Prendersi cura di un bambino piccolo

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Prendersi cura di un bambino piccolo
PREFAZIONE
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Prefazione
Il libro che ho l’onore di presentare si basa sulle relazioni tenute al convegno
di Budapest poco prima del cinquantesimo anniversario della fondazione Pikler,
situata in via Lóczy.
L’attività di questo istituto è incentrata sull’efficacia delle cure prestate dalle
«nurse». Ciascuna di esse è sostanzialmente incaricata di rendere sicuri e al
contempo emotivamente stabili i bambini a lei affidati. Il periodo in cui i bambini
sono separati dai genitori deve essere messo a frutto affinché il luogo in cui
risiedono diventi un luogo di cure.
Cinquant’anni fa, Emmi Pikler fondò il suo istituto al fine di permettere
l’attuazione di un processo che considerasse prioritaria la «realizzazione» del
bambino. Per quanto mi riguarda, ricordo come il linguaggio utilizzato a quel
tempo nell’istituto fosse leggermente diverso: si parlava allora di progressi dello
sviluppo del bambino piuttosto che della sua realizzazione. In ogni caso, queste
cure educative permettevano di instaurare relazioni interpersonali stabili e continuative con un numero ristretto di adulti ben preparati riguardo a tali tecniche.
Le preoccupazioni di ogni professionista sono due:
– rispettare e sostenere le attività libere del bambino a lui affidato;
– fare in modo che ogni bambino sappia quanto sia importante trovare una
collocazione in un ambiente sociale e personale ben definito, dove potrà dare
un senso agli eventi che si svolgono intorno a lui e, forse, anche al suo
passato.
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Si comprende allora il valore delle parole di Geneviève Appell: «Il neonato
sa che i professionisti che gli stanno intorno iniziano a pensare a lui, non si
limitano a tenerlo tra le braccia». L’esperienza dell’istituto Pikler implica che il
personale coinvolto in un’interazione con i neonati sia in grado di capire la natura
di quello che fa e gli atteggiamenti dei suoi colleghi durante seminari tenuti
regolarmente. In queste condizioni si capisce perché è necessario condividere il
progetto pedagogico e i dettagli concernenti la vita quotidiana di ogni bambino.
Anna Tardos ha mostrato un breve documento nel quale si vede una
bambina di dieci mesi, distesa supina nello spazio destinato ai giochi, che tiene in
mano un dischetto di legno con cui cerca di prendere un oggetto di gomma che
da sola non riesce ad afferrare. La vediamo dondolarsi, aiutandosi con la mano
sinistra, per avvicinarsi all’oggetto. Utilizza il riflesso della mano e un piatto fondo
per riuscire a prendere l’oggetto di gomma, che poi tiene in mano, rimettendosi
supina. Anna Tardos evidenzia l’interesse della bambina attraverso il legame tra
il riflesso della mano e il suo movimento. Insiste sul fatto che la bambina è isolata
e che la sua attività libera non è vissuta in modo drammatico. La neonata è libera
di seguire il suo interesse, pur avendo solo dieci mesi. Nell’istituto, la libertà di
godere dei propri movimenti spontanei viene vissuta dai bambini come una buona
capacità che sarà confermata verso i quattro anni, nel momento in cui rivediamo
questa stessa bambina graziosa e serena. Tale osservazione dimostra come una
situazione del genere sia terapeutica non solo per il bambino ma anche per
l’adulto, che può constatare sia le capacità del neonato a lui affidato, sia le felici
conseguenze delle sue cure attente e programmate.
Le madri fanno sicuramente altrettanto: assicurando il benessere corporeo
al loro bambino, sanno di svolgere un ruolo essenziale. Avere un bambino che sta
bene è un obiettivo fondamentale della maternità. In istituto le cure corporee sono
sempre prioritarie, ma qui l’adulto che si occupa del bambino non è la madre.
Essa, comunque, deve essere presente per il bambino, con le mani e con la testa.
La situazione degli istituti fa sì che l’adulto addetto alla cura debba «avere in mente
il neonato» e debba, allo stesso tempo, fare in modo che quest’ultimo percepisca
un interesse privilegiato nei suoi confronti nel momento in cui riceve le cure.
Vorrei aggiungere che si tratta in genere di neonati con più di sei mesi di età,
che hanno vissuto in condizioni molto difficili il periodo fetale e i primi mesi di vita.
Molto tempo fa Freud dimostrò come il trauma tenda a ripetersi: l’esperienza di
Lóczy ha il dovere di essere decondizionante, e ciò dopo che il bambino è stato
separato da un ambiente familiare di cui deve elaborare il lutto, malgrado il suo
attaccamento generalmente «insicuro».
Dopo aver presentato alcuni filmati che testimoniavano la tecnica e la qualità
delle cure, nel pomeriggio ci sono stati dibattiti in ogni gruppo di lavoro: molti
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autori, così, hanno potuto fornire contributi importanti. Particolarmente interessante è quello di Martine Lamour che, attraverso lo studio del bagnetto di una
bambina di tre mesi, filmato a Budapest, mostra come riuscire a vedere «i
paesaggi relazionali di Tünde». Questa neonata ungherese ha vissuto molte
esperienze che permettono a Martine Lamour di paragonarla ai tanti bambini che
vede a Parigi, tristi e diffidenti, ma descritti con fierezza dalle loro madri, come se
i bambini non avessero bisogno di loro. Lamour nota in quei momenti l’ipervigilanza nel loro sguardo e la capacità di tranquillizzarsi da soli, grazie a risorse
personali. Ora sembra che il bambino memorizzi già in utero, come se fosse
portatore di una continuità transnatale. 1 Questo significa che una breve sequenza
può essere codificata grazie al lavoro svolto dalla memoria episodica. La ripetizione di esperienze interattive permette la «rappresentazione di interazioni generalizzate». Queste esperienze quotidiane ripetute preparano quelli che Stern ha
proposto di chiamare «involucri protonarrativi».2
Nei casi studiati, quando il bambino è all’asilo nido cerca di creare con
l’educatrice le stesse relazioni avute con la madre. Le discussioni suscitate da tale
comportamento dimostrano il ruolo attivo del neonato nelle interazioni osservate.
A questo punto, secondo Martine Lamour, si deve tenere conto del «neonato
immaginario dell’istituto»: un prodotto del transgenerazionale di quest’ultimo.
Commentando il documento nel corso del seminario, Martine Lamour ha la
sensazione che gli operatori dell’istituto Pikler considerino sempre il bambino
come un essere pieno di iniziative, al quale converrebbe far adottare regole sociali,
cosa che Emmi Pikler considerava una conseguenza della libera motricità. Martine Lamour, tuttavia, osserva che nel suo libro Emmi Pikler notava l’importanza
del fatto che le aspettative dell’adulto sono percepite dal bambino: si deve lasciare
l’iniziativa al bambino, permettergli di eseguire il suo atto e fare in modo che
questo atto sia efficace per lui.
Michel Lemay osserva, da parte sua, come l’esperienza di Lóczy sia stata
rivoluzionaria nella misura in cui ha costituito una risposta alla condanna generale
degli istituti, anche quando le famiglie provocano gravi danni. Questo istituto ha
saputo dimostrare come, in alcuni casi, l’adozione del modello familiare possa
rivelarsi un grave errore. L’istituto, tuttavia, ha saputo inserire l’adulto nella vita
del bambino. Al fine di giustificare questa affermazione, Michel Lemay esamina
il campo delle cure, dimostrando come una buona tecnica possa creare il benessere e, attraverso questo, condurre alla felicità del neonato. Allo stesso tempo,
1
2
D. Stern, Les relations précoces du jeune enfant, Paris, PUF, 1986.
D. Stern, Une manière de construire un nourrisson cliniquement pertinent, «Revue de médecine
psychosomatique», vol. 37, n. 38, pp. 15-38, 1994.
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mostra come le attività libere rispettino le attività autonome degli altri bambini.
Esse si svolgono, infatti, sotto lo sguardo attento dell’adulto, che stimola il
bambino a esercitare un’attività autonoma. Michel Lemay, comunque, ha anche
voluto mostrare quanto sia pericoloso voler imitare troppo superficialmente un
istituto come Lóczy.
Questo pericolo viene sottolineato anche da Marie-Louise Carels e Gentile
Manni, entrambe impegnate a collaborare con istituti specializzati presso i quali
si svolgono ricerche-azioni nelle quali, come psicologhe, rappresentano l’Università. Sappiamo che queste ricerche-azioni conducono i gruppi che lavorano
sul campo a riflettere sulla loro prassi ed eventualmente a modificarla, come
viene testimoniato dalle autrici in relazione a due esperienze di cura quotidiana.
In Belgio, così come in Italia, si possono individuare due posizioni:
– una attribuisce valore alla relazione con l’adulto e all’attività libera dei bambini;
– l’altra sottolinea il valore della vita di gruppo.
Queste ricerche-azioni, tuttavia, richiedono una grande attenzione nei confronti delle educatrici e delle puericultrici, che devono ricevere un supporto
continuo, al tempo stesso materiale, morale e psicopedagogico. Questo sostegno, però, deve rispettare l’interazione tra il bambino e la puericultrice, dal
momento che quest’ultima è sottoposta a un doppio messaggio:
– da un lato le viene confermato che la sua azione ha carattere terapeutico;
– dall’altro prende coscienza del fatto che il bambino malato è bisognoso di
cure.
In questa prospettiva contraddittoria leggeremo le conclusioni di Natacha
Bizos Kukucka, tratte dalla sua esperienza personale, che vuole associare la
pratica dell’istituto Pikler all’approccio psicanalitico. L’autrice osserva come la
sua pratica l’abbia condotta a fornire poche interpretazioni: introduce piuttosto
una funzione materna che contiene una funzione paterna la quale, a sua volta,
riequilibra e protegge la madre e il bambino. La madre abbandonata può riprendere la sua doppia funzione.
Martine Moralès-Huet ha studiato, con Serge Stoléru, le cure psicoterapeutiche effettuate a domicilio presso le famiglie che non sono in grado di assicurare
ai bambini le cure abituali. Moralès-Huet propone il paradigma dell’«essere con»
come modello della collaborazione osservata nelle cure prestate a Lóczy. Si tratta
di un’opzione paradossale, ma l’autrice sottolinea l’importanza di mantenere
attivi il lavoro di riflessione in gruppo, il perseguimento della collaborazione tra
servizi e la relazione clinica; tutto questo le permette di ricordare come il modello
non interventista dello psicoterapeuta sia, in questo caso, sorpassato. «Essere
con» equivale a «fare con».
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Il lettore che avrà fatto conoscenza di queste diverse forme di azione non
potrà non essere commosso dall’intervento di Myriam David. Io stesso sottolineai
l’aspetto empatico delle cure prestate a Lóczy. Questa osservazione costituisce la
base del consulto terapeutico. In effetti, la mia ipotesi è che l’empatia del
terapeuta lo renda capace di elaborare metafore e di «porsi nell’atto».
Il mio intervento fu seguito da un’osservazione molto commovente di Myriam
David, che non posso non citare, anche a rischio di metterla a disagio, poiché è
una persona che non ama svelare la ricchezza delle sue esperienze. Si espresse
più o meno in questi termini: «Per quanto riguarda l’assenza di cure e quello che
la cura di Lóczy apporta, credo che, a livello dell’umanità intera, non sia stato
detto che nei campi di concentramento l’elemento determinante per la distruzione dell’individuo fu proprio l’assoluta “non cura”. La “non cura” è l’assenza di
cibo oppure il cibo “disgustoso”, la sporcizia “repellente”, i vestiti “sudici”, lo
sfinimento, l’assenza di sonno. E non è stato neppure detto che, quando questo
succede al corpo, l’anima fugge via. In ogni caso, la psiche scompare e non si
pensa più. Un corpo maltrattato non può pensare: è abietto, provoca nell’altro la
voglia di disprezzarlo, la voglia di percuoterlo e di distruggerlo».
Myriam David ricordò poi i neonati abbandonati che aveva incontrato alla
Fondazione «Genitori di Rosan», dove erano curati da donne i cui figli erano stati
a loro volta affidati ad altri: esse non potevano offrire cure personalizzate a questi
bambini e li chiamavano con il loro numero. Questo incontro risale al 1950, ma
la stessa situazione è stata riscontrata in Romania, dove i bambini abbandonati
negli orfanotrofi sono diventati «irrecuperabili».
A questo proposito, Myriam David evoca un tragico ricordo personale: «In
uno scantinato di Drancy, dopo che ero stata violentemente percossa dalle SS, la
porta si aprì nel buio, lasciando entrare qualcuno. Non ricordo che il volto,
l’enorme gratitudine e il conforto che provai. Mi sembra di vedere ancora la
bacinella e di sentire la spugna che mi veniva passata sul viso, l’impressione di
riprendere le forze, di essere totalmente riconfortata».
Myriam David esprime così la sua riconoscenza alle nurse di Lóczy e a quelle
che le circondano: «Il vostro è davvero un lavoro di artiste al servizio dell’umanità,
un lavoro che agisce su bambini che, in un’altra situazione, sarebbero certamente
infelici per tutta la vita: diverrebbero esseri abietti, spregevoli, disprezzati, che si
ha voglia di lasciare marcire da qualche parte». Questo intervento rivela il bisogno
essenziale di coloro ai quali l’esistenza è negata.
L’opera comprende alcuni articoli fondamentali e davvero innovativi. La
prima parte descrive il rapporto tra l’attenzione e l’osservazione. Nel suo intervento relativo all’attenzione, Didier Houzel riprende il concetto di attenzione fluttuante proposto da Freud per definire la situazione di ascolto psicanalitico. Didier
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Houzel, infatti, riferendosi alla concezione di Bion, propone il concetto di attenzione inconscia. Analizza dapprima l’attenzione volontaria e prolungata, diretta
verso gli oggetti: è l’attenzione artificiale di Ribot. La neuropsicologia russa, con
Vygotsky, Luria e Leont’ev, sottolinea la dimensione sociale dell’attenzione
volontaria, mentre l’attenzione spontanea ha un’origine biologica, guidata da
stimoli esterni che hanno acquisito, nel corso dell’evoluzione della specie, il valore
di segnali. Gli studi di neurofisiologia sono stati stimolati dalle ricerche sullo
sviluppo del bambino. Essi individuano tre reti: il sistema di vigilanza, il sistema
attenzionale posteriore e il sistema attenzionale anteriore. Di fatto il neonato, fin
dall’età di quattro mesi, è in grado di avere un’attitudine di attenzione congiunta: 3
orienta lo sguardo nella stessa direzione di quello della madre. Verso i nove mesi
il bambino «punta»: tutto si svolge come se egli fosse capace di selezionare
l’oggetto della sua attenzione.
Conosciamo l’importanza attribuita dagli studi americani ai disturbi dell’attenzione. In effetti, il trattamento di questi disturbi con neurolettici o con eccitanti
costituisce un abuso evidente, con possibili effetti nocivi.
Questo cenno storico permette di ricordare che Freud ha lavorato sull’attenzione e lo ha fatto in modo particolarmente dettagliato nelle sue Precisazioni sui
due principi dell’accadere psichico.4 Partendo da questa base, si capirà il
concetto di attenzione fluttuante che domina l’atteggiamento dello psicanalista
nel corso del trattamento. Didier Houzel insiste sul contributo di Bion, secondo il
quale l’attenzione è la matrice nella quale si riuniscono gli elementi dello psichismo, che insieme possono costituire un tutto coerente. Secondo Bion, l’attenzione che la madre dedica al figlio le permette di ricevere i messaggi che questi le
invia, in particolare le sue proiezioni inconsce, che essa può trasformare in
elementi pensabili grazie alla sua capacità di «rêverie». È a questo punto che
Houzel propone il concetto di attenzione inconscia, che collega all’assenza di
ricordi coscienti e di desideri coscienti dell’analista: possono così intervenire i
ricordi onirici di quest’ultimo.
Bernard Golse sostiene che Freud era il migliore dei filosofi. Le metafore
linguistiche di cui ha evidenziato l’importanza nei suoi Tre saggi sulla teoria
sessuale 5 ne fanno un poeta e un filosofo: ora si tratta di mostrare il ruolo poetico
e filosofico di Freud relativamente al neonato.
Osservare è teorizzare. Ma l’osservazione va oltre lo sguardo e richiama lo
psicanalista alla sua esperienza di condivisione delle rappresentazioni, colorate da
3
4
5
J.S. Bruner, Le développement de l’enfant. Savoir faire, savoir dire, Paris, PUF, 1983.
S. Freud, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, Torino, Boringhieri, 1911.
S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, trad. it. a cura di M. Montinari, Torino, Boringhieri, 1975.
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stati affettivi non rimossi. Da qui parte la mia proposta più recente, almeno nella
sua formulazione: i genitori — e le nurse di Lóczy — possono «co-creare» una vita
psichica relazionale nel neonato: essa definisce il doppio ruolo del processo di
parentalizzazione alimentato dal neonato e di quello di filiazione, che è il prodotto
dei «significanti» materni, cioè della sessualità infantile della madre che tiene tra le
braccia il neonato reale che spesso la delude e il neonato che ha immaginato nel
suo desiderio di gravidanza: essa lo conosce attraverso le sue proiezioni, confermate o meno dalle prime ecografie che le hanno permesso di conoscerne il sesso,
di sceglierne il nome e di esercitare la sua attività fobica riguardo a eventuali
malformazioni del bambino che vede prima della nascita: la madre può quindi
dispiegare i suoi fantasmi inconsci, quelli che hanno permesso a Monique Bydlowski
di parlare di un «debito di vita» nei confronti della nonna materna del neonato,
mentre il nonno materno diventa un sostituto del padre biologico.6 Tale organizzazione non può essere presa in considerazione con i neonati seguiti negli asili
nido, ma questo non toglie alcuna importanza al concetto di empatia per definirlo
al tempo stesso sotto forma di simbolo e di icona, per chi vuole valorizzare le cure
empatiche, nella misura in cui la valida formazione ricevuta dalle bambinaie
permette loro di identificarsi con il senso profondo che questa funzione implica e
che si trova molto lontano dalle limitazioni chiassose e artefatte che troppo spesso,
sfortunatamente, è possibile incontrare.
Quanto a noi, ci auguriamo che questa introduzione chiarisca la nostra
empatia con questo istituto: siamo molto riconoscenti a Geneviève Appell e a
Myriam David perché da molto tempo ne hanno giustamente segnalato il grande
interesse. Non dimentichiamo, poi, di ricordare l’esistenza della fondazione
internazionale Lóczy: il governo ungherese, non potendo mantenere la fondazione Lóczy nel suo ruolo di esperienza pilota, ha accettato il ruolo di questa
associazione nella gestione finanziaria e tecnica della fondazione Pikler.
Serge Lebovici
6
M. Bydlowski, La dette de vie, Paris, PUF, 1998.
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6
Empatia e cure
Serge Lebovici
Il termine empatia attualmente è molto di moda. Stranamente è stato poco
utilizzato dagli psicanalisti, ma è grazie alla conoscenza dello sviluppo del neonato
che si è diffuso in tutta la letteratura anglosassone.
Qualche informazione sul termine empatia
In francese, nella letteratura non specialistica, si contrappongono, di
solito, simpatia ed empatia. Il termine simpatia, molto comune, indica un
sentimento che ci avvicina alle persone bisognose di aiuto: si prova simpatia
per un malato, un individuo disabile, ecc. Tuttavia, la simpatia sottintende
anche situazioni nelle quali sono implicati sentimenti complessi e perfino
contraddittori. La simpatia spiega il legame tra due amici ed è rivolta anche a
persone sfortunate: «Non lo amavo veramente, ma provavo simpatia nei suoi
confronti». In altri termini, l’etimologia di questo termine implica il manifestarsi di sentimenti che comportano in genere la pietà o anche la condivisione
della sofferenza.
In Francia il termine empatia, utilizzato in psicologia e in psicopatologia, è
stato chiaramente preso a prestito dalla letteratura specializzata inglese, per
evitare di parlare di «simpatia relazionale». Nel Dictionnaire de psychologie, R.
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Dorey parla di «un’intuizione di ciò che avviene nell’altro, senza tuttavia dimenticare di essere se stessi, altrimenti si tratterebbe di identificazione».1
Il termine empatia, pertanto, indica situazioni relazionali che comportano
un certo grado di affettività, ma senza compassione. In realtà, se ci si riferisce al
senso etimologico del termine, si deve contrapporre la simpatia, che comporta
una condivisione della sofferenza, all’empatia, che implica:
– da un lato la conoscenza dell’altro dall’interno;
– dall’altro la sofferenza, come indica il verbo greco πάϑειν.
Sul piano della tecnica psicoterapeutica, il termine empatia e l’inglese
empathy corrispondono alla traduzione del termine tedesco Einfühlung («immedesimazione» o piuttosto «unione nel sentimento»). Einfühlung si oppone a Einsicht, che si traduce con «comprensione». Si ritiene che il termine inglese che
corrisponde a Einsicht e che non esiste in francese sia insight, che possiamo
tradurre con «vedere dentro» o «comprendere dentro». La lingua tedesca, quindi,
oppone la comprensione affettiva, o Einfühlung, e la comprensione intellettuale,
o Einsicht.
L’empatia nella relazione interattiva con il neonato
L’elenco dei significati attribuiti al termine empatia rivela che la partecipazione dell’affetto gioca un ruolo fondamentale. Così l’empatia si opporrebbe alla
comprensione razionale del materiale analitico, mentre l’esperienza dimostra
quotidianamente che la comprensione puramente intellettuale dei meccanismi
del funzionamento della mente non ha, in genere, alcun effetto terapeutico.
Rappresentazioni mentali e stati affettivi
La teoria della genesi delle rappresentazioni mentali è sottesa all’osservazione del neonato e del suo sviluppo.
Per molto tempo si è ritenuto che il neonato evolvesse secondo le regole
fissate sul piano dello sviluppo, così come avviene nell’unione iniziale di due
gameti, che conduce alla formazione dell’embrione, del feto e poi del bambino.
Gesell è il miglior rappresentante di questa teoria, in base alla quale il bambino
sarebbe il prodotto di un programma prestabilito sin dalla fase embrionale. Dalla
fine del diciannovesimo secolo, le concezioni teoriche dello sviluppo del bambino
1
AA.VV., Dictionnaire de psychologie, Paris, PUF, 1991.
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hanno subito molte modifiche, anche grazie a Freud, che ha giocato in questo un
ruolo essenziale. Se ne possono leggere i principi nei Tre saggi sulla teoria
sessuale,2 nei quali l’autore afferma che le forze in campo sono certamente legate
allo schema dello sviluppo e seguono una modalità genetica. Freud è rimasto
sempre fedele alla legge di Haeckel, secondo la quale l’ontogenesi riproduce la
filogenesi, e quindi l’insieme dei comportamenti assume un significato nel quadro
di questo sviluppo. Tuttavia, le varianti tipiche della storia di ogni individuo nei
suoi rapporti con i genitori mostrano il ruolo basilare di questi ultimi per raggiungere lo status di adulto.
Pertanto, il paradigma essenziale della psicoanalisi sarebbe il seguente:
esiste un’unione primordiale e fondamentale tra il neonato e le cure che riceve.
Winnicott rappresenta così questo concetto: la madre, all’inizio della vita del suo
bambino, è «quasi perfetta». La sua depressione iniziale è abbastanza insignificante, il «blues» la rende una madre «pazza del suo bambino», il quale dipende
interamente da lei. Questa madre ha tenuto tra le sue braccia un bambino su cui
ha iniziato a fantasticare fin dal momento in cui ha annunciato la propria gravidanza, dopo un periodo di trionfo narcisistico nel quale ha rivelato alla futura
nonna del bambino la sua condizione, facendola sentire, in questo modo, non più
donna né madre, ma soltanto nonna.
Da parte sua, il nonno paterno è anche il padre del nipotino in arrivo, perché
il desiderio della madre, durante la fase edipica del suo sviluppo, era quello di
avere un bambino dal proprio padre.
Il neonato non può fare altro che ostentare il suo narcisismo iniziale
perché, essendo totalmente dipendente dall’aiuto materno, lo riceve dall’inizio
e fino al momento in cui la madre si allontana da lui lasciandogli il tempo di
identificarsi in lei.
In tal modo il bambino, che viene in parte privato della soddisfazione dei suoi
bisogni abituali, sarà in grado di ricostruire, mettendo in gioco le proprie zone
erogene, l’oggetto materno in parte perduto, creandosene una rappresentazione.
L’allucinazione dell’oggetto interno è quindi la conseguenza della sua perdita e
dell’allucinazione del piacere che esso procurava, soddisfando i bisogni del bambino. Siamo di fronte al paradigma fondamentale della psicoanalisi, che giustifica
l’idea che il sogno riproduca un desiderio infantile inconscio.
Noteremo, comunque, che questo meccanismo, pur conforme alla legge di
Haeckel, non fa che mettere in luce la genesi delle rappresentazioni mentali, quella
degli oggetti. Tuttavia, fin dal 1960, ho scritto che l’oggetto è investito, prima di
2
S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, trad. it. a cura di M. Montinari, Torino, Bollati
Boringhieri, 1975.
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essere percepito. Non si può comprendere la nozione di investimento senza
includere gli affetti che, tuttavia, non sono rappresentabili. Essi non sono legati a un
unico sistema pulsionale, ma si spostano da un’organizzazione pulsionale a un’altra.
La teoria dell’attaccamento e l’attaccamento affettivo
Negli anni Cinquanta, Bowlby3 ricevette diverse critiche riguardo alla genesi
di alcuni disturbi dello sviluppo, in particolare dopo che Spitz era riuscito a
evidenziare sperimentalmente la depressione anaclitica e l’ospedalismo conseguente a essa.4 Bowlby mise in evidenza le possibilità di applicare l’etologia
animale all’uomo nelle relazioni interpersonali. Le relazioni familiari potevano
essere concepite solo come sistematiche, cioè sfocianti in un’autoorganizzazione
stabile. Lo studioso, quindi, descrisse la teoria dell’attaccamento come il principio
fondamentale delle relazioni tra esseri umani. Questo attaccamento è programmato e l’avvio di questi programmi è legato alla presenza di impronte, ovvero di
situazioni ugualmente programmate che sopraggiungono come circostanze indispensabili affinché si attivi il funzionamento programmato geneticamente: per
esempio, l’atto della madre di stringere il neonato al petto provoca il riflesso
bucco-linguale di orientamento e la ricerca del capezzolo. La pressione del
neonato provoca nella madre la montata lattea.
Secondo Mary Ainsworth,5 l’attaccamento ha una tipologia rassicurante,
diffidente o ambivalente. Questa tipologia si trasmette dall’infanzia all’età adulta,
così i genitori la riproducono con il loro bambino.
In simili condizioni, la relazione di sviluppo deve riprendere la teoria psicanalitica della genesi dell’oggetto, notando che:
– il bambino è l’oggetto di una proiezione immaginaria e fantasmatica della
madre;
– il neonato non sarebbe in grado di rappresentarsi la madre nella sua totalità:
utilizzando le sue straordinarie capacità sensoriali, egli rappresenta molto
presto a se stesso le cure materne partendo dalle sue esperienze sensoriali, tra
le altre, l’odorato, la vista, il tatto, l’equilibrio e la parola. Il bambino, tuttavia,
è in grado di associare le rappresentazioni sensoriali, in particolare la vista e
l’olfatto. Questo punto è essenziale per comprendere la genesi della rappresentazione dell’oggetto.
3
4
5
J. Bowlby, L’attachement, Paris, PUF, 1960.
R.A. Spitz, La première année de la vie de l’enfant, Paris, PUF, 1946.
M. Ainsworth, D. Suter e B.A. Witing, Attachment and exploratory behaviour of one-year-olds
in a strange situation, «Determinants of Infants Behaviour», vol. 4, London, Methuen, 1969.
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La nascita dell’oggetto
Sembra quindi che l’oggetto delle rappresentazioni non sia affatto l’oggetto
che, nel nostro immaginario, percepiscono i neonati: grazie alle loro straordinarie
e precoci capacità, essi possono, in particolare, riconoscere la voce della madre
e la sua lingua fin dalla nascita, il suo odore fin dal terzo giorno di vita, ecc. Si deve
però ricordare che il calendario cronologico e biologico dello sviluppo, che per il
feto inizia fin dalla gravidanza, non potrebbe conferire alla nascita un’importanza
essenziale: il bambino non risponde specificamente agli stati affettivi determinati
prima del sesto mese di vita.
La vita emozionale, che colora il suo sviluppo nel quadro delle cure prestate
in genere dalla madre ma, attualmente, anche dal padre o dai sostituti parentali,
svolge un ruolo fondamentale: Daniel Stern parla di «emozioni di vita» per
spiegare che gli stati affettivi iniziali non sono specifici come quelli della collera,
della tristezza, ecc. In ogni caso, comunque, all’interno delle interazioni, essi
favoriscono le interrelazioni con l’oggetto. Ogni eventualità, per quanto insignificante, può assumere l’importanza di un evento all’interno della monotonia delle
interazioni comportamentali e contingenti. Esse, quindi, saranno vissute come
eventi e potranno contribuire alla genesi degli «script» iniziali o delle «sceneggiature». Tali sceneggiature potranno essere rivissute ulteriormente ed essere «retrodette», come le cause degli eventi importanti della vita.
Si comprende dunque che, secondo lo schema che abbiamo seguito, le
teorie dello sviluppo attualmente più diffuse nell’Europa occidentale e negli Stati
Uniti si basano sullo studio delle interazioni comportamentali; tali teorie, però,
hanno anche una valenza affettiva e fantasmatica.
Le interazioni affettive e fantasmatiche
Lo sviluppo interattivo avviene in un mare di affetti.6 Esso comporta disarmonie e accordature affettive, modali o transmodali.7
In questo mare affettivo, gli scambi fantasmatici tra il bambino immaginato
dalla madre e le protorappresentazioni di quest’ultimo necessitano ovviamente
dell’introduzione degli affetti. Questi svolgono un ruolo essenziale nelle interazioni
preliminari, che sono interpersonali, poi intersoggettive e quindi simbolizzabili, in
particolare a partire dal terzo trimestre di vita, fase in cui il neonato diventa in grado
di attribuire affetti e rappresentazioni alle persone che si prendono cura di lui.
6
7
S. Lebovici, Le nourrisson, sa mère et le psychanalyste, Paris, Bayard, 1983.
D. Stern, Le développement du jeune enfant, Paris, PUF, 1989a.
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Nella sua opera dedicata alla vita interpersonale dei bambini nella prima
infanzia, Daniel Stern ha ritenuto di non dover ricorrere alla nozione di «fantasma».8 Si è limitato a utilizzare il termine «rappresentazione», comunque molto
ambiguo e ben lontano da ciò che i filosofi intendevano con il termine Vorstellung, ripreso da Freud. Diversi lavori hanno dimostrato che la rappresentazione
concepita da Freud, rappresentazione di cose e di parole, si poteva piuttosto
tradurre con la parola «idea».
Diremo quindi che lo sviluppo del bambino può avvenire solo attraverso la
ricchezza delle sue emozioni e dei suoi affetti che, trasposti nell’ambito interrelazionale, conferiscono alla vita psicologica la sua «rappresentanza», che si tratti
della percezione delle cose o del modo di denominarle. Quest’ultimo aspetto è
relativamente indipendente dalle percezioni, sulle quali sono proiettati anche i
nostri stati affettivi inconsci.