (carpenterie). Il
modello adottato prevede un servizio integrato per ridurre i costi di produzione e che un rapporto
forte tra l’azienda a cui fa capo la quota di maggior peso nella realizzazione dei manufatti e il cliente.
Una simile rete supera i personalismi tipici delle PMI e favorisce l’agire di gruppo (Osservatorio
Unicredit Piccole Imprese, 2010).
L’impresa a rete o la rete di imprese, come già detto, assomigliano quindi a un nuovo soggetto
collettivo che:






gestisce i processi di rete;
controlla la “rete del valore”
genera e sviluppa sia unità organizzative interne che operano come quasi-imprese sia
imprese economicamente autosufficienti (“nodi vitali”)
configura, seleziona e tiene attive le connessioni multiple tra unità organizzative interne
e imprese esterne (legami o “connessioni di rete”)
si presenta come un insieme di strutture: una struttura gerarchica, un mercato, un
sistema informativo, un sistema logistico, un sistema di comunicazione, una cultura, un
sistema politico (“strutture composite e coesistenti”)
configura un sistema di modalità operative e di governo, fra mercato e gerarchia.
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Reti governate centralmente e reti inter-organizzative naturali
Per iniziare a ordinare la grande varietà di forme di reti organizzative, iniziamo a distinguere
l’organizzazione a rete governata centralmente e l’organizzazione a rete naturale.
Ci troviamo in presenza di una organizzazione a rete governata centralmente, allorché un
soggetto imprenditoriale identificato – privato o pubblico – provveda in maniera intenzionale e
unitaria a progettare, gestire, mantenere nel suo complesso un sistema come un unico soggetto
collettivo (ad esempio una filiera). È ovviamente questo il caso in cui l’agenzia strategica è
assicurata dalla grande o dalla media impresa che attiva intensi processi di decentramento,
esternalizzazione, terziarizzazione, outsourcing, e così via, e diventa impresa rete. L’agenzia
strategica è una impresa pivotale ed esercita in questi caso modelli di management nuovi, spesso
ad alta intensità di gestione delle infrastrutture informatiche, attraverso l’uso di prezzi di
transazione, processi di unificazione culturale, modalità di assicurare la qualità in tutti i punti,
partecipazione. Spesso l’impresa pivotale realizza le proprie strategie influendo sull’organizzazione
degli altri, e gli altri (le imprese e le istituzioni della rete) sviluppano le proprie strategie e
organizzazioni influendo su quelle dell’agenzia strategica. La Fiat, per esempio, ha influito sulle
strategie dei suoi fornitori, la Brembo (nato come fornitore di un solo componente) ha influito sulle
strategie della Ferrari prima e della Fiat dopo.
L’organizzazione a rete naturale è “un sistema di riconoscibili e multiple connessioni e strutture
entro cui operano imprese o unità organizzative di imprese e amministrazioni, ossia “nodi” ad alto
livello di autoregolazione (sistemi aperti vitali), capaci di cooperare fra loro (ossia di condurre vari
tipi di transazioni efficaci) in vista di fini comuni o di risultati condivisi” (Butera, 001). Il loro
governo è largamente ottenuto attraverso sistemi operativi comuni (costi di transazione, contratti,
logistica, informatica, beni comuni, ecc.) e talvolta da governance bodies, “istituzioni di governo”,
“agenzie strategiche”, compositi e multilivello (come vedremo oltre). Sono sempre più frequenti i
casi in cui, vi è un intervento di soggetti pubblici e privati di solito in cooperazione fra loro, per
assicurare alla rete naturale orientamenti strategici condivisi, ottimizzazioni, economie di scala,
supporti per operare come un unico soggetto collettivo (acquistare, vendere, accedere al credito,
partecipare a fiere, formare il personale, ecc.): in tali casi la rete naturale diviene anch’essa
governata, come vedremo da sistemi di meta-management. È, ad esempio, il caso dei consorzi e
dei contratti di rete di cui parleremo avanti.
I casi di organizzazioni a rete che presenteremo sono collocabili in un continuum che ha, da
una parte, casi di sistemi di impresa governati da una impresa pivotale, che opera con un alto
livello di subfornitura; dall’altro, casi di sistemi di imprese indipendenti che condividono una stessa
catena del valore e uno o più fra i processi fondamentali (progettare, produrre, vendere,
promuovere l’identità). In entrambi i casi le relazioni, il networking, sono un attributo essenziale di
una nuova struttura non un fenomeno indistinto a sé.
È, dunque, possibile individuare due macro-categorie entrambe riconducibili al concetto di
organizzazione a rete:


l’impresa rete, che configura una situazione in cui “la grande impresa diventa piccola” e
“la media impresa” diventa grande” attraverso processi di ricorso a subforniture di
attività produttive e funzioni;
le reti di imprese, in cui “la piccola impresa diventa grande” entrando a far parte di reti
di imprese più o meno formalizzate, spesso – ma non necessariamente – localizzate in
un’area geografica delimitata.
L’impresa rete include una grande varietà di forme organizzative, tra cui le principali sono:

imprese rete “a base gerarchica”, in cui domina una singola impresa con un alto tasso
di subfornitura o outsourcing e in cui i processi vengono disegnati dall’impresa
dominante in modo da includere nello stesso flusso sia unità interne sia imprese
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
esterne (queste ultime sono spesso imprese medie o grandi). In questo tipo di imprese
è dominante la struttura gerarchica interna, ma vi sono forti relazioni di influenza e
negoziali con altre imprese medie e piccole (è il caso delle grandi imprese e delle
medie imprese dominanti sul loro sistema di forniture);
imprese rete “a centro di gravità concentrato” su una sola agenzia strategica con una
modesta struttura gerarchica interna, con prevalenti relazioni di influenza e negoziali
(ad esempio sistemi regolati da holding finanziarie, aziende industriali no manufacturing
come Benetton, ecc.). Tale agenzia detiene le risorse chiave (accesso al mercato,
marchio, sistema informativo, standard di qualità, capacità di finanziamento) e detta le
condizioni tecniche, procedurali, commerciali ed economiche ad una serie di imprese
sub-fornitrici che pur essendo giuridicamente autonome sono spesso legate da rapporti
di fiducia e di dipendenza nei confronti dell’agenzia stessa.
La forma organizzativa tramite la quale “la piccola (e media) impresa diventa grande” –
accresce cioè la propria capacità competitiva – è la rete di imprese. In questa categoria possiamo
collocare le due rimanenti tipologie individuate da Butera:


reti di imprese “con centri di gravità multipli”, in cui il sistema ruota intorno a diverse e
succedentesi agenzie strategiche, con relazioni di influenza complesse e mobili (ad
esempio filiere, costellazioni, piattaforme industriali, ecc.);
reti di imprese senza centro, caratterizzate dalla mancanza di una forma stabile e
visibile di governo. Ne sono un esempio i sistemi a base territoriale di molti distretti
industriali, i parchi scientifici, i contratti di rete.
Aumentano in tutti i casi le relazioni fra le imprese, le istituzioni e i territori: si attivano
cooperazione, si scambiano conoscenze, si attivano comunicazioni, si costruiscono comunità e
identità. Il modello 4C (Butera 2001; 2009) indica l’esistenza di meccanismi attivatori (enacting
mechanism come li chiama Weick) che assicurano produttività, innovatività, agilità alle
organizzazioni. Le quattro C ossia Cooperazione, Conoscenza, Comunicazione e Comunità, che
nelle organizzazioni accentrate, ossia nelle “organizzazione castello” rappresentano solo un
funzionamento organizzativo virtuoso e non burocratico (ossia il “ben organizzare”), nelle imprese
rete e nelle reti di impresa sono invece elementi costitutivi strutturanti. Approfondiremo il tema
delle relazioni nel modello di governance presentato più avanti.
Il problema chiave della nostra ricerca e dell’azione che ne consegue è il seguente: è possibile
misurare i risultati di azioni di policy, di strategia e di gestione, di management, di metamanagement quando queste tendono a potenziare le 4C entro imprese reti o reti di impresa? La
risposta è certamente positiva poiché sono azioni sulle catene del valore e sui processi di un
“attore collettivo” di cui è possibile misurare le performance. Lo stesso quesito riferito alle imprese
reti naturali, porta a risposte cariche di dubbi: sono azioni con risultati misurabili o sono azioni
anche buone in sé la cui efficacia è non valutabile? Supportano un networking mal definito o
favoriscono la strutturazione della rete verso forme robuste di agire collettivo? Sono azioni di
management o meta-management o esercizi auto referenziati di politics tra soggetti che
amministrano risorse economiche o di potere?
Gran parte delle esperienze che riporteremo sono in realtà azioni di meta-management in cui il
rapporto fra risorse impiegate e risultati appare critico.
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Nuove forme di reti di organizzazioni e di imprese reti
Reti di organizzazioni che si allontanano dal modello molecolare del distretto o del cluster
(Porter, 1991) sono oggi il frutto di processi di globalizzazione delle catene del valore, di
delocalizzazione o rilocalizzazione produttiva, di driver tecnologici (trasporti e comunicazioni in
primis) e della progressiva focalizzazione delle imprese su attività specializzate.
La letteratura più recente ha messo in evidenza un intensificarsi e moltiplicarsi delle forme di
networking tra imprese. Da un lato sono sempre più ravvisabili organizzazioni guidate da agenzie
strategiche territoriali con funzioni di meta-management (Visconti, 2002) – di cui parleremo più
avanti – o da medio-grandi imprese capaci di esprimere processi unitari di controllo del business.
Dall’altro, le filiere produttive si allungano oltre i confini geografici del distretto o della regione e si
connettono con le più ampie filiere globali, determinando delle vere e proprie global value chain
(Gereffi et al. 2005). I distretti industriali hanno aperto i propri confini relazionali rompendo la
rigidità dei legami di prossimità e avviando forme di rete lunga (es: meta-distretti, costellazioni di
imprese multidistrettuali, ecc.).
Nuovi cluster di imprese vanno formandosi in settori ad alta tecnologia (es: biotecnologie, nuovi
materiali) e nei servizi (es: logistica, energia). Infine le reti si sostituiscono alle medio-grandi
imprese che si scompongono in nodi specializzati lungo la filiera.
In Brianza, ad esempio, il sistema economico è tradizionalmente formato oltre che da unità
produttive di grandi imprese anche da filiere di imprese medie e piccole eccellenti operanti spesso su
mercati internazionali (Butera et al., 2006). La Brianza per anni ha rappresentato un modello
esemplare di reti di impresa di diversi settori che si incrociavano e si rafforzavano a vicenda nello
stesso territorio. Pensiamo alla stretta relazione tra il distretto del mobile, il sistema milanese del
design e la proiezione internazionale e al rapporto fra settore e filiere del legno-arredo e settore e
filiere delle macchine utensili. Pensiamo alla presenza sul territorio della Brianza non solo di grandi
imprese (come ST Microelectronics), ma anche di medie imprese eccellenti (come Rottapharm, Soi,
Elesa e molte altre): tutte prosperavano e (tranne la grande impresa) erano generate da un
“patrimonio imprenditoriale e organizzativo”. In passato, questa dimensione territoriale era il
contenitore delle attività imprenditoriali; ora, invece, appaiono in primo piano le reti di impresa
centrate su processi scientifico-tecnologici più sofisticati, su tassi di innovazione di ordini di
grandezza più alti, su scale geografiche più estese. Ad esempio, Rottapharm ha acquisito una casa
farmaceutica tedesca estremamente prestigiosa; Flou da azienda specializzata nella produzione di
letti è diventata un’impresa di sistemi per dormire e si proietta internazionalmente; Cassina è
diventata parte di Poltrona Frau Group, che opera in tutto il mondo; il sistema professionale di ST
attira altre imprese internazionali. Si assiste per alcuni versi alla modernizzazione del cluster
tradizionale, per altri a un processo di “allungamento” dei distretti tradizionali in nuove forme di rete.
In molti casi, medie imprese eccellenti svolgono un ruolo di regia e attivazione di reti
internazionali di imprese che cooperano e competono e che si distribuiscono porzioni di catena del
valore crescenti. Esse vengono descritte come medie imprese di successo diventate o in via di
diventare grandi, sostanzialmente deterritorializzate e operanti in un “mondo piatto” (Slovacchia,
Romania, Cina, Vietnam, ecc.). I casi celebrati di Brembo, Luxottica, Technogym, Armani, Geox
sembrano appartenere ormai più al mondo globale che al solo territorio. La loro nascita e la loro
crescita è dipesa certamente dalle qualità degli imprenditori che le hanno create e guidate ma esse
si sono sviluppate sulla base del modello della rete: outsourcing, offshoring, autonomia vitale di
tutti i componenti della rete (progettisti, pubblicitari, fornitori, distributori, negozi), gestione
straordinaria di tutte le strutture di interconnessione, forte governance. In realtà il loro orientamento
alla strategic reach non esclude che esse abbiano fruito sul territorio di beni collettivi per la
competitività (Pacetti, 2009) che premiano la geographical reach. Tale fenomeno è ben espresso
dalla studio di Alberti et al. (2008) in cui Geox, Alessi, Illy e Luxottica si vanno configurando come
imprese rete articolate su scala globale.
In sintesi – come si avrà modo di approfondire più avanti – la crescita di queste “imprese rete”
è stata possibile grazie a infrastrutture materiali e immateriali, architetture relazionali e saperi che
trascendono i tradizionali confini delle reti a prossimità locale.
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La grammatica delle reti
Al fine di distinguere network e networking, è necessario definire una sorta di “grammatica delle
reti” (Butera, 1990, 2001, 2009), fatta di:
1. una doppia catena del valore: il valore economico e il valore sociale che si rinforzano a
vicenda;
2. processi interfunzionali, interaziendali e interistituzionali che attraversano imprese e unità
organizzative diverse;
3. nodi produttivi (imprese, unità organizzative, ruoli professionali) e istituzionali (enti pubblici,
comuni, scuole e gruppi sociali), vitali e capaci di sopravvivere e prosperare
autonomamente;
4. connessioni e relazioni lasche o forti che connettono i nodi (scambi economici, procedure,
informazioni, comunicazioni, relazioni sociali, rapporti di potere, ecc.);
5. strutture multiple che devono essere fra loro coerenti e adatte alle strategie e alle sfide
(gerarchia, mercato, sistema informativo, strutture sociali, strutture politiche, ecc.)
6. le proprietà operative peculiari, come i sistemi decisionali, di regolazione dei conflitti, di
rafforzamento dell’appartenenza alla rete, di creazione d’identità, di governance.
Questa “grammatica” ci consente di analizzare e di esplorare la varietà delle nuove forme
assunte dalle reti di impresa e dalle imprese rete.
1. Le reti organizzative sono tali quando i soggetti che le compongono condividono una
stessa catena del valore: è dal potenziamento dell’intera catena del valore che deriva
l’aumento di valore del segmento in cui ogni componente è collocato. Catena del valore
economico e catena del valore sociale si rinforzano a vicenda attraverso il ciclo “redditività investimento - visibilità - supporto sociale interno e esterno - strategie compatibili”.
2. Una rete organizzativa è tale se controlla uno o più processi fondamentali (ideare,
progettare, produrre, acquistare, vendere, promuovere l’identità, amministrare). Nelle reti
verticali (es. le filiere del mobile della Brianza) i processi principali implicano una divisione
del lavoro per fasi; nelle reti orizzontali (per es. Prato) i processi in comune sono quelli
relativi al coordinamento e all’innovazione, mentre rimangono replicati in parallelo (e
competitivi) i processi fondamentali.
3. I nodi, che sono parti costitutive di un’organizzazione a rete, sono entità grandi o piccole
orientate ai risultati, relativamente autoregolate, capaci di cooperare tra loro e di
“interpretare” gli eventi esterni. Essi possono essere interni o esterni ai confini giuridicoamministrativi di un’impresa: possono essere, cioè, sia unità giuridicamente autonome
(un’impresa), sia unità organizzative interne a una singola impresa. Nodi di
un’organizzazione a rete sono ad esempio: una holding, un’impresa autonoma, ma anche
un ente pubblico, un consorzio, una business unit, un gruppo di lavoro, un ruolo
organizzativo, una persona (es. un designer o stilista).
4. Una parte costitutiva della rete è data dalle connessioni o relazioni fra i nodi. Tali
connessioni sono di varia natura, coesistenti e in molti casi sinergiche più che opposte. Le
connessioni burocratiche sono quelle più tradizionalmente visibili, quelle cioè che più danno
la sensazione di un sistema “organizzato”: ordini, norme, procedure. In un’impresa rete
esse esistono e sono importanti, rappresentano però solo alcune fra le connessioni che
tengono unito il sistema. Nell’organizzazione a rete è fondamentale lavorare insieme su un
problema, prendere una decisione collegiale, portare a termine un progetto. Per questo
contano di più altri tipi di connessioni: per esempio le regole e le pratiche della
cooperazione lavorativa, i canali e le forme di comunicazione, lo scambio della
conoscenza. Le transazioni economiche sono fra le connessioni più importanti nel sistema:
prezzi di transazione di merci e servizi scambiati nel sistema, sia fra imprese che fra unità
organizzative. Le informazioni formalizzate che passano attraverso reti informative sono
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sempre più connessioni fondamentali del sistema: molte delle imprese rete sopravvivono e
si sviluppano per i sistemi di ICT che supportano sistemi di programmazione, logistica,
controllo di gestione, ecc. Le interazioni che avvengono nelle riunioni, negli incontri, nelle
telefonate, nei team intra e inter-funzionali sono connessioni fondamentali per funzionare
come una comunità di lavoro. Anche in termini di connessioni, legami, si assiste a un
complicarsi del fenomeno, con la coesistenza – all’interno della stessa rete – di meccanismi
di connessione dei nodi della rete formali-burocratici, sociali o con scambio di capitale al
tempo stesso.
5. Le reti di imprese e le imprese rete sono strutture composite governate. La configurazione
dei nodi e delle connessioni dà luogo a strutture tipiche. Nell'impresa rete convivono
strutture diverse. Convivono strutture "dure" (descrivibili e razionalmente progettabili) e
strutture "morbide" (che riposano su razionalità diverse e che possono essere influenzate,
ma non pienamente progettate). Esempi di strutture conviventi nel sistema sono: strutture
di proprietà (partecipazioni azionarie); strutture di governance (consigli di amministrazione);
struttura gerarchica (un organigramma); struttura operativa (un comitato, una task force);
struttura informativa (una rete locale); mercato; clan; sistema politico; parentela; etnia, ecc.
6. Anche in termini di proprietà operative si assiste a un moltiplicarsi di forme, soprattutto per
quanto concerne la governance della rete stessa, tesa ad assicurare il coordinamento e il
controllo delle attività. Ne sono esempi i seguenti: presenza di manager o amministratori
che occupano contemporaneamente posizioni di responsabilità all’interno di più imprese
routine, regole e procedure; scambi di informazioni (formalizzati o meno); direttive (formali
o informali) emanate su base gerarchica; ruoli di collegamento o di integrazione (ad
esempio assunti da imprese che occupano lo stadio finale e commerciale della filiera
produttiva; oppure assunti da product/project manager; o da intrecci nei consigli di
amministrazione); organi di governo inter-imprenditoriali (ad esempio all’interno di distretti
industriali in cui viene accettata la leadership di un’impresa centrale) gruppi (formali o
informali) per la risoluzione di problemi; sistemi di pianificazione e programmazione e
sistemi informativi (ad esempio applicazioni informatiche inter-organizzative;
programmazione delle vendite e degli acquisti nelle catene di franchising; pianificazione e
controllo delle operazioni nei contratti di sub-fornitura, ecc.); strumenti di mercato (ad
esempio contratti regolatori di obbligazioni finanziarie, o di relazioni reciproche in termini di
divisione del lavoro e/o diritti di remunerazione; patti di arbitrato per la risoluzione delle
controversie); presenza di un senso di appartenenza al gruppo che facilita le relazioni e lo
scambio di informazioni.
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3. Reti inter-organizzative e competitività dei territori
La trasformazione delle reti in Italia: alcuni casi
Se da un lato è innegabile che le forme di reti inter-organizzative a base territoriale siano
sopravvissute – seppur in molti casi su una scala ridimensionata dalle pressioni competitive
internazionali, dalla crisi economica globale e da un progressivo processo di svuotamento dei
territori da alcune fasi della filiera – è altrettanto importante osservare come si sia andata
delineando una varietà di forme reticolari che travalicano e trascendono le tradizionali reti interorganizzative, sia in termini di eterogeneità e localizzazione dei nodi sia in termini di varietà dei
legami che in termini di diversità delle architetture reticolari e delle forme di governance. Nell’ultimo
decennio, la letteratura ha, infatti, messo in evidenza la capacità dei distretti industriali di mutare
(Lazerson e Lorenzoni, 1999) dalla forma tipicamente Marshalliana – centrata su una moltitudine di
piccole imprese spazialmente agglomerate al fine di sfruttare esternalità positive – verso una
eterogeneità (Rabellotti e Schmitz, 1999) di nodi (imprese leader o locomotive; strategic center;
meta-organizer; agenti di coordinamento; integratori di sistema; ecc.) e legami (gerarchici; verticali;
orizzontali ecc.). Tuttavia, la situazione è mutata profondamente con l’avanzare del processo di
globalizzazione, che si sostanzia nella progressiva estensione a scala mondiale della base su cui
si dispiegano i processi di produzione, circolazione e utilizzo delle conoscenze rilevanti per il
vantaggio competitivo delle imprese e dei territori.
Secondo la ricerca “Reti di impresa oltre i distretti” a cura di AIP, Associazione Italiana della
Produzione, in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano, le imprese lombarde insieme
ad associazioni, istituzioni, professionisti, fondazioni fanno rete per essere più competitive ma anche
più solide, in risposta alla globalizzazione dei mercati ma anche alla crisi in atto. Lo studio (AIP,
2008) identifica 27 reti di impresa in Lombardia che coinvolgono circa 500 soggetti, provenienti da
molte regioni italiane e, talora, dall’estero. Sono molteplici le forme, i tipi delle reti individuate nella
ricerca AIP: per la precisione 9 in cui sono raggruppati i 90 casi di reti, a livello nazionale: reti
epistemiche e culturali; reti territoriali; reti per l'innovazione; reti distrettuali estese; reti associative;
reti di professionisti; reti per l'organizzazione di eventi, reti orizzontali, reti generatrici di eventi. In
Lombardia prevalgono le reti finalizzate come evoluzione dei territori e dei vecchi distretti, pari
rispettivamente al 25,9% e al 7,4% (33,3% totale), le reti di innovazione basate sullo sviluppo di
nuove tecnologie di processo e/o di prodotto sono pari al 25,9%, quelle impegnate in progetti
culturali di vasta portata (22,2%) e quelle orizzontali di condivisione, cioè quelle in cui collaborano
operatori impegnati direttamente sui mercati delle stesse merceologie (3,7%) ed emergono
l’importante aggregato di reti professionali di cui sono attori gli operatori delle professioni (11,1%) e
le reti attivate da associazioni territoriali (3,7%). I settori che aggregano di più sono: Innovazione e
tecnologia (18,5%), cultura (14,8%), design, servizi e tessile (11,1%).
Allo stato attuale, le chances competitive dei distretti industriali dipendono dalla capacità di
questi sistemi di collegarsi ai circuiti cognitivi dell’economia globale e ciò pone nuove sfide al
riconfigurarsi delle reti tra imprese. Parte della letteratura ha anche messo in discussione la
sostenibilità e la tenuta del modello del distretto industriale nell’ambito di un’economia
caratterizzata da una crescente globalizzazione dei processi economici. In tale contesto, le
imprese fornitrici e subfornitrici dei sistemi locali hanno subìto la rilevante concorrenza di imprese
provenienti da aree del mondo nelle quali il costo dei fattori di produzione è particolarmente
contenuto (Cina, Sud-est Asiatico, Est Europa, ecc.). Alcune di queste hanno saputo costruire e
difendere nel tempo una specializzazione di fase sostenibile e si sono inserite in reti di fornitura
internazionali.
Si pensi ad esempio allo sviluppo reticolare di piccole imprese distrettuali, come Anodica Trevigiana.
Anodica Trevigiana è stata fondata nel 1962 nel trevigiano dalla famiglia Zanchetta come spin-off di
Zoppas. Da sempre si occupa di componentistica, in particolare maniglie e pomelli, prima per il
settore del mobile, oggi esclusivamente per gli elettrodomestici. Tra il 2000 e il 2006 ha triplicato il
fatturato che oggi supera i 12 milioni di euro, con una sessantina di dipendenti diretti e un fatturato di
11,5 milioni di euro (circa 70% di export). A lungo radicata nel Nord Est sia per la rete di fornitori di
secondo livello che per la clientela, negli anni ’90 si proietta nel mercato internazionale
principalmente per spostarsi in prossimità degli impianti di produzione dei clienti ma anche per
difendere la propria posizione competitiva. Una tappa importante di questo percorso è stata la
costituzione nel 2006 di una joint-venture di produzione in Turchia, con soci locali di minoranza (la
Anodica Aksesuar in Turchia). Nello stesso anno ha avviato un progetto di rete che ha portato alla
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costituzione del Consorzio Unieldom, che si occupa di innovazione e commercializzazione, con una
base commerciale e tecnica anche in Polonia. Unieldom coinvolge Anodica e 5 aziende italiane, di
piccola e media dimensione. Il Consorzio raggruppa imprese che realizzano output diversi ma
operano tutte nella filiera dell’elettrodomestico e hanno alcuni clienti in comune (Grandinetti et al.,
2010).
In molti altri casi, le catene di fornitura che prima avevano una dimensione principalmente
locale ed erano fondate sulla prossimità geografica e la consuetudine hanno assunto
un’estensione extra-territoriale se non globale, mettendo in discussione la struttura dei distretti e
impattando pesantemente sui processi di sviluppo imprenditoriale che caratterizzano le piccole e
medie imprese della fornitura dipendente.
Numerose imprese (specie di media dimensione) appartenenti soprattutto a sistemi produttivi
territoriali come i distretti si sono rese protagoniste di sistematici processi di delocalizzazione
produttiva verso Paesi con costo della manodopera assai ridotto. Le reti di fornitura locali si sono
progressivamente trasformate in reti lunghe che coinvolgono imprese operanti in contesti
geografici lontani, dove si sono consolidati, sulla scia delle prime delocalizzazioni, sistemi di PMI
locali specializzate nelle lavorazioni a minor valore aggiunto della filiera produttiva. In molti settori
tipici dell’economia lombarda (il legno-arredo, il tessile-moda, la meccanica-elettronica, ecc.) le
filiere produttive si estendono oggi su scala globale (Gereffi, Humphrey e Sturgeon, 2005). Ecco,
quindi, che la filiera produttiva che un tempo era internalizzata nella medio-grande impresa o
spazialmente localizzata in cluster industriali si frantuma in termini geografici, anche a seguito di
processi di global sourcing, ovvero di organizzazione di un’estesa rete di imprese, istituzioni e
subfornitori specializzati localizzati in diversi paesi del mondo.
È questo anche il caso di Benetton, conosciuto nella letteratura internazionale come un produttore di
abbigliamento che realizza la maggior parte dei suoi prodotti in Italia. Se questo era vero in passato
oggi non lo è più. I nuovi concorrenti, tra cui Zara, Mango e H&M, hanno insidiato la posizione
competitiva di Benetton nel mercato italiano ed europeo dell’abbigliamento e lo hanno spinto ad
adottare una politica di contenimento dei costi attraverso la globalizzazione della rete di fornitura.
Attualmente, solo il 20% della produzione di Benetton viene realizzato in Italia: la maggior parte della
produzione proviene dal nord Africa e dai paesi dell’Est europeo, ma sta aumentando fortemente il
ricorso a produttori localizzati in Asia, continente che fino al 2003 non compariva nella lista dei
fornitori di Benetton. Negli ultimi cinque anni il processo di delocalizzazione produttiva all’estero ha
subito una forte accelerazione. In particolare, la catena del valore è organizzata in modo che le
produzioni rapide siano delegate a fornitori relativamente vicini (in Europa dell’Est e in Nord Africa),
mentre si commissionano a fornitori più lontani (Asia) i prodotti più standardizzati e gli accessori.
L’allungamento delle reti di fornitura ha avuto ripercussioni di rilievo sul distretto dell’abbigliamento di
Treviso che negli ultimi anni si è fortemente ridimensionato. Il comparto della subfornitura è oggi
orientato alla produzione di campionari, di capi complessi realizzati su serie corta e con tempi di
risposta brevi. Nello specifico, le fasi produttive che rimangono in Veneto sono quelle della
progettazione, dei campionari, del controllo della qualità, della logistica, della distribuzione e, in
particolari situazioni, alcuni tipi di lavorazione che richiedono un’elevata intensità di capitale, come la
tessitura in maglia, la tintoria, la stampa dei tessuti e anche il piazzamento e il taglio realizzato
attraverso il CAD (se svolte all’estero queste lavorazioni sono spesso fatte in impianti di proprietà del
Gruppo). Molti dei subfornitori locali che continuano a lavorare per Benetton, lo fanno con volumi
produttivi ridotti e hanno dovuto ampliare il portafoglio clienti per continuare a restare sul mercato
(Crestanello e Tattara, 2008).
È questo anche il caso di Calligaris, azienda famigliare fondata nel 1923 da Antonio Calligaris.
L’azienda si è trasformata negli anni da produttore per conto terzi a società leader per l'arredo-casa
con il proprio marchio, divenendo una delle principali imprese italiane nel settore dell’arredamento.
Calligaris è, infatti, cresciuta nel distretto industriale della sedia in provincia di Udine, facendo
inizialmente ampio ricorso a sub-fornitori distrettuali specializzati in diverse fasi della filiera produttiva
e – dal 1999 – aprendo un’impresa in Croazia capace di coprire gran parte del fabbisogno della casa
madre di semilavorati in legno per la produzione di sedie e tavoli, sostituendo in questo modo i
fornitori locali (Grandinetti et al., 2010).
Da un lato, il processo di globalizzazione sembra oggi minacciare gli elementi che hanno
garantito la tenuta storica del sistema Paese, nella misura in cui si assiste a un progressivo
allontanamento del contesto della produzione, fonte privilegiata dell’elaborazione e della
condivisione dei saperi specialistici, che rischiano di impoverirsi intaccando l’identità storica dei
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territori.
È difficile immaginarsi il comparto del design industriale Milanese, fondato non solo sulle
competenze progettuali ma anche manifatturiere e artigianali, disgiunto dalla sfera produttiva che ne
ha da sempre alimentato e stimolato lo sviluppo di competenze progettuali fino ad affermarla a livello
mondiale. Vi è senza dubbio il rischio che un impoverimento relazionale delle filiere lombarde –
laddove la rilocalizzazione non sia selettiva (Biggiero, 2006), ma assuma i tratti di una
delocalizzazione incontrollata e smisurata (massive relocation), fondata su vantaggi di costo di breve
periodo – conduca ad un progressivo svuotamento di competenze e conoscenze e quindi ad una
perdita di competitività del territorio. A tal proposito è emblematico il caso di alcune medio-grandi
imprese del distretto tessile di Como, che – anticipando una tendenza poi diffusasi in tutto il tessile
lombardo – si sono mosse agli inizi della loro esperienza di creazione di reti extra-distrettuali – oggi
positivamente consolidate non solo in logica di costellazione multi-distretto ma anche
internazionalmente – in una logica puramente difensiva e operativa, disperdendo risorse finanziarie,
umane e tecnologiche, competenze e conoscenza tacita a favore di emergenti concorrenti asiatici. I
meccanismi imitativi tipici del distretto hanno successivamente spinto molte altre imprese comasche
a replicare l’attivazione di reti extra-distrettuali di fornitura verso la Cina e il Madagascar in logica
meramente operativa, contribuendo all’avvio di un declino competitivo del distretto serico comasco
(Alberti, 2006).
Dall’altro lato, tuttavia, una consapevole gestione strategica delle reti lunghe extra-territoriali
può rappresentare e rappresenta un importante elemento su cui riconfigurare gli elementi alla base
di nuovi vantaggi competitivi per le imprese lombarde. L’interazione tra nodi eterogenei all’interno
di una rete inter-organizzativa porta infatti allo scambio di informazioni e competenze, alla
produzione congiunta di nuove conoscenze, al conseguimento progressivo di risultati utili rispetto
agli obiettivi della cooperazione.
Alcune imprese colgono queste opportunità in modo del tutto sperimentale e non pianificato; in
alcuni casi le subiscono, inseguendo modelli di business consolidati o tendenze di settore; in altri
casi invece alla delocalizzazione tout court si sostituisce una ponderata rilocalizzazione selettiva di
alcune fasi ritenute non strategiche.
In taluni casi, sembra dunque dominare una logica prevalentemente “operativa”, ovvero
finalizzata a vantaggi di breve. Tale logica è spesso guidata da immediati vantaggi di costo legati
alla rilocalizzazione delle produzioni, a processi di imitazione o di inseguimento di competitor
territoriali, nonché di difesa. Sebbene tali processi inseriscano le imprese lombarde nelle reti
lunghe della fornitura internazionale, si connotano spesso per una logica di breve periodo, del tutto
opportunistica e producono rilocalizzazioni massive se non addirittura vere e proprie
delocalizzazioni (Biggiero, 2006), che svuotano i luoghi di competenze, attività e identità (Alberti,
2006). Diverso è il caso della rilocalizzazione selettiva (Biggiero, 2006), che implica una piena
visione “strategica” della global value chain (Gereffi et al., 2005) e una gestione consapevole della
propria rete. Questa seconda logica (di natura strategica) di attivare e governare le reti tra imprese
è attenta ad una continua riconfigurazione delle attività produttive, distributive e logistiche imposte
dalla dinamicità della domanda mondiale. Nel distretto comasco, ad esempio, è degli ultimi anni il
prevalere di questa seconda logica, che ha spinto alcune medie imprese alla creazione di reti di
imprese che vedono coinvolti stilisti e designer localizzati a Milano, subfornitori specialistici
localizzati in più aree e distretti (dal Piemonte, alla Lombardia, al Veneto e alla Emilia Romagna),
fornitori di macchinari, piattaforme di servizio e subfornitori delocalizzati (in Romania o in
Slovacchia), contribuendo alla nascita di veri e propri “distretti di secondo livello” in aree decentrate
(Alberti, 2006).
Le due logiche di attivazione delle reti tra imprese (operativa e strategica) possono essere
compresenti anche entro filiere “contigue” e nello stesso territorio lombardo.
È così per il tessile-abbigliamento Varesino, ove a fianco di una moltitudine di rilocalizzazioni
massicce di interi comparti della filiera, quando non anche di vere e proprie delocalizzazioni che
svuotano i territori di competenze e competitività, vi sono casi come quello della Leggiuno (Alberti,
2008) nata nell’omonimo paese nel 1907 e specializzata nella produzione di tessuti in cotone per
camiceria, che – in logica strategica – sviluppa le proprie collezioni attraverso un innovation network
composto sia da imprese specializzate localizzate non solo nel distretto Varesino, ma anche in
quello Comasco, Milanese e Biellese sia da imprese del settore moda italiano (ad esempio Dolce &
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Gabbana, Prada, Armani) e internazionale (Burberry, Kenzo, Paul Smith, ecc.).
Ecco, dunque, che diventa rilevante saper distinguere e approfondire le logiche che muovono
la messa in rete delle imprese e dare evidenza dei nuovi fenomeni reticolari.
I protagonisti del rinnovamento delle forme reticolari: le medie imprese
È in atto una trasformazione del tessuto industriale che vede l’emergere di nuove forme di
impresa a rete o di reti di imprese. In alcuni casi le imprese siano esse di medio-grandi dimensioni
o – più frequentemente – di piccole-medie dimensioni hanno subìto questo processo. Ciò può
essere dovuto: all’impostazione delle proprie reti o alla riconfigurazione della propria network
position sulla base di un logica meramente di sopravvivenza, venendo così progressivamente
marginalizzate nelle nuove reti lunghe tra imprese; a medio-grandi imprese che subiscono un
processo di hollowing-out di fasi cruciali della catena del valore a favore di altri territori; al
progressivo degrado da first-tier supplier – in molti casi imprese subfornitrici specializzate dei
distretti incapaci di attivare reti strategiche – alla periferia di nuove reti globali.
In molti altri casi, si assiste a un moltiplicarsi di reti verticali lungo la filiera che combinano sotto
il coordinamento di medie imprese partner strategici per l’innovazione e la competitività: fornitori
locali con fornitori globali; fornitori di servizi ad alto valore aggiunto (come ad esempio gli studi di
design o i centri stile); clienti industriali e della grande distribuzione. Meno frequenti, ma
decisamente importanti sotto il profilo strategico, i casi di cooperazione con dipartimenti universitari
e altre istituzioni scientifiche nello sviluppo di progetti di innovazione, oppure la cooperazione con
imprese dello stesso settore (cooperazione orizzontale) o di settori correlati (cooperazione
laterale).
Chi sono i protagonisti di questo rinnovamento nelle forme reticolari all’interno dei settori tipici
dell’economia italiana? Quali nodi possono attivare e guidare strategicamente la formazione di
nuove reti governate (basate sulla prossimità strategica) che si spingono in là rispetto alle
tradizionali reti naturali basate sulla prossimità geografica e tipiche dei distretti industriali?
Innanzitutto un ruolo centrale è ricoperto dalle medie imprese leader all’interno dei distretti
industriali. Tali imprese sono state capaci di costruire all’esterno del sistema distrettuale un
articolato sistema di relazioni utili per il vantaggio competitivo. Come si dirà più avanti, queste
imprese si configurano come vere e proprie interfacce (gate-keeper) della conoscenza tra il
contesto locale e l’ambiente globale (Alberti et al., 008 Boschma e Ter Wal, 007 Morrison,
008) favorendo lo scambio e l’ibridazione delle risorse e delle competenze dei nodi coinvolti nella
rete e rifuggendo, così, dal rischio di lock-in cognitivo occorso in alcuni distretti industriali lombardi
(Alberti, 2006). Esse assorbono e trasferiscono in modo sistematico conoscenze su base
internazionale (anche attraverso investimenti diretti in Paesi esteri). Inoltre combinano le
conoscenze assorbite su scala internazionale con quelle di cui già dispongono, producendo nuove
conoscenze (knowledge hybridization). In sintesi, tali imprese sono in grado di configurare le
proprie reti come global pipeline (Malmberg, Maskell, 2006) che rendono possibile l’assorbimento
di risorse e competenze e la loro diffusione. Ecco quindi che le strategie reticolari di tali imprese
riconfigurano i distretti e le reti di originaria appartenenza, riproducendone i meccanismi su una
scala più ampia e introducendo varietà nei nodi, nei legami, nei processi e nelle forme di
governance.
Nodi importanti nell’attivazione di nuove reti tra imprese possono essere anche i cosiddetti
subfornitori leader (Grandinetti et al., 2010), ovvero imprese specializzate (Visconti, 1996) o firsttier supplier nell’ambito della filiera settoriale d’appartenenza, che sono diventati globali attivando
reti a valle per quanto concerne il portafoglio clienti e a monte in relazione alla rete di subfornitori di
secondo livello.
Ne è un esempio la Camar (Minoja, 2002), localizzata a Figino Serenza nei pressi di Cantù nel
distretto del legno-arredo brianzolo. Essa realizza prodotti tecnici di derivazione meccanica
necessari alla produzione e installazione dei mobili. Nata nel 1960 si è specializzata nel tempo
assorbendo competenze dalle filiere dell’automobile e degli elettrodomestici e ibridizzandole con
quelle tipiche della filiera del mobile. Progressivamente si è affrancata dalle reti di prossimità del
distretto e si è inserita in filiere lunghe. A valle lungo la filiera del mobile ha sviluppato partnership sia
con medio-grandi imprese locali quali Poliform e Boffi sia internazionali (circa l’80% del fatturato è
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all’estero). A monte ha internalizzato le fasi maggiormente critiche e a più alto valore aggiunto come
la progettazione e la realizzazione degli stampi e si è costruita una rete di fornitori di materie prime di
base (plastica e alluminio) globale e una di fornitori di componenti e lavorazioni (stampaggio,
verniciatura, ecc.) distrettuale.
Rientrano in questa categoria di attivatori di reti lunghe su scala globale anche gli integratori di
sistema (Lipparini, 1995) ovvero imprese che esercitano un ruolo consulenziale e di fornitura nella
progettazione di impianti e macchinari.
Ne è un esempio il Gruppo Lonati, che pur non essendo un’impresa terminale nella filiera della
calzetteria femminile, ma anzi un fornitore specializzato di macchine per la produzione di tali articoli,
ha saputo inserirsi in reti globali. Il Gruppo Lonati fondato nel 1945 a Brescia – ma strettamente
connesso al mantovano distretto di Castelgoffredo – è oggi una holding che ha internalizzato al
proprio interno oltre una sessantina di poli produttivi specializzati nella produzione di macchine per la
produzione di calze e di macchine circolari per maglieria, con diversificazioni in settori correlati della
meccanica. Il Gruppo Lonati detiene circa l’80% della quota di mercato mondiale del suo settore.
In tutti i casi, si tratta di imprese con una forte capacità di governo non convenzionale basata
su una efficace scelta e gestione di mercato, strategie competitive, organizzazione, anima
dell’impresa (Butera e De Michelis, 2011). Esse mostrano un’elevata capacità tecnica/tecnologica
e un’elevata specializzazione produttiva basata sulla continua accumulazione di know-how
specialistico, la costante introduzione di innovazioni ed il miglioramento continuo dell’efficienza. In
particolare, questi nodi hanno sviluppato competenze distintive nella progettazione di output
complessi, nel supply chain management e nella gestione delle interfacce, riuscendo a coordinare
reti su più filiere settoriali e territoriali.
Il controllo della filiera
Il controllo della filiera – e quindi delle relazioni lungo la catena del valore, in rete con imprese
specializzate – rappresenta infatti sempre più un elemento centrale per sostenere il vantaggio
competitivo, specie quando si tratta di un posizionamento su nicchie di mercato con fabbisogni
sofisticati. Tale scelta è spesso dettata dalla volontà di esercitare il massimo controllo su tutte le
fasi del processo, in quanto ritenuto condizione fondamentale per garantire la qualità e l’affidabilità
del prodotto finito, la tempestività delle consegne, il servizio al cliente, centrali per sostenere una
strategia di successo. Ecco, quindi, che le reti tra imprese possono assumere la forma della quasi
integrazione (ovvero fondarsi su rapporti fiduciari e consuetudinari di lungo periodo) o produrre una
fitta rete di accordi di tipo equity-based (ovvero con scambio di capitale nella forma di
partecipazioni, partecipazioni incrociate o joint venture). Si passa da aziende totalmente
verticalizzate o ad ampio grado di integrazione verticale a modelli di controllo della filiera fondati
sulla contemporanea specializzazione di fase e la creazione di una rete proprietaria di aziende
specializzate in tutte le altre fasi della filiera ritenute critiche.
I processi di crescita che hanno coinvolto alcune imprese leader distrettuali, in particolare
attraverso la creazione di nuove unità o imprese e l’acquisizione di imprese esistenti, hanno
portato alla formazione di gruppi aziendali o business group (Butera et al., 2005), quando non
addirittura a vere e proprie imprese a rete.
Ne è un esempio (Alberti, 2008) la Tessitura Serica Taborelli nata nel 1895 a Bizzozzero in provincia
di Como, che esercita il controllo della filiera tessile attraverso una holding di famiglia che controlla
una fitta rete equity-based di partecipazioni in imprese locali ed estere: il 32,4% della Prealpina
Tintoria e Stamperia di Lurate Caccivio; 26% della Nuova Tessitura Vittorio Fumagalli (il 24% è
direttamente nelle mani di Taborelli), la cui produzione di tessuti per cravetteria è stata spostata alla
Tesuti Transilvania in Romania (controllata al 40% da Taborelli e al 60% dalla holding di famiglia). E
ancora: la Fumagalli controlla il 100% del capitale della TMT, azienda che confeziona cravatte.
Attraverso la Fumagalli, la Taborelli detiene un terzo del capitale della Tintoria Ambrogio Pessina.
Da questa collaborazione è nata un’altra impresa, la TOT, per la commercializzazione del filato tinto.
La Taborelli partecipa col 12% al capitale di Finisscomo, azienda specializzata nella nobilitazione dei
tessuti. Controlla infine uno studio di disegno e stile, MDP, e partecipa ad un consorzio di acquisto di
energia elettrica. Questa architettura reticolare garantisce una forte integrazione tra attori
specializzati e la possibilità di controllo della filiera.
Nei casi in cui il fattore critico di successo è la velocità – il time-to-market – l’impresa a rete o la
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rete governata di imprese specializzate lungo la filiera diventa determinante. In alcuni casi si tratta
di relazioni che travalicano i confini di prossimità locale, in altri invece si tratta di forme di
cristallizzazione di relazioni di filiera precedenti, spesso di natura distrettuale. Il tema del controllo
della filiera è strettamente connesso con la scelta strategica delle fasi da presidiare: cosa tenere
dentro e cosa esternalizzare, non solo in una pura logica di make or buy, ma soprattutto in una
logica di presidio delle competenze strategiche a maggior valore aggiunto. Riferendosi alle
imprese al centro di reti di imprese o come locomotive (Lazerson e Lorenzoni, 1999) di reti lunghe
si fa spesso riferimento alla loro capacità di presidio della “testa” e della “coda” delle filiere
produttive globali, ovvero al dominio delle fasi iniziali e terminali della catena produttiva ove da un
lato si concentra la creatività, la progettualità, l’innovazione e il design e dall’altro la gestione del
posizionamento strategico “glocale” sui mercati.
Territorio e reti lunghe
I casi e la letteratura fin qui considerata sembrano indicare come il luogo in cui le imprese
mantengono la “testa” e la “coda” delle proprie reti sia principalmente il territorio/distretto di
originaria appartenenza. È ancora lì che si concentra la progettualità strategica delle medie
imprese capofila, si conservano e si rinnovano le competenze distintive, si localizza il nucleo
centrale di fornitori chiave specializzati, si sedimentano e si alimentano saperi specialistici
all’interno di KIBS e istituzioni di filiera, si coagulano i capitali necessari al sostenimento del
vantaggio competitivo, si promuovono commercialmente i nuovi prodotti.
È ad esempio il caso delle medie imprese dell’arredo-design Brianzolo – di cui si è già parlato – che
fondano ancora parte della propria rete sul legame con istituzioni locali chiave nelle fasi di ricerca e
sviluppo, progettazione, promozione e commercializzazione (CLAC, CATAS, Progetto Lissone,
ecc.). Inoltre, la Banca Briantea, la Banca Popolare di Lecco, il Banco di Desio e della Brianza, la
Cassa Rurale ed Artigiana di Cantù sono ancora i principali punti di riferimento finanziario. Parimenti,
Parolin (2008) sottolinea come nodi strategici delle medie imprese del design milanese siano ancora
le imprese artigiane della Brianza, detentrici di competenze idiosincratiche in materia di montaggio,
meccanica, materiali, lavorazioni, ecc. In questo senso il nuovo prodotto di arredo-design Brianzolo è
comunque il risultato di sistema di conoscenze frammentato, un complesso network di attori interni
ed esterni all’impresa e allo studio di design stesso, di tecnici e montatori, ma anche di fornitori che
ne hanno studiato le specifiche soluzioni tecniche e hanno contribuito a lavorazioni al confine tra
l’artigianalità e l’industrializzazione. È, tuttavia, sull’area di Milano che si concentrano da un lato le
più importanti risorse in termini di progettualità, ricerca e sviluppo, innovazione, creatività, moda e
design (la cosiddetta “testa”) e di promozione, commercializzazione e marketing (la cosiddetta
“coda”). Si pensi, ad esempio, al ruolo esercitato da istituzioni come il Politecnico di Milano,
l’Accademia di Brera, l’Istituto Europeo di Design e i numerosi studi di design e architettura da un
lato, e il Salone Internazionale del Mobile, la Triennale di Milano e gli spazi espositivi dall’altro. Le
reti di fornitura – soprattutto per quanto concerne le fasi centrali della filiera produttiva – si estendono
a tutto il Nord Italia e in alcuni casi travalicano i confini nazionali verso l’Europa dell’Est quando non
addirittura verso l’Est Asiatico.
Anche nella filiera della moda le reti tra imprese fanno perno su Milano e alcuni distretti storici
(Como, Asse del Sempione, Castelgoffredo, Palazzolo sull’Oglio) estendendosi al Piemonte (Biella),
al Veneto (Vicenza e Treviso) e all’Emilia Romagna (Carpi). Per descrivere questa rete di imprese,
Dunford (2006) ha coniato il concetto di magic circle, ovvero una rete di imprese e istituzioni per
l’innovazione nel settore moda che si centra su industrial commons presenti a Milano (laboratori di
analisi e ricerca, centri di formazione, sistema fieristico e finanziario, piattaforme logistiche),
coinvolge filiere assai variegate dal punto di vista della specializzazione industriale (dal tessileabbigliamento ai macchinari, dalla pelletteria alla accessoristica, dall’occhialeria alla cosmesi, dalla
calzetteria alla gioielleria, ecc.) e dal punto di vista geografico (trascendendo i confini locali verso
first-tier supplier nel resto d’Italia, second-tier supplier nell’Est Asiatico e global retailers in Europa e
negli Stati Uniti).
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Imprese glocali
Come accennato precedentemente, alcune imprese (e in alcuni casi anche istituzioni) hanno
inoltre saputo conquistare posizioni di leadership a livello internazionale, in particolare
valorizzando in modo creativo le conoscenze e le competenze accessibili a livello territoriale
attraverso la loro ibridazione e ricombinazione con nuove conoscenze provenienti da ambiti
esterni. Si tratta di imprese capofila di reti che hanno saputo ricoprire ruoli di gate-keeping o di
boundary spanner (Boshma e Ter Wal, 007 Alberti et al, 008), ponendosi all’interfaccia tra le reti
di prossimità locale, tipicamente di natura distrettuale, e le reti lunghe globali (Araujo et al, 1999).
Questi nodi (imprese o istituzioni) svolgono, dunque, da un lato il ruolo di interfacce cognitive – o
gate-keeper (Morrison, 2008) della conoscenza – tra locale/globale, pubblico/privato, piccola
impresa/grande imprese dall’altro esercitano una costante attività di boundary spanning delle reti
di imprese, facendo sì che i confini non siano più geografici ma funzionali e che si rompano le
vecchie scatole geo-politiche su cui si è fatto tradizionalmente riferimento a favore di prossimità
strategiche lungo la filiera o tra filiere.
Si tratta di vere e proprie bridging enterprise (Boshma e Ter Wal, 2007) capaci di legare le reti
di prossimità locale dei propri fornitori tradizionali con reti di fornitura e di clientela multi-localizzate
nel mondo. Questi gate-keeper si caratterizzano anche per la capacità di decodificare e
processare la conoscenza esterna alla propria filiera e alla propria rete tradizionale di subfornitura,
favorendo la disseminazione di nuova conoscenza e l’ibridazione delle risorse e delle competenze
(Malipiero, Munari e Sobrero, 2005).
Nelle nuove reti per l’innovazione che coinvolgono medio-grandi imprese, piccole imprese
subfornitrici locali, istituzioni distrettuali e imprese e istituzioni internazionali, i ruoli di brokerage di
conoscenza non si limitano solo al gate-keeping ma si articolano su una gamma più ampia.
Nelle reti per l’innovazione attive nel settore dell’aerospazio Varesino, Sinatra et al. (2009)
sottolineano come le imprese e le istituzioni ricoprano ruoli di knowledge brokering differenti in
funzione del tipo di conoscenza scambiata. Nel caso della conoscenza tecnica-tecnologica le grandi
imprese (es. Agusta, Aermacchi, Galileo Avionica, ecc.) guidano le medio-piccole (ricoprendo quindi
il ruolo di consultant), gestiscono flussi di conoscenza sulla compatibilità tecnologica e trasferiscono
expertise tecnologico da e verso PMI e istituti di ricerca (agendo da liaison broker). Le PMI (es.
Gemelli, Tema, Pariani, ecc.) si attivano su vari ruoli di brokeraggio, con una prevalenza nel ruolo di
coordinator, come effetto del global sourcing lungo la filiera produttiva che frantuma le tradizionali
reti distrettuali; inoltre alcune PMI (es. Secondo Mona) si comportano anche come gate-keeper – o
viceversa come representative – attivando legami da e verso la grande committenza italiana e
straniera. Sul fronte tecnico-tecnologico, il brokeraggio della conoscenza è appannaggio delle
imprese e non delle istituzioni. Analizzando la conoscenza di mercato, invece, le università
diventano nodi cruciali per aprire la rete a un costante aggiornamento di mercato (sono, dunque,
gate-keeper). Di nuovo le grandi giocano il ruolo di consultant e le PMI quello di coordinator (non
hanno visione del mercato finale perché non arrivano al prodotto finale e quindi si scambiano
informazioni di mercato tra di loro e qualcuna cerca di scambiare con la grande ricevendo stimoli).
Infine, per quanto concerne lo scambio di conoscenze gestionali, le grandi imprese si comportano da
consultant perché prendono l’eccellenza delle best practice manageriali e la trasferiscono alle altre
imprese della filiera, alzando gli standard gestionali su vari fronti.
L’attivazione di reti, la definizione di specifici ruoli nella rete e la scelta consapevole di una
network position, caratterizzano quella che abbiamo denominato la logica strategica dell’essere
parte di una rete di imprese.
Le implicazioni manageriali e organizzative: le relational capabilities
Le considerazioni fin qui fatte in tema di imprese a rete o reti di imprese suggeriscono alcune
implicazioni manageriali. Innanzitutto, diventa importante per le imprese lo sviluppo di vere e
proprie relational capabilities ancora molto poco studiate in letteratura (Lorenzoni e Lipparini, 1999;
Capaldo, 2007) che consentano una costante riprogettazione delle architetture reticolari e
garantiscano una governance strategica delle reti con altre imprese.
Questo tema è ben espresso da Capaldo (2007) nel suo recente studio su tre medie imprese
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dell’arredo-design lombardo (B&B Italia, Cassina e iGuzzini) che hanno saputo costruire e
manutenere nel tempo una architettura relazionale duale finalizzata alla continua innovazione di
prodotto e mercato e alla ibridazione di risorse e competenze. Tale rete, da un lato è centrata su
legami forti (strong ties), di lunga data, fondati sulla fiducia e sull’investimento reciproco con i più noti
designer milanesi e mondiali; dall’altra si alimenta di una vasta e variegata rete di relazioni più deboli
(weak ties) con una molteplicità di nodi che travalicano i confini del distretto e del settore e si
estendono a centri servizi, designer, istituzioni e imprese distribuiti prevalentemente a livello
internazionale. Ciò consente l’attivazione di circuiti virtuosi che beneficiano della diversità di
competenze, visioni e sensibilità dei weak ties alla periferia della rete, con la capacità di sfruttamento
del potenziale innovativo degli strong ties al centro della rete. La gestione strategica di simili reti tra
imprese – che si distaccano sia dal modello tradizionale tipico delle filiere del distretto dell’arredodesign Brianzolo che vede le aziende tipicamente connesse a una filiera di fornitura locale e a pochi
designer fidelizzati – richiede lo sviluppo di capacità relazionali nuove, che diventano fonti dinamiche
di vantaggio competitivo.
Percorso analogo è stato seguito da Morellato (azienda specializzata nella creazione e produzione di
cinturini per orologi e di gioielleria moda), che ha fatto ricorso alle reti inter-organizzative per
incrementare il proprio stock di risorse e competenze (Grandinetti et al., 2010), sviluppando delle
vere e proprie relational capabilities. Un esempio di cooperazione sviluppata da Morellato che ha
avuto quale esito una crescita di competenze è rappresentato da Molecole, fondata nel 2001
insieme a Silmar, un’impresa del distretto orafo vicentina particolarmente avanzata e innovativa nelle
tecnologie di lavorazione dei metalli preziosi. L’obiettivo consisteva nella realizzazione di gioielli in
argento e in un materiale denominato “oro molecolare”, da sviluppare con la collaborazione di alcuni
centri di ricerca. Attraverso questa cooperazione, Morellato ha potuto acquisire conoscenze
complementari rispetto a quelle di cui disponeva e portare a termine un progetto di innovazione
ambizioso. Un altro esempio che va nella stessa direzione, è fornito dall’accordo nel 2004 tra
Morellato e Italian Luxury Industries, società che annovera tra i suoi azionisti l’ex Presidente di
Safilo, gruppo aziendale leader del distretto bellunese dell’occhialeria. Il risultato dell’alleanza è stato
Paradigma, una nuova società costruita con l’obiettivo di acquisire e gestire marchi in licenza nel
settore della gioielleria. Il successo di questa iniziativa è frutto dell’incontro del know how sviluppato
da Tabacchi (ex Presidente Safilo) nel campo del licensing e le competenze di innovazione di
prodotto e marketing maturate da Morellato. La cooperazione è anche la leva che ha permesso la
penetrazione di Morellato nel mercato cinese: la Morellato Shao Tai, la società incaricata di seguire il
progetto retail, è partecipata al 50% con un soggetto locale, che riveste un ruolo di estrema
importanza per la conoscenza del mercato e dei comportamenti di consumo. La crescita relazionale
si è accompagnata a una crescita dimensionale avvenuta anche per acquisizioni successive. Nel
2006, Morellato ha acquisito Sector, produttore di orologi, che ha portato in dote alcuni importanti
marchi in licenza. Lo stesso anno il fatturato, che era triplicato tra il 2000 e il 2005, ha sfiorato i 200
milioni di euro. Nel 2007 ha acquisito Diffusione Italiana Preziosi, società che all’atto di acquisto
gestiva una catena di quasi 300 punti vendita. Il Gruppo Morellato è oggi costituito da 9 società:
Morellato France, Morellato Gmbh, Morellato SA, Worldgem Spain, Emma Srl, Armo NFBV,
Paradigma Srl, Arca e Molecole Srl.
Tali imprese hanno quindi saputo sviluppare strutture di rete ove ai tradizionali legami forti, che
assicurano capacità di exploitation, si affiancano legami deboli, che consentono strategie di
exploration, ovvero di varietà (Granovetter, 1973).
È questo il caso di molti dei cosiddetti converter (Alberti, 2006) del distretto tessile di Como, ovvero
delle imprese poste all’interfaccia tra un rete di fornitori specializzati per fase e i confezionisti o le
case di moda locali e internazionali. Ad esempio Michel Mark, fondata nel 1972 e specializzata in
tessuti tinti e stampati per abiti da donna formali e da cerimonia, è stata tra le prime aziende nel
distretto a strutturarsi come una impresa a rete fondata su un bilanciamento di capacità di
exploitation e di exploration. La rete si compone delle competenze di progettazione e
commercializzazione di Michel Mark che intrattiene a valle rapporti con i sistema moda e a monte
con first-tier supplier specializzati (TFL per la tintura e finissaggio, Macritex per la tessitura e tintura
in pezza, SSI per la stampa e il finissaggio, la Tintoria Lariana per la tintura) a cui Michel Mark
garantisce la saturazione di un 60-70% della capacità produttiva, assicurandosi exploitation anche
attraverso partecipazioni di minoranza nel capitale, lasciando libere le imprese subfornitrici di
operare per un 30-40% del loro giro d’affari con altre imprese capofila, così da favorire l’ibridazione
di conoscenze e la circolazione delle innovazioni di prodotto e di mercato.
A fianco delle citate relational capabilities, è dunque necessario che si sviluppino meccanismi
operativi capaci di generare e assorbire nuove risorse e competenze (absorptive capacity) e di
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ricombinarle in maniera innovativa (combinative capability) con le competenze locali del territorio e
delle reti di prossimità, assicurando un vantaggio competitivo fondato sulla continua innovazione
(Alberti et al. 2008). Le nuove imprese a rete devono avere sviluppato la capacità di assorbire su
base sistematica le conoscenze esterne utili per il vantaggio competitivo e devono consentire la
diffusione all’interno del contesto locale delle conoscenze che sono in grado di assorbire
dall’ambiente globale.
Lo studio condotto da Alberti et al. (2008) su quattro medio-grandi imprese (Alessi, Illycaffè, Geox e
Luxottica) approfondisce questo tema, suggerendo su quali meccanismi organizzativi si debba agire
perché un’impresa disponga di absorptive capacity: a) l’uso di adeguate politiche di formazione a
tutti i livelli organizzativi, tese ad aggiornare costantemente la cultura aziendale; b) l’assunzione di
personale qualificato anche e soprattutto dall’esterno del distretto e del settore di riferimento, che
consenta il rinnovamento del management team; c) l’attivazione di una pluralità di legami (accordi,
alleanze e reti) con altre imprese, università ed enti di ricerca, tesi all’apprendimento interorganizzativo; d) l’attivazione di ruoli organizzativi tesi a sostenere il gate-keeping e il boundaryspanning, ovvero di apertura su fonti significative di informazioni e conoscenza esterne all’impresa
(ad esempio, la gestione dei rapporti di sub-fornitura; la gestione della rete di designer, progettisti e
creativi esterni; l’attivazione di workshop con istituti di ricerca e formazione; e) la creazione di centri
studi e corporate university; f) la creazione di laboratori o centri di ricerca; g) l’uso di sistemi di
customer relationship management; la creazione di piattaforme IT per la business intelligence, ecc.).
Sul fronte dei meccanismi organizzativi per la ricombinazione di risorse e competenze interne ed
esterne (combinative capability), si suggerisce: a) a livello strategico, la configurazione di processi
decisionali decentralizzati, partecipativi, flessibili e informali, capaci di stimolare l’ibridazione di
risorse e competenze al fine dell’innovazione; b) a livello funzionale, meccanismi, procedure e
sistemi che consentano un miglior coordinamento nelle funzioni e tra le funzioni (ad esempio,
piattaforme IT, procedure condivise, ruoli di cerniera organizzativa, responsabilità organizzative
trasversali, momenti di confronto e apprendimento congiunto). Non sono certo pochi i casi di medie
imprese che hanno saputo partecipare e gestire reti di imprese distribuite su global value chain, ove
il presidio delle competenze distintive locali si affianca alla continua esplorazione e assorbimento di
competenze globali, in una logica propria dei learning network (Håkansson, 1999).
Ed è sul continuo apprendimento attraverso learning network che gioca la sfida competitiva anche di
aziende come SLAM, specializzata in abbigliamento nautico. La forza di SLAM sta nelle continue
collaborazioni con Università e centri di ricerca nello sviluppo di progetti di innovazione. Gli
sviluppatori di SLAM hanno lavorato con il Politecnico di Milano e il Politecnico di Torino per studiare
nuovi filati, nuovi tessuti, nuove soluzioni, che rispondessero al meglio sia alle condizioni climatiche
sia alla biomeccanica dell'atleta in barca a vela. Con l'Università di Milano il laboratorio galleggiante
di SLAM ha realizzato una vera e propria body map del velista per studiare al meglio la situazione in
cui si trova l'atleta, individuando le zone corporee in cui si riflettono i punti critici. In questo
laboratorio, inoltre, si ricercano e studiano le fibre più idonee, l'utilizzo di finissaggi innovativi che
sfruttano la nanotecnologia e si compiono numerosi test delle performance attraverso misurazioni
scientifiche che hanno consentito di creare una serie di capi limited edition dall'alto valore
tecnologico.
Tutto ciò assume una rilevanza doppia allorquando non si ferma a singoli casi di imprese ma
genera esternalità positive (di diffusione di conoscenza) per l’intero territorio e filiera di
appartenenza, iniettando nelle reti di prossimità locale nuove risorse e competenze provenienti
dall’esterno e dal mondo della ricerca, contribuendo ad aprire reti lunghe, stimolando
comportamenti imitativi, svecchiando le regole del gioco del settore/territorio e diventando dei veri
e propri role-model verso cui tendere per aumentare la competitività.
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4.
Gli attori istituzionali nel rinnovamento delle forme reticolari
Il ruolo delle istituzioni
Vi sono iniziative a livello macro, strategie nazionali o regionali che sono dedicate all’avvio e
alla governance strategica di nuove reti governate tra imprese.
Una strategia nazionale per la competitività fondata sulle reti inter-organizzative è stata, ad esempio,
intrapresa dalla Francia attraverso l’avvio dei Pôles de Compétitivité, definiti come aggregazioni, su
un dato territorio, di imprese, centri di ricerca e organismi di formazione impegnati in una strategia
comune di sviluppo che sfoci in comuni programmi e progetti di innovazione in un dato settore o
mercato. Nel luglio 2005 il Governo francese ha disposto la formalizzazione di 67 cluster sul territorio
nazionale, dando origine alla politica dei Pôles de Compétitivité. Nel novero dei Pôles de
Compétitivité, che ammontano oggi a 71 e che sono in prevalenza attivi nei settori dell’aerospazio,
dell’ICT e delle biotecnologie, figurano distretti di rilievo internazionale quali Aerospace Valley,
Finance Innovation, Lyonbiopole, Medicen Paris Region, Minalogic, SCS, System@tic. Le politiche
per lo sviluppo e la competitività a livello regionale in Francia affondano le radici negli anni ’60,
decennio nel quale viene istituita la relativa agenzia DATAR, che prende oggi il nome di DIACT
(Delegazione interministeriale per la gestione e lo sviluppo dei territori). Obiettivo primario del DIACT
è quello di coordinare le strategie di sviluppo promosse dagli organismi di governo locale con i
programmi di lungo termine individuati dal governo nazionale. Sotto la supervisione del DIACT opera
il CIADT (Comitato interministeriale per la gestione e lo sviluppo del territorio – oggi CIACT,
Comitato interministeriale per la gestione e la competitività dei territori), il quale è composto da
rappresentanti del Ministero per lo sviluppo economico e del Ministero dell’Interno e viene
periodicamente riunito dal Primo Ministro (COTEC, 2008).
Anche attori istituzionali locali di vario tipo (amministrazioni comunali e provinciali, associazioni
imprenditoriali, organizzazioni sindacali, banche locali, Fondazioni bancarie, istituti scolastici,
università e centri di ricerca, Camere di Commercio, centri di servizio alle imprese) possono
esercitare un ruolo centrale nell’attivazione e nella governance strategica di nuove reti governate
tra imprese o imprese a rete.
SDI – Sistema Design Italia – è, ad esempio, una rete di Agenzie per la ricerca, l'innovazione e la
promozione nel campo del design che nasce come spin-off di un programma di ricerca biennale cofinanziato dal MIUR (Ministero dell'Università e della Ricerca). La rete è composta da 8 sedi attive
presso sedi universitarie diffuse su tutto il territorio nazionale (Milano, Firenze, Roma, Chieti,
Genova, Palermo, Napoli Federico II e la Seconda Università di Napoli) nelle quali è attivo un nucleo
di ricerca e formazione per il design. Lo scopo dichiarato di SDI è produrre occasioni di ricerca in
collaborazione con enti, associazioni, istituzioni per promuovere il design come fattore competitivo
del sistema economico nazionale e per diffondere la cultura dell'innovazione legata al design anche
presso altri contesti produttivi nazionali, focalizzandosi sulla relazione esistente tra design e sistemi
produttivi locali. La rete promuove anche azioni progettuali concrete che usano l'approccio integrato
del sistema-prodotto all'interno dei territori. Queste azioni sono realizzate attraverso un approccio di
ricerca-azione, che agisce sul potenziale sviluppo di una cultura imprenditoriale e produttiva locale
attraverso processi di crescita dal basso, e sono rivolte a comunità locali, ad amministrazioni e a enti
territoriali di formazione, ricerca e di governo, a singole imprese ed a consorzi interessati ad attuare
processi di innovazione guidati dal contributo di design (AIP, 2008).
È questo anche il caso della recente formazione per opera della “Fondazione per il distretto hi-tech
di Monza e Brianza” di una rete di imprese e istituzioni nell’area di Vimercate, che si ispiri ai poli
tecnologici francesi (Tajani, 2010). L’ultimo censimento indicava la presenza di oltre 800 unità locali
su un territorio di 24 Comuni tra le provincie di Milano, Monza-Brianza, Bergamo, Lecco e Lodi, con
aziende del calibro di Electra, IBM, Alcatel, St Microelectronics, ecc.. A partire dalla metà degli anni
Sessanta nell’area della Brianza si sono stabilite alcune tra le più innovative aziende del settore high
tech e il loro insediamento ha favorito lo sviluppo di un know how innovativo e di una spiccata
attitudine a intraprendere, concorrendo a formare un tessuto produttivo d’eccellenza. Tuttavia dal
2000, a seguito dell’esaurirsi del ciclo positivo della new economy, il territorio si è dovuto misurare
con diversi episodi di delocalizzazione e chiusura di attività imprenditoriali. Per superare i limiti
suddetti è stata individuata una soluzione nella costituzione di un distretto funzionale, fortemente
innovativo, in grado di supportare le imprese dei settori high tech. Nel giugno 2007 il Ministero dello
Sviluppo economico, la Provincia di Milano, i Comuni del Vimercatese, la Confindustria di Monza e
Brianza e alcune industrie hanno firmato un protocollo per avviare il processo realizzativo di un
distretto specifico attraverso l’istituzione di un Comitato promotore, poi sfociato nella “Fondazione
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per il distretto hi-tech Monza e Brianza” che opera in un’area che era già riconosciuta dalla Regione
Lombardia come “distretto hi-tech”. La Fondazione si è fatta promotrice della progettazione di una
rete che sfruttasse da un lato la concentrazione di aziende elettroniche e competenze diffuse
presenti dagli anni Settanta nell’area, tradizionalmente vocata allo sviluppo di servizi di produzione
elettronici innovativi, dall’altro la riconversione dell’area industriale di Celestica Italia (nata dalla
cessione dell’attività produttiva di IBM Italia) in un parco industriale. Il risultato è una rete di istituzioni
e medie imprese locali, con la presenza di alcuni global players interessati a tessere reti lunghe
piuttosto che relazioni intra-distrettuali (AIP, 2008).
Anche a Legnano (Tajani, 2010) nell’Alto Milanese si è recentemente cercato di replicare questo
processo attraverso la messa in rete di un Energy Cluster – ovvero di un meta-distretto
termoelettromeccanico – che colleghi tra loro le istituzioni locali pubbliche e private vocate a questo
settore oltre che una serie di piccole-medie imprese tradizionalmente specializzate nel settore della
meccanica per l’energia (turbine, trasformatori) e già presenti sul territorio. L’Alto Milanese si
caratterizza per una forte tradizione industriale manifatturiera con la presenza di imprese di piccole e
piccolissime dimensioni e per una serie di specializzazioni, quali meccanica, lavorazione di metalli e
prodotti in metallo, fabbricazione di macchine elettriche. Negli ultimi anni l’Alto Milanese ha avviato
un percorso di ripensamento delle condizioni e delle modalità per accompagnare lo sviluppo del
territorio anche attraverso la costruzione di nuove reti di relazione tra attori, nuovi contesti d’azione e
nuovi progetti. Si tratta anche nel caso dell’Energy Cluster dell’Alto Milanese di una forma
associativa, pubblico-privata, che vede coinvolte circa 100 imprese per 20.000 addetti ed un giro
d’affari complessivo di 8 miliardi e mezzo. Le imprese che vi fanno parte sono per la metà piccole
imprese e per la restante parte sono equamente divise tra grandi e medie operanti nella filiera
elettromeccanica (Franco Tosi, Arendi, Tamini, STF, Sices Group, Elettromeccanica Colombo,
Pensotti FCL). Ad esse si aggiungono: l’agenzia di sviluppo del territorio Euroimpresa Legnano,
Confindustria Alto Milanese, Confartigianato, Comuni, Provincia e Camera di Commercio di Milano,
Università LIUC, Politecnico di Milano, IRcOS-CNR e UNI. L’Energy Cluster è, dunque, una rete
costituita dalle imprese per le imprese; un cluster, che aggrega le imprese lombarde che
costruiscono, o contribuiscono a costruire, prodotti utilizzati per la generazione e la distribuzione
dell’energia, da quella tradizionale a quella connessa alle energie rinnovabili. Tra gli obiettivi
dichiarati del cluster: favorire la messa in comune delle conoscenze e lo sviluppo di strumenti che
consentano, soprattutto alle PMI, di affrontare con minori costi i temi organizzativi e normativi;
favorire la crescita delle PMI; sostenere l’internazionalizzazione presidiando i mercati e favorendo
sinergie e alleanze, di lungo periodo con imprese all’estero.
Pur trattandosi di situazioni che differiscono per natura dei nodi coinvolti, per tipologia dei
legami pre-esistenti e instaurati e per modalità di governance, in entrambi i casi ci chiediamo se
siamo di fronte a forme di rete governate di nuova generazione, attivate da istituzioni locali.
Non vi è dubbio che le istituzioni locali abbiano da sempre esercitato un ruolo centrale nel
generare esternalità positive per le reti locali tra imprese e per i distretti industriali in particolare
configurandosi come veri e propri industrial commons (Pisano e Shih, 2009), ovvero
agglomerazioni di competenze, infrastrutture e servizi capaci di supportare il vantaggio competitivo
delle reti di imprese collegate e dei territori. Si rileva una forte presenza di questo genere di
istituzioni (soprattutto in relazione al sistema universitario e a quello finanziario, ai poli di ricerca e
sviluppo sul design e la moda, ai centri di ricerca sulle biotecnologie e i nuovi materiali e al sistema
fieristico), che assumono sempre più la forma di KIBS, ovvero knowledge-intensive business
services (Grandinetti et al., 2010), capaci di attivare e governare reti tra imprese e istituzioni ad
alto scambio di conoscenza.
Si pensi ad esempio al ruolo dell’agenzia Lumetel nel distretto di Lumezzane (Brescia), a quello
esercitato dal CLAC di Cantù o da Progetto Lissone nel distretto del mobile della Brianza, o al ruolo
delle università degli Studi di Milano, di Milano-Bicocca e Vita-Salute San Raffaele per lo sviluppo
del cluster biotecnologico di Milano. Ad esempio Progetto Lissone, nasce nel 1997 come rete equitybased per il rilancio del distretto del legno arredo Brianzolo, progressivamente disgregatosi a causa
della perdita di medio-grandi imprese, della maturità di settore e dei processi di continua
delocalizzazione produttiva. Progetto Lissone coinvolge artigiani di prima e seconda generazione,
imprese industriali di piccole e medie dimensioni, commercianti e spazi espositivi e professionisti sia
del settore del legno-arredo (architetti, designer, progettisti o tecnici) sia grafici, legali e
commercialisti.
Le filiere tradizionali dell’arredo-design, del tessile-moda, della meccanica e quelle ad alta tecnologia
(l’aerospazio, le biotecnologie, l’elettronica, ecc.) si scompongono e si ricompongono lungo reti
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globali in continua mutazione, ove le singole fasi – un tempo contigue anche geograficamente nella
filiera – vedono oggi il coinvolgimento di nodi eterogenei per natura (imprese/istituzioni), dimensioni
e localizzazione. Diventa, quindi, cruciale – proprio in una logica strategica di gestione della rete –
presidiare il controllo della filiera produttiva.
I distretti tecnologici e i parchi scientifici-tecnologici
Molti dei casi citati sono reti di imprese ad alto livello di tecnologia che si sviluppano
“naturalmente”. Vi è una tendenza crescente ad attivare intenzionalmente aggregati,
agglomerazioni e desiderabilmente reti che includano università, centri di ricerca, imprese: distretti
tecnologici, parchi scientifici e tecnologici. Ossia progettare vasti sistemi che includono università,
ricerca, imprese, enti locali, sistemi che prima non c’erano.
Mentre le reti che abbiamo prima discusse “esistono in natura” e vengono sviluppate e
governate, quello a cui ci riferiamo ora costituisce un artefatto organizzativo complesso. Il confine
tra iniziative di politiche pubbliche e reali organizzazioni reticolari è sottile: Butera scriveva nel
1995 il libro “Bachi, crisalidi e farfalle: poche le farfalle” sui parchi scientifici, alludendo al fatto che
poche volte l’investimento in risorse materiali e conoscitive si disseminava poi a favore delle
imprese del territorio.
Nella varietà di queste forme sviluppate su base territoriale si vanno diffondendo in primis i
cosiddetti distretti tecnologici. Il concetto di distretto tecnologico, ispirandosi al modello dei distretti
industriali, che caratterizzano l’industria italiana, è il risultato di un processo intrapreso dal 00 ,
tendente a razionalizzare e a stimolare le dinamiche presenti sul territorio in seno ai parchi
tecnologici, ai centri di ricerca e ad altre entità simili. L’originalità del distretto, rispetto a questi
ultimi, dipende dal ruolo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) e
dall’importanza delle regioni e delle collettività in questo processo di promozione e di trasferimento
di tecnologie e innovazione. Un distretto tecnologico è un’aggregazione territoriale di attività di alte
tecnologie in seno alla quale università e/o centri di ricerca pubblici, grandi imprese, PMI e
amministrazioni locali danno il loro contributo. Per altro, il distretto dispone di una vera e propria
struttura di governance (consorzio pubblico-privato, regione) che permette di concentrare le forze
delle imprese e dei centri di ricerca su un unico programma di alta tecnologia che abbia
ripercussioni economiche significative (creazione di imprese e di brevetti) sul mercato nazionale ed
internazionale, ma anche socio-economiche (creazione di posti di lavoro e formazioni altamente
qualificate).
Tra i distretti meglio organizzati come tali e i più attivi, si possono citare, in modo non esauriente,
Torino Wireless (Piemonte), Veneto Nanotech (Veneto), IMAST (Campania), CBM (Friuli-Venezia
Giulia). In particolare, Torino Wireless rappresenta un caso di eccellenza riconosciuto a livello
internazionale. Nel dicembre del 2000, grazie all'iniziativa di Torino Internazionale e all'impegno della
Regione Piemonte, dell'Istituto Superiore Mario Boella, dell'Unione Industriale e dell’agenzia
regionale per gli investimenti ITP nasce un tavolo di concertazione per sensibilizzare gli attori del
territorio nei confronti del progetto di costituire in Piemonte un polo tecnologico dedicato all’ICT.
Durante il 2001 si svolgono una serie di seminari di approfondimento e di studio volti a fornire una
fotografia della situazione nell'ambito dell'ICT nell'area piemontese e a individuare le prospettive di
sviluppo del distretto. Nel dicembre 2001, viene firmato il patto che sancisce l´impegno comune a
costituire a Torino un distretto tecnologico orientato al Wireless, tra il MIUR e le maggiori istituzioni
pubbliche e private locali. Nel 2002 viene creato un Comitato Guida incaricato di indicare le linee di
azione fino alla costituzione del Distretto e un Comitato Promotore, costituito dalle Istituzioni locali,
incaricato di creare le necessarie strutture organizzative. Con l´avvio del Comitato le attività di
ideazione, progettazione e gestione di Torino Wireless si concentrano presso la sede dell´Istituto
Mario Boella. Nel dicembre 2002 viene costituita la Fondazione Torino Wireless cui viene affidato il
compito di elaborare le linee strategiche del Distretto e di coordinarne le attività, garantendo
coerenza e integrazione alle politiche di sviluppo ICT del territorio. L'impegno della Fondazione si
concretizza nello stimolare il sostegno finanziario utile a favorire la crescita delle attività di ricerca e
sviluppo; indirizzare le linee di ricerca su temi a più alto potenziale di sviluppo e di maggiore
interesse per il mercato; promuovere e sostenere i progetti e i programmi di ricerca utili alle PMI
piemontesi. Sono partner della Fondazione: Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
(MIUR); Regione Piemonte; Provincia di Torino; Città di Torino; la Camera di Commercio di Torino;
Politecnico di Torino; Università degli Studi di Torino; Istituto Superiore Mario Boella (ISMB); Unione
Industriale di Torino; Imprese private: Alenia Aeronautica; Fiat; Motorola; STMicroelectronics;
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Telecom Italia; Sanpaolo IMI ed UniCredit. Pur non essendo partner della Fondazione hanno
comunque espresso il loro sostegno al Distretto, firmando il Memorandum of Understanding, la
Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT. L'avvio ufficiale delle attività del Distretto è stato nel
maggio 2003 con la firma dell'Accordo di Programmazione Negoziata, che sancisce in maniera
vincolante l'impegno dei partner nella definizione di azioni e programmi comuni e conferisce alla
Fondazione Torino Wireless l'autonomia necessaria per svolgere la funzione di coordinamento delle
attività. Torino Wireless considera le attività di ricerca una leva fondamentale per lo sviluppo
imprenditoriale e la crescita della competitività del sistema piemontese. Le strategie della
Fondazione mirano a indirizzare la ricerca verso risultati che siano utilizzabili da imprese esistenti
nell'ambito ICT o che costituiscano il punto di partenza da cui avviare nuova imprenditorialità.
All'interno del Distretto, le attività di ricerca vedono il diretto coinvolgimento degli attori accademici e
delle imprese partner. La Fondazione Torino Wireless è l'ente che promuove, in sinergia con gli altri
attori operanti sul territorio, la crescita del Distretto ICT Piemontese. Torino Wireless si pone come
ponte tra le imprese, gli enti di ricerca e le politiche di innovazione regionali, facilitatore
dell'innovazione tecnologica e strumento per lo sviluppo economico del territorio. Inoltre la
Fondazione è l’ente gestore del Polo di Innovazione ICT, uno dei 12 nuovi strumenti della Regione
Piemonte per favorire la convergenza degli investimenti su nuove traiettorie di sviluppo di prodotti o
servizi innovativi. Dal punto di vista del sostegno finanziario alle attività del distretto, la Fondazione
Torino Wireless ricopre un ruolo di interfaccia, re-indirizzando fondi pubblici di matrice statale o
regionale per implementare azioni e politiche volte allo sviluppo del distretto. Nel quinquennio 20022006, la Fondazione ha potuto contare su un budget di circa 60 milioni di Euro, l’88% dei quali
provenienti a vario titolo da erogazioni pubbliche. L’obiettivo della Fondazione Torino Wireless è di
arrivare, nel 2012, ad aver mobilitato complessivamente 333 milioni di Euro per il sostegno alla
crescita del distretto, 133 dei quali di matrice pubblica. Nello stesso periodo, la Fondazione punta ad
aver coinvolto nelle proprie attività circa 300 imprese, per 7'500 dipendenti e oltre 1 miliardo di Euro
di fatturato, che si prevede possa crescere in maniera più che proporzionale allo sviluppo endogeno
delle imprese, permettendo di misurare il valore aggiunto dalla formalizzazione del distretto Torino
Wireless sulla crescita del territorio (COTEC, 2008).
Parimenti si assiste ad un fiorire di parchi scientifici e tecnologici (PST). I PST hanno una lunga
esperienza nei paesi industrializzati e sono diventati uno degli strumenti più utilizzati delle politiche
locali per favorire l’innovazione e lo sviluppo tecnologico (Malizia e Pinelli, 004). Pur essendoci
varie tipologie di PST, in essi è di solito prevista la presenza di strutture pubbliche specializzate
nella produzione di ricerca di base e applicata (università e centri pubblici di ricerca), per attivarsi
come interfaccia tra l’offerta di tecnologia e la domanda proveniente dalle imprese localizzate nel
PST o esterne ad esso. Con la partecipazione di soggetti che perseguono interessi collettivi, tanto
pubblici quanto privati, come i governi locali o le associazioni di categoria, i PST cercano di
sviluppare al massimo le sinergie tra tutti gli operatori del sistema innovativo locale – università,
imprese e istituzioni – per favorire la produzione di conoscenza e la sua diffusione nel contesto
locale. In questa ottica i parchi e le regioni da questi interessate assumono la funzione di beni
collettivi, tanto dal punto di vista delle imprese quanto da quello del soggetto pubblico. Molti dei
PST degli Stati Uniti sono nati negli anni ‘70 con tecniche di spin-off accademico dalle migliori
università: docenti, ricercatori e neolaureati hanno costituito nuove imprese ad alta tecnologia che
si sono insediate in aree attrezzate messe a disposizione dalle fondazioni che gestiscono le
università statunitensi. La nascita di tali nuove imprese è stata generalmente supportata da capitali
messi a disposizione da venture capitalist.
In Europa, si segnalano i PST di Sophia Antipolis e la Zirst di Meylan-Grenoble in Francia, e i Parchi
di Cambridge e di Heriott Watt in Gran Bretagna. In Italia si segnalano Tecnopolis a Bari e Area
Science Park a Trieste. Sophia Antipolis è, certo, in Europa il caso più evidente di successo di
questa forma di rete inter-organizzativa, che nasce come una satellite platform (Markusen, 1996) per
diventare nel tempo un vero e proprio technopole (Moreau e Bernasconi, 2002). La creazione di
Sophia Antipolis risale al 1969, quando il progetto è stato ideato dal suo fondatore – Pierre Laffitte –
che da subito ha saputo coinvolgere attori determinanti per la sua realizzazione. Il nome scelto
illustra l’obiettivo prefisso: “Sophia” è il nome della saggezza in greco, mentre “Antipolis” è l'antico
nome di Antibes. La zona prescelta è, infatti, nell’entroterra di Antibes, vicina a Valbonne: una zona
boscosa risparmiata dalla forte ondata di urbanizzazione che ha coinvolto la Costa Azzurra
soprattutto dal Secondo Dopoguerra in poi. Sophia Antipolis si trasforma in breve tempo in
un’iniziativa pubblica di pianificazione e sviluppo del territorio. Nel 1972 nasce, infatti, il SYMIVAL
(Sindacato Misto per la sistemazione del Piano Valbonne), composto dalla Camera di Commercio,
dal Dipartimento e dai cinque comuni della Zac (Zona di pianificazione concertata). Nel 1974 il
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Consiglio Interministeriale di sviluppo territoriale (CIAT), che già nel 1972 aveva approvato il progetto
di creazione di un parco scientifico nella zona di Valbonne, dichiara il parco operazione di interesse
nazionale e ne definisce gli obiettivi: armonizzare economia e ambiente, indirizzando l'economia
verso il terziario avanzato di portata internazionale. Gli anni dal 1974 al 1990 sono caratterizzati
dall'attrazione di importanti attori esterni. Si installano le prime imprese: FRANLAB, filiale dell’Istituto
francese del petrolio, e la Società Francese di Geofisica. Successivamente si decentralizzano i
laboratori ROHN & HASS di Zurigo e si insediano i laboratori del CNRS (Centro Nazionale di Ricerca
Scientifica) e la prestigiosa università Ecole des Mines. Negli anni successivi si susseguono gli
insediamenti di strutture di formazione e di ricerca, tra cui l’Istituto Nazionale di Ricerca Informatica
(INRIA), il Centro Internazionale di Ricerche Dermatologiche (CIRD), lo IUT (Istituti Universitari di
Tecnologia) e IUP (Istituti Universitari Professionali), ESINSA (Scuola Superiore d'Ingegneria di Nice
Sophia Antipolis), ESSI (Scuola Superiore in Scienze Informatiche), INRA (Istituto Nazionale di
Ricerca Agronomica), Institut EURECOM (Scuola di Ingegneria e centro di ricerca di sistemi di
comunicazione creata nel 1991 a Sophia Antipolis grazie al contributo di Télécom Paris e di EPFLÉcole Polytechnique Fédérale de Lausanne), Institut Théseus, CERMICS, gli istituti di formazione
continua CNAM, CPA Méditerranée, GRETA Antipolis. I risultati ufficiali indicano un chiaro successo
in termini di: manodopera qualificata attiva nel Parco (30.000 lavoratori di cui 54% quadri, 5.000
studenti e 4.000 ricercatori del settore pubblico); imprese anche di grandi dimensioni e straniere (in
totale oltre 400, di cui il 40% operanti nei settori della ricerca e sviluppo); centri di ricerca pubblici e
privati; concentrazione dell’attività in alcuni settori specifici (telecomunicazioni, biotecnologie,
energia); un’area complessiva di 5.750 acri (corrispondente a circa 23 km²).
L’esperienza italiana trae origine da realtà variegate ed eterogenee, che sono difficilmente trattabili
in modo schematico. AREA Science Park è il principale parco scientifico e tecnologico multisettoriale
italiano e uno tra i maggiori in Europa. AREA Science Park è gestito da un ente pubblico di ricerca
che, dal 2005, è Ente nazionale di ricerca di I livello del Ministero dell’Università e della Ricerca. I
principali settori tecnologici delle imprese e dei centri di ricerca insediati nell’AREA sono: scienze
della vita, fisica, materiali, nanotecnologie, elettronica, informatica e telecomunicazioni e ambiente
ed energia. Ad oggi sono stati investiti 130 milioni di euro dal 1982 e ciò ha consentito risultati aventi
visibilità internazionale (il sincrotone, il centro di ingegneria genetica, ecc.). Tuttavia, il risultato che
merita la maggiore attenzione è l’elevato grado di attivazione di tali investimenti nell’area locale. Il
modello di Tecnopolis di Bari ha basato il suo sviluppo sull’utilizzo razionale delle risorse pubbliche
messe a disposizione per il Mezzogiorno, ed è intimamente legato allo sviluppo del territorio
pugliese. Anche i Parchi stessi sono in rete tra loro. APSTI (Associazione Parchi Scientifici e
Tecnologici Italiani) è il network nazionale dei Parchi Scientifici e Tecnologici, a cui aderiscono la
maggioranza dei PST (31 associati) rappresentativi della quasi totalità delle regioni italiane, per
sostenere lo sviluppo economico attraverso l’innovazione. L’Associazione opera affinché queste
infrastrutture si caratterizzino sempre più come integratori tra i bisogni di crescita innovativa delle
imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e piccolissime, e il patrimonio di conoscenza
espresso dai poli di eccellenza tecnologica e scientifica, dalle Università e dai centri di ricerca,
mettendo a sistema le funzioni dei tanti soggetti che interagiscono nel campo dell’innovazione e del
trasferimento tecnologico.
5. La governance delle reti organizzative
Quanto discusso finora porta, dunque, con sé anche l’urgenza di revisionare le attuali policy
dirette al supporto della competitività delle imprese e del territorio. Si tratta di un cambiamento di
focus dei modelli di management e delle politiche industriali che sappia innanzitutto tenere conto di
una scala geografica non più segnata dai confini geografici tipici delle reti tradizionali di prossimità
ma estesa alle dimensioni su cui si articolano le nuove reti di impresa. In secondo luogo l’unità di
destinazione delle policy non può più essere l’impresa (piccola, media o grande che sia) ma
l’organizzazione a rete, nei nodi e legami che la costituiscono, nei processi e nelle strutture che la
caratterizzano. Ecco, quindi, che è necessario comprendere come possa essere esercitata la
governance delle reti inter-organizzative da parte dei policy maker interessati alla competitività del
sistema Paese.
Prossimità geografica e prossimità cognitiva
Da quanto sopra discusso emerge che le reti inter-organizzative basate sulla co-localizzazione
geografica e la specializzazione produttiva (siano esse distretti industriali, cluster o meta-distretti,
filiere produttive, costellazioni guidate da medie imprese, parchi tecnologici, ecc.) si sono
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dimostrate capaci di produrre innovazione attraverso la circolazione di conoscenza e quindi
contribuire alla competitività e alla prosperità di territori. Ciò che ne deriva, in termini generali, è
che l’interazione e la prossimità favoriscono la formazione di relazioni e di comportamenti di tipo
sociale (fiducia, reputazione, ecc.) innescando nel tempo una progressiva omogeneizzazione degli
attori coinvolti, che iniziano a operare come una quasi-impresa. Qui sta la forza delle reti interorganizzative che funzionano.
La prossimità, nelle sue varie accezioni, è certamente il motore che tiene unite le reti di
imprese, ma occorre non limitarsi alla sola prossimità geografica (co-localizzazione tipica di alcuni
incubatori, parchi ecc.). Certamente la prossimità geografica (tipica delle reti di imprese
tradizionali, quali i distretti o le filiere territoriali) riduce anche la distanza cognitiva tra i nodi
coinvolti in una rete, aumentando quindi la prossimità cognitiva. La prossimità cognitiva si riferisce
alla somiglianza o alla comunanza di valori, credenze, conoscenze, competenze, visioni del mondo
dei nodi di una rete. Ciò è possibile grazie al fatto che la prossimità geografica (ovvero
l’agglomerazione o la co-localizzazione) passa attraverso la prossimità sociale (capitale sociale) e
quella relazionale (relazioni inter-organizzative). All’opposto, la prossimità geografica, che agisce
come veicolo di norme, valori, conoscenza, costituisce la base su cui innestare le relazioni,
favorendo quindi la formazione di un capitale sociale che va nuovamente a rinforzo della
prossimità relazionale e geografica (Biggiero, 2006). In particolare, larga parte della letteratura
(Boschma e Ter Wal, 2007) ricorda che la prossimità geografica favorisce le esternalità positive di
condivisione della conoscenza e che le strutture e le reti inter-organizzative, riconducibili alla
prossimità organizzativa e relazionale, hanno un impatto positivo sull’apprendimento da fonti
esterne. Ecco, quindi, che la prossimità nelle sue dimensioni geografiche, organizzative, relazionali
e cognitive è alla base del funzionamento delle reti di imprese e responsabile della loro capacità
competitiva, favorendo spill-over di conoscenza, condivisione di valori, saperi e norme di
comportamento e progettualità comuni.
Figura 2. I meccanismi di governance delle reti di imprese
INFRA-STRUTTURA
AZIONI E COMPORTAMENTI COMUNI
Il circolo virtuoso (vizioso)
della GOVERNANCE
DELLE RETI DI IMPRESE
STRUTTURA COGNITIVA
o
o
o
o
o
o
valori condivisi;
norme comuni;
conoscenze diffuse;
senso di appartenenza;
identita’ e
identificazione;
ecc.
o
o
o
o
o
o
strade e vie di collegamento;
piattaforme IT;
impianti comuni;
centri servizi condivisi;
facilities collettive;
ecc.
INTERAZIONE E PROSSIMITA’
STRUTTURA RELAZIONALE
CONNESSIONI DI RETE
o
o
o
o
o
progetti comuni;
arene di incontro;
canali di comunicazione;
strumenti a supporto delle reti;
ecc.
Fonte: adattato da Alberti (2006)
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La competitività come risultato di infrastrutture, strutture relazionali, strutture
cognitive
In altri termini, usando le categorie concettuali dell’industrial field approach (Hellgren et al.,
1993), la competitività delle reti di imprese passa attraverso una dimensione infrastrutturale (che
assomma in sé la prossimità geografica e organizzativa, attraverso strutture fisiche, tecnologiche e
organizzative), una dimensione relazionale (si tratta della qualità delle strutture relazionali, ovvero
di quella che si è definita prossimità relazionale) e una dimensione cognitiva (si tratta della
struttura di conoscenze, credenze e valori che abbiamo definito prossimità cognitiva). Studi
precedenti (Alberti, 2006) dimostrano, infatti, che perché cresca la competitività delle reti di
imprese (siano esse cluster, distretti, filiere, parchi tecnologici o altro) occorre che si avvii un
circuito virtuoso tra la struttura cognitiva, la struttura relazionale e la infra-struttura. Queste tre
strutture sono strettamente interdipendenti tra loro e intimamente connesse, così che una modifica
o un intervento su una di esse produce necessariamente variazioni anche sulle altre due. Un
gruppo di imprese che interagisce attraverso una rete di connessioni (cioè una struttura
relazionale) spesso porta ad una uniformazione anche delle infrastrutture su cui le imprese della
rete fanno conto e delle strutture cognitive di riferimento, ma non necessariamente in questo
ordine. Può accadere, infatti, una vicinanza sul fronte cognitivo (stesso expertise, stessi valori,
patrimonio informativo comune, ecc.) produca un avvicinamento relazionale e contribuisca, poi,
alla realizzazione di infrastrutture comuni. Alcuni autori (Alberti, 2006) usano il termine “enactment
process” per riferirsi a come spesso la dimensione cognitiva (visioni comuni, senso di
appartenenza, identificazione) sia tradotta in azioni concrete e quindi in forme materiali di
vicinanza, appunto reti di relazioni e strutture fisiche, tecnologiche, organizzative comuni. Oppure,
ancora, può accadere che siano le infrastrutture comuni a produrre un avvicinamento dei nodi di
una rete e stimolare lo sviluppo di strutture relazionali e poi cognitive comuni.
Ecco, quindi, che le infrastrutture messe a disposizione di una rete di imprese – si pensi alle
forme di collegamento fisico e virtuale, alle piattaforme di comunicazione, alle strutture di servizio,
di ricerca e di formazione, ai cosiddetti industrial commons, ecc. – auspicabilmente dovrebbero
favorire l’interazione e la prossimità tra gli attori che usano tali infrastrutture per conoscersi,
interagire, collaborare e avvicinarsi, rendendo più densa e intensa la rete di imprese. Ciò può
rinforzare la struttura relazionale, favorendo la cooperazione, la fiducia, l’agire come una quasiimpresa, ossia strutture socio-organizzative orientate a integrare i fattori e governare
intenzionalmente. Ci si attende, quindi, che le strutture relazionali diventino più robuste, che si
consolidino nel tempo e costituiscano vere e proprie “arene” in cui praticare le relazioni di rete (si
pensi ad esempio alle cosiddette piattaforme industriali, ai progetti collettivi e consortili, alle liaison
tra ricerca e industria, ecc.). Strutture relazionali siffatte intensificano le relazioni tra i nodi della
rete contribuendo a un progressivo avvicinamento cognitivo. Le strutture cognitive pian piano si
consolidano in conoscenze comuni, patrimoni informativi condivisi, valori e norme di
comportamento collettivi, e così via. Spesso si genera anche un senso di appartenenza alla rete e
di identificazione alla stessa che non fanno altro che rinforzare ancor più comportamenti pro-rete:
maggiore cooperazione, strategie comuni, comportamenti collettivi, ecc. Questo fa sì che la rete,
coesa e abituata a lavorare come una quasi-impresa, dia vita a nuove infrastrutture volute dalla
rete stessa e ad essa funzionali. Ciò consente di avviare un nuovo ciclo di rinforzo tra
infrastrutture, strutture relazionali e strutture cognitive, come mostrato in Figura 2.
Attenzione che il circolo virtuoso spiega anche il potenziale circolo vizioso. Si pensi ad esempio
al caso di quelle reti tra imprese che si sono avviate verso percorsi di crisi se non di declino, o che
addirittura sono scomparse. In questi casi, il circuito si è indebolito progressivamente su uno o più
dei fronti illustrati e ciò ha portato la rete a essere meno competitiva e quindi a pregiudicare la
prosperità del territorio di riferimento. Processi di rilocalizzazione di alcuni nodi della rete, fallimenti
e assenza di supporto infrastrutturale si tramutano in un impoverimento dell’interazione e della
prossimità geografica e relazionale, pregiudicando anche la struttura relazionale. Ciò genera
individualismo, assenza di cooperazione, incapacità di agire come un sistema, competizione e
sfiducia, che a loro volta pregiudicano la qualità delle connessioni tra i nodi della rete, che tendono
a diminuire l’intensità e la forza delle loro relazioni impattando così anche sulla struttura cognitiva.
Si assiste quindi a un progressivo distacco cognitivo, al prevalere di visioni idiosincratiche, ad una
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chiusura alla condivisione di conoscenza, al venire meno del senso di appartenenza e
identificazione. Ciò presumibilmente conduce ad un impoverimento delle scelte condivise, delle
strategie comuni e dell’agire compatto, impattando nuovamente sulle infrastrutture comuni, che
incominciano a non essere più utilizzate o a venire meno. Ecco, quindi, che il circuito si è avviato in
modo vizioso, ingenerando una progressiva perdita di competitività della rete di imprese.
La governance di infrastrutture, strutture relazionali, strutture cognitive
Come è dunque possibile esercitare la governance di questi meccanismi capaci di condurre
alla realizzazione di reti inter-organizzative di livello superiore, capaci quindi di favorire la
competitività, e quindi la prosperità di economie locali? Su cosa intervenire? Le infrastrutture? Le
strutture relazionali o quelle cognitive?
La dimensione infrastrutturale certo conta, si pensi a elementi quali: la qualità dei collegamenti,
l’efficienza dei servizi della pubblica amministrazione, la disponibilità di supporti logistici, l’accesso
a risorse specialistiche, ecc. Gli spazi di intervento sono molti, dai trasporti alle telecomunicazioni,
dalle utilities ai servizi sanitari, dalla sicurezza al sistema formativo di base. Essi costituiscono una
dimensione basilare della competitività di un determinato sistema socio-economico. Non vi è
dubbio che il campo di azione sia molto difficile, per effetto dei livelli di responsabilità coinvolti,
degli interessi economici e sociali mobilitati, della scarsità di risorse, degli aspetti normativi e
amministrativi, dei vincoli imposti dalla conformazione del territorio. Tuttavia non è sufficiente
lavorare sulla dimensione infrastrutturale – per altro spesso privilegiata se non abusata dai policy
maker – perché si ingenerino i meccanismi virtuosi sopra descritti. Questo spiega anche il
fallimento o la ridotta capacità di generare competitività di molti casi di incubatori, parchi scientifici,
distretti tecnologici o altre costruzioni top-down di reti, prevalentemente burocratiche e
prevalentemente baricentrate sull’agglomerazione spaziale più che sulla messa in rete degli attori.
Anche la dimensione cognitiva rappresenta un fattore fondamentale per comprendere le
ragioni del successo imprenditoriale di un determinato contesto economico, per ricostruirne i
percorsi di crisi, per valutarne il potenziale di sviluppo. La questione di fondo diventa la vitalità del
capitale umano di un determinato contesto, gli interventi che possono consolidarlo e se del caso
svilupparlo, le iniziative che ne arricchiscono le basi di conoscenza e ne ampliano la dimensione
cognitiva. Gli spazi progettuali in questo ambito non sembrano mancare. Si pensi a iniziative volte
a qualificare il mercato del lavoro, a tutelare abilità manuali e conoscenze artigianali, a far
emergere nuove professionalità. Si rifletta sullo sviluppo di know-how in aree gestionali in cui non
risulti adeguato alle sfide concorrenziali emergenti. Un’altra area su cui lavorare è quella relativa
allo sviluppo di conoscenze sui mercati di sbocco e di approvvigionamento, sulla struttura ed
evoluzione della concorrenza, sulle dinamiche di internazionalizzazione del confronto competitivo.
Infine, la dimensione relazionale è centrale: la qualità e la densità delle relazioni, nonché la
predisposizione di “arene” in cui esercitare le connessioni di rete impattano positivamente sulla
prossimità di tipo relazionale, che può produrre prossimità cognitiva e quindi anche organizzativa e
geografica. Si pensi ad esempio all’ottimizzazione della capacità produttiva disponibile all’interno di
un determinato distretto; al governo dei flussi verticali dei materiali, alla valorizzazione di sinergie
produttive, all’allocazione dei carichi di lavoro tra produttori impegnati nelle stesse attività, alla
gestione dei picchi di domanda e degli eccessi d’offerta, al recupero di efficienza nell’ambito
dell’intero ciclo di trasformazione ai progetti di consorzi e associazioni di filiera, fino ai più recenti
“contratti di rete”, che possono essere stipulati tra due o più imprese che vogliono esercitare
attività economiche in comune per accrescere la loro capacità innovativa e la competitività sui
mercati.
Il contratto di rete rappresenta un nuovo strumento di aggregazione tra imprese (diverso da quelli
finora esistenti in ambito civilistico): è redatto per atto pubblico, deve essere iscritto nel registro delle
imprese, prevede la costituzione di un fondo patrimoniale comune, ha un proprio consiglio di
amministrazione e una durata prestabilita. Il contratto deve altresì indicare gli obiettivi strategici e le
attività comuni poste a base della rete, che dimostrino il miglioramento della capacità innovativa e
della competitività sul mercato. Si richiede, inoltre, l’individuazione di un programma di rete, che
contenga l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti da ciascuna impresa partecipante e le
modalità di realizzazione dello scopo comune da perseguirsi attraverso l’istituzione di un fondo
patrimoniale comune, in relazione al quale sono stabiliti i criteri di valutazione dei conferimenti che
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ciascun contraente si obbliga ad eseguire per la sua costituzione e le relative modalità di gestione.
La normativa di riferimento è il "Decreto Incentivi" n. 5 del 2009, poi Legge 99 del 2009, la cosiddetta
"Legge Sviluppo". A livello finanziario le norme prevedono semplificazioni procedurali per l'accesso
al credito delle imprese appartenenti alla rete in termini di svolgimento di cartolarizzazioni e di
attenuazione del rischio. Per le “Reti” non sarà possibile da parte di terzi rivalersi sulle singole
imprese, ma solo sul Fondo comune, così come non ci si potrà rivalere sul Fondo Comune per
contenzioso nati con le singole imprese. In ambito amministrativo, per facilitare l'accesso ai
contributi, le “Reti” possono avviare istanze amministrative anche mediante un unico procedimento
collettivo e stipulare apposite convenzioni con istituti di credito, così da garantire l'ammontare della
quota dei contributi soggetti a rimborso. In materia di Ricerca e Sviluppo il provvedimento le
disposizioni sono dirette ad incentivare l'accrescimento della capacità competitiva delle Piccole e
medie imprese aderenti la Rete attraverso un ampliamento di competenze dell'Agenzia per la
valorizzazione e la diffusione delle tecnologie per l'innovazione. Per queste caratteristiche, il
contratto di rete è simile al consorzio, ma più snello, essendo attribuito più spazio alla disciplina
pattizia. Il dato comune (con il consorzio) è il fatto di costituire organismi creati per il soddisfacimento
in comune di un bisogno proprio dei partecipanti. Il contratto di rete costituisce un modello
complementare a quello che realizza aggregazioni proprietarie tramite fusioni ed acquisizioni;
consente una crescita per via contrattuale anche in presenza di una compagine proprietaria ristretta.
Il policy maker può, quindi, intervenire favorendo la creazione e la valorizzazione di sinergie e
interrelazioni nella struttura relazionale di una rete di imprese anche sfruttando queste nuove
forme.
Questo è ad esempio il caso del primo contratto di rete, stipulato a Bologna. Ne sono state
protagoniste 11 piccole e medie imprese manifatturiere, tutte subfornitrici delle case dell'automotive
e operanti nei diversi comparti della meccanica. Le 11 aziende hanno dato vita al comune marchio
“RaceBO” - dove le parole “Race” e “Bo” (la sigla di Bologna) sono contraddistinte dal rosso e dal
nero, per richiamare l'universo dei motori e delle competizioni – al fine di condividere informazioni
commerciali, programmare piani di promozione e vendita comuni sui clienti esistenti e comuni alla
rete, individuare nuove opportunità di mercato sia sul comparto dell'automotive sia in altri, mettere a
disposizione strutture e competenze. Il progetto di aggregazione è stato frutto di numerosi incontri e
confronti tenutisi in Unindustria Bologna, che ha supportato con l'attività delle sue merceologie il
contatto diretto degli imprenditori, sensibilizzando l'opportunità di unirsi e coordinando i diversi passi
organizzativi e legali. Il contratto di rete ha l’obiettivo di investire nell'innovazione e ricerca per
essere competitivi con i paesi low cost. Il cliente grazie al contratto di rete ha un solo interlocutore e
gli uffici tecnici delle aziende aderenti lavorano sinergicamente per produrre parti di alta qualità. Si
sta, inoltre, pensando di creare un marchio unico. Nuove adesioni sono possibili per quelle PMI che
portino elementi innovativi e siano pronte a operare in squadra. La fee d'ingresso è di circa 20mila
Euro, come contributo per il primo round di investimenti e la ripartizione delle spese avviene in quote
uguali. I ricavi complessivi delle 11 aziende del settore automotive nell'area di Bologna che hanno
aderito alla rete sono intorno ai 100 milioni di Euro, mentre gli addetti sono circa 600.
Un altro caso è quello di Rete Log nell’area di Potenza. Si tratta di 33 aziende lucane impegnate
nelle attività di estrazione del petrolio che hanno deciso di realizzare un contratto di rete per progetti
comuni nella ricerca, nell'innovazione tecnologica, nel marketing, e per un accesso al credito più
facile, attraverso un rating di filiera. Si tratta di una rete aperta con uno screening preventivo e una
fee di ingresso pari a 2-3mila Euro e una ripartizione delle spese proporzionale al fatturato dell’anno
precedente. L’iniziativa è il primo caso nel Sud Italia e intende accelerare la crescita del comparto e
l’innovazione della filiera anche formando le nuove leve di tecnici che lavoreranno nei campi
petroliferi. Questo è il pensiero di Pasquale Carrano, presidente di Confindustria Basilicata, che
chiede inoltre la predisposizione di strumenti d’incentivazione, anche usando le royalties, per
l’aggregazione in rete delle PMI. L’8 giugno 2010 è stato costituito anche il contratto di rete del Polo
dell’Alta Moda dell’Area Vestina (Pescara), formato da 9 imprese e 2 fondazioni. Il Polo Alta Moda
dell’Area Vestina nasce come progetto condiviso su un territorio interno della provincia caratterizzato
da una cronica assenza di investimenti infrastrutturali e segnato nel suo destino da una storia
imprenditoriale unica nel suo genere: la Brioni Roman Style Spa, un’azienda che trasferisce la
sartorialità dei Vestini su abiti unici destinati ai mercati più qualificati del mondo. Dietro la storia
sartoriale della Brioni si è costruita una vera e propria rete formativo-culturale dell’alta moda italiana
unitamente alle piccole imprese, prevalentemente façoniste, che sono diventate un riferimento di
grandi marchi italiani. Dalla caratterizzazione strategica del territorio Vestino nasce una filiera di PMI
costituite in rete che certifica l’alta qualità e il Made in Italy dell’intero prodotto e dell’intero processo
di lavorazione, dalla qualità delle Risorse Umane, alla materia prima, dal packaging, ai fornitori. La
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Rete del Polo Alta Moda Area Vestina intende presidiare le aree non strutturate delle PMI come
quella della formazione, della comunicazione e marketing, della promozione territoriale e di prodotto,
dell’assistenza tecnica e della certificazione processo/prodotto/gestionale. Il contratto è stato
sottoscritto da un nutrito gruppo di aziende a marchio proprio (Brioni Roman Style, Roman mode,
Belisario, Antica sartoria services, Max, Dea fashion, Ties club e Alisia Zelli), dalla Fondazione
Nazareno Fonticoli, dalla Fondazione Formoda che organizza e gestisce il Master di I livello in
Economia e Gestione delle Imprese della Moda, dalla Scuola Sartoriale Brioni che forma giovani
sarti, il Museo Internazionale della Moda che, una volta completato, racchiuderà quello che si
definiscono il pensiero storico-culturale della moda italiana nel globo. L’obiettivo della rete è la
creazione di un marchio di area che promuova i marchi individuali. Si valuta la possibilità di operare
come gruppo d'acquisto e di ottenere il rating di filiera con alcune banche per un migliore accesso al
credito. Alle nuove adesioni si chiede il 100% Made in Italy (ed è prevista un’ispezione annuale), con
una fee d'ingresso in base a scaglioni di fatturato, da 1.000 a 6.000 euro, così come per la
ripartizione delle spese. Ad oggi sono 1.450 unità i dipendenti delle 9 PMI dell'area Vestina, con un
giro d'affari di 300 milioni di Euro.
Solo attraverso l’agire coordinato e congiunto sulle tre dimensioni introdotte (infrastrutturale,
relazionale e cognitiva) consente alle forme di rete inter-organizzativa considerate di avviarsi verso
un circolo virtuoso di rinforzo capace di impattare sulla competitività. Certo è che se il supporto
infra-strutturale (tipico dell’agire dei policy maker) non sempre (anzi quasi mai) genera poi strutture
relazionali e quindi cognitive efficaci e capaci di sostenere reti di imprese competitive, un
intervento diretto sul fronte cognitivo è spesso alquanto difficoltoso e impervio. Ecco quindi che
l'agire dei policy maker sul fronte relazionale si presenta come l'alternativa più adeguata e ciò
spiega anche la ragione per la quale ci si sia concentrati in questo rapporto sulle reti. Come agire
dunque sulla struttura relazionale? Quali ruoli e iniziative sono a maggiore impatto? Come
esercitare un giusto ruolo di governance? Si proporranno alcune risposte a queste domande
nell’ultima sezione del presente rapporto.
I protagonisti della governance
Chi sono, dunque, i soggetti deputati ad esercitare la governance delle reti inter-organizzative?
Le istituzioni, gli enti, le associazioni che hanno offerto e che offrono un contributo allo sviluppo
delle reti di imprese sono numerosi, rispondono a molteplici finalità, assumono caratteri strutturali
profondamente differenziati. Molti sono i casi studiati a livello nazionale e internazionale.
Si pensi ad esempio al caso di Clusterland. Formalmente istituita nel 2006, Clusterland
Oberösterreich GmbH è una società a responsabilità limitata – controllata al 61% dall’agenzia di
sviluppo economico e tecnologico regionale Technologie- und Marketinggesellschaft m.b.H (TMG) e
per la restante quota dalla Camera di Commercio dell’Austria settentrionale e dalla Federation of
Austrian Industry, entrambe al 19,5%. Clusterland gestisce e coordina 5 cluster tecnologici e
industriali e 3 network tematici attivi nella zona dell’Austria settentrionale. Nel territorio sono altresì
presenti due ulteriori cluster, legati ai settori food e eco-energy, nonché un network logistics, non
direttamente gestiti dall’associazione. I cluster che compongono Clusterland raggiungono un livello
di fatturato di poco inferiore a 40 milioni di Euro, impiegando ad oltre 200.000 addetti, pari a circa il
30% della forza lavoro totale disponibile nell’Austria settentrionale (COTEC, 2008). Clusterland, oltre
a dettare le linee di sviluppo strategico della rete, svolge attività di networking e di gestione degli
eventi. L’obiettivo di lungo termine perseguito da Clusterland è infatti quello di assicurare una
capacità di autofinanziamento dei distretti pari al 75% del loro stesso fabbisogno. Le linee di
intervento su cui Clusterland è attiva sono principalmente cinque: a) networking e comunicazione
(attraverso la creazione di un database delle imprese affiliate, la compilazione di una matrice delle
competenze tecnologiche presenti sul territorio, la gestione di un portale che presenta le principali
notizie relative alle attività dei distretti); b) formazione (l’organizzazione di seminari e workshop
tematici, l’istituzione di piattaforme per l’agevolazione del trasferimento tecnologico tra imprese e
organismi accademici, ecc.); c) cooperazione, specie nell’incentivo a presentare progetti di
cooperazione che coinvolgano imprese, università e centri di ricerca pubblici e privati; d) marketing e
pubbliche relazioni (ad esempio, la partecipazione dei distretti a fiere internazionali e presentazioni,
organizzazioni di eventi per la valorizzazione dell’immagine della regione a livello nazionale e
internazionale per l’attrazione di investimenti); e) internazionalizzazione e qualità, con
l’implementazione di iniziative di formazione continua rivolta alle imprese afferenti ai distretti. In
sostanza, Clusterland – guidata dal motto “innovation through co-operation” – costituisce un motore
di sviluppo di progetti di cooperazione che coinvolgono le forze migliori della regione, in modo da
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generare esternalità positive sul livello di occupazione e sulla crescita economica. Infine, Clusterland
avvia iniziative volte ad agevolare le possibilità di confronto tra possibili partner di progetto, in
particolare nel mondo delle PMI, come ad esempio tavole rotonde alle quali sono invitati a
partecipare rappresentanti di imprese afferenti a uno dei distretti affiliati a Clusterland che siano
interessate a sviluppare progetti di cooperazione. Per assicurare il finanziamento di progetti di
cooperazione a carattere innovativo, Clusterland promuove una open call sempre attiva, il cui budget
annuo supera i 2 milioni di Euro. I requisiti necessari a concorrere al finanziamento riguardano in
particolare il profilo cooperativo dei progetti, specificano inoltre la natura e la misura dei costi
finanziabili. Dal 1998 al 2006, superano quota 300 le innovazioni di prodotto e di processo raggiunte
nell’ambito dei distretti di Clusterland per mezzo delle imprese che li compongono. Il progetto di
meta-management Clusterland si inserisce all’interno di due importanti politiche pubbliche (Upper
Austria 2000+ e Innovative Upper Austria 2010) per lo sviluppo regionale attraverso le reti interorganizzative.
Tra i soggetti deputati a esercitare la governance delle reti inter-organizzative vi sono i centri
servizi, che solitamente operano su base territoriale o all’interno di cluster, distretti o parchi
tecnologici. I centri servizi offrono una risposta alle esigenze di quelle imprese che, in virtù delle
caratteristiche dimensionali o di altri fattori caratterizzanti, non sono in condizione di internalizzare
attività poco presidiate, ma sempre più critiche per affrontare il confronto competitivo. Il fenomeno
dei centri servizi assume connotati di straordinaria varietà, a differenti livelli: la tipologia dei servizi
erogati, le caratteristiche della clientela servita, il profilo istituzionale, i risultati raggiunti. Spesso si
tratta di società a capitale misto pubblico-privato, composto da associazioni di rappresentanza, enti
pubblici e aziende destinatarie dei servizi.
Tra i più famosi centri servizi operanti al servizio delle reti di imprese ricordiamo il CITER di Carpi,
Lumetel a Lumezzane, il Centro Tessile Serico di Como, CLAC nel distretto del mobile della Brianza
e CATAS nel distretto della sedia. In particolare, CLAC nasce nel 1992 fondato grazie alla legge
regionale n.72/89 del 15/12/89 “Partecipazione Regionale alla realizzazione di un centro servizi nella
città di Cantù”, con l’obiettivo di sostenere le politiche di valorizzazione, nel mercato interno e
internazionale, della qualità produttiva e progettuale delle aziende del settore legno-arredamento.
Componenti di CLAC sono la Camera di Commercio di Como, il Comune di Cantù, la Provincia di
Como, la FLA Federlegno Arredo, l’Unione Industriali di Como, l’API Associazione Piccole e Medie
Industrie – Como, l’A.I.A.L Associazione Italiana Artigiani del Legno, la Confartigianato Imprese
Como, la CNA - Confederazione Nazionale dell'Artigianato – Como, Amministrazione Provinciale di
Lecco, la F.I.L.L.E.A. - C.G.I.L. Fed. Italiana Lavoratori Legno Edili Ind. Affini ed Estrattive, la
F.I.L.C.A. - C.I.S.L. Federazione Italiana Lavoratori Costruzioni e Affini, la FE.N.E.A.L. - U.I.L.
Federazione Nazionale Lavoratori Edili e Affini del Legno, la FNALA Associazione Nazionale
Artigiani del Legno e Arredamento, l’Ente mostre di Monza e Brianza, la Fondazione ENAIP
Lombardia e Lario Fiere ELMEPE Erba. CLAC opera in collaborazione e al servizio delle Istituzioni e
delle realtà associative e di categoria, progettando e realizzando azioni di interesse generale per il
comparto legno-arredamento e per lo sviluppo dei Distretti Industriali di riferimento. L’attività di CLAC
si rivolge anche al mondo della progettazione e dei designer per favorirne l’incontro con il sistema
delle imprese e per valorizzarne gli apporti innovativi alla produzione. Attraverso la Galleria del
Design e dell’Arredamento, coordinata da un apposito Comitato Scientifico, CLAC organizza ricerche
e mostre per la valorizzazione del design e della produzione mobiliera (AIP, 2008). CATAS si
configura addirittura come un centro servizi cross-distrettuale (Grandinetti et al., 2010). Fondato nel
1969 per iniziativa della Camera di Commercio di Udine, è considerato il più grande istituto italiano
per ricerca e prove nel settore legno-arredo, punto di riferimento non solo in Italia. Nasce per
rispondere alle esigenze delle imprese locali di penetrare i nuovi mercati esteri, adeguandosi alle
norme straniere, e di conoscere l'utilizzo dei nuovi materiali. Attualmente l’attività di CATAS si svolge
in due centri operativi situati in aree caratterizzate dalla storica presenza di aziende del settore
legno-arredo: il primo si trova a San Giovanni al Natisone (Udine), il secondo a Lissone (Milano).
CATAS, inoltre, possiede una società partecipata estera, la CATAS-Chile di Santiago del Cile, che
svolge le stesse attività dei centri italiani. CATAS impiega oltre 40 dipendenti, tra i quali: chimici,
ingegneri e matematici. Due dipartimenti, uno tecnologico e uno chimico, coprono il vasto campo di
prove e ricerche commissionate sia sui materiali base sia sui prodotti finiti. La filiale del CATAS di
Lissone, aperta nel 1997, è specializzata nelle prove relative alle superfici. CATAS intrattiene,
inoltre, relazioni con istituzioni analoghe localizzate in diversi Paesi, con dipartimenti di università
italiane (Udine, Trieste, Padova, Milano) e con AREA Science Park di Trieste. Una recente
collaborazione con questo parco tecnologico ha portato alla costituzione di un laboratorio a
Pordenone di R&S dedicato ai prodotti vernicianti e adesivi.
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Anche le agenzie di sviluppo possono essere coinvolte nella governance delle reti di imprese.
Si tratta di enti di natura governativa dedicati alla promozione degli interessi del sistema Paese
all’estero e al supporto operativo e finanziario agli investitori che intendano localizzare unità
produttive in una data area geografica. L’evoluzione in atto propone un modello più sofisticato di
agenzie di sviluppo denominate one-stop-agency, che costituiscono il punto di riferimento unico
per l’investitore in tutte le attività che afferiscono al progetto imprenditoriale e che quindi possono
esercitare anche un ruolo chiave nell’avvio di reti inter-organizzative.
Tra i casi più noti di one-stop-agency e agenzie di sviluppo vi sono il Malta Development Center,
l’agenzia nazionale portoghese, l’IBB (Invest in Britain Bureau), l’Irish Development Agency e la
WDA (Welsh Development Agency). Un esempio a tal proposito è quello di Euroimpresa Legnano,
che – su incarico dell’Assessorato della Provincia di Milano con delega all’Alto Milanese – ha
predisposto un piano di intervento teso a identificare i passaggi chiave per la definizione di un
“modello distrettuale per l’Alto Milanese”, per la nascita dell’Energy Cluster di cui già si è parlato.
Euroimpresa Legnano è l’agenzia di sviluppo locale dell’Alto Milanese, partecipata al 70% da soci
pubblici: Provincia di Milano, Comune di Legnano e, in quote minori, altri comuni del circondario. La
letteratura ha rilevato l’importanza dell’attore pubblico nella produzione di beni collettivi locali
soprattutto nelle aree non dominate da grandi imprese verticalmente integrate. Allo stesso modo è
stato riconosciuto (Grandinetti et al., 2010) come le agenzie distrettuali di iniziativa pubblica o mista
possano rientrare nella categoria dei KIBS (di cui si è parlato in precedenza): soggetti che riescono
ad operare come interfacce cognitive locale/globale in virtù della loro capacità di assorbire
conoscenze dall’ambiente competitivo, combinarle con conoscenze esistenti e produrne delle nuove
(Grandinetti et al., 2010). Per molti aspetti è questo il ruolo che ha giocato l’agenzia di sviluppo
Euroimpresa a Legnano (Tajani, 2010).
Vi sono poi i business innovation center (BIC), voluti dall’Unione Europea nel 1984, sono
definiti nel Documento XVI/C3/354/1988 della Commissione Europea come “sistema locale
integrato di ricerca, selezione e orientamento di imprenditori e di progetti, inteso a creare e
sviluppare nuove attività innovative indipendenti attraverso l’offerta di una gamma completa di
servizi alle imprese da parte di una struttura professionale ed economicamente efficiente e
attraverso la mobilitazione delle risorse e delle organizzazioni pubbliche e private che rivestono
responsabilità per lo sviluppo economico della zona interessata”. Ai BIC sono normalmente
attribuiti tre ordini di obiettivi: a) favorire lo start-up imprenditoriale e i successivi processi di
consolidamento della nuova impresa b) diffondere cultura imprenditoriale all’interno di un
determinato contesto territoriale; c) alimentare meccanismi aggregativi ed effetti sinergici tra le
imprese nella forma di reti.
Anche molte banche hanno storicamente offerto un prezioso contributo al funzionamento del
sistema imprenditoriale di riferimento, utilizzando svariate leve: il sostegno nello start-up di nuove
imprese, il supporto ai fabbisogni finanziari derivanti dalla crescita dimensionale, l’assistenza nelle
attività internazionali, la messa a punto di servizi e prodotti ad hoc. La banca si trova in una
situazione privilegiata in relazione al supporto e alla governance di reti di imprese locali, potendo
attingere al patrimonio di conoscenze accumulatosi nel tempo proprio grazie al radicamento locale
e disponendo delle competenze per valutare le aziende da coinvolgere nella rete, ecc.
Sicuramente le associazioni imprenditoriali stanno esercitando un ruolo marcato nella
promozione di reti di imprese, nel supporto ad esse e nell’erogazione di servizi specifici. Nel
tempo, le associazioni imprenditoriali hanno, infatti, cambiato più volte il proprio ruolo, innescando
processi di cambiamento strategico e modificazioni organizzative interne che le hanno portate a
gestire una moltitudine di attività in ambiti talvolta molto distanti tra loro. Alcune si stanno ponendo
come centri di servizio ad alto valore aggiunto, consentendo soprattutto alle piccole imprese
associate di fare business che singolarmente non riuscirebbero a fare; associazioni come “agenti
di sistema” o “gestori di network” capaci di costruire e di inventare risposte adeguate alla
complessità dei problemi e di cedere know-how per fornire servizi avanzati alle reti di imprese.
Il caso più noto e significativo su questo fronte ha avuto luogo in Emilia Romagna, dove CNA e
Unindustria Bologna hanno proposto lo strumento del “patto di filiera” per provare a salvare la locale
filiera del packaging. È successo, infatti, che una delle grandi aziende del settore che opera sul
territorio bolognese, la IMA, si sia trovata in difficoltà durante la crisi. Ciò è avvenuto non tanto a
causa di scarse performance o della contrazione della domanda - che pure c’è stata - ma
soprattutto, indirettamente, a causa delle difficoltà delle piccole realtà imprenditoriali che
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costituiscono la base di tale filiera produttiva locale. Si tratta prevalentemente di piccole o
piccolissime imprese, che occupano al massimo poche decine di dipendenti, e che trovandosi a
collassare una dopo l’altra, hanno progressivamente sgretolato la sostenibilità del modello di
business dei leader di filiera, come la IMA. Il patto di filiera consiste nell’istituzionalizzazione di tutte
le relazioni che intercorrono tra l’impresa capofila e, a cascata, tutte le sue subfornitrici. Si
definiscono, poi, i quantitativi, le tempistiche e i costi degli ordinativi relativi a tutti i nodi della rete e,
in base ad essi, i partner finanziari del patto - in questo caso UniCredit e UGF Banca - erogano
liquidità alle piccole aziende. Grazie a tale pratica, quindi, le piccole imprese possono far fronte alla
stretta del credito e a un’eventuale, ulteriore, contrazione della domanda in funzione della loro
appartenenza a una filiera produttiva. Una simile forma di supporto alle reti di imprese porta vantaggi
per tutti i soggetti coinvolti: la banca, attraverso la formalizzazione dei rapporti, riesce ad accrescere
le informazioni in proprio possesso sulle imprese del territorio; l’impresa leader di filiera, attraverso i
finanziamenti ai suoi subfornitori, riesce a non perdere parti importanti della sua filiera; e infine,
ovviamente, le piccole imprese subfornitrici hanno accesso a nuove fonti di finanziamento. È
evidente, in tutto questo, che la fiducia - o meglio, la volontà degli attori di ricostruirla – gioca un
ruolo fondamentale. Attraverso il patto di filiera i piccoli subfornitori si fidano maggiormente
dell’impresa per cui lavorano e delle banche; e le banche, a loro volta, dimostrano maggior fiducia
per le filiere territoriali.
Si pensi ancora al ruolo al giocato da CNA Bologna per facilitare nell'aprile 2008 la messa in rete di
nove piccole imprese bolognesi della meccanica sotto il nome di Hi-mec. Si tratta di una rete di
imprese di esperienza ultra-trentennale nel campo della subfornitura meccanica (dalla saldatura al
cablaggio di quadri elettrici, dalla fresatura alla lappatura), rivolto a molteplici settori industriali:
metalmeccanico, automotive, movimentazione terra, arredamento, minuteria metallica, packaging,
settore ferroviario, elettromedicale e trasporti. Si tratta di una realtà che vanta oltre 100 addetti e un
giro d’affari complessivo di oltre 10 milioni di euro. La nuova struttura si è dotata di un proprio sito
Internet (www.hi-mec.it) tramite il quale è possibile individuare lo specialista di riferimento per la
fornitura di un determinato prodotto o servizio. Pur mantenendo la propria autonomia, i nodi della
rete Hi-mec.it sono in grado di offrire la più vasta gamma delle lavorazioni ad alta precisione su ogni
tipologia di componente. A questa attività se ne affianca anche una di tipo consulenziale, dal
momento che la rete offre anche un servizio di co-progettazione. L’idea di questa rete d’impresa
nasce in seguito a un’iniziativa di CNA Bologna: l’associazione ha condotto un’indagine tra i propri
soci del comparto produzione per capire l’interesse delle imprese meccaniche locali a creare una
rete. Le nove imprese di Hi-mec.it hanno esplicitato il loro interesse. Il fattore decisivo che ha spinto
queste aziende a fare rete è la consapevolezza della capacità di crescere a livello commerciale e
CNA le ha affiancate nel realizzare il loro progetto: ha promosso numerosi incontri tra i partner, ha
condotto analisi di mercato nei settori interessati da Hi-mec.it, ha svolto una consulenza
amministrativa per la forma giuridica della rete. Il tema delle aggregazioni tra imprese è nell’agenda
strategica di CNA da molti anni. Fin dagli anni ’60 CNA si è impegnata ad attenuare la debolezza sul
mercato delle imprese piccole, per quanto riguarda l’approvvigionamento delle materie prime, la
partecipazione agli appalti, l’ottenimento di garanzie dalle banche, gli insediamenti delle aziende
nelle aree industriali. Sono nati così i consorzi di settore, successivamente quelli specializzati
sull’export e i consorzi fidi. Negli anni più recenti, a fianco di queste forme “classiche” di
aggregazione, è stata favorita la nascita di forme più “flessibili”: le ATI (associazioni temporanee di
impresa per partecipare ad appalti o a progetti di internazionalizzazione), i gruppi per l’acquisto di
energia, nuove forme societarie ad hoc per piccole imprese che vogliono aggredire nuovi mercati,
holding, reti di varia natura e accordi di filiera (COTEC, 2008).
6.
Il meta-management
Mutuando una definizione proposta da Normann (1979), si definisce, dunque, metamanagement un insieme di ruoli meta-direzionali il cui compito fondamentale è quello di assicurare
che la rete di imprese dinamicamente si adatti ai mutamenti dei contesti ambientali di riferimento.
Rientrano nella sfera metamanageriale le attività di indirizzo, di guida, di governo efficace del
distretto (Visconti, 2002).
C'è dunque l'urgenza in taluni contesti reticolari di una guida strategica, che abbia una
conoscenza profonda della rete e, di conseguenza, una visione d'insieme attuale e futura sicura e
convincente; che sappia consolidare o riorientare la rete; valorizzare le risorse, materiali e
personali, lì racchiuse. Questo ruolo può essere svolto dal Sistema Camerale, associazioni
imprenditoriali, agenzie di sviluppo, da imprese leader in collaborazione o in competizione fra loro.
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Noi conosciamo le strutture e gli stili del management di una impresa accentrata. Ciò è
diventato scienza e arte: è possibile che questo avvenga in tempi non lunghi anche per il metamanagement? I rischi sono grandi: invece di management fare politics, comunicazione,
competizione per l’acquisizione di risorse e molto altro. Molte esperienze di sviluppo locale
purtroppo sono incorse in questi rischi. Ma le opportunità sono molto maggiori: guidare e
supportare “quasi imprese”, reti imprese a funzionare come imprese capaci di competitività
internazionale e di innovazione.
Per cogliere le opportunità ed evitare i rischi occorre in primo luogo considerare le reti
organizzative imprese vere, soggetti economici collettivi di cui vanno comprese strategie e
strutture, elementi hard e soft, le grammatiche e le sintassi: esattamente come fa chi deve dirigere
una singola impresa. Occorre in secondo luogo un “meta-management adattivo”, ossia capace di
cogliere opportunità strategiche e tradurle in provvedimenti strutturali.
Del primo punto abbiamo parlato nei capitoli 2 e 3 del presente rapporto. Sul secondo occorre
rilevare che il ruolo di meta-manager varierà in funzione della configurazione assunta dalla rete di
imprese per la quale si ritiene necessario una governance di questo tipo. In particolare, rilevanti
sono:
1.
2.
3.
4.
la fase del ciclo di vita attraversata dalla rete di imprese;
la provenienza settoriale dei nodi della rete;
il profilo dei nodi della rete;
il grado di apertura al contesto extra-locale, internazionale.
La prima dimensione rinvia al modello di ciclo di vita delle reti inter-organizzative (Grandori,
1995). Nella fase di formazione della rete, le attività metamanageriali saranno rivolte
prevalentemente all’incubazione della rete stessa e alla predisposizione di un contesto capace di
favorire le relazioni, le interconnessioni, gli scambi. Nella fase di espansione, l’iniziativa
metamanageriale risulterà orientata al sostegno alla crescita della rete (sia in termini di nodi che di
legami), attraverso il conferimento di risorse e l’erogazione di servizi. In fase di maturità, quando le
relazioni tra i nodi della rete saranno consolidate, così come i processi e i meccanismi di
governance il meta-manager assumerà un ruolo più defilato di riferimento strategico per la rete, ma
avrà minore centralità nella rete stessa. Da ultimo la fase di declino della rete, il meta-manager si
preoccuperà soprattutto di presidiare la conservazione del capitale umano e intellettuale presente
nella rete e gli impatti che il declino possa generare sul contesto locale in cui la rete si inserisce.
La seconda dimensione si riferisce alla provenienza settoriale dei nodi della rete. La tipologia
della produzione riflette sfide e problematiche tra loro molto differenti: in una rete in cui si
producano beni di consumo vi sarà una criticità dei rapporti con il sistema distributivo; non così per
i casi in cui si realizzino produzioni intermedie, tipicamente di fase o nei casi di reti legati a settori
hi-tech in cui i legami chiave saranno con laboratori, università e centri di ricerca. Il meta-manager
dovrà quindi saper modulare il proprio intervento in contesti reticolari differenti: dalle filiere di
micro-imprese artigianali (ad esempio nel settore del mobile), alla costellazione produttiva guidata
da media impresa di beni di consumo (ad esempio nel settore moda), alla rete per l’innovazione di
un cluster high-tech (ad esempio nel settore aerospaziale) o a di un parco scientifico-tecnologico
(ad esempio nelle biotecnologie, nei nuovi materiali e così via).
Ad esempio, nel caso di Bioindustry Park – che è un parco scientifico a orientamento bio-industriale
e biotecnologico che sorge vicino ad Ivrea, in provincia di Torino, ed è operativo dal 1998 – il metamanagement è indirizzato a fornire servizi avanzati, informazioni ed assistenza di tipo tecnicoscientifico. I tre principali filoni di intervento sono: a) servizi per lo sviluppo e l'insediamento di nuove
imprese; b) servizi e progetti scientifici; c) trasferimento tecnologico e servizi di supporto alle
imprese. Il Parco si propone di promuovere e sviluppare ricerche nel campo delle scienze della vita,
collegando la ricerca universitaria al mondo delle imprese, con l’obiettivo di favorire la nascita e la
crescita di aziende innovative. Inoltre, Bioindustry Park dal 2009 è soggetto gestore di BioPmed, il
nuovo cluster di innovazione dei settori biotecnologico e biomedicale costituito con l’intervento della
Regione Piemonte. BioPmed ha attivato collaborazioni anche oltre confine con la regione Rhone
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Alpes e in particolare con LyonBiopole, così come con la Grenoble Innovation Fair. Il Parco svolge
dunque un ruolo di brokerage di flussi di conoscenza e innovazioni, favorendo il consolidamento di
reti tra il mondo della ricerca e quello delle imprese e con cluster analoghi all’estero.
La terza dimensione rimanda alle caratteristiche gestionali ed al profilo strategico dei nodi della
rete. Esigenze metamanageriali maggiori si avranno in quelle reti composte da piccole imprese
poco collegate tra loro. In tal senso occorre distinguere tra reti fortemente caratterizzate dalla
presenza di imprese artigianali o comunque di piccole dimensioni, reti con una struttura interna
concentrata attorno a poche imprese che hanno realizzato importanti percorsi di crescita, reti in cui
convivono profili competitivi ampiamente differenziati in termini di dimensioni e di meccanismi
aggregativi, ecc.
La quarta dimensione si riferisce al livello di apertura della rete al contesto extra-locale,
internazionale. In questo caso il meta-manager dovrà supportare la rete nella definizione e nel
mantenimento di reti lunghe che trascendano i confini locali.
Un meta-manager di rete è dunque chiamato a:



imprimere al sistema locale un indirizzo strategico di fondo (l’orientamento strategico di
fondo della rete di imprese);
governare i processi politici interni alla rete, gestendo la distribuzione di potere e
risorse;
creare le condizioni culturali, strategiche e organizzative favorevoli all’esplicarsi delle
potenzialità della rete.
La letteratura in materia di strutture metadirezionali riconosce in particolare tre ruoli chiave:
l’architetto sociale, lo sponsor e il coordinatore (Colombo e Dubini, 1988).



Architetto sociale. In tale ruolo la competenza chiave è quella di sapere inquadrare, in
una logica unitaria, fasi metodologiche, sequenze di operazioni, tipologie di attori
profondamente diversi, nell’ottica di un organico progetto di sviluppo della rete di
imprese. Tale ruolo si qualifica inoltre sia per una capacità di analisi del sistema sociale
ed economico coinvolto nella rete, sia perché finisce per rappresentare il tutore e il
promotore di un processo evolutivo, tipicamente di apprendimento, che la rete deve
compiere.
Sponsor. Tale figura appare principalmente vocata a legittimare la sperimentazione,
l’innovazione e il cambiamento. L’esistenza di uno sponsor può costituire una
condizione fondamentale per l’avvio di un processo di sviluppo soprattutto all’interno di
reti di imprese nascenti.
Coordinatore. Può razionalizzare i bisogni di innovazione, valutare le alternative
strategiche, esplicitare le linee di intervento, presidiare la loro implementazione, gestire
i flussi di risorse e competenze, orchestrare azioni comuni dei nodi della rete, ecc..
Nella consapevolezza che i ruoli metadirezionali proposti non esauriscono la complessità del
governo strategico di una rete di imprese, si ritiene necessario sottolineare alcuni elementi che, in
ogni caso, dovrebbero ispirarne l’azione:




la continua interazione con gli interlocutori chiave della rete, sia pubblici che privati, allo
scopo di attivare un efficace processo di apprendimento e valorizzare l’identità di
sistema;
una ferma determinazione nel perseguimento del progetto di governo strategico della
rete, anche a fronte delle eventuali resistenze al cambiamento;
una calibrata gestione della comunicazione, soprattutto in situazioni dove la
generazione del consenso risulti critica;
rappresentatività delle forze politiche, sociali ed economiche operanti all’interno della
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rete.
Entrando nel merito dei contenuti dell’attività del meta-manager distrettuale è possibile
ipotizzare che tra i suoi compiti rientrino:







la creazione e il mantenimento di un contesto favorevole all’esplicarsi del potenziale
imprenditoriale presente nella rete di imprese;
l’identificazione dei fabbisogni di innovazione degli attori appartenenti alla rete
la formulazione di visioni strategiche in merito ai percorsi di consolidamento/sviluppo
della rete di imprese;
la promozione di servizi a supporto dell’imprenditorialità (finanziari, commerciali,
formativi, di consulenza, di informazione) nella forma istituzionale più opportuna;
l’impiego efficace ed efficiente delle risorse legate alle linee di politica industriale, a
livello regionale, nazionale o comunitario;
l’aggregazione delle competenze funzionali alla realizzazione del progetto, innescando
la tensione al cambiamento, delineando una visione chiara e condivisa, generando
flussi di consenso, responsabilizzando imprese e attori chiave del sistema;
la rappresentanza degli interessi “istituzionali” della rete all’interno dei centri decisori
della politica industriale, dei Ministeri e delle Regioni.
Non è difficile rilevare, a questo punto dell’analisi, la complessità del ruolo di meta-manager,
indotta dall’ampiezza dei compiti da assumere, dalla varietà dei meccanismi da attivare, dalla
eterogeneità degli interlocutori con cui dialogare, dalla ricerca di complementarietà e sinergie tra i
nodi della rete e via dicendo. Né si possono dimenticare una serie di fenomeni che tendono a
ostacolarne l’attività (Visconti, 1996):



l’esistenza di sensibili spinte ad atteggiamenti di tipo individualistico, che finiscono per
limitare l’impatto di interventi a livello di rete di impresa;
la necessità di coordinare posizioni tradizionalmente divergenti, quali sono quelle che
caratterizzano le istituzioni pubbliche e le realtà private, genera conseguenze sul piano
della condivisione delle conoscenze, dello stallo decisionale e dell’impiego non ottimale
delle risorse;
la difficoltà a intraprendere azioni continuative, dovuta ad una estrema articolazione
della gestione e ad una ricerca continua di legittimazione, può indurre a possibili ritardi
e a resistenze al cambiamento.
Tuttavia, la complessità dell’azione metamanageriale e l’esistenza di ostacoli non può che
stimolare la ricerca delle condizioni per un efficace esercizio della governance delle reti di imprese
a sostegno della competitività.
7. Il ruolo di attori collettivi nella governance delle reti interorganizzative. Le agenzie strategiche
In che modo, dunque, attori collettivi , come il Sistema Camerale, il Sistema di Associazioni
Imprenditoriali, Agenzie pubbliche e altre da solo o in concorso fra loro, possono intervenire
esercitando una funzione di governance e di meta-magagement delle reti inter-organizzative? Le
chiameremo agenzie Strategiche. Ricordiamo ancora che tre sono i principali assi di intervento di
policy strutturale per sviluppare e mantenere le reti di impresa: le infrastrutture (fisiche,
tecnologiche, ecc.), le strutture relazionali, le strutture cognitive. Come si è detto, queste tre
dimensioni strutturali agiscono in un circuito virtuoso rinforzandosi vicendevolmente, ma il punto
più agibile per azioni di duratura efficacia sono le strutture relazionali.
In primo luogo, l’Agenzia Strategica può intervenire sull'assenza di relazioni (i cosiddetti “buchi
strutturali” all’interno di una rete di imprese) tra le imprese, tra imprese ed enti, istituzioni, altre
organizzazioni, ecc., sia l'asimmetria informativa derivante da questa assenza di relazioni. I buchi
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strutturali, in altre parole, rappresentano delle opportunità imprenditoriali per le strutture dell’a, in
quanto consentono loro di porsi come intermediari (ponti o broker), di controllare i flussi di
informazioni e di coordinare le azioni e gli attori che si trovano da una parte e dall'altra di ciascun
“buco” (Burt, 1995).
Sul fronte relazionale, oltre alle azioni di lobbying, di sensibilizzazione e formazione al tema e
di contributo alla gestione delle risorse disponibili, l’agenzia strategica può offrire concretamente
una grande varietà di servizi per potenziare le relazioni e coprire i “buchi strutturali” nel
rafforzamento delle reti di impresa. In sostanza, stiamo suggerendo l’attivazione di servizi avanzati,
che superino da un lato interventi nelle infrastrutture - abusati e dallo scarso impatto sulla
competitività delle reti - e dall’altro non ambiscano a interventi difficili sul fronte cognitivo, senza
però cadere nella trappola della retorica delle reti che oggi investe larga parte degli operatori
pubblici e privati. Si tratta di un ruolo “alto” del Sistema Camerale, che può e deve qualificarsi
come fornitore di beni collettivi per la competitività dei territori attraverso il sostegno alle reti di
imprese.
Alcuni esempi di servizi avanzati da erogare in cooperazione o in competizione con le
associazioni imprenditoriali, le aziende di servizi, i centri di servizi pubblici sono:
1. la copertura di “buchi strutturali”, attraverso:
- il sostegno alla costituzione di attività economiche: creazione di soggetti economici,
consorzi, fiere, insediamenti produttivi, patti territoriali ecc.;
- la costruzione di servizi e società ad hoc che gestiscano risorse e beni collettivi per la
competitività a livello multi-distrettuale o regionale;
- l’attività di accreditamento e brokerage di servizi;
- la promozione di servizi per le reti e oltre le singole aziende: finanziari, informatici, formativi,
ecc.;
2. il supporto relazionale, attraverso:
- il miglioramento delle reti relazionali (network, anche non economici) fra le imprese;
- il supporto nelle relazioni con le pubbliche amministrazioni;
- il far crescere un associazionismo di tessuto, sia esso quello tra le imprese (orizzontale e
verticale) sia esso quello territoriale (tra soggetti pubblici e soggetti privati);
- il favorire l’incontro dell’impresa con la ricerca e la consulenza;
- l’accompagnare le imprese nei processi di internazionalizzazione.
Emergono, quindi, due ruoli chiave che l’agenzia strategica può ricoprire, intervenendo nella
struttura relazionale di reti inter-organizzative esistenti.
Da un lato, un ruolo di fluidificatore delle reti tra imprese, che – attraverso la predisposizione di
strumenti, supporti consulenziali, tecnologici e finanziari, e interventi diretti – serva a rimuovere
ostacoli nelle strutture relazionali e a irrobustire nodi, processi, strutture di governance laddove
necessario.
Dall’altro, l’agenzia strategica può inserirsi direttamente nelle strutture relazionali come ponte
per connettere nodi disconnessi, attivando e animando gruppi di meta-management pubblici e
privati. Si pensi per esempio alla possibilità di frapporsi tra micro-piccole imprese da un lato e
università e centri di ricerca dall’altro, tra istituzioni nazionali e sovranazionali da un lato e le filiere
produttive locali dall’altro, e così via. Questa funzione di ponte tra categorie di nodi di una rete che
difficilmente riescono a connettersi direttamente o che per svariate ragioni si sono disconnessi
generando dei “buchi strutturali”, si configura come un vero e proprio broker di risorse e
competenze.
Il broker all’interno di una rete di imprese può assumere varie configurazioni (Gould e
Fernandez, 1989): il coordinator, ovvero un nodo della rete capace di gestire flussi di risorse e
competenze tra nodi omogenei ; il representative, ovvero un nodo capace di interfacciarsi con
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nodi diversi da sé, facendosi rappresentante di istanze, conoscenze e informazioni di altri nodi ad
esso connessi ; il gatekeeper, ovvero il nodo che costituisce il punto di snodo, di ingresso di altre
reti ( ); il liaison, ovvero il nodo che consente il legame tra nodi che difficilmente instaurerebbero
legami di rete tra loro per varie ragioni (di mancata conoscenza, assenza di fiducia, incompatibilità,
lontananza, ecc.) e che grazie al broker possono partecipare alla stessa rete ; il consultant, ovvero
un broker che prende risorse e competenze da un nodo della rete e li rende accessibili ad un altro
nodo della rete (
L’agenzia strategica è chiamata ad esercitare un ruolo centrale nel governo delle reti interorganizzative per la competitività dei territori, in primo luogo mettendo a fuoco i propri interventi di
policy sulle reti inter-organizzative come oggetto prioritario del suo operato per la competitività e la
prosperità dei territori. Occorre al tempo stesso rifuggire la dilagante retorica delle reti, a cui
abbiamo accennato, che spesso porta ad operazioni di endorsement di meri interventi
infrastrutturali e agglomerativi (come è il caso di alcune forme di parchi scientifici e tecnologici,
distretti tecnologici, meta-distretti, proto-sistemi, ecc.), mancando di attivare e governance strutture
relazionali.
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