La Valtellina di Wolfgang Hildesheimer Gabriella Rovagnati Il mio

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La Valtellina di Wolfgang Hildesheimer Gabriella Rovagnati Il mio
La Valtellina di Wolfgang Hildesheimer
Gabriella Rovagnati
Il mio incontro con l’opera di Wolfgang Hildesheimer risale all’inizio degli anni settanta, quando
ero studentessa all’Università Statale di Milano e stavo imparando il tedesco. Delle molte ore di
lezione dedicate all’approfondimento delle conoscenze linguistiche facevano parte anche
frequenti sedute pomeridiane nelle cabine del laboratorio, dove, isolati dal resto del mondo da
cuffie, ascoltavamo letture di brani letterari o altri testi recitati, su cui dovevamo poi discutere e
argomentare, per dimostrare di averne compreso il contenuto. Fra i nastri che il nostro severo
lettore ci proponeva più di frequente, c’erano i radiodrammi, un genere diffusissimo nel mondo di
lingua tedesca negli anni cinquanta e sessanta, con il quale molti degli autori, poi affermatisi sulla
scena letteraria internazionale, avevano iniziato la loro carriera: da Ingeborg Bachmann a Ilse
Aichenger e Günther Eich, nonché appunto a Wolfgang Hildesheimer, che a questi era legato da
profonda amicizia.
Fu allora che ascoltai per la prima volta Herrn Walsers Raben [I corvi del signor Walser, 1960], un
radiodramma intriso di humor nero. La storia che vi si narra è molto semplice. Un ricco possidente
vive insieme alla sua governante ritirato nella sua villa, nel cui giardino svolazza un folto gruppo di
corvi, che poi si scopre essere i suoi stessi parenti, trasformati in uccelli neri con una formula
magica e in questo modo esclusi da una cospicua eredità.
Questo fu il mio primo impatto con l’ironia amara di questo autore, di cui poi lessi divertita la
raccolta narrativa Lieblose Legenden [Leggende spietate], una serie di brevi prose, pubblicate nel
1952, con le quali WH si era imposto al pubblico come scrittore. Un tono sarcastico attraversa
anche tutte queste storie dai contenuti surreali. Paradigmatico è già il racconto che apre la
raccolta, dal significativo titolo La fine di un mondo, dove un borghese, attanagliato dai debiti di
gioco, vende alla Marchesa di Monterisio (un’americana nobilitata) la vasca da bagno in cui
Carlotta Corday aveva assassinato Marat. Per ricompensarlo, la marchesa lo invita a cena nel suo
bel palazzo costruito su un’isola posticcia, raggiungibile solo da gondole esposte a pericolose
correnti. L’ospite raggiunge l’esclusiva cerchia degli invitati della marchesa, e dopo cena, durante
un concerto che non viene interrotto, le fondamenta dell’isola artificiale si sfaldano, trascinando
fra i flutti il palazzo crollato.
In questa parabola dell’instabilità del reale, tipica dello stile di WH, lo scrittore sembra dire a se
stesso che la scelta dell’isolamento elitario, tipica dell’intellettuale, è pericolosa, e che l’arte è del
tutto impotente di fronte alle continue catastrofi del mondo. Lo scrittore quindi, fin dalla sua
prima produzione, appare convinto della sostanziale inutilità dell’arte, a cui tuttavia non riuscì a
non dedicare la propria esistenza.
Alla scrittura Hildesheimer arrivò relativamente tardi e dopo aver accumulato diverse,
sconvolgenti esperienze di vita. Era nato ad Amburgo nel 1916 in una famiglia della ricca borghesia
ebraica. I progenitori del padre erano stati una schiatta di eminenti rabbini di Berlino; suo padre
invece, critico nei confronti dei propri antenati che a una rigida ortodossia affiancavano uno stile
di vita piuttosto frivolo, aveva interrotto la tradizione di casa e scelto di diventare chimico. I
parenti della madre erano invece colti librai di Amburgo, dediti più alle belle lettere (gli zii di WH
erano amici di famosi poeti tedeschi come Dehmel, Liliencron e George) che alla frequentazione
della sinagoga. Soprattutto con il nonno materno WH ebbe molte affinità e scrisse di lui: “era uno
stoico, disegnava bene, suonava il violino, per tutta la vita non andò mai dal dentista e si infilava in
tasca la pipa accesa”.
Quando nel 1933 Hitler andò al potere, i genitori di Hildesheimer, “sionisti areligiosi”, si
trasferirono in Palestina. Lì WH imparò il mestiere di falegname, ma, benché si trovasse bene in
quella comunità multietnica, dove ancora regnava solidarietà fra inglesi, ebrei e arabi, già nel 1936
tornò in Europa per studiare a Londra pittura e sceneggiatura. Quando venne costituito lo Stato
d’Israele nel 1948, restò in Europa, dove si sentiva a casa, deciso però a rimanere apolide, a non
avere una patria “né sulla terra né nell’aldilà”.
WH si rese conto pienamente della sua appartenenza al popolo ebraico quando, fra il 1947 e il
1949, lavorò come interprete simultaneo ai processi di Norimberga a carico degli assassini nazisti.
Da Haifa i suoi genitori cercarono di farlo desistere dal suo proposito di restare in Germania per
lavorare come giornalista, grafico, traduttore e scrittore. A tutta prima, insieme alla moglie Silvia
Dillmann, che era divorziata e aveva due figlie, prese casa ad Ansbach, sullo Starnbergersee, un
lago fra Salisburgo e Monaco, dove ebbe inizio la sua attività di scrittore.
Il suo soggiorno in Baviera non ebbe tuttavia lunga durata: rimase ad Ansbach dal 1949 al 1953.
Già nel 1957 WH lasciò definitivamente la Germania per spostarsi più a sud, a Poschiavo, nel
Cantone svizzero dei Grigioni. Ufficialmente lasciò la Baviera per ragioni di clima, in verità volle
abbandonare un paese di cui non condivideva le scelte politiche. Presto si allontanò anche dalla
Gruppe 47, quel sodalizio di scrittori cui appartenevano molti autori, come Günther Eich, Heinrich
Böll, Günther Grass, critici verso la politica capitalistica della Germania occidentale e che gli
rimasero amici, nonostante il suo progressivo defilarsi dalla scena pubblica. Dopo la sua esperienza
a Norimberga, a WH non piaceva il modo con cui la Repubblica Federale tentava di cancellare il più
in fretta possibile gli orrori del Nazismo e, in generale, temeva i rigurgiti di antisemitismo, che
vedeva riaffiorare qua e là nel suo paese natale.
Trasferitosi in Svizzera, dove riuscì a ottenere la cittadinanza onoraria anche grazie all’intervento
di Friedrich Dürrenmatt, WH si impose come autore teatrale, passando dal sarcasmo della prosa
inziale ai toni irrazionali del “teatro dell’assurdo”. Molti sono i titoli che qui si potrebbero citare:
Pastorale (Münchner Kammerspiele, 1958), Die Uhren (Gli orologi - Schlosstheater Celle, 1959),
Landschaft mit Figuren (Paesaggio con figure - Tribüne Berlin, 1959), Die Verspätung (Il ritardo Kammerspiele Düsseldorf, 1961). I testi teatrali di WH assumono non di rado carattere
monologico, in quanto presentano sempre individui chiusi in un programmatico e malinconico
isolamento. E qui non può sfuggire l’affinità di questi personaggi con il protagonista della prima
opera narrativa di ampio respiro di WH: Tynset, considerata in generale il prodotto migliore della
sua prosa. Pubblicato nel 1965 e spesso definito romanzo contro la volontà dell’autore, il testo
riproduce i pensieri di un insonne durante una nottata in cui non riesce a dormire. Il titolo prende
il nome da un comune norvegese, che il protagonista sceglie come meta del suo viaggio, più
mentale che reale. Al momento della pubblicazione il libro diventò un best-seller e WH fu insignito
per quest’opera del premio letterario della città di Brema. L’affinità fra il protagonista del testo e
l’autore sono evidenti. La narrazione non si sviluppa tanto in base a una storia, quanto su un flusso
associativo, da cui emergono ricordi, desideri, paure. Non c’è un discorso compatto, basato sulla
concatenazione di causa ed effetto, ma un collage di elementi disparati che nasce da innumerevoli
divagazioni su una realtà in cui nulla è stabile, per cui tutto è fonte d’incertezza. Questo viaggio da
Poschiavo verso nord si presenta come un anti-romanzo, così come già le leggende erano state il
ribaltamento di un genere tradizionale, perché non erano più concepite come “exempla”, ma
presentate come brandelli di un mondo insalvabile, di fronte alla cui assurdità non resta che la
rassegnazione. Tynset riflette la poetica di WH, convinto di non poter scrivere di nulla se non di se
stesso, pur nella trasfigurazione letteraria, ma nel contempo anche tormentato dalla
consapevolezza che il linguaggio non sia un mezzo sufficiente a comunicare pensieri ed emozioni.
Perciò nella sua prosa, come nel suo teatro, i silenzi hanno maggiore efficacia di quanto viene
esplicitato. Questo scetticismo nel confronti della parola è presente anche in Masante, il
successivo testo in prosa di ampio respiro, pubblicato nel 1973, che è una sorta di continuazione
della prosa monologica di Tynset e come questa è un collage, in cui finzione e realtà s’intrecciano
di continuo in un viaggio, questa volta da Masante, dove l’io narrante lascia la sua casa presso
Urbino – un luogo WH amava trattenersi spesso e a lungo – per stabilirsi in un “luogo provvisorio e
millenario a confini del deserto”. Anche Masante altro non è che una raccolta di brandelli di
memoria che il protagonista tenta invano di ordinare in una storia. In questa sorta di confessione
WH cerca di scendere a patti con il proprio passato personale e con la storia in generale. Ma anche
questo libro segnala la fine della possibilità di raccontare qualcosa di personale seguendo un filo
logico, per cui in seguito WH tenta un nuovo tipo di scrittura e si cimenta con la biografia di altri.
Nel 1977 pubblica così il suo Mozart, anche questo un libro in certo senso „contro“, contro le
bugie di chi ha fatto del genio musicale di Salisburgo un personaggio „pulito“ ed „onorevole“,
mentre nella sua vita non erano mancate irresponsabilità e perversione. Con l’ultima opera
d’ampio respiro, Marbot (1981), che narra la parabola umana di un artista inventato
dell’Ottocento, WH dà voce al suo terrore di fronte alla minaccia sempre più concreta della fine
del mondo civile, distrutto da politici incoscienti e da un sempre più evidente dissesto
idrogeologico. Il libro è un agglomerato di microritratti (da Goethe a Lord Byron, da Schopenhauer
a Leopardi) e di saggi di critica d’arte in sedicesimo (su opere di Rembrandt, Mantegna, Watteaux,
Giorgione, Giotto), nati evidentemente da intense letture e da riflessioni profonde sulla pittura. Il
pessimismo di WH scrittore raggiunge poi l’apice nel 1983, quando WH dichiara pubblicamente di
non voler scrivere più, perché quest’attività non ha più senso in un mondo in cui presto, ammesso
che avesse continuato a sussistere, più nessuno avrebbe letto libri. Da allora smise di scrivere per
dedicarsi soltanto all’arte figurativa e, in particolare, al collage, al libero – e altrettanto insensato,
ma terapeutico – gioco delle forme. WH, da tempo cardiopatico, morì d’infarto a Poschiavo nel
1991.
Quando, scrivendo la scheda per la Deutsche Biographische Enzyklopädie su questo scrittore, mi
resi conto che WH era vissuto per più di trent’anni a Poschiavo, pensai soltanto che fosse uno dei
tanti tedeschi che, alla ricerca di sud, avesse trovato in Svizzera la sua patria adottiva, come del
resto molti altri scrittori, quali Hermann Hesse o Alfred Andersch. Non mi ero però mai fermata a
riflettere sui rapporti che WH aveva intrattenuto con la Valtellina, anch’essa un tempo terra del
Cantone dei Grigioni. Fra Poschiavo e Tirano c’è una continuità culturale che si riflette anche
nell’affinità paesaggistica. E proprio a Tirano WH trovò l’amico che fece da collegamento fra WH e
la Valtellina, permettendogli di stabilire un reticolo di rapporti importanti con artisti e intellettuali
della nostra terra: Padre Camillo de Piaz. Fra i due nacque fin dal primo incontro una profonda e
sincera amicizia. Grazie a questo religioso ed intellettuale servita WH conobbe bene la Valtellina e
la gente la abitava, come dimostra un elzeviro del 1966, dedicato alla nostra valle, oggi compreso
nel settimo volume della sua opera omnia. Questo pezzo si apre con una considerazione di
carattere filologico: Veltlin, come la valle si chiama in tedesco, non è un diminutivo, come a tutta
prima potrebbe sembrare a chi conosca i dialetti tedeschi meridionali, ma una storpiatura
dell’italiano Valtellina. È il territorio attraversato dall’Adda che, dal Passo dello Stelvio si allarga
pian piano sempre più fino ad arrivare quasi fino al Lago di Como. 120 Km in tutto, ma, aggiunge
WH, ogni valtellinese ha il suo proprio mondo di essere, tanto che uno di Bormio ha assai poco in
comune con uno di Morbegno. Ma a WH interessa solo un tratto preciso di questa valle:
La Valtellina superiore non è il mio paesaggio. […] Il mio paesaggio è la sua parte centrale.
Inizia là dove hanno inizio i vigneti, dunque vicino a Tirano, detto più esattamente, al
convento dei Serviti di Madonna di Tirano, dove vado a prendere il mio amico Padre
Camillo, per percorrere con lui cinquanta chilometri scendendo lungo l’Adda per
raggiungere un altro amico, Angelo, pittore, a Regoledo di Cosio, dove finiscono i vigneti e
anche la mia Valtellina. Il resto è attesa del lago e promessa di un paesaggio diverso. Fra
Camillo e Angelo ci sono alcune cittadine: Sondrio per esempio, il capoluogo di provincia,
dove bevo un caffè e compero carciofi e formaggio di Livigno in quattro diversi stadi di
stagionatura; oppure Chiuro, dove l’imprevisto sonnecchia in forma di antiche case patrizie
con bei cortili interni, non ancora scoperti e quasi impossibili da scoprire. Per via
s’incontrano anche altre località, ma i loro nomi sono meno importanti dei vigneti che li
sovrastano con le loro diverse qualità di vino: Sassella, Valgella, Grumello, Fraccia (bianco)
e – come estremi di questa scala – Inferno e Paradiso.
Segue un elogio del vino di Valtellina, „severo ed aspro“, che richiede una certa assuefazione per
essere apprezzato, e della cucina della valle, „rustica, essenziale e non raffinata“, e servita in
maniera lapidaria nella sua sostanza essenziale. La Valtellina, così sempre WH, non è una terra per
sofisticati gourmet, benché chi abbia assaggiato gli asparagi verdi, coltivati qui, che con quelli
bianchi del nord hanno in comune solo l’aspetto fallico, finisca per preferire questi ultimi.
La Valtellina sembra offrire poco, ma se si riesce ad abbandonarsi con i sensi e con la coscienza al
suo paesaggio, ricco di presente e di passato, ed estremamente multiforme, se si riesce ad
immergervisi, allora si scopre “un mucchio di oggetti pittoreschi”, di cose che si sottraggono al
fotografo dilettante, al quale la Valtellina in certo senso sfugge. Perché non si riesce a fissare in
un’immagine questo paesaggio in perenne mutamento. È fluttuante, non incatena lo sguardo, ma
lo induce a vagare e con esso lascia vagare anche la fantasia. La Valtellina, storicamente, è una
terra di sofferenza. Ha sofferto sotto il dominio dei Milanesi e dei Grigioni, sotto l’occupazione
francese, spagnola e austriaca, non ha nessun eroe storico da esibire, a parte qualche esponente
della Resistenza antifascista di cui Padre Camillo è un esempio. “Verità e Resistenza, vino e
sofferenza” sono i frutti di questo territorio per chi lo osserva oltre il dato ottico immediato. Il
fotografo fissa un‘immagine, ma non può cogliere nel profondo la realtà di questa valle.
Ma, lamenta WH, chi descrive un paesaggio, non è purtroppo molto meglio di chi lo fotografa:
Descrivi la Valtellina, i suoi vigneti terrazzati, i castagneti sui pendii, e nel frammezzo i
campanili simili a punti esclamativi alla fine di villaggi allungati o nascosti, descrivi gli archi
con squarci su scale mortalmente consunte e cavità nere e profonde nei muri, mettili in
relazione fra loro, comunica tutto questo, e già l’immagine è sfuggita, soffiata via; non ci
sarà lettore che riuscirà, dalla tua descrizione, a farsene la benché minima idea. […] Descrivi
dunque l’impossibilità della descrizione.
Anche davanti alla Valtellina WH arriva all’afasia, alla coscienza che la parola è insufficiente a
riprodurre immagini che possano farsi veicolo di verità. E tuttavia il suo racconto procede, in un
arco che va dal Bernina alla bergamasca, “dalle cui valli vengono Arlecchino e Tartaglia”, i babbei
del teatro popolare, ma anche “il più amabile uomo del secolo”, papa Giovanni XXIII, il pontefice
che dà il titolo alla raccolta di frammenti, prima pensati come pezzi da integrare in Masante o
come un libro sul papa rimasto un torso, Exerzitien mit Papst Johannes. Vergebliche
Aufzeichnungen [Esercizi con Papa Giovanni. Appunti inutili].
Il percorso attraverso la Valtellina che WH traccia con tatti di pennello, più che di penna, è la salita
in automobile a San Giacomo di Teglio, e in particolare alla Trattoria La Corna, dai coniugi Pola,
dove il marito serve un vino di propria produzione che è “il miglior vino da tavola del mondo”,
mentre la moglie prepara “le migliori tagliatelle al di qua del Po e i migliori pizzoccheri, il piatto
regionale valtellinese, con un minimale contenuto d’oppio, leggermente soporifero.” Ma le
persone con cui sta in compagnia non si appisolano, anzi diventano euforiche. Armida – la colta
Armida Righini, moglie di Angelo Vaninetti – cita a memoria Orazio („O fons Bandusiae splendidior
vitro ...“, Odi, 3,13), il Dr. Tonucci, che immagino si a il noto dentista di Morbegno, esprime il
desiderio di poter vedere a Bayreuth, nel tempio di Wagner, il Tristano, mentre sua moglie Silvia
osserva il lento spegnersi “dei cinque toni d’azzurro, il lento offuscarsi dei profili di cinque strati
montuosi accatastati”, e Angelo gli racconta , e non per la prima volta, “il tipo e i sintomi della sua
malinconia, che ritiene unica – e nei suoi quadri lo è davvero”, mentre Padre Camillo resta in
silenzio e forse pensa al suo amico Vittorini, morto da poco.
C’è in questa descrizione della Valtellina quel miscuglio di “pessimismo e gioia di vivere” che anche
il giornalista e scrittore Antonio Cederna, fratello di Camilla, individua come i due poli della
personalità di WH, da lui conosciuto grazie a Padre Camillo, l’amico per antonomasia, l’uomo a cui
WH dovette in pratica tutte le sue conoscenze in Valtellina, da quella con quella con Angelo
Vaninetti e la moglie a quella con molti altri artisti, come lo cultore Mario Negri o il pittore Enrico
della Torre. Per questo mio intervento odierno ho avuto la fortuna di poter avere notizie su WH
anche da molte persone che lo hanno conosciuto di persona. Penso a Bruno Ciapponi-Landi,
direttore del Museo etnografico di Tirano, e allo sculture Valerio Righini, pure di Tirano, che
accompagnavano Padre Camillo a Poschiavo e ricordano le sue molte pipe e il suo modo infantile
di giocare coi gatti; all’Architetto Piercarlo Stefanelli, che fu il primo ad allestire nella sua “Galleria
Indica” di Sondrio una mostra di opere pittoriche di WH, che visitava il suo spazio espositivo in
occasione di ogni nuovo evento insieme all’ingegner Rieckenbach (accompagnato dalla moglie),
direttore della centrale idroelettrica di Brusio-Campocologno, una sorta di generoso Mecenate
poschiavino; penso agli amici di don Abramo Levi, Francesco e Maria Ricchetti e Massimo
Mandelli, che mi hanno testimoniato l’intensità del legame che WH aveva instaurato con questo
sacerdote, che nelle sue omelie cita brani tratti da Tynset; e ancora alla psichiatra Annalisa
Vaninetti, figlia del pittore Angelo, che mi ha mostrato le dediche che WH aveva scritto ai genitori,
regalando loro i suoi libri, ricordando in particolare la profonda affinità elettiva fra WH e sua
madre Armida Righini; penso a Gian Casper Bott, direttore del Museo di Basilea e curatore della
mostra ora in corso a Ponte, che mi ha fornito numerosi dettagli sulla personalità di WH e di sua
moglie, che ebbe la fortuna di frequentare fin da bambino e che ricorda entrambi con
ammirazione; e, non ultima, penso alla signora Inge Thurner, figlia di Silvia Dillmann, che in WH,
secondo marito della madre, ebbe un padre putativo a cui fu molto affezionata.
Quello che personalmente più mi affascina di tutta questa rete di legami con Valtellinesi è la
ricerca costante di WH, dichiaratamente agnostico, dello scambio con sacerdoti cattolici, certo,
preti che non hanno nulla in comune con il “parroco di campagna” da manuale. È noto che
Abramo Levi nutriva grande interesse per l’Ebraismo e che WH era un ebreo “areligoso”, ma con
un evidente bisogno di trascendenza, nonostante il suo ostentato nihilismo.
Nel 1978, nel suo saggio intitolato Mein Judentum, WH scrive:
Se mi chiedo, in cosa consista il mio essere ebreo, non trovo una risposta davvero
soddisfacente. So solo che è un dato di fatto. Nell’ebraismo non sono radicato, non ne sono
dominato, ma mi sento ebreo.
Che fosse un ebreo “sui generis”, contrario tra l’altro, alla costituzione di Israele e molto critico nei
confronti degli ortodossi, era chiaro anche a Padre Camillo che, nel suo accorato necrologio per
WH, definisce l’amico uno dei pochi “uomini culto” che avevano incrociato il suo cammino. Per
trent’anni i due erano stati legati da un’intesa amicizia che era scattata immediatamente e
spontaneamente, e per quel lungo periodo Padre Camillo aveva avuto in sospetto il “conclamato
pessimismo” dell’amico. Padre Camillo parla della generosità di WH nei rapporti, delle sue
ipocondrie, del suo atteggiamento di perenne disilluso, “fecondo più di tanti ottimismi” e sempre
smorzato da una buona dose di humor. Perché WH era anche “uno che si divertiva”. Padre Camillo
afferma poi di non aver mai voluto “convertire” WH, ma di essersi sempre attenuto, nei colloqui
con l’amico, alle parole del Cardinale milanese Carlo Maria Martini: “far parlare il credente che è in
ciascuno dei non credenti” e conclude il proprio ricordo di WH con queste parole:
Credo che questo dialogo […] abbia tacitamente, o solo a tratti sommessamente affiorante,
accompagnato, come un sottofondo, trattenuto e costante, l’intera lunga vicenda della
nostra amicizia.
Padre Camillo e WH, l’uomo di fede e l’agnostico, furono uniti dal bisogno costante di inseguire la
verità. Mi pare che per entrambi sia appropriata la frase di Platone, tratta da L’apologia di Socrate:
che – come ha indicato Mons. Ravasi in un recente articolo, scritto per ricordare Camillo de Piaz a
dieci anni dalla scomparsa – il padre servita amava citare: “Una vita senza ricerca non merita
d’essere vissuta”.