qui in allegato, la traduzione italiana
Transcript
qui in allegato, la traduzione italiana
PROMESSE E CAMBIALI: DALLA CRISI AL COMUNE1 Il proiettile che ha trafitto il cuore di Alexis non era un colpo casuale partito dalla pistola di un poliziotto verso il corpo di un ragazzino "indocile". Era la scelta dello Stato di imporre violentemente sottomissione e ordine a quei contesti e a quei movimenti che resistono alle sue decisioni. Una scelta precisa, fatta per minacciare chiunque intenda resistere alle nuove disposizioni dei padroni in materia di lavoro, previdenza sociale, salute pubblica, educazione ecc. ("Niente sarà più come prima", volantino scritto e distribuito nel dicembre 2008 in Grecia) CRISI: COS'È, COSA NON È A cinquecento anni dalla nascita i capitalisti ci stanno dicendo, una volta ancora, che il loro sistema è in crisi. E stanno pressando ognuno di noi a fare sacrifici per salvargli la vita. Se non facciamo questi sacrifici, ci viene detto, affronteremo insieme la prospettiva di un comune naufragio. Minacce di questo tipo dovrebbero essere prese sul serio. In ogni parte del pianeta i lavoratori stanno già pagando il pezzo della crisi in termini di diminuzione dei salari, disoccupazione di massa, perdita delle pensioni, pignoramenti e morte. Per rendere più aggressive le minacce, ci viene quotidianamente ricordato che viviamo in un'era in cui i nostri diritti sono ovunque sotto attacco e che i padroni del mondo non risparmieranno alcuna atrocità se i sacrifici richiesti saranno rifiutati. Le bombe sganciate sulla popolazione indifesa di Gaza sono state esemplari al riguardo. Esse cadono su noi tutti, perché abbassano la soglia di ciò che viene considerato risposta legittima dello Stato alla resistenza. Elevano a potenza le intenzioni assassine celate dietro il proiettile fatale con cui il poliziotto ateniese ha fatto fuoco sul corpo di Alexis Grigoropoulos agli inizi del dicembre 2008. Ovunque c'è la percezione che stiamo vivendo tempi apocalittici. Come si è sviluppata questa crisi da “fine dei tempi” e cosa significa per i movimenti anti-capitalisti e per la giustizia sociale che cercano possibili strade di fuoriuscita dal capitalismo? Questo pamphlet è un contributo al dibattito su questioni che crescono d'intensità mano a mano che la crisi si approfondisce e le prospettive rivoluzionarie emergono. Lo scriviamo con l'intento di penetrare la coltre di fumo che circonda questa crisi e che rende molto difficile escogitare risposte e anticipare le prossime mosse del capitale. Troppo spesso, anche all'interno della Sinistra, le spiegazioni sulla crisi ci conducono nelle rarefatte atmosfere dei circuiti e delle contrattazioni finanziarie o negli intricati nodi delle operazioni dei derivati e dei fondi speculativi che ci portano in un mondo incomprensibile alla maggioranza di noi, distaccato dalle lotte che la gente sta facendo, al punto che diventa impossibile anche solo pensare una qualunque forma di resistenza. 1 Abbiamo tradotto Promissory Notes con “Promesse e cambiali” per mantenere la doppia accezione su cui gioca il testo originale, che riporta sia la definizione di promissory note (“cambiale”), sia quella di promissory: “aggettivo prevalentemente utilizzato in Legge e implicante una promessa; nome arcaico indicativo di qualcosa là da venire, pieno di promessa”. Abbiamo invece preferito rendere commons con “comune”, più raramente con “beni comuni”. Il concetto di beni comuni indica quei beni, o risorse, che circolano (o dovrebbero circolare) al di fuori del mercato, non escludibili e non sottraibili perché indispensabili alla sopravvivenza umana; quello di comune definisce invece tanto la ricchezza comune del mondo materiale (di cui i beni comuni sono una parte) quanto la totalità della produzione sociale passata, presente e futura. La differenza è tra qualcosa di già dato (e naturale) e qualcosa che invece si produce (e distrugge) incessantemente. Per una genealogia critica del concetto di commons cfr. l'Appendice al testo. Il nostro pamphlet ha una storia diversa da raccontare sulla crisi, perché comincia con le lotte che miliardi di persone hanno fatto in tutto il pianeta contro lo sfruttamento del capitale e la degradazione ambientale delle loro vite. Non si può guardare alla crisi del ventunesimo secolo con gli stessi occhi del diciannovesimo, che non sapevano cogliere le lotte di classe come fonte importante delle crisi ma consideravano queste ultime come prodotti automatici e inevitabili del ciclo economico, causate dall'“anarchia della produzione” capitalista. Il Novecento, secolo di rivoluzioni, riforme e guerre mondiali ha portato a un nuovo sguardo. In primo luogo, è stata riconosciuta una distinzione tra un'autentica crisi epocale e una recessione. Quest'ultima è uno stato di “squilibrio” (una delle dinamiche che il Capitale mette periodicamente in atto per disciplinare la classe operaia). L’altra, una condizione di stravolgimento dell’esistente che minaccia la “stabilità sociale” e la stessa sopravvivenza del sistema. Il riconoscimento che le recessioni e le crisi non sono totalmente al di fuori del controllo umano ma possono invece essere strategicamente provocate, posticipate, intensificate e precipitate ha rappresentato un'ulteriore acquisizione. La millantata tendenza del capitalismo a perseguire automaticamente il pieno impiego di lavoro, capitale e terra è stata lungamente smentita dalla storia. Fin dagli anni Trenta, gli stessi economisti borghesi si resero conto che, in momenti di crisi reali, per il governo potrebbe essere necessario spingere, tirare e stimolare il sistema quando questo è inceppato e lontano dalle condizioni di pieno impiego. Ma nell’escogitare piani per superare la crisi della Grande Depressione, si accorsero che potevano anche pianificare crisi e recessioni. Le crisi non possono mai essere eliminate, ma possono essere accelerate e rinviate dall’azione dei governi. Sebbene pericolose, possono essere usate come opportunità per sferrare colpi nello scontro di classe al fine di tenere in vita il sistema. Sono le “esperienze limite” del capitalismo, quando è percepita la possibile fine del sistema ed è unanimemente riconosciuto che qualcosa di essenziale deve cambiare – o succederà altro. L’ultimo secolo ha anche mostrato l’importanza della lotta di classe nel dar forma alle crisi, perché i lavoratori (salariati e non-salariati, schiavi e liberi, rurali e urbani) sono stati in grado, storicamente, di precipitare le crisi capitalistiche intensificando le contraddizioni e gli squilibri inerenti al sistema fino ad un punto di rottura. Riconoscere questa capacità permette di comprendere il potenziale rivoluzionario dei lavoratori: se non possono mettere in crisi il capitalismo, come potrebbero mai avere il potere di distruggerlo durante un’apertura rivoluzionaria? Tuttavia, una cosa rimane vera delle crisi autentiche, dal diciannovesimo secolo ad oggi: esse sono occasioni di rottura rivoluzionaria. Come asseriva Karl Marx nel 1848, il “periodico ritorno delle crisi mette alla prova, ogni volta più minacciosamente, l’esistenza dell’intera società borghese”. Ne consegue che i cicli economici di cinque/sette anni sfociano in una crisi, quando ogni aspetto del capitalismo viene messo in discussione. Il termine “crisi” prende il proprio significato dalla sua originaria accezione clinica, “un punto nel decorso della malattia in cui il paziente o muore o torna in salute”. In questo caso, il paziente è la società capitalista. È per questo che Marx e i suoi compagni volgevano il loro sguardo attento e persino gioioso all’approcciarsi di una crisi; ciò segnalava loro la possibilità di una rivoluzione. Erano convinti che le crisi sempre più profonde del sistema avrebbero presto portato al rintocco della sua campana a morto e all’espropriazione degli espropriatori! È con questo sapere, da questa prospettiva e con cauta gioia che ci approcciamo alla crisi presente. La nostra discussione è articolata in cinque sezioni: 1. 2. 3. 4. 5. Le origini a lungo termine della crisi Cause e conseguenze immediate Le opportunità che essa offre a ogni classe La costituzione del comune, cioè, le regole che ci diamo nel condividere le risorse comuni del pianeta e dell’umanità La natura delle lotte rivoluzionarie che emergono dalla e nella crisi I. CRISI PASSATE E CRISI PRESENTI: DAL KEYNESISMO AL NEOLIBERISMO E ALLA GLOBALIZZAZIONE Spesso si traccia un forte parallelismo tra la crisi presente e la Grande Depressione e, per estensione, si individua una possibile “soluzione” di parte capitalistica nella replica del New Deal. In realtà, le profonde differenze tra la Grande Depressione e la crisi presente impediscono il ritorno alle politiche del New Deal. Certamente le similitudini tra le due crisi abbondano. In entrambe l'epicentro risiede negli investimenti speculativi. Entrambe le crisi possono essere viste come il risultato del rifiuto dei capitalisti di continuare a investire a fronte di rendimenti decrescenti. Soprattutto, entrambe possono essere lette come conseguenze della sovra-produzione e del sotto-consumo, che hanno portato alla saturazione del mercato e a un tasso di profitto decrescente, combinazione divenuta a sua volta causa di un congelamento degli investimenti e istigazione alla stretta creditizia. Molti analisti di sinistra hanno ipotizzato che queste tendenze, comuni nella società capitalistica, hanno portato alla "sovra-accumulazione" o "stagnazione" – in altre parole, all'incapacità dei capitalisti di trovare opportunità di investimento nella produzione di merci che garantisse un adeguato tasso di rendimento. La tesi, in un certo senso, è che il capitalismo abbia avuto troppo successo negli anni Ottanta e Novanta: ha distrutto il potere dei lavoratori statunitensi al punto che essi hanno smesso di combattere per ottenere salari sufficientemente alti per comprare i beni prodotti, causando saturazione, sovra-capacità produttiva, sotto-investimento, ecc. La teoria emergente a sinistra sulla crisi presente enfatizza il fallimento commerciale del sistema, che ha portato ad una crisi dei profitti. Questo viene spesso definito “problema della realizzazione", ossia le merci sono sovraprodotte e la domanda della classe operaia viene contratta (per preservare i profitti), portando a una carenza di consumo e alla difficoltà a investire nelle industrie manifatturiere a un tasso di profitto accettabile. L'impulso a ricavare profitti attaccando i salari dei lavoratori ha compromesso il presupposto stesso della profittabilità, dal momento che le merci prodotte devono essere acquistate per fare profitto! Il risultato, è stato quindi affermato, è la "finanziarizzazione" del sistema economico dove, sempre più capitale viene investito in prestiti speculativi e in complesse operazioni di diversificazione del rischio, poiché l'investimento nella produzione non è più sufficientemente redditizio. Questa finanziarizzazione ha beneficiato di e ha al contempo rafforzato il tentativo di monetizzare e mercatizzare tutte le azioni all'interno della società, dal cenare al piantare i semi nell'orto. In effetti, questo è stato il vero obiettivo della strategia economica dominante negli ultimi trent'anni (chiamata "neoliberismo"): riportare l'economia mondiale ad uno stadio pre-New Deal di capitalismo di libero mercato – da qui le similitudini tra le due crisi. In questo senso, oggi possiamo anche dire che il capitale sta pagando il prezzo per il calcolato scollegamento che ha prodotto tra sovraproduzione e sotto-consumo. Idealmente, la sovra-accumulazione può essere corretta attraverso la distruzione e/o svalutazione di alcune forme di capitale: merci non vendute, mezzi di produzione, salari di milioni di persone. Roosevelt rifiutò questo percorso (suggerito degli economisti paleo-liberali che consigliavano Herbert Hoover), perché temeva che l'esito della devastazione inflitta dalla svalutazione avrebbe potuto essere la rivoluzione. Al contrario, Roosevelt propose il New Deal. La soluzione del New Deal fu una combinazione di (1) integrazione istituzionale della classe operaia attraverso il riconoscimento ufficiale dei sindacati, (2) stipulazione di un accordo sulla produzione dove salari maggiori erano dati in cambio di una maggiore produttività e (3) stato sociale. Attualmente non è tra le possibilità all'ordine del giorno. Il New Deal si materializzò negli Stati Uniti in un contesto caratterizzato da una forza lavoro organizzata e ribelle, rafforzata da anni di manifestazioni, da rivolte contro la disoccupazione e gli sfratti e da migliaia di persone pronte a marciare su Washington con lo sguardo rivolto all'Unione Sovietica. Ci troviamo ora in un mondo completamente differente. Anche se la lotta di classe continua, non c'è possibilità per i lavoratori salariati e non degli Stati Uniti di oggi di raggiungere il livello di potere politico e organizzativo cui giunsero negli anni Trenta. La politica keynesiana, che ispirò e giustificò teoricamente il New Deal, venne spazzata via dal lungo ciclo di lotte dei lavoratori salariati e non, che tra gli anni Sessanta e Settanta provarono ad "assaltare il cielo" e andare oltre il New Deal. Queste lotte hanno circolato dalle fabbriche alle scuole, attraversato cucine e stanze da letto, investito le aziende agricole nelle metropoli e quelle nelle colonie con scioperi a gatto selvaggio, sit-in negli uffici del governo, azioni di guerriglia. Esse hanno messo in discussione la divisione sessuale, razziale e internazionale del lavoro, con i suoi scambi diseguali e col suo portato di razzismo e sessismo. In poche parole, il Keynesismo è stato smantellato dalla classe operaia (salariata e non) negli anni Settanta. È stato proprio in risposta a queste lotte che, a partire dalla metà degli anni Settanta, il capitale ha conseguentemente dichiarato di propria sponte "la fine del Keynesismo" arrivando ad adottare, per un breve periodo, un programma economico di "crescita zero". Questo ha rappresentato semplicemente il preludio al peggioramento della crisi a partire dai primi anni Ottanta e alla riorganizzazione strutturale che ha preso il nome di "globalizzazione neoliberista", concepita allo scopo di distruggere le vittorie della classe operaia internazionale, dalla fine del colonialismo al welfare state. Di conseguenza, la crisi che vediamo oggi è doppiamente lontana da quella che è culminata nella Grande Depressione. È problematico usare il 1930 come guida per il prossimo futuro, dal momento che la composizione politica della classe operaia negli Stati Uniti e a livello internazionale è cambiata in modo così radicale. È più utile considerare il piano che la globalizzazione neoliberale era intenzionata a realizzare e valutare come mai, solo tre decenni dopo, esso ha portato a una nuova crisi. La principale soluzione del neoliberismo alla crisi del modello keynesiano è stata quella di svalutare il potere del lavoro, ricostruire gerarchie di salario e ridurre i lavoratori allo stato di merci depoliticizzate (come venivano considerati dall'economia borghese del diciannovesimo secolo). Il neoliberismo ha preso molteplici forme in risposta alla differente composizione e intensità del potere dei lavoratori: riallocazione dei mezzi di produzione, deterritorializzazione del capitale, crescente competizione tra i lavoratori attraverso l'espansione dei mercati della forza lavoro, dissipazione del welfare state ed espropriazione della terra (vedi MN 1997 2). Si è trattato di un preciso (e inizialmente vincente) attacco ai tre grandi "patti" dell'era postbellica, che abbiamo definito in altri lavori (P.M. 19853): il patto A (patto della produttività keynesiana), il patto B (patto socialista) ed il patto C (patto 2 3 Midnight Notes. 1997, One No, Many Yeses (vedi bibliografia). P.M. 1985, Semiotext(e), Bolo-Bolo (http://zinelibrary.info/files/p.m.__bolo%27bolo.pdf). Saggio utopistico nel quale l'autore, già membro del Midnight Notes Collective, prefigura una futura società del comune. post-coloniale). [Patto A] Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la battaglia di Reagan contro lo sciopero dei controllori di volo del 1981 e quella della Thatcher contro lo sciopero dei minatori del 1985 sono state seguite da un'orgia di campagne anti-sindacali e da continue minacce di sabotaggio alle pensioni sociali e ad altre forme di sicurezza sociale (i cosiddetti "ammortizzatori sociali"). [Patto B] Il trionfo finale del neoliberismo è coinciso con il crollo dell'Unione Sovietica, il collasso degli stati socialisti dell'Europa orientale e la decisione del Partito Comunista Cinese di intraprendere "la via al capitalismo". [Patto C] Nel "Terzo Mondo" le crisi del debito hanno dato alla Banca Mondiale e all'FMI la possibilità di imporre i Programmi di Aggiustamento Strutturale, rivelatisi successivamente un processo di ricolonizzazione. In altre parole, con l'avvento del neoliberismo, ogni approccio precedente ai problemi viene cancellato. Congiuntamente, questi sviluppi hanno portato alla fine del "riconoscimento reciproco" tra classe operaia e capitale, fomentando la competizione tra lavoratori a livello mondiale attraverso la creazione di un vero e proprio mercato del lavoro globale. Il capitale può così scegliere i lavoratori come farebbe un’ape in un campo di quadrifogli. La conseguenza di questi sviluppi combinati fu che, a partire dai primi anni Novanta, cominciarono a comparire i primi segni di incapacità del sistema nel "digerire" l'immenso output che fluiva dalle moltitudini di lavoratori sfruttati nelle fabbriche di tutto il mondo. Secondo questa tesi, il culmine della crisi Asiatica del 1997 ha rappresentato lo stimolo per la piena finanziarizzazione del sistema – il tentativo di "creare denaro da denaro" al livello più astratto possibile, dal momento che creare denaro dalla produzione non era più sufficiente. Il balzo del capitale verso la finanziarizzazione rappresenta un ulteriore avanzamento nel continuo sforzo neoliberista di spostare le relazioni di potere a proprio vantaggio. Probabilmente, costretti a confrontarsi con guadagni decrescenti nell'"economia reale" e con un'incapacità di vendere i propri prodotti, i capitalisti hanno compiuto due importanti mosse: da un lato, si sono spostati con un balzo nel mondo dei fondi speculativi e dei derivati; dall'altro lato, hanno intensificato la disponibilità di accesso al credito per la classe operaia statunitense, per fare in modo che i lavoratori statunitensi potessero comprare le merci che i lavoratori in Cina e altre nazioni (per lo più asiatiche) continuavano a produrre a salari estremamente bassi (in relazione a quelli USA). Il successo di questo gioco – il cui obiettivo principale era posticipare la crisi – dipendeva dagli alti profitti che i capitalisti che operavano in Cina e nelle nazioni del Terzo Mondo potevano conseguire grazie ai bassi salari che venivano a loro volta investiti nel mercato del credito negli Stati Uniti, rendendo possibile la crescita del settore finanziario. Questo circuito è arrivato a conclusione solo quando è giunto al punto in cui una quantità enorme di debiti (sia dei lavoratori che dei capitalisti) ha portato i suoi sottoscrittori in una dimensione di panico. Questa spiegazione fa capire molto, ma lascia fuori un dettaglio importante: pur ammettendo che la sovra-produzione e il sotto-consumo riducono il tasso di profitto, perché questo tasso di profitto ridotto sarebbe inadeguato per i capitalisti che vogliono re-investire? Prendiamo come esempio il capitalista medio: se lui/lei vende tutti le merci prodotte nelle sua fabbrica, riceverà un tasso di profitto del 100%; ma con il problema della "realizzazione”, riceverà solo un tasso del 50%. Questo tasso è forse inadeguato? Anche a fronte del problema della realizzazione, che richiede la distruzione di metà di ciò che è stato prodotto, i capitalisti potrebbero comunque raggiungere un adeguato tasso di profitto. Questa "inadeguatezza" non è inerente al capitale in senso astratto. Piuttosto, è basata sulla determinazione dei capitalisti a ricavare di più, per chiedere un'espansione sempre più rapida del sistema e dei profitti dei suoi proprietari. Quando i capitalisti giudicano un campo di possibile investimento come "inadeguato", significa che il tasso di profitto medio attualmente possibile è minore delle loro aspettative basate sulle esperienze passate. In ogni caso, quali sono le cause di un declino concreto nel tasso di profitto planetario? Un declino concreto ha radici in diversi fattori, ma ve ne sono due che sono particolarmente cruciali per noi: l'incapacità del capitale di (a) incrementare il tasso di sfruttamento con salari decrescenti e (b) ridurre il valore del capitale costante (soprattutto materie prime naturali) che è necessario per la produzione delle merci. L'ultimo punto è dovuto soprattutto all'incapacità di far ricadere sui ai lavoratori il costo dei danni ambientali causati dall'estrazione delle materie prime e dalla produzione delle merci. Questo è il motivo per cui gli impatti delle lotte "economiche" ed "ecologiche" sul tasso di profitto medio sono difficili da distinguere in questa crisi. Consideriamo le conseguenze di (a) e (b). (a) La globalizzazione ha reso possibile la riduzione dei salari negli ultimi tre decenni negli Stati Uniti, portando la produzione manifatturiera alle "periferie" (specialmente in Cina nell'ultimo decennio), dove la maggior parte dei salari sono semplicemente una frazione di quelli dei lavoratori negli Stati Uniti. Se i salari si fossero mantenuti bassi laggiù, il patto tra il capitale statunitense e cinese sarebbe rimasto stabile. I lavoratori cinesi avrebbero procurato super-profitti per i capitalisti statunitensi e merci super-economici per i lavoratori statunitensi al verde. In ogni caso, nonostante i salari siano relativamente più bassi in Cina che negli Stati Uniti, essi sono cresciuti molto rapidamente. Il salario nominale medio cinese è cresciuto di quasi il 400% nel decennio 1996-2006, mentre il salario reale medio cinese è cresciuto del 300% tra il 1990 e il 2005, con metà di questo incremento prodottosi tra il 2000 e il 2005. Questo può avere effetti profondi sulla profittabilità molto prima che i salari in Cina siano comparabili con quelli degli Stati Uniti. Per comprendere il punto può aiutare guardare a un semplice esempio numerico ipotetico: mettiamo che il salario di un lavoratore cinese sia un decimo del salario di un lavoratore statunitense e che il tasso di profitto per un'industria con un investimento relativamente piccolo di macchinari in Cina sia del 100%. Benché il raddoppio del salario del lavoratore cinese lo renda comunque solo un quinto di quello del lavoratore statunitense, mantenendo le altre variabili costanti, il tasso di profitto sarà caduto del 50%. Quindi, un incremento dei salari può causare un calo drammatico del tasso di profitto senza che i salari siano necessariamente uguali in termini di potere d'acquisto ai salari dell'Europa occidentale o del nord America. Il primo assaggio su larga scala di questo fenomeno nel periodo neoliberista fu la mobilitazione dei lavoratori in Corea e Indonesia che hanno costituito le basi per la famosa "crisi finanziaria asiatica" del 1997 (riportato in "One No, Many Yeses", MN, 1997) Il calo e la stagnazione dei salari medi negli Stati Uniti (sempre ad un livello relativamente alto in una prospettiva globale) è stato accompagnato da un incremento nei salari dei lavoratori asiatici, variazione che ha minato il tasso di profitto molto prima che questi diventassero equivalenti ai salari negli Stati Uniti. Livelli di profittabilità altissimi possono scomparire molto prima che i sobborghi residenziali, le auto e le borse di Gucci siano accessibili alle masse. Questo problema di "realizzare" il plus-valore, sfidando in attuali o futuri scontri i lavoratori che combattono per salari più alti e per un più grande potere sul luogo di lavoro, porta i capitalisti a calcare altre strade per guadagnare i tassi di rendimento che essi desiderano. Ma c'è un problema nascosto anche in questa manovra: la possibilità di incrementare il ricavo di interessi attraverso la finanziarizzazione è limitato dal plus-valore creato nella produzione e riproduzione all'interno del sistema capitalistico globale. La crisi nel settore finanziario nasce dallo scontro con questo limite. Dal momento che i guadagni finanziari sono – pure se indirettamente – in ultima istanza anche estratti dal lavoro reale, si può capire facilmente come un incremento modesto nei salari cinesi può soffiare sul castello di carte della finanza. (b) Il momento ecologico/energetico della crisi appare qui più direttamente. La riduzione del costo del capitale fisso può portare a un incremento del tasso di profitto, ma questo dipende in maniera cruciale dalla possibilità di "esternalizzare" il danno che questo causa (ossia, forzare coloro che sono danneggiati dall'inquinamento dell'estrazione di materie prime, dal cambiamento climatico causato dalla produzione industriale o dalle mutazioni genetiche prodotte dalla diffusione di OGM a sottomettersi silenziosamente e costantemente senza pretendere che tutto questo cessi). È solo quando si verifica un rifiuto di massa a questa esternalizzazione che le istanze ecologiche diventano "urgenti" e costituiscono un’"emergenza". A meno che non ci sia una lotta contro i danni e l'assunzione tacita dei costi, il danno ecologico è un fenomeno estetico come lo smog in un dipinto di Monet. Questa lotta è ora uscita dall’ombra e sta minacciando la profittabilità in tutto il sistema. C'è ormai un riconoscimento diffuso a livello mondiale che non ci troviamo semplicemente in un ennesimo round tra lavoratori e capitalisti per decidere come verrà organizzata l'economia; ci troviamo di fronte a un cambio climatico catastrofico e a un crollo sociale e ambientale generalizzato, in un mondo in cui la "civiltà del petrolio" ha collocato gran parte della popolazione mondiale in città e periferie degradate, che stavano raggiungendo il loro punto critico ben prima che la crisi prendesse piede. Prendiamo il caso del Messico, dove tante persone a malapena sopravvivono mentre lo Stato e gli altri oligopolisti della violenza restano calmi sull'orlo del precipizio, con i migranti che ritornano dagli USA... per cosa poi? Una comunità recentemente ha dato fuoco alle armi per togliere l'accesso all'acqua a un'altra che essi pensavano ne stesse prendendo troppa. Cosa accadrà quando – come gli scienziati predicono – la temperatura media a quelle latitudini sarà cresciuta di tre gradi, quando ogni estate sarà più calda della precedente? Affari così remunerativi non possono continuare. In fondo, nel suo zelo disciplinare, il capitalismo ha minato le condizioni ecologiche per così tante persone che si è diffuso uno stato di ingovernabilità globale, spingendo sempre più gli investitori a scappare nel mondo mediato della finanza, dove sperano di fare guadagni considerevoli senza affrontare direttamente le persone che devono sfruttare. Ma questo esodo ha semplicemente posticipato la crisi, dal momento che le lotte "ecologiche" sono combattute ovunque nel pianeta e stanno provocando un aumento inevitabile nel costo futuro del capitale costante. Così, da entrambi i punti di vista, rispetto ai salari e alla riproduzione ecologica, le lotte stanno portando a una crisi del tasso di profitto medio (e del tasso di accumulazione) imponendo un limite al procedere della finanziarizzazione. II. LA CRISI DEL NEOLIBERISMO: CAUSE E CONSEGUENZE La globalizzazione neoliberista era un progetto ambizioso. Se avesse raggiunto il suo scopo, la stessa definizione dell'umano sarebbe stata trasformata in quella di "animale che scambia e vende se stesso/a al miglior offerente"; la forza lavoro sarebbe stata riportata alla condizione che aveva nell'economia pre-keynesiana: quella di semplice merce che riceve il proprio valore dal mercato. Perché la globalizzazione neoliberista ha fallito? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tornare alle lotte che le popolazioni hanno condotto. Anche ammettendo che i lavoratori statunitensi attualmente non esprimano lo stesso livello di militanza che ebbero negli anni Trenta, in tutto il mondo sono sorti vasti movimenti che, a nostro parere, vanno riconosciuti come cause della crisi. Certamente, questi non costituiscono gli unici fattori e probabilmente neppure i più immediati. Non c'è dubbio, ad esempio, che la mancanza di regolamentazione delle transazioni finanziarie abbia rappresentato uno dei fattori, nella complessità non-lineare generata dalle operazioni finanziarie ad alto rischio sul mercato dei derivati, che ha reso instabili "i mercati". Tuttavia anche la de-regolamentazione finanziaria cominciata con Carter e continuata con Reagan, Bush, Clinton e Bush jr. è stata un momento nella lotta di classe. La de-regolamentazione è cominciata in risposta all'inflazione crescente legata – tanto nella realtà quanto nella mente dei decisori politici – al potere dei lavoratori statunitensi di alzare il valore monetario dei loro salari abbastanza in fretta da evitare, per tutti gli anni Settanta, che l'aumento dei prezzi da parte dei capitalisti (su cibo, energia, ecc.) diminuisse il potere d’acquisto degli stessi. Tale forza ha indebolito l'auspicata trasformazione dell'OPEC in un intermediario finanziario e la conversione dei petroldollari in strumenti per trasferire valore dal reddito dei lavoratori a investimenti finalizzati al profitto. I rapporti annuali dell'FMI di quel decennio rivelano che nel 1975 l'inflazione veniva identificata come il problema numero uno dell'economia mondiale. Un fattore determinante di quell'inflazione era rintracciato nella "rigidità strutturale del mercato del lavoro", espressione usata dall'FMI per indicare il potere dei lavoratori. Nel momento in cui Carter e Volckers entrarono in azione, l'accelerare dell'inflazione aveva portato molti tassi di interesse reali sotto lo zero, minacciando la sopravvivenza dell'intero sistema finanziario. La strategia della de-regolamentazione includeva, tra le altre cose, la rimozione in tutti gli Stati Uniti delle leggi anti-usura, per permettere d'innalzare i tassi di interesse verso la doppia cifra. Questa fu una risposta al doppio potere che avevano i lavoratori: alzare i salari e altre forme di reddito fino a minacciare i profitti – nonostante il ricorso del capitale alla manipolazione dei prezzi dei beni primari e ai tassi di cambio flessibili – ma anche bloccare ogni ripresa dei tassi di crescita in termini di produttività a livello della produzione. Molte delle lotte prodottesi negli Stati Uniti degli anni Settanta sono state alla fine sconfitte, ma da allora è sorta una nuova generazione di lotte contro la globalizzazione neoliberista che si sono dimostrate decisive sia negli Stati Uniti che a livello internazionale. Ci concentriamo su alcune di queste lotte per comprendere i nodi politici posti dalla Crisi. Schematicamente, le fonti della crisi vanno rintracciate nel: (1) fallimento dei cambiamenti istituzionali della globalizzazione neoliberista; (2) fallimento del tentativo di ristrutturare secondo regole neoliberiste il settore petrolifero/energetico; (3) l'incapacità di controllare le lotte sul salario (specialmente in Cina); (4) il sorgere di movimenti che reclamano terra e risorse (Bolivia, India, Delta del Niger); (5) la finanziarizzazione della lotta di classe attraverso l'espansione dell'uso del credito negli Stati Uniti per sopperire ai salari reali in diminuzione o in stagnazione; (6) l'inclusione di neri, latini, immigrati di prima generazione e donne nella "società dei proprietari", minaccia per la gerarchia di classe. (1) La globalizzazione neoliberista dipende da un sistema di leggi e regole che eliminano le barriere al commercio di beni e alle transazioni finanziarie, specialmente quelle che partono dagli Stati Uniti, dal Giappone o dall'Europa occidentale. Il processo di eliminazione di tali barriere cominciò nell'era keynesiana (con il GATT), ma ha preso forma istituzionale con la fondazione dell'Organizzazione Internazionale per il Commercio (WTO) nel 1994. Il WTO aveva un'ambiziosa agenda: realizzare la globalizzazione del commercio tradizionale e delle transazioni monetarie, ma anche dei servizi e della proprietà intellettuale. Sembrava che nulla potesse fermarne la realizzazione. Ciò invece accadde per la sorprendente convergenza di: (a) rivolte contro i Programmi di Aggiustamento Strutturale che si espandevano dallo Zambia nella metà degli anni Ottanta, a Caracas nel 1989, fino agli Zapatisti nel 1994; b) il movimento anti-globalizzazione in Europa occidentale e nord America, con le sue dimostrazioni di piazza e i blocchi agli incontri del WTO, dell'FMI, della Banca Mondiale e del G8; c) i molti governi del Terzo Mondo che si sono rifiutati di cedere gli ultimi resti della loro sovranità nazionale (specialmente sulla produzione agricola) in favore di organizzazioni come il WTO, l'FMI e la Banca Mondiale, dominate da Stati Uniti, Giappone ed Europa occidentale. Le loro motivazioni non erano semplicemente "patriottiche", ma avevano molto più a che vedere con il potere del movimento degli agricoltori sui propri territori e con la minaccia che questi rappresentavano per la loro stessa "sovranità nazionale". Il Doha Round del WTO alla fine è stato abbandonato soprattutto perché i funzionari del governo indiano non potevano concedere più nulla in materia di agricoltura – nonostante avrebbero volentieri accettato di sacrificare i loro contadini per qualche gingillo high-tech. I movimenti indiani (ma anche gli agricoltori filippini, coreani e bengalesi) hanno mobilitato decine e centinaia di migliaia di persone durante il decennio tra il 1998 e il 2008 per fermare il WTO. Per quanto fossero spesso inconsapevoli gli uni delle azioni e degli intenti degli altri, queste ribellioni, queste manifestazioni di strada e queste resistenze "dall'interno" hanno delegittimato l'ideologia della globalizzazione secondo cui "la terra è piatta" e il tentativo ad essa connesso di recintare4 quel che rimaneva dei mercati locali e dell'agricoltura di sussistenza. (2) Il secondo fallimento è corrisposto al tentativo, dopo il 1999, di rivitalizzare il tanto sbandierato progetto di globalizzazione neoliberista attraverso la guerra, in particolare con l'obiettivo di trasformare le industrie del petrolio e del gas in attività neoliberiste ideali, attraverso l'invasione e l'occupazione dell'Iraq (MN, 2002)5. Questo fallimento è stato causato da una resistenza armata che ha inflitto decine di migliaia di perdite alle truppe americane, subendo a sua volta centinaia di migliaia di morti e feriti. Questo ha avuto enormi conseguenze per la globalizzazione neoliberista. Per prima cosa, dopo sei anni di guerra in Iraq, il più basilare dei suoi settori – quello petrolifero e del gas – è ancora organizzato in Iraq come nel resto del mondo, secondo due modalità che rappresentano una bestemmia per la dottrina neoliberista, con le compagnie petrolifere nazionalizzate ed il cartello internazionale (OPEC) che cercano di influenzare il prezzo di mercato del petrolio. In secondo luogo, il leader del progetto neoliberista, gli Stati Uniti, è stato molto indebolito da questo sforzo, sia dal punto di vista militare che finanziario. Questo è diventato ancora più evidente quando il governo statunitense ha dichiarato vittoria (grazie all'operazione "The Surge"6) mentre contemporaneamente gli veniva 4 5 6 Cfr. Midnight Notes 10. 1990, The New Enclosures. Midnight Notes. 2002, “Respect Your Enemies—The First Rule of Peace: An Essay Addressed to the U. S. Anti-war Movement” Operazione con cui, nel gennaio 2007, il Presidente George W. Bush ordinò il dispiegamento di ulteriori 20.000 soldati in Iraq, al fine di garantire la sicurezza nelle province di Baghdad e Al Anbar. comunicato, dalle sue stesse “marionette” irachene, di lasciare il paese entro il 2011, smantellare le basi e non aspettarsi di vedere una "legge sul petrolio" di tipo neoliberista tanto presto! Di sicuro le "marionette" hanno parlato così duramente ai loro padroni perché temevano la reazione violenta del popolo iracheno al tentativo di svendere gli idrocarburi donati da Allah. (3) Il progetto neoliberista di "rifiuto dei salari" ha avuto abbastanza successo negli Stati Uniti, dove i salari reali non hanno più raggiunto l’apice del 1973. Questo è il motivo per cui non si può individure una causa della crisi attuale nella lotta statunitense per i salari, come si può fare per la crisi degli anni Settanta. Negli Stati Uniti, tutti gli indicatori tipici di tale lotta (come gli scioperi) sono diminuiti. Ci sono state alcune lotte di difesa che hanno avuto un certo successo nel limitare gli attacchi al reddito non salariale, come ad esempio quelle sulla previdenza sociale, l’assistenza sanitaria e i buoni alimentari. Vanno inoltre ricordate le lunghe lotte contro altre forme di attacco alla classe operaia, come quelle sul terreno dei diritti delle donne, della protezione ambientale ecc. In ogni caso, il progetto neoliberista dipendeva dalla possibilità di sfruttare la competizione sul mercato internazionale del lavoro, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. Questo progetto è fallito, specialmente nei riguardi delle nazioni asiatiche. In Corea e in Indonesia abbiamo assistito al suo fallimento durante la fase che ha condotto al crollo finanziario asiatico del 1997 (vedi MN, 1997). Da allora il più grande fallimento di questa strategia si è registrato in Cina, dove il livello delle lotte salariali ha assunto dimensioni storiche, con migliaia di scioperi e altre forme di blocco del lavoro, giungendo talvolta a ottenere aumenti del salario a doppia cifra. (4) Le "Nuove Recinzioni" hanno funzionato attraverso i Programmi di Aggiustamento Strutturale, fomentando guerre che avevano lo scopo di espropriare i popoli del Terzo Mondo dal loro attaccamento alla terra comune e alle sue risorse. Certamente, se è lecito assumere come indicatori la crescita del numero di immigrati e rifugiati, esse hanno allontanato milioni di persone dalle loro terre e dalle loro comunità in Africa e in molte parti delle Americhe. Ma c'è anche stata una forte risposta agli attacchi alle terre e alle risorse comuni in tutta l'Asia (in particolare in India e Bangladesh), in buona parte del sud America ed in alcune zone dell'Africa. Le guerre boliviane per l'acqua e il gas, svoltesi nell'ultimo decennio, hanno dimostrato chiaramente che privatizzare risorse vitali è un'impresa ad alto rischio. Il capitale si scontra con limiti simili nella produzione di petrolio nel Delta del Niger, dove è ora in corso una guerra di riappropriazione intrapresa da gruppi come il Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger (MEND); tali gruppi pretendono che le popolazioni del Delta, in conflitto con il governo nigeriano e le grandi compagnie petrolifere, siano riconosciute come proprietari comuni del petrolio che sta nel loro sottosuolo. In effetti, è stato raggiunto un limite politico nella ricerca e nell’estrazione del petrolio che Steven Colatrella ha giustamente chiamato "la curva politica di Hubbert"7. (5) La funzione principale della finanziarizzazione del capitale è stata quella di poteggere l'accumulazione dalla lotta della classe operaia, collocandola al di fuori della sua portata e fornendo una 7 La Curva di Hubbert, così chiamata dal geologo M. King Hubbert è una teoria scientifica che modella l'evoluzione della produzione di una qualsiasi risorsa minerale o fonte fossile esauribile o fisicamente limitata.È stata inizialmente intesa come modello per la stima della quantità di petrolio estraibile da un giacimento. Secondo questo modello, la quantità del petrolio estratto, e quindi prodotto, è determinata dalla velocità nello scoprire nuovi giacimenti petroliferi. Superato il punto di massima della funzione, (detto picco di Hubbert) si avrà un declino dell'estrazione di petrolio che tenderà infine a zero. Hubbert applicò per la prima volta il suo modello alla produzione petrolifera degli Stati Uniti, prevedendo con dieci anni di anticipo che questa avrebbe raggiunto il suo massimo all'inizio degli anni Settanta. copertura contro di essa, rendendo possibile per i capitalisti di scommettere contro il successo dei propri investimenti, per poi fornire un'assicurazione contro ogni imprevisto. Quale capitalista non desiderebbe, in cambio di una piccola somma, proteggersi dalla drammatica svalutazione della valuta del paese in cui sta investendo prodotta da un'ondata di scioperi generali o dalla bancarotta di una compagnia con cui ha rapporti per le richieste salariali dei lavoratori? Paradossalmente, però, il neoliberalismo ha spalancato una nuova dimensione di lotta tra il capitale e la classe operaia sul piano del credito. Infatti, un intero pacchetto di strumenti creditizi e di investimenti speculativi sono stati offerti ai lavoratori statunitensi: dai mutui sub-prime, ai prestiti d'onore per studenti universitari, alle carte di credito, fino all'erogazione di 401mila fondi pensione. I lavoratori li hanno usati come contrappeso alla loro incapacità di difendere il proprio potere collettivo sul luogo di lavoro per conseguire aumenti di salario significativi, garanzie per la pensione o cure mediche. Quest'impotenza li ha spinti ad affacciarsi nel mondo della finanza. Con lo smantellamento del cosiddetto welfare state, i lavoratori negli Stati Uniti sono stati costretti a pagare una porzione maggiore del costo della propria riproduzione (dalla casa al sistema sanitario all'educazione) nello stesso momento in cui i loro salari reali stavano crollando. I lavoratori hanno cercato di far fronte alle proprie necessità riproduttive attraverso il sistema creditizio. Questa disponibilità del capitale a "condividere" con i lavoratori il valore accumulato, rendendolo disponibile attrvaerso il credito, ha però una contropartita: i desideri dei lavoratori di accedere a questi mezzi di riproduzione (casa, auto, elettrodomestici ecc.) devono uniformarsi ai desideri di accumulazione dei capitalisti. Ma la "finanziarizzazione" non è semplicemente una trama capitalista; è essa stessa un processo e un prodotto della lotta di classe. C'è sicuramente un elemento di bisogno nella risposta dei lavoratori all'attacco alle loro condizioni riproduttive, ma senza bisogno non c'è neppure azione. L'ingresso nel sistema creditizio non è certo un paradiso per i lavoratori. Il prestito e il conseguente pagamento degli interessi comprime i salari, talvolta in modo consistente, così come il credito lega i lavoratori alla proprietà immobiliare e ai mercati azionari. Detto ciò, è un traguardo importante per i lavoratori poter "usare il denaro di qualcun'altro" per avere una casa senza preoccuparsi dell'aumento degli affitti; pagare il mutuo e le tasse per poter soddisfare oggi stesso il desiderio (vero o indotto) evocato da una merce; avere accesso a un'educazione che possa permettergli/le salari più alti in futuro; avere un'auto che renda possibile accettare un numero maggiore di lavori e stabilire una rete più ampia di contatti sociali nello scenario di solitudine che spesso caratterizza la vita negli Stati Uniti. Questa pericolosa strategia della classe operaia oscilla tra l'utilizzo del sistema creditizio per condividere il benessere collettivo e l'asservimento al debito! In qualche modo, senza averne “coscienza” né in modo organizzato (come molte delle cose che accadono nella società capitalistica), molti membri della classe operaia statunitense hanno collettivamente cercato di rovesciare contro il sistema stesso il progetto neoliberista di trasformare tutti in agenti "economici razionali", prendendo la retorica dell'amministrazione Bush sulla "società dei proprietari" alla lettera. Così facendo, hanno portato il sistema alla crisi attraverso l'implicita minaccia di rifiutarsi di pagare i propri debiti, lasciando ad esempio le chiavi nella cassetta delle lettere e andando via. Come è stato sottolineato molto tempo fa, se devi alla banca 1000 dollari e non puoi pagare, sei nei guai; ma se devi alla banca 1 miliardo di dollari e non puoi pagare, la banca è nei guai. La cosa che spesso non si dice è che se un milione di persone devono alla banca ciascuno 1000 dollari e non possono pagare, è sempre la banca a essere nei guai! La finanziarizzazione è stata pensata per fornire al capitale uno scudo contro le imprevedibilità della lotta di classe, ma ha accolto la classe operaia nel proprio seno. Questo tentativo del capitale finanziario di giocare su entrambi i lati dell'equazione (far pagare il capitale per proteggersi dalle lotte e allo stesso tempo includere gli agenti presumibilmente “addomesticati” di quella lotta nella macchina finanziaria) è uno degli elementi alla base della crisi contemporanea. Vero è che, nonostante la quota del debito totale nelle mani della classe operaia sia considerevole, essa è molto più piccola del debito statunitense, delle multinazionali o dello Stato. La sua qualità è però differente. Il debito delle multinazionali è intra-classe, ossia all'interno della stessa classe; il debito statale è onni-classe, ossia spalmato sull'intera gerarchia di classe; ma il debito della classe operaia è inter-classe, ossia tra due classi, ed è quello che potenzialmente crea la tensione più grande. (6) Questo doppio aspetto della finanziarizzazione è stato intensificato dalla lotta dei lavoratori precedentemente esclusi dall'accesso al credito (neri, latini, immigrati di prima generazione, donne single e bianchi poveri) per entrare nel circolo incantato dei mutui per la casa, dei debiti studenteschi e delle carte di credito. Il capitalismo finanziario nel ventunesimo secolo ha significativamente aperto le sue porte a questi nuovi creditori, che prima potevano fare prestiti solo a condizioni molto più onerose da strozzini e banchi dei pegni. Esso ha così risposto al loro desiderio di ottenere legalmente una casa, l'auto, beni di consumo desiderabili e lavori meglio pagati, ingurgitando però una pillola amara: mutui sub-prime i cui interessi si sarebbero gonfiati dopo tre anni, carte di credito i cui tassi di interesse si avvicinano a quelli degli strozzini, prestiti d'onore per gli studenti che avrebbero trasformato la laurea nella porta d'ingresso alla schiavitù salariata. La pressione di questi lavoratori per essere inclusi nel patto neoliberista – ossia l'accesso alla ricchezza sociale solo su base individuale e attraverso un reddito non salariale – ha ricevuto risposta positiva da parte del capitale nei primi anni del ventunesimo secolo. Questo è stato il punto iniziale della destabilizzazione del sistema del credito. L'approfondimento e la diffusione della circolazione del credito nella classe operaia mostrata ai punti (5) e (6) può essere considerata “lotta”? Si può ben contestarne la formulazione, visto l'immediato prosieguo della storia – milioni di pignoramenti e bancarotte ecc. Ma non c'è dubbio che c'è stata una lotta sulle condizioni di pagamento e di bancarotta (estese ai lavoratori), così come ci sono state lotte per una legislazione che "salvasse" i proprietari di casa dal pignoramento. Molti esponenti della Destra hanno considerato questa "rivoluzione del credito" come la causa della crisi, dal momento che ha permesso a troppi "immeritevoli" di entrare nel santuario del credito. Ma ciò non invalida la lotta concreta lanciata dai lavoratori neri dagli anni Sessanta in avanti contro le “redlining”8 e altre forme di discriminazione del credito. Dopo tutto, le lotte dei debitori sono state tradizionalmente centrali nell'analisi della storia di classe fin dai tempi antichi. Perché l'analisi di classe del ventunesimo secolo dovrebbe escluderle? Non intendiamo dare un giudizio di merito su questi sei momenti di lotta. Insieme a molti fattori congiunturali, essi si sono combinati nel creare una crisi di proporzioni storiche nel 2008. Il fallimento congiunto delle dottrine neoliberiste sul Salario e sulla Guerra, della Globalizzazione, delle Nuove Recinzioni, della Finanziarizzazione e della Crisi dell'Inclusione, non hanno prodotto solo la recessione economica; ma la contraddizione logica che le infesta sta trasformando la presente recessione in una crisi reale. È possibile che per tutto questo ci sia una "cura" nel futuro prossimo (come dimostrato dalla crescita del PIL), ma se le contraddizioni si approfondiranno e i fallimenti s'intensificheranno, il capitalismo potrebbe presto diventare "storia". 8 Si riferisce alla pratica bancaria di maggioranzione dei mutui verso individui appartenenti a una certa etnia, al fine di penalizzarli. IIIA. LA RISPOSTA IMMEDIATA DEL CAPITALE ALL'OPPORTUNITÀ DELLA CRISI Questa crisi fornisce al capitale un'opportunità per almeno tre aspetti: (i) la riorganizzazione del rapporto di forza tra il capitale finanziario e il resto del sistema, (ii) il disciplinamento della classe operaia degli Stati Uniti nei ruolo di debitore e attore nel sistema finanziario e (iii) la giustificazione del saccheggio ambientale, della riduzione dei salari e dell'espropriazione delle terre del Terzo Mondo attraverso un revival del paradigma "crisi del debito". Prendiamo in considerazione i punti uno alla volta: (i) L'agonia del capitale finanziario o la sua rinascita? Questa crisi inizia come una crisi finanziaria (ossia, come incapacità di saldare i debiti contratti col capitale e gli interessi ad essi correlati o di pagare per le scommesse effettuate dal capitale su grande scala e perse). Sebbene la maggior parte delle crisi abbiano un aspetto finanziario, questa è chiaramente una crisi che pone sfide fondamentali sul destino del sistema, poichè rende inevitabile una profonda trasformazione dell'ordine e della gerarchia all'interno dei settori e delle fasi del capitale. Sarà forse questa crisi (in cambio dell'enorme quantità di capitale che il settore finanziario pretende dallo Stato) l'occasione per chiedere una sospensione completa o almeno una regolamentazione draconiana di molte delle pratiche finanziarie (in particolare le CDO, obbligazioni di Debito Collateralizzato o le MBS, obbligazioni ipotecarie, i SIV, Veicoli di Investimento Strutturato, i CDS, Credit Default Swap, i derivati creditizi di ogni genere e forse anche la pratica delle operazioni bancarie offshore) il cui crollo ha messo in pericolo le operazioni quotidiane di attività industriali, commerciali e dei servizi, grandi e piccole? O sarà il capitale finanziario a tenere il resto del sistema in ostaggio con la minaccia di eliminare i canali di prestito e portare il sistema del credito a una battuta d'arresto, a meno di non ottenere la garanzia sui propri debiti dal governo alle proprie condizioni? Vediamo un aspetto di questo conflitto nella controversia tra il "salvataggio" delle "Tre Grandi" aziende automobilistiche e il sostegno quasi unanime, al più alto livello di governo (dall'amministrazione Bush all'amministrazione Obama), per le grandi banche (Citigroup), le compagnie di assicurazione (AIG) e perfino le società d'investimento (Bear Stearns). L'enorme polemica – e le condizioni, ormai potenzialmente fatali, imposte a GM e Chrysler – su quella che è oggi una somma relativamente modesta rispetto ai miliardi rapidamente concessi per AIG, è un segno che il capitale finanziario ha ancora il controllo sugli elementi più alti dello Stato. Ma questo è solo il primo round di una battaglia di lungo periodo che porterà, se il capitalismo sopravviverà, all'instaurarsi di un ventunesimo secolo ibrido tra due poli: (a) un regime normativo particolarmente rigoroso imposto sulle innovazioni finanziarie, con il capitale liberato dal settore finanziario e diretto verso una nuova ondata di investimenti in progetti di "energia verde" (dalle turbine eoliche, alle tecnologie del carbone pulito, fino alle centrali nucleari) e biotecnologie, oppure (b) una vittoria del settore finanziario, la definitiva "de-industrializzazione" degli Stati Uniti e la riconciliazione universale con un regime di bolle speculative e crolli finanziari. Il primo polo tratteggia un esito che ricorda precedenti periodi di recupero da momenti di intensa "finanziarizzazione" e speculazione, come il "Bubble Act" 9 del 1720 in Gran Bretagna dopo la 9 Legge approvata dal parlamento della Gran Bretagna dopo il crollo della borsa del 1720, avvenuta in seguito alle forti speculazioni sui titoli della South Sea Company. Il Bubble Act subordinava la creazione delle Società per Azioni esclusivamente al parlamento, impedendo in questo modo la formazione delle Bubbles, SpA minori che, entrando nel mercato finanziario inglese, esercitavano una forte concorrenza alla South Sea Co. e alle compagnie maggiori. Bolla dei Mari del Sud e la riscoperta, da parte della borghesia francese, degli investimenti in oro all'indomani della bolla del 1720 del Mississippi, fino al Glass-Steagall Act 10, successivo al crollo della borsa del 1929. Si tratta di un ritorno al keynesismo ma con caratteristiche "verdi" e senza stati comunisti armati di bombe nucleari, la cui esistenza è stata invero utilizzata dai lavoratori degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale come una minaccia costante per i capitalisti. La seconda alternativa delinea uno scenario che realizza, amaramente, il lato inconsciamente anticapitalista del motto di Margaret Thatcher ("Non c'è alternativa") quando questo viene applicato all'egemonia del settore finanziario nel capitalismo neoliberale, con la sua infernale conclusione: il mercato è il migliore (in quanto l'unico) modo di allocare le risorse del pianeta, anche se porta a un ciclo sempre più accellerato di boom economici, bolle finanziarie, fallimenti e depressioni. Possono gli Stati Uniti diventare, nei primi anni del ventunesimo secolo, qualcosa di simile alla Gran Bretagna del tardo ventesimo secolo, cioè reggersi senza una significativa produzione manifatturiera o agricola alla base dell’economia (lasciando questa parte della divisione del lavoro alla Cina e ad altri continenti pieni di manodopera a basso costo)? In altre parole, o il settore finanziario sarà "nazionalizzato" o la nazione verrà "finanziarizzata" (o possibili combinazioni di entrambi). Entrambe le alternative da sole sono ugualmente improbabili. Chimere di un keynesismo utile a ravvivare la base industriale (con un ampio settore "verde") e una nuova ondata di neoliberismo riformato che cerca di rilegittimare le avventure del capitale finanziario verrano assemblate, a meno che non emerga un'altra forza in campo capace di utilizzare la crisi per forgiare una via d'uscita dal capitalismo. Nel breve periodo, le politiche keynesiane e "verdi" saranno imposte, forse complice il fatto che i movimenti di capitali (con cui politiche keynesiane spinte ad un certo livello non sono conciliabili) sono di modesta entità a causa del contesto di crisi attuale. La regolamentazione sarà in parte implementata e infine, dopo il raggiungimento della crisi più profonda, verrà proposta una parziale riconciliazione con un regime di bolle speculative e crolli finanziari. (ii) I lavoratori statunitensi come debitori Karl Marx, il grande analista anticapitalista del diciannovesimo secolo ha visto il capitale finanziario unicamente in relazione ai capitalisti. Scrisse sinteticamente negli anni Sessanta del 1800: "L'interesse è un rapporto tra due capitalisti, non fra capitalista e lavoratore". In altre parole, l'interesse è qui definito come un reddito versato in favore di un capitalista finanziario, sulla base del denaro da questi prestato. Come il prestito venga rimborsato con gli interessi è irrilevante. L'interesse è logicamente autonomo dal processo di produzione (anche se per Marx esso dipende in maniera vitale dallo sfruttamento dei lavoratori in qualche parte del sistema). Particolarmente interessante per noi è il fatto che Marx scrive come se i lavoratori non ricevessero mai prestiti e non pagassero interessi. Questo è un dato importante, poiché il sistema del credito è una specie di comune capitalista, in quanto offre al capitalista (o alla persona che passa per tale) "un comando assoluto sul capitale e sulla proprietà altrui, entro certi limiti, e, attraverso questo, il comando sul lavoro di altre persone". Il valore separato dai suoi proprietari diventa una risorsa comune che, anche se astratta, dà un enorme potere a coloro che possono accedervi. Questo potere non doveva essere condiviso con i lavoratori, almeno non nel 10 Legge bancaria varata dal Congresso degli Stati Uniti nel 1933 in risposta alla crisi finanziaria del 1929. Tra le misure più importanti: l'istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation, finalizzata a garantire i depositi, prevenire corse agli sportelli delle banche e ridurre il rischio di panici bancari; l'introduzione di una netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Abrogata di fatto nel 1999 con la promulgazione della GrammLeach-Bliley Act. diciannovesimo secolo. Marx ha azzeccato molte cose sul futuro del capitalismo ma non è riuscito a vedere l'assorbimento della classe operaia, nullatenente ma salariata, nel sistema finanziario. Quando guardava al debito dei lavoratori, egli vedeva solo banchi di pegno. Dal momento che i lavoratori non avevano quasi nessuna proprietà che potesse essere utilizzata come garanzia per ottenere prestiti dalle istituzioni finanziarie, né avevano risparmi da utilizzare come depositi in banca, non sono mai stati riconosciuti come attori diretti del mondo della finanza. In realtà, molte organizzazioni di mutuo soccorso e cooperative di credito sorsero nel diciannovesimo secolo, perché le banche e gli altri istituti finanziari consideravano come clienti solo i capitalisti (grandi e piccoli) o anche perché i lavoratori erano troppo sospettosi di consegnare i loro sudati risparmi nelle mani dei capitalisti finanziari. Questo non è più vero. I fondi pensione dei lavoratori sono un'enorme fonte di capitale per il sistema e i loro debiti costituiscono una larga fetta del debito totale negli Stati Uniti (il debito delle famiglie è circa il 30% del debito totale negli Stati Uniti). Di conseguenza, quando si parla di crisi finanziaria nel ventunesimo secolo, dobbiamo parlare sia di conflitto tra classi sia di conflitto tra capitalisti. Come osservato nella sezione precedente, i lavoratori nel patto neoliberista hanno utilizzato il credito per entrare nel regno dei redditi non salariali, ossia per ottenere l'accesso a quella risorsa comune di valore che in precedenza era stata privilegio esclusivo dei capitalisti. In tal modo, essi hanno rappresentato una minaccia e un'opportunità collettiva per il capitale. La domanda è: può il capitale funzionare nel ventunesimo secolo senza un'ampia partecipazione della classe operaia al sistema del credito? Può il capitale tornare ai tempi precedenti "la vita a rate" e fare nuovamente del credito il regno dei soli capitalisti? Molti sono scettici sia ad un preciso "Sì" che ad un deciso "No", per ottime ragioni, dal momento che il carattere ambiguo della finanziarizzazione che abbiamo analizzato sopra non può essere facilmente "corretto." Bloccare completamente (o anche solo in modo discriminante) l'accesso della classe operaia al valore delle merci, delle case e dell'educazione, attraverso il credito e senza tornare alla lotta salariale, potrebbe comportare un livello inaccettabile di lotta di classe; ma riavviare la macchina con la classe operaia che possiede lo stesso accesso al credito di prima della crisi, potrebbe comportare una ripetizione dello stesso ciclo e della lotta in tempi brevi. Questo è il dilemma dei capitalisti e servirà loro un bel po’ di tempo per risolverlo. Ma questo processo non è semplicemente una decisione nelle mani del capitale; gran parte del risultato risiede nelle azioni di quella sfinge che è la classe operaia mondiale. Questo dilemma intensifica l'osservazione che fu di Marx sul "carattere duale" del sistema creditizio: "da un lato esso sviluppa l'incentivo alla produzione capitalistica, ossia l'arricchimento attraverso lo sfruttamento del lavoro altrui, nella più pura e più colossale struttura di speculazione e truffa, restringendo sempre più il già esiguo numero di sfruttatori della ricchezza sociale complessiva; d'altra parte, però, esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo modo di produzione". Infatti, la richiesta che i lavoratori hanno fatto in modo sempre più incalzante, di accedere tramite il sistema creditizio alla ricchezza accumulata che la loro classe ha prodotto, contiene anch'essa i semi di "una transizione verso un nuovo modo di produzione", sebbene esso pure sia incorporato in un sistema altrettanto colossale di speculazione e truffa. (iii) La crisi fuori dagli Stati Uniti e dall'Europa occidentale: il ritorno dell'FMI e della Banca Mondiale L'importanza del debito come arma nella lotta di classe non è nuova. È stato evidente nella "crisi del debito" dei primi anni Ottanta, quando i contadini africani e i lavoratori sudamericani sono stati soggiogati con enormi debiti attraverso l'erogazione di mutui a tasso di interesse variabile, negoziati alle loro spalle dai governi dittatoriali dei loro paesi negli anni Settanta, quando i tassi di interesse reali erano bassi (e in alcuni casi addirittura negativi). Ma nel 1979 i tassi di interesse salirono alle stelle, lasciando contadini e operai a sostenere il pagamento di debiti che erano complessivamente molti multipli dei PIL dei loro paesi. In questo è consistita la "crisi del debito" dei primi anni Ottanta, che ha permesso di spremere una quantità enorme di plusvalore da Africa, Sud America e Asia fissando enormi interessi sui loro vecchi prestiti e facendo contrarre loro nuovi prestiti erogati da FMI e Banca Mondiale per pagare i vecchi prestiti, a condizione che questi governi adottassero Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAP). I SAP hanno permesso l’apertura forzata di economie precedentemente chiuse; d'indebolire in modo sostanziale le classi lavoratrici dei paesi presi di mira e consentire ai capitalisti statunitensi, giapponesi e dell'Europa Occidentale di accedere ai lavoratori, alla terra e alle materie prime a costi estremamente bassi. Tali programmi sono stati il fondamento di quella che divenne nota come "globalizzazione". L'FMI e la Banca Mondiale furono le sue agenzie di controllo centrali, piegando quei paesi che minacciavano di rifiutarsi di giocare secondo le regole del "libero commercio". Fino a dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997, i paesi dell'ex-Terzo Mondo dominati per mezzo dei Programmi di Aggiustamenti Strutturale hanno fornito gran parte del flusso di capitale atto a finanziare il boom abitativo e azionario degli anni Ottanta e Novanta. In seguito, la Cina si è rivelata capace di svolgere questo compito praticamente da sola. Tutto questo è avvenuto a fronte di una lotta tremenda svoltasi tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni 2000: centinaia di quelli che divennero poi noti in tutto il pianeta come "riot dell'FMI" e rivoluzioni armate che forzavano continuamente l'FMI, la Banca Mondiale, i governi degli Stati Uniti e delle nazioni europee occidentali a rinegoziare i prestiti, cambiarne le condizioni e persino a cancellarli. La lotta contro i SAP è diventata internazionale, estendendosi dalle foreste del Chiapas fino alle strade che circondano le sedi dell'FMI e della Banca Mondiale a Washington. Inoltre, a partire dall'aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime verificatosi all'inizio del ventunesimo secolo, l'FMI e la Banca Mondiale venivano evitati dai loro ex "clienti" (quelli che prima erano definiti "schiavi del debito"). Questo è stato particolarmente vero per molti paesi produttori di petrolio come l'Algeria, la Nigeria e l'Indonesia che erano in grado di pagare una parte sostanziale dei loro vecchi prestiti e/o di attrarre finanziamenti al di fuori dei Programmi di Aggiustamento dell'FMI e della Banca Mondiale, come per esempio nel caso del prestito che l'Argentina ha ottenuto dal Venezuela. Sebbene il debito estero totale per molti paesi non sia stato ridotto (o sia addirittura cresciuto), il ruolo di monopolio dell'FMI e della Banca Mondiale è stato frantumato, rendendo possibile per molti paesi di ignorare le "raccomandazioni" draconiane di queste agenzie. La crisi però, ancora una volta, può cambiare i rapporti di forza attraverso il prosciugamento delle fonti alternative di finanziamento (ad esempio, il governo venezuelano avrà difficoltà a concedere prestiti a una nazione sudamericana in via di fallimento nel nuovo contesto venutosi a creare). Di conseguenza, si potrà assistere ad una rinascita del potere del FMI e della Banca Mondiale in qualità di prestatori globali di credito di ultima istanza, con tutto il potere che tale ruolo comporta. Questo perché il debito estero di molti paesi è lungi dall'essere scomparso e sotto la pressione della crisi esso aumenterà drammaticamente. I governi dei G20 hanno infatti deciso di ampliare le riserve dell'FMI a 1 trilione di dollari e l'FMI ha già imposto requisiti simili agli Aggiustamenti Struttrali a diversi stati in bancarotta dell'Europa orientale. Tornare allo schifo dei SAP sarebbe una sconfitta storica ed un invito a una nuova ondata di neo-colonialismo. Un mezzo di cui il capitale si avvale per uscire dalla crisi è il riscaldamento globale, nonostante esso ponga un limite ecologico alla crescita forzata dei regimi capitalistici. Imperterriti, i consueti decisori del Nord (tra cui la Banca Mondiale) stanno investendo in una serie terribile di "soluzioni" al riscaldamento globale nel Sud, invece che ridurre le cause delle emissioni del Nord. Gli agrocarburanti (esemplari geneticamente modificati di soia, palma africana, canna da zucchero, jatropha, e ogni genere di mostruosità OGM futura) minacciano i contadini meridionali con recinzioni ancora più grandi. La metà dei terreni coltivabili dell'Argentina è già un "deserto verde" di soia geneticamente modificata, senza parlare del Paraguay e del Brasile, mentre la palma africana ha sostituito una percentuale enorme di foreste in Indonesia e viene ora utilizzata per attaccare le comunità di origine africana che vivono in Colombia. L'India ha in programma più di 1 milione di ettari di jatropha (il che significa l'espulsione di circa altrettanti contadini). E la Nigeria parla di agricoltura industriale per contrastare le lotte per il petrolio e per la terra nel Delta del Niger. La crisi concentrerà più potere nelle mani della Banca mondiale e dell'FMI per aprire le economie del terzo mondo a un numero sempre maggiore di progetti di questo tipo, (re)introducendo allo stesso tempo programmi di austerità che smantellano il sistema educativo già insufficiente, la salute e i servizi sociali. Ad esempio, il commercio di quote di emissioni inquinanti consentirà al Nord di continuare a inquinare, mentre finanzia le dighe e altri "grandi" progetti di sviluppo nel Sud. Attraverso l'FMI, i SAP e lo "sviluppo", il "Sud globale" sarà messo a disposizione per integrare, se non addirittura per sostituire, i lavoratori cinesi che hanno reclamato salari più alti. Bisogna riconoscerlo ai capitalisti: cercano di tirare fuori dollari da qualsiasi cosa, anche dalla fine del mondo! IIIB. LA RISPOSTA DELLA CLASSE OPERAIA ALLA CRISI11 Uno dei misteri di questa crisi è stata la risposta tardiva e sporadica dei lavoratori degli Stati Uniti alle sue gravi implicazioni. Poche azioni hanno individuato direttamente la crisi finanziaria ed economica come spunto per organizzare opposizione al sistema negli Stati Uniti (ad esempio, non è stata convocata nessuna grande manifestazione a Washington per protestare contro le conseguenze della crisi). Possiamo citare l'occupazione della fabbrica Republic Window and Door da parte dei lavoratori, i quali pretesero e ottennero un'indennità di fine riapporto dimostrando che, nonostante Bank of America fosse la banca di supporto del loro datore di lavoro, non aveva elargito un prestito per mantenere la fabbrica in vita. Ci sono state azioni contro i pignoramenti e occupazioni organizzate in una vasta gamma di località: Boston City Life 12 ha effttuato diversi blocchi di sfratti imposti dalle banche; IAF13 a Los Angeles ha istituito un gruppo per affrontare le banche collettivamente; nella zona di Miami "Take Back the Land"14 sta occupando case di periferia pignorate o abbandonate per le famiglie sfollate; ACORN15 è stata attiva nella baia di San Francisco e di altre aree nell'organizzare forme di resistenza ai pignoramenti. Tuttavia, vi è una discrepanza tra numero ed entità di tali azioni e gravità della crisi. 11 12 13 14 15 Questo capitolo è necessarimente il più incompleto e datato dell'intero testo, perché scritto in un momento (inizio 2009) in cui le risposte di massa al riemergere della crisi erano appena abbozzate. Alcuni componenti di Midnight Notes, come Silvia Federici e George Caffentzis, hanno partecipato attivamente al movimento Occupy. Un''analisi-bilancio dei nodi emersi e dei limiti di questa esperienza si trovano in G. Caffentzis. 2012, “In the desert of cities: notes on the Occupy movement in the US” (http://www.reclamationsjournal.org/blog/?p=505). http://www.clvu.org. http://www.industrialareasfoundation.org http://takebacktheland.org http://www.acorn.org La campagna elettorale di Obama ha indubbiamente assorbito enormi energie politiche, dirigendole lontano dalla strada, all'interno del percorso elettorale. Ha chiaramente fatto appello a una vasta porzione di quella che lui chiama "la classe media", offrendo la prospettiva di un'uscita non rivoluzionaria dalla crisi. La sua candidatura ha rappresentato un colpo di fortuna a breve termine per il sistema e senza dubbio gli farà guadagnare tempo prezioso nel prossimo futuro; ma tuttora resta la minaccia di ciò che potrà succedere in seguito al mancato riavvio della macchina dell'accumulazione, dopo aver tanto audacemente evocato la speranza in una ripresa del capitalismo che non comportasse enormi sacrifici per la classe operaia. In tutto il mondo, negli ultimi anni, vediamo tuttavia un poderoso aumento dell'azione della classe operaia sotto forma di proteste contro gli aumenti dei prezzi del cibo e dell'energia che facevano parte dei meccanismi di speculazione finanziaria che hanno portano alla crisi. Vediamo in Cina l'inizio di uno dei momenti più decisivi della crisi: la classe operaia cinese abbandonerà le città quando il capitale glielo ordinerà e farà ritorno ad una campagna privatizzata? In Europa la gente ha reagito in maniera particolarmente forte e rapida alla crisi, soprattutto nelle sue periferie meridionali (Italia, Spagna e Grecia) e settentrionali (Irlanda, Islanda, Lettonia). In Italia ripetute ondate di scioperi, tendenti allo sciopero generale, hanno mobilitato letteralmente milioni di lavoratori in tutto il paese. In Spagna, un paese in cui la speculazione abitativa e il boom delle costruzioni è in rapido disfacimento e sta causando grande sfacelo sociale, il 15 novembre ci fu una grande giornata di protesta in tutto il paese in risposta alla riunione del G20, svoltasi a Washington con lo scopo di puntellare il sistema finanziario internazionale. Inoltre, i lavoratori bancari hanno messo in scena l'occupazione del ramo principale della banca BBVA. E, a pochi giorni dal crollo della Lehman Brothers, "Robin-Bank" ha annunciato di aver rubato quasi mezzo milione di euro da 38 banche spagnole per dare i soldi ai movimenti sociali di emancipazione. In Grecia, rivolte di massa e proteste sono state scatenate dall'uccisione di Alexis Grigoropoulos da parte della polizia, ma hanno anche coinciso con uno sciopero precedentemente dichiarato dai due maggiori sindacati. Il tutto si è trasformato in molte giornate di grande rivolta sociale, in un paese dove la disoccupazione giovanile raggiungeva in alcuni luoghi il 70%, già da prima che gli effetti della crisi economica mondiale si facessero sentire. È importante sottolineare che, in tutti e tre i paesi, uno slogan comune è emerso in un brevissimo lasso di tempo: "Non pagheremo noi la vostra crisi." Come annunciato in un volantino distribuito dai movimenti di lotta greci: "Nulla sarà più come prima". Esso esprime un livello di rivolta contro le condizioni di degrado, sfruttamento ed esclusione che la crisi indubbiamente non mancherà di intensificare, in Grecia come altrove. Islanda, Irlanda, Francia, Lettonia, Bulgaria e un certo numero di altri paesi europei sono stati teatro di manifestazioni di massa, rivolte, cadute di governi e di una rinascita di movimenti anticapitalisti che era rimasta in sospeso per decenni. IV. LA COSTITUZIONE DEL COMUNE NELLA CRISI: MANGIARE DAL PIATTO DI TUTTI CON UN SOLO CUCCHIAIO Le lotte circolano e quelle apertesi contro le conseguenze della crisi presto esploderanno anche negli Stati Uniti. Quella che era inizialmente apparsa come crisi finanziaria, poi trasformatasi in crisi economica, verrà presto definita "crisi politica". La distruzione abietta che i capitalisti hanno creato con la loro "gestione" dei due grandi comuni del pianeta, l'eco-sistema e il lavoro, smetterà di essere considerata come "la tragedia del comune"16 (di cui nessuno è responsabile) finendo per de-legittimare la classe capitalistica nel suo insieme. Queste crisi sono state fondate sul presupposto che il lavoro e l'ecosistema planetario sono risorse comuni, disponibili a essere usate e abusate per il profitto di chi ha (o fa finta di avere) il capitale per appropriarsene. La classe capitalista non è in grado di controllare l'intero insieme delle risorse comuni che compongono i nostri mezzi di produzione e sussistenza, senza creare danni irreparabili. Chi può fare di meglio? Anche se molti lavoratori negli Stati Uniti potrebbero non essere all'altezza della sfida di oggi e continuano a individuare nei loro capi gli artefici della propria salvezza, noi dovremmo comunque riconoscere ciò che la logica delle lotte indica. Lasciamoci guidare dalle parole di Thomas Paine ne Il senso comune dove notava che, in un precedente periodo di crisi rivoluzionaria, la maggior parte delle persone era a favore dell'indipendenza nei giorni precedenti la sua Dichiarazione. "Dobbiamo trovare il momento giusto", dicevano. Paine rispose: "Il tempo ci ha trovato!" La crisi ha dimostrato a tutti coloro che hanno occhi per vedere che Stato e Mercato hanno fallito nella loro pretesa di fornire una riproduzione sicura delle nostre vite. I capitalisti hanno dimostrato (questa volta in modo definitivo) che non sono in grado di fornire i mezzi minimi per condurre una vita dignitosa neanche nel cuore del sistema capitalistico, ma tengono in ostaggio la ricchezza che generazioni hanno prodotto. Questo insieme di lavoro passato e presente è il nostro comune. Abbiamo bisogno di liberarlo, per riappropriarci di quella ricchezza, riunendo tutti coloro che ne sono stati espropriati, a partire dal popolo dei nativi americani e dai discendenti degli schiavi, ancora in attesa dei loro "quaranta acri e un mulo" 17 o di un valore equivalente. Abbiamo anche bisogno di costruire forme collettive di vita sociale e di cooperazione, al di là del mercato e del sistema del profitto, sia nella sfera della produzione che della riproduzione. E abbiamo bisogno di ritrovare il senso della totalità della nostra vita, l’interezza di ciò che facciamo, in modo da smettere di vivere in uno stato di irresponsabilità sistematico, favorito dal capitalismo, verso le conseguenze delle nostre azioni: buttare via tonnellate di spazzatura senza pensarci due volte, anche se abbiamo il sospetto che diventerà cibo per alcune persone, oppure gettare fumo nei polmoni di qualcun'altro o anidride carbonica nell'atmosfera di tutti. Questo è il punto di vista costituente che possiamo portare in ogni lotta. Col termine "costituente" non ci riferiamo a un documento che descrive il progetto di uno Stato ma alla costituzione del comune, ovvero alle regole che usiamo per decidere come vogliamo condividere le nostre risorse comuni. Come dicono i nativi americani, per mangiare collettivamente da un piatto con un solo cucchiaio, dobbiamo decidere chi ottiene il cucchiaio e quando. Questo è vero per tutte le forme di comune; un comune senza una comunità consapevolmente costituita è impensabile. Questo significa che dobbiamo realizzare una serie di obiettivi in grado di articolare una visione d’insieme spendibile in qualsiasi contesto di lotta di classe, rovesciando ogni volta i rapporti di forza a sfavore del capitale. In primo luogo, abbiamo bisogno di stabilire ciò che viola le nostre regole mentre stiamo costituendo il comune. Quello che segue è un esempio di tali tabù immediatamente riconoscibili. 16 17 Qui il riferimento all'articolo di Garrett Hardin del 1968, The Tragedy of Commons, che per primo impostò teoricamente il dibattito sui commons. Cfr. l'Appendice al testo. Espressione usata per indicare il risarcimento che doveva essere assegnato agli schiavi afro-americani liberati dopo la guerra civile: 40 acri (16 ha) di terra coltivabile, e un mulo con il quale trascinare l'aratro per coltivarla. Fu il prodotto dello Special Field Orders, No. 15, emanato il 16 gennaio 1865 dal Maggiore Generale William T. Sherman, e si applicava alle famiglie nere che vivevano vicino alla costa della Carolina del Sud, della Georgia e della Florida. Non possiamo vivere in un paese: • • • • • • dove 37 milioni di persone soffrono la fame; dove il costo di un intervento chirurgico lascia la gente senza casa; dove andare a scuola avvelena la mente delle persone e le costringe alla schiavitù del debito; dove si congela in inverno, perché non si può pagare la bolletta del riscaldamento; dove si torna a lavorare a 70 anni perché si è stati defraudati della pensione; e dove il lavoro che produce morte e che uccide gli stessi lavoratori è spacciato come un percorso di "piena occupazione". Questi sono tabù molto elementari, ma devono essere pronunciati ad alta voce. Anche se il sistema ha dimostrato di essere in bancarotta, molti ancora ascoltano i canti delle sue sirene. È giunto il momento, per noi nel movimento anti-capitalista, di proporre una costituzione di delle regole con cui condividere il comune del lavoro passato e le risorse naturali del presente, per poi concentrarsi sulla costruzione di reti politiche in grado di realizzarle. Nei momenti di congiuntura rivoluzionaria che hanno attraversato la storia degli Stati Uniti (come la Guerra Civile, la Grande Depressione, il Movimento per i Diritti Civili degli afro-americani e quello seguente per il Black Power), la pretesa di un cambiamento fondamentale nella costituzione si è manifestata all'interno della classe operaia attraverso l'azione (lo "sciopero generale" durato anni degli schiavi nel Sud durante la Guerra Civile, gli innumerevoli scontri di fabbrica, i "sit-in” e le "calde" insurrezioni estive che si estendevano di città in città) venendo poi di volta in volta "catturata" da una legge o da "un emendamento costituzionale" (come gli emendamenti 13 e 14, il Wagner Act18, il Voting Rights Act19). Ma la storia degli Stati Uniti non è la sola a collegare crisi, transizione rivoluzionaria e costituzione. Recentemente, negli ultimi due decenni, c'è stato un turbinio che ha sconvolto la politica costituzionale delle Americhe a sud del Rio Bravo. Dalla chiamata degli zapatisti per una nuova costituzione messicana, alle molte trasformazioni costituzionali succedutesi in Venezuela, fino alla più recente costituzione boliviana che riconosce formalmente i beni comuni20, vi è stato un riconoscimento formale del concetto di Potencia (o "potere di") in sostituzione del concetto di Poder ( o "potere su"). È proprio a questo spirito che gli zapatisti, nella Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona (2005), hanno fatto riferimento: “Ci stiamo anche muovendo per sollevare una lotta che esiga una nuova Costituzione; nuove leggi che prendano in considerazione le richieste del popolo messicano, che sono: casa, terra, lavoro, cibo, salute, educazione, informazione, cultura, indipendenza, democrazia, giustizia, libertà e pace. Una nuova Costituzione che riconosca i diritti e le libertà del popolo, e che difenda i deboli di fronte ai potenti." Dovremmo formulare richieste, obiettivi, programmi di lotta sugli aspetti più importanti delle nostre vite – casa, lavoro, reddito – per garantire i nostri mezzi di sussistenza, la costruzione di cooperazione e di solidarietà, la creazione di alternative alla vita nel capitalismo. Abbiamo bisogno di costruire un movimento che metta all'ordine del giorno la sua stessa riproduzione. Dobbiamo fare in 18 19 20 Conosciuto anche come National Labor Relations Act of 1935, è lo statuto fondativo della legislazione statunitense in materia di lavoro. Riconosce i diritti di base ai dipendenti del settore privato: la possibilità di organizzarsi collettivamente, di associarsi in sindacati e di eservitare forme di azione colelttivo, tra cui lo sciopero. Legge del 1965 che ha permesso ai cittadini neri degli Stati Uniti d'America, di poter votare alle elezioni che si svolgevano nel paese. Promotore di questa legge è stato Martin Luther King. Qui preferiamo utilizzare la dicitura “beni comuni” perché quanto riconosciuto dalla Costituzione boliviana approvata dal governo Morales attiene a specifici beni comuni naturali come l'acqua e il gas. modo di sfidare il capitale non solo in occasione della manifestazione o del picchetto, ma collettivamente in ogni momento della nostra vita. Quello che sta accadendo a livello internazionale dimostra che solo quando si hanno queste forme di riproduzione collettiva, quando si hanno cioè comunità che si riproducono collettivamente, solo allora possono nascere lotte che si muovono in modo molto radicale contro l'ordine costituito. Questa è la nostra politica costituente. Non è una lista di richieste o reclami, ma l'espressione di ciò che stiamo diventando, di come vogliamo costituire il nostro essere. Per esempio: cominciamo a garantirci l'un l'altro la casa. Ciò significa non solo "No" agli sfratti, ma la rioccupazione di case che sono state abbandonate, la distribuzione o l'occupazione del patrimonio abitativo vuoto che si trova intorno a noi (una decisione collettiva di questo tipo di auto-riduzione del canone di locazione è stata fatta in Italia negli anni Settanta); la creazione di nuovi alloggi che siano organizzati collettivamente e costruiti ecologicamente. In mancanza di questo, dovremmo costruire la nostra versione di “aree per senzatetto” sui gradini della Casa Bianca, aprire cucine lì di fronte, mostrare al mondo le nostre tasche vuote e le nostre ferite, invece di agonizzare in privato. Per esempio: cominciamo a far diventare la lotta per l'abitare una lotta per la riorganizzazione del lavoro riproduttivo della vita quotidiana su base collettiva. Ne abbiamo abbastanza di passare il tempo nelle nostre gabbie solitarie, con i viaggi al centro commerciale come culmine della nostra socialità. È tempo per noi di riunirci con coloro che fanno rivivere la nostra tradizione di esseri collettivi, cooperativi. Questo "anno zero" della riproduzione che la crisi capitalistica sta creando, come si evince dal proliferare di città-tendopoli dalla California alla Carolina del Nord, è un buon momento per iniziare. Per esempio: cominciamo a lottare in modo tale da disattivare i meccanismi che perpetuano il nostro sfruttamento e le nostre divisioni. Per garantire che le nostre lotte non siano usate per dividere le persone sulla base di un differenziale di premi e punizioni elargite, dobbiamo sollevare continuamente la questione del risarcimento, vale a dire del prezzo che è stato pagato e che continua ad essere pagato per il patto razzista, imperialista, sessista, sciovinista, discriminante verso gli anziani ed ecologicamente distruttivo, che i lavoratori statunitensi hanno accettato. Per esempio: cominciamo a chiedere una vita in cui la nostra sopravvivenza non dipenda da una guerra costante contro altri popoli della terra e contro i nostri stessi giovani. Dobbiamo esprimerci contro la guerra in Iraq e in Afghanistan, contro il massacro in Palestina. Per esempio: cominciamo a parlare contro le prigioni, la politica di incarcerazione di massa, l'oscenità di pompare lavoro e profitti mettendo la gente in galera. Dobbiamo chiedere l'abolizione della pena capitale... anche per i capitalisti! E ancora, dobbiamo ridefinire lo stesso concetto di crimine, far esplodere la logica che vede un crimine orrendo nel proletario che deruba un negozio di liquori ma chiama "incidenti", "errori" o “questioni di routine” i crimini dei capitalisti che conducono alla morte e alla miseria di migliaia di persone. Per esempio: cominciamo anche a parlare della violenza maschile contro le donne. Quale lotta per la costituzione del comune ci accingiamo a fare, quando ogni 15 secondi un uomo picchia una donna negli Stati Uniti? Quanta energia si libererebbe per la lotta, se le donne non dovessero lottare contro gli uomini, molto spesso anche solo per poter combattere il sistema in quanto donne? Per esempio: cominciamo a ravvivare la nostra immaginazione sociale, dopo decenni di reazioni difensive alle recinzioni neoliberiste, e determiniamo nuove costituzioni del comune. Naturalmente, ciò che la nostra immaginazione può suggerirci ora è limitato ed è solo una preparazione per raggiungere un altro livello di potenza e capacità immaginativa. Ma anche con questa povertà, possiamo ascoltare un medley di "musiche di futuri possibili". Ascoltiamo due musicisti in mezzo a noi: * "Il comune futuribile si riduce a due elementi: l'accesso alla terra (vale a dire cibo e combustibili) e l'accesso alla conoscenza (la capacità cioè di utilizzare e migliorare tutti i mezzi di produzione, materiale o immateriale). E’ tutta questione di patate e computer". * "Il sistema salariale dovrebbe essere smantellato immediatamente. Data l'esistenza di Internet, dei metodi contabili del ventunesimo secolo e del deposito diretto, sarebbe possibile spostarsi immediatamente verso un reddito di base garantito, in un primo momento in termini monetari, con tutti che hanno accesso a un "conto" alla nascita e con la responsabilità di donare alla comunità un minimo di tempo di lavoro socialmente necessario – sono inclusi: lavoro casalingo di ogni genere, elaborazioni artistiche, di scrittura, ecc. e attività politica (partecipazione ad assemblee e giurie o qualsiasi altro contributo). Ciò creerebbe un incentivo per una vita cooperativa in cui chiunque sia in grado di ridurre le ore di lavoro domestico attraverso la cooperazione può avere più tempo a disposizione per altre attività. Questo reddito garantito dovrebbe sostituire l'assicurazione, la finanza, le agenzie di previdenza sociale e altri settori, liberando milioni di persone e permettendo loro di partecipare ad attività di cooperazione, riducendo ulteriormente il tempo di lavoro socialmente necessario di ciascuno". * "L'unico modo possibile di fare agricoltura su questo pianeta è un'intensa produzione biologica a cultura mista. Questa forma di agricoltura è irrimediabilmente non redditizia sotto le attuali condizioni – così deve essere trovato un nuovo tipo di cooperazione tra consumatori e produttori (in realtà l'abolizione di questa distinzione), che preveda la trasformazione del lavoro agricolo in una parte del lavoro domestico di ciascuno". * "Il sistema finanziario deve essere immediatamente sostituito con assemblee e 'cooperative di credito' strutturate in base alle esigenze della comunità, che possano decidere dove mettere le risorse della comunità, demistificando la 'finanza' come strumento di pianificazione sociale." * "Se il sostentamento delle persone è garantito dai mezzi di sussistenza e da servizi generali a tutti i livelli, la libera condivisione della produzione intellettuale è possibile senza mettere in pericolo la sopravvivenza dei suoi produttori. Il pianeta può diventare una sfera di libero scambio di conoscenze, competenze e idee. In aggiunta a questo comune intellettuale, un comune materiale deve essere istituito per stabilire una giusta distribuzione delle risorse". Per esempio: … V. CARATTERISTICHE DELLE LOTTE RIVOLUZIONARIE CHE SI MUOVONO OLTRE IL CAPITALE Le lotte che hanno portato alla crisi, soprattutto quelle dell'America Latina, dal Messico all'Argentina, hanno definito le esperienze fondamentali della lotta contemporanea per la "costituzione del comune". Crediamo che queste esperienze siano importanti per i movimenti anti-capitalisti degli Stati Uniti e abbiamo quindi cercato di individuare alcune caratteristiche di tali lotte (soprattutto quelle degli zapatisti e di altri gruppi discendenti dagli indigeni americani). Una delle distinzioni più importanti da fare (ma più difficile da tracciare) è tra quelle lotte che sono "dentro" (che talvolta chiamiamo "socialdemocratiche"), e quelle "autonome" o "al di fuori". In un certo senso, tale distinzione è una variante di quella tra "riforma" e "rivoluzione" tipica della politica anti-capitalista della prima parte del ventesimo secolo, quando i partiti socialdemocratici “riformisti” erano istituzioni importanti. La distinzione "dentro/fuori", tuttavia, non è spaziale ma di rapporto politico. "Dentro" indica richieste ad un'istituzione (stato/mercato) solitamente dedita a riprodurre il rapporto lavoro-capitale, mentre "fuori" significa appropriazione comune di risorse de/non-mercificate, magari in parallelo alle richieste ufficiali. Entrambi i casi possono verificarsi ovunque, proprio come il comune può essere sostenuto o creato da ogni parte. I due aspetti possono essere complementari o contraddittori. Ad esempio, l'appropriazione può essere migliorata e/o indebolita dalle richieste fatte a un'istituzione. Entrambe possono essere mezzi per costruire alleanze ed esprimere esigenze che vanno oltre le richieste formali. Analizzando le relazioni dentro/fuori e le loro potenzialità in contesti specifici, un movimento può meglio chiarire la propria strategia. Le lotte “da dentro” si combattono principalmente all'interno di istituzioni e terreni di conflitto esistenti, come ad esempio lo Stato, le aziende, il sistema giuridico, la società civile tradizionale o i costrutti culturali tradizionali. Esse puntano generalmente a incrementare il reddito della classe operaia, il suo accesso alla merce e il suo potere all'interno del sistema, senza però mettere in discussione direttamente l'organizzazione capitalistica della società né creare alternative collettive al sistema capitalista. Esse in genere assumono la forma di richieste al sistema. Tuttavia, possono talvolta essere molto conflittuali e forzare i limiti della legalità e della proprieta capitalistiche. Tale volontà di scontrarsi apertamente con il sistema è molto importante, almeno in questa fase negli Stati Uniti, poiché essa implica una maggiore probabilità di andare oltre le richieste iniziali. Al contrario le lotte "dal di fuori", autonome, si sforzano di creare spazi sociali e relazioni che siano il più possibile indipendenti dai e in opposizione ai rapporti sociali capitalistici. Esse possono scontrarsi direttamente con o cercare di prendere in consegna e riorganizzare le istituzioni capitalistiche (una fabbrica, per esempio) o ancora creare nuovi spazi al di fuori di tali istituzioni (ad esempio, gli orti urbani o l’edilizia cooperativa) o accessi alle risorse che dovrebbero essere comuni. Esse favoriscono relazioni, processi e prodotti non mercificati e collettivi, che funzionano a livello reale al di fuori dei rapporti capitalistici e danno potere alla classe operaia nei suoi sforzi di creare alternative al capitale. Negli Stati Uniti, molte di queste battaglie appaiono come fuori dell'economia ufficiale. Un certo numero di amici di Midnight Notes hanno recentemente fatto dei commenti su questi tipi di lotte. Scrive Massimo De Angelis, con volontà definitoria, ne “L'inizio della Storia”: Quando riflettiamo sulla miriade di lotte di comunità che si svolgono in tutto il mondo per l'acqua, l'elettricità, la terra, l'accesso alla ricchezza sociale, la vita e la dignità, non si può fare a meno di sentire che le pratiche relazionali e produttive che danno vita e forma a queste lotte danno luogo a valori e modi di fare e a relazioni di coproduzione sociale (in breve, pratiche di valore). Non solo, ma queste pratiche di valore sembrano essere al di fuori delle corrispondenti pratiche di valore e modi di fare e di relazionarsi che appartengono al capitale... Il "fuori" rispetto al modo di produzione capitalistico è una problematica che dobbiamo affrontare con una certa urgenza, se vogliamo spingere il nostro dibattito sulle alternative su un piano che ci aiuti a informare, decodificare e intensificare la rete di connessioni delle pratiche di lotta (DeAngelis, 2007: 227). Chris Carlsson, dal canto suo, ha mappato porzioni di questo spazio negli Stati Uniti nel suo “Nowtopia” dove scrive: Orticoltura comunitaria, combustibili alternativi e l’uso della bicicletta, d'altra parte, rappresentano rivolte tecnologiche che integrano una visione ecologica positiva con comportamenti locali pratici... Nel loro insieme, questa costellazione di pratiche è un elaborato, decentrato, non coordinato, sforzo di ricerca e di sviluppo collettivo che sta esplorando un futuro post-petrolifero, potenzialmente post-capitalista (Carlsson, 2008: 45). Sarebbe a dire che l'approccio socialdemocratico cerca di usare le istituzioni esistenti per aumentare il potere della classe operaia nel suo rapporto con il capitale, mentre l'approccio autonomo cerca di muoversi indipendentemente dalle istituzioni esistenti per costruire una società non capitalista. Questa distinzione "dentro"/"fuori", tuttavia, non è facile da fare. Dopo tutto, solo perché scrivete sui vostri striscioni in rosso e nero che siete degli outsider rivoluzionari, ciò non implica che lo siate davvero. Sarà la “Storia" a giudicare e spesso la risposta si fa attendere. Inoltre, coloro che desiderano una risposta veloce dovrebbero ricordare gli avvertimenti dei nostri amici situazionisti che ci avvertono delle difficoltà nel porre questa distinzione dentro/fuori, in una società dominata da un flusso infinito di immagini, metafore e tranelli dialettici, dove A è facilmente trasformato in non-A in un lampo (e viceversa), e il "fuori" può essere facilmente sussunto in un "dentro-fuori". Riteniamo, tuttavia, che le lotte della classe operaia nelle Americhe stiano diventando sempre più autonome, e questa distinzione tra lotte riformiste e autonome è centrale in gran parte del dibattito politico che ha permeato Messico, Venezuela, Bolivia, Brasile, Uruguay, Argentina ed Ecuador. Certamente è stata centrale per gli zapatisti e per il dibattito che hanno iniziato con la loro "Altra Campagna" nel 2005, quando hanno offerto un'alternativa non-elettorale alla campagna presidenziale Obrador del socialdemocratico PRD (Partido Revolucionario Democratico). L'"Altra Campagna" ha rappresentato un'esperienza di dialogo esteso, pan-Messicano, tra gli zapatisti e gli attivisti locali in decine di comunità, che hanno condiviso esperienze di lotta e si sono chiesti come una politica autenticamente democratica potrebbe essere costruita. Stiamo imparando da questa ricca discussione e cerchiamo di camminare nella direzione ch'essa ha indicato. In primo luogo, dobbiamo notare l'inevitabilità di tante lotte "dal di dentro". In effetti, la maggior parte delle lotte contro le conseguenze distruttive della crisi in questo momento in gran parte del mondo sono, almeno in partenza, portate avanti "dal di dentro." Ma queste lotte possono eccedere i limiti dell'essere "dentro". Il nostro intento è dimostrare che le caratteristiche identificate di seguito possono aiutare a determinare se le lotte sociali democratiche creano, o hanno il potenziale di creare, le condizioni che favoriscono alternative reali al capitale. Ossia, se esse promuovono o producono portano a lotte "autonome" piuttosto che confinarle entro i limiti del sistema, se non perpetuano o ricompongono le divisioni all'interno della classe, se allontanano o meno le persone coinvolte da ogni possibilità di partecipazione a future lotte rivoluzionarie. Le lotte autonome, tuttavia, sono ben lungi dal considerarsi scevre dalla necessità di un esame attento e di una valutazione riflessiva. Quali sono le caratteristiche delle lotte "autonome" anticapitaliste? Dopo tutto, le lotte autonome possono essere assorbite o isolate, possono non generalizzarsi, possono privilegiare alcuni settori della classe su altri, ecc. La Storia "conosce molte scorciatoie" e non solo le lotte socialdemocratiche possono svilupparsi in direzioni sempre più autonome, ma le stesse lotte autonome possono supportare, ispirare e guidare lotte che emergono dal di dentro. Alcune persone possono essere coinvolte in entrambe le forme. E nel mondo reale, è facile che molte lotte sfumino i contorni di questa categorizzazione schematica, magari nei loro momenti iniziali, ma forse anche nella loro evoluzione (prendiamo, per esempio, le rivolte greche scaturite dall'assassinio di Alexis Grigoropoulos ad Atene). Qui di seguito sono elencate una serie di caratteristiche delle lotte rivoluzionarie che abbiamo raccolto dall'esperienza anti-capitalista, soprattutto dalla lotta contro il genocidio e l'omicidio di massa al servizio del capitale che ha ribaltato la tendenza degli ultimi dieci anni, da Oaxaca e Chiapas alla Terra del Fuoco. 1. Le lotte sovvertono la gerarchia di classe – tra classe operaia e classe capitalista, all'interno della classe operaia, all'interno delle nazioni e a livello internazionale; in termini razziali; tra donne e uomini; tra immigrati e cittadini residenti; tra le diverse culture. Le loro istanze portano a una maggiore uguaglianza, se vinte (forse anche se non vinte), perché interrogano il come si combatte la battaglia. Le esigenze di chi sta "in basso" (i più poveri economicamente, i meno potenti socialmente o politicamente) vanno messe davanti, esplicitamente, per costruire unità e sostenibilità. Le rivendicazioni socialdemocratiche insistono in termini generali sull'accesso alla ricchezza: salari e redditi, tempo di lavoro, sicurezza sul lavoro, pensioni, assistenza sanitaria, alloggio, cibo (che in molti casi può significare terra) e istruzione. (Alcune di queste rivendicazioni comprendono il salario indiretto – che è più adatto ad essere in qualche modo socializzato, una forma di bene comune, anche se all'interno del capitalismo). È possibile che queste lotte vadano a beneficio di chi è già privilegiato/potente e che la loro “vittoria” sclerotizzi maggiori disuguaglianze? Allo stesso modo, le azioni autonome includono o escludono coloro che sono socialmente o economicamente meno influenti? 2. Le lotte aumentano l'unità di classe, riunendo in modo virtuoso diversi settori di classe, rafforzando le relazioni di mutualità, superando le divisioni all'interno della classe. Vanno oltre le questioni singole, le collegano, senza diminuirne l'importanza o il valore. Questa unità deve diventare planetaria. Come scrive un altro amico di Midnight Notes, Kolya Abramsky, in "Raccogliere la nostra degna rabbia": queste lotte sono in grado di "ampliare e approfondire le reti globali... verso un processo accelerato di costruzione di mezzi di sostentamento a lungo termine autonomi e decentrati, sulla base di rapporti collettivi di produzione, scambio e consumo edificati su condizioni di vita dignitose? "(Abramsky, 2008). Usando una terminologia più vecchia, queste lotte aumentano la "ricomposizione politica" della classe operaia, come definito dalla redazione di Zerowork a metà degli anni Settanta: "il rovesciamento delle divisioni capitaliste, la creazione di nuove unità tra i diversi settori della classe e un ampliamento dei confini di ciò che la definizione 'classe operaia' può includere" (MN, 1992: 112). 3. Le lotte creano l’opportunità di inserirsi dignitosamente costruiscono l'inserimento dignitoso nella comunità. Le barriere di esclusione e di apartheid crollano nelle lotte rivoluzionarie; tra queste, nel nostro tempo, le barriere contro gli immigrati, i carcerati, i gay e le lesbiche, le razze e i popoli storicamente oppressi. Le lotte rispettano l'alterità e la comunalità dell'altro, tanto da rendere ciascuno più consapevole dei bisogni dell’altro/a, specialmente di chi è oggi meno forte. Mirano a garantire che tutti noi ci trattiamo l'un l'altro/a con dignità. 4. Le lotte rafforzano il comune ed espandono le relazioni e gli spazi de-mercificati. Il comune è uno spazio non mercificato condiviso dalla comunità. Nella versione socialdemocratica le lotte includono cose come l'assistenza sanitaria, l'istruzione e la previdenza sociale – per quanto imperfettamente realizzate. Tuttavia, tali lotte riescono anche a supportare il movimento dal basso verso l'alto, espandendo l'inclusività e il controllo partecipativo? D’altra parte, i settori autonomi sono in grado di evitare la loro mercificazione (evitare di essere trasformati in prodotti commerciali o servizi in vendita)? Ammesso che non possano farlo completamente, possono mantenere una posizione politica e un comportamento attivo che spingano verso dinamiche non mercificate? Più in generale, come può la classe operaia, su scala piccola o grande, creare forme di scambio che siano o tendano a essere de-mercificate? Riuscire a creare mercati (forme di scambio) che non governino la vita e i mezzi di sussistenza? Ridurre la portata della mercificazione e dei mercati capitalistici sulla vita delle persone? 5. Le lotte migliorano il controllo locale e il controllo partecipativo. "Locale" non è un termine geografico, significa che le decisioni sono prese il più vicino possibile a coloro che sono coinvolti; partecipativo significa che tutte le persone coinvolte hanno una voce reale nelle decisioni. Tutto questo porta alla luce la questione del chi prende le decisioni e come. Gran parte di ciò che conosciamo come azione autonoma è locale e comprende quasi intrinsecamente un "controllo locale" di qualche tipo. La socialdemocrazia, storicamente, non arriva a comprenderlo. Uno dei suoi tratti distintivi è infatti la dipendenza da un apparato statale di grandi dimensioni, burocratico, invadente e difficile da influenzare. Questo Stato è stato il bersaglio di un diffuso attacco della classe operaia negli anni Sessanta il quale, tuttavia, è stato rivolto contro la stessa classe operaia e utilizzato dalla Destra per promuovere il neoliberismo. Ci sono possibilità che la classe operaia metta in campo richieste/lotte socialdemocratiche che includono la rivendicazione/lotta per il controllo locale e/o partecipativo? (Certi aspetti di quanto sopra implicato erano contenuti in alcuni dei primi programmi per la guerra contro la povertà, ma sono stati subito eliminati o sussunti una volta che gli Stati Uniti hanno intuito la potenziale pericolosità del loro "errore di calcolo"). Più in generale, possono le lotte "dal di dentro" aiutare le lotte "dal di fuori"? Ci sono modi per spostare le lotte socialdemocratiche verso un agire più autonomo? Esempio: le battaglie per il sostegno del governo agli orti urbani possono anche spingere per l’ottenimento del controllo esercitato da organismi locali, partecipativi e democratici, piuttosto che dalle istituzioni della città o dello Stato. Le lotte di fabbrica possono iniziare come lotte “dal di dentro", ma i partecipanti possono arrivare a organizzarsi in assemblee ecc, prendere cooperativamente il controllo della produzione e quindi impostare un supporto di cooperazione con altre fabbriche e altri settori (come è successo in Argentina dopo il crollo economico). In effetti, molte lotte sindacali (la quintessenza di una lotta "dal di dentro") hanno raggiunto un punto di svolta che le ha trasformate in lotte “dal di fuori”, come mostra un'analisi degli "scioperi generali". Tuttavia, anche negli sviluppi autonomi, il controllo partecipativo non è garantito, né a livello di definizione delle regole né nella pratica quotidiana. Di conseguenza, a cosa assomiglia il controllo democratico partecipativo nei diversi ambiti della riproduzione (assistenza sanitaria, cibo, istruzione, alloggi) e della produzione? E come si può lottare per ottenerlo, così da vincere in settori specifici e diminure le divisioni interne alla classe? 6. Le lotte portano a una maggiore quantità di tempo al di fuori del controllo capitalistico. Ciò significa, in particolare, una settimana lavorativa corta per salariati e non salariati. Significa riconoscere "il lavoro domestico delle donne" come produttivo, creare reddito per chi fa questo lavoro e ampliare il numero di quante/i lo fanno. Come possiamo garantire che una più breve settimana lavorativa salariata non conferisca ulteriore potere agli uomini piuttosto che alle donne? O ad alcuni settori di classe piuttosto che ad altri? In poche parole, come possono essere egualitarie le vittorie che riguardano le questioni del tempo di lavoro? 7. Le lotte riducono lo spreco incredibile e l’effetto distruttivo che il capitale esercita sulla vita, sul tempo, sulla ricchezza materiale, sulla salute e sull’ambiente (aria, terra e acqua), ma tale riduzione si dovrebbe attuare con modalità che non penalizzano gli altri lavoratori. Esempio: negli Stati Uniti vi è uno spreco enorme (ma anche un enorme profitto) nell’apparato burocratico che regola le assicurazioni sanitarie. Proposte come il single payer21 potrebbero eliminare un sacco di questi sprechi, ma anche strappare a molte persone il loro posto di lavoro, intensificando la disuguaglianza. Che cosa si può fare per impedire che queste persone siano economicamente distrutte? Naturalmente, dal punto di vista della classe operaia, cose come la produzione militare e le armi sono distruttive ad un livello folle, per cui dovrebbero essere semplicemente eliminate. Ridurre alcuni tipi di sprechi potrebbe beneficiare alcuni pur non beneficiando gli altri (per esempio, se ciò portasse alla riduzione di tempo di lavoro pagato, non aiuterebbe le madri con bambini a carico) – quindi, quando lo "spreco capitalista" è l'obiettivo della lotta, si deve tenere conto dell’inclusione. 8. Le lotte proteggono e ripristinano la salute ecologica; facilitano un approccio più olistico e più sano verso il pianeta. Ad esempio, le battaglie per salvare posti di lavoro in settori che accellerano il disastro ecologico vanno affrontate; queste battaglie ci sono e continueranno ad esserci. Terra, aria e acqua sono di cruciale importanza. Il settore agroalimentare, la mercificazione globale, la bioingegneria e la guerra portano all'inquinamento, all'erosione, alle dighe, alle inondazioni, alla deforestazione, al riscaldamento globale, alla diminuzione della diversità e alla morte degli ecosistemi terrestri ed oceanici. Nel sostituire il settore agroalimentare come modo di produzione del cibo, si devono promuovere relazioni umane che siano coinvolte più da vicino nella alla produzione degli alimenti. 9. Le lotte portano giustizia. Troppo spesso, sfruttatori e oppressori hanno agito impunemente. Così i veri criminali devono essere portati davanti alla giustizia affinché si rimedi a tutto ciò. La giustizia rivoluzionaria è dal basso verso l'alto e le nuove forme di promulgazione della giustizia devono essere coerenti con altre caratteristiche rivoluzionarie; per esempio, il "No" alla pena di morte deve valere anche nei confronti dei capitalisti. Oltre il capitale. Abbiamo individuato queste caratteristiche delle lotte rivoluzionarie a partire dalla nostra conoscenza della storia delle lotte (soprattutto nelle Americhe) e dalle nostre stesse esperienze. Noi non pretendiamo che quelle qui elencate siano definitive, ma le vediamo come interconnesse. La nostra speranza è che questo elenco, inevitabilmente incompleto, delle caratteristiche che le lotte rivoluzionarie dovrebbero avere (il condizionale è d'obbligo dal momento che le rivoluzioni, per loro natura, producono scenari imprevisti), possa essere ricordato per evitare che le nostre lotte si ritorcano contro noi stessi, come è troppo spesso accaduto in passato, e possa invece contribuire a creare un mondo oltre il capitale. CONCLUSIONI: CRISI—GUERRA—RIVOLUZIONE Indubbiamente, le lotte rivoluzionarie del tipo che abbiamo descritto sopra sono solite scatenarsi durante le crisi. Tuttavia, un terribile mediatore potrebbe frapporsi tra crisi e rivoluzione, conferendo contorni foschi alla nostra gioia: la guerra. Sarebbe un piacevole epilogo se il capitalismo semplicemente cessasse di esistere a seguito di 21 Il Single Payer definisce un sitema sanitario in cui le prestazioni di cura erogate sono pagate dal governo invece che dagli assicuratori privati. Definisce chi paga, non chi eroga, che può essere tanto un attore pubblico quanto un privato. un processo di dissipazione lungo e lento e se un diverso e più umano modo di produzione e sussistenza prendesse spontaneamente il suo posto senza che nessuno lo notasse. Forse, un giorno, ciò che chiamiamo capitalismo potrà essere sostituito senza che il suo nome cambi. Dopo tutto, nessuna necessità logica ordina che creature imponenti e terrificanti debbano scomparire con modalità altrettanto imponenti e terrificanti. Non potrebbe succedere che ci svegliamo una mattina, molto tempo dopo che un ronzio costante e minaccioso si è fermato, e diciamo alle nostre compagne e ai nostri compagni “Il ronzio ha smesso” e poi corriamo fuori ad incontrare l'alba di un nuovo giorno? Non potrebbe succedere che i nostri governanti capitalisti se ne vadano senza troppo rumore come fecero i burocrati comunisti della Repubblica Democratica Tedesca nel 1989? Questo tipo di finale è possibile ma poco probabile. Il sistema è dotato di molti indicatori e autosegnalatori (ad esempio le entrate che derivano dai profitti, dagli interessi e dalle rendite) che producono conseguenze immediate mettendo in allarme chi lo gestisce. Una diminuzione in ciascuna di quelle entrate avvertirebbe i suoi beneficiari che qualcosa non sta seriamente funzionando e costoro pretenderebbero che lo Stato intervenisse per riportarere i profitti, gli interessi o le rendite ad un livello “accettabile”. Essendo convinzione generale, sebbene non dichiarata, che tale diminuzione delle entrate in questione è riconducibile ad una ridotta disponibilità di plus-lavoro e all’aumento del costo dei mezzi di produzione non-umani (prodotto dalle lotte ambientaliste), l’ipotesi è che la suddetta riduzione del saggio di profitto debba essere “aggiustata” aumentando lo sfruttamento dei lavoratori e riducendo i costi della produzione (specialmente delle materie prime), addossando sulla classe operaia i costi della ripresa ecologica. La narrazione delle crisi passate indica che il percorso preferenziale per accrescere lo sfruttamento e per ridurre i costi passa direttamente attraverso la guerra, la violenza e la repressione, per terrorizzare i lavoratori e per spezzare il legame che le popolazioni indigene e i contadini hanno con la propria terra e con i suoi frutti. Di sicuro la possibilità di un capitalismo conciliatorio fu negata nei primi anni ’90 con l’avvio della “quarta guerra mondiale” (contro quelle popolazioni e quegli Stati che rifiutavano i Nuovi Confini neoliberisti), subito dopo la fine della “terza guerra mondiale” (contro gli Stati comunisti). Anche in questa crisi ci saranno conflitti, con una “quinta guerra mondiale” tutta-daimmaginare, che non implicherà solo la ripetizione delle guerre neoliberiste che sono state orchestrate allo scopo di disciplinare un qualsiasi stato recalcitrante affinché “giocasse secondo le regole neoliberiste” del commercio mondiale (come l’invasione e l’occupazione dell’Iraq). Ecco perché abbiamo iniziato e ora finiremo questo opuscolo sulla crisi e sulla rivoluzione col proiettile mortale che trafisse il giovane corpo di Alexis Grigoropoulos. Esso ci ricorderà all’infinito che il capitalismo in ultima analisi è un sistema freddo, violento e assassino. Così, il passaggio più importante per la “riduzione del danno” planetario, mentre percorriamo il cammino dalla crisi alla rivoluzione, è quello di disarmare lo Stato e il capitale quanto più efficacemente e quanto più in fretta possibile. APPENDICE Report di un dibattito con Silvia Federici e George Caffentzis “... senza la pratica della riappropriazione delle risorse, i commons finiscono unicamente per essere una forma di redistribuzione della povertà...” COMMONS CONTRO E OLTRE IL CAPITALISMO22 Il tema dei commons, tradotti solitamente in italiano come beni comuni, evoca un immaginario potente, un'idea attraente di legame caldo contro l'isolamento ed individualismo sempre più parossistici dell'attualità. Tuttavia essi oggi hanno raggiunto una pericolosa trasversalità, e rappresentano un terreno estremamente scivoloso, all'interno del quale si sono affermate prospettive molto differenti (sino ad arrivare in Italia a far parte delle campagne di Cgil e Pd che hanno parlato del Lavoro e dell'Italia come beni comuni.). Se è evidente come un uso di questo tema da parte dei movimenti anticapitalisti non possa che basarsi su una preliminare sottrazione dei beni comuni dal tema del bene comune (una affinità linguistica prodotta dalla lingua italiana), è interessante ricostruire una genealogia di come il discorso sui commons sia venuto affermandosi su scala planetaria negli ultimi due decenni. Per fare questo proponiamo il report di un incontro tenutosi al 16 Beaver, uno spazio di movimento situato a South Manhattan. Un luogo nato come sede di gruppi artistici nel 1998, e trasformatosi a seguito di Occupy. La vicinanza con Zuccotti Park lo rese infatti uno spazio molto attraversato dagli attivisti del movimento, e oggi ospita un fitto calendario di iniziative e dibattiti. Il 26 marzo si è ivi tenuto un incontro con Silvia Federici e George Caffentzis. I due autori, che fanno anche parte del collettivo Midnight Notes, hanno intavolato una discussione su una loro recente pubblicazione, “Commons against and beyond capitalism”, uscita in autunno sulla rivista radicale canadese Upping the Anti 23. Caffentizis introduce la discussione con alcuni cenni storici. Nel 1989 a New York si ritrovano una serie di compagni e compagne che dieci anni prima avevano dato vita al progetto collettivo Midnight Notes. Durante gli anni Ottanta molti di loro avevano girato il mondo, potendo toccare con mano gli effetti dell'instaurarsi su scala globale del nascente neoliberalismo. Il confronto fra queste esperienze realizzatesi prevalentemente in Asia, Africa e Sud America, produsse una importante pubblicazione nel 1990, “The New Enclosures”. In questo scritto il collettivo si interrogava su come dare una lettura dei Piani di aggiustamento strutturale e delle politiche di risanamento del debito (che oggi, rovesci della storia, conosciamo bene anche in Europa), attraverso i quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale stavano depredando ampie zone del pianeta. Una lettura che potesse fornire una descrizione alternativa a quelle vigenti, in grado di mostrare le lotte in corso. Ciò venne sviluppato attraverso il ricorso alle pagine marxiane del Capitale nelle quali viene descritta la “cosiddetta accumulazione primitiva”. Un processo che gli autori trovarono calzante ed attuale per comprendere i processi in atto su scala globale, definiti sostanzialmente come ripetizione della dinamica descritta da Marx e come attacco ai commons. Questi, intesi come forme di produzione comunitaria, erano il reale target delle politiche delle istituzioni del rinnovato capitale globale. Nello stesso anno tuttavia esce un altro libro che tratta il tema dei commons, elaborato dall'economista americana Elinor Ostrom: “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action”24. Questa produzione teorica di taglio accademico, che avrà un discreto successo arrivando sino ad oggi (agevolando anche la formazione della The International Association for the Study of the Commons – The leading professional association dedicated to the commons”), presenta un'analisi estremamente differente ed in contrasto con quella elaborata da Midnight Notes. Mentre questi guardano ai commons non solo come oggetti sotto attacco ma anche come possibili elementi per la lotta anticapitalista, Ostrom sostanzialmente li inquadra entro un quadro di trasformazione legale, proponendoli come una sorta di terza via tra il pubblico ed il privato tutta interna al sistema capitalistico. Nei suoi studi sull'Africa, ad esempio, essa afferma che il common managment funziona 22 23 24 http://www.infoaut.org/index.php/blog/culture/item/11284-commons-contro-e-oltre-il-capitalismo-report-di-undibattito-con-silvia-federici-e-george-caffentzis. http://uppingtheanti.org/journal/article/15-commons-against-and-beyond-capitalism. http://www.kuhlen.name/MATERIALIEN/eDok/governing_the_commons1.pdf. economicamente meglio rispetto alla via privata indicata dalla World Bank. Federici si inserisce nella discussione mostrando come, pur all'interno di un linguaggio simile, si innestino tuttavia due prospettive radicalmente differenti. All'oggi inoltre, notano gli autori, il capitalismo necessita di una sorta di commonism come freno ai problemi interni alla sua riproduzione. Dunque i due vedono come necessario rilanciare un discorso sui commons che li veda invece quali base per la resistenza e trasformazione del presente. Viene inoltre discusso come, anche laddove il tema dei commons venga agito all'interno di contesti anticapitalisti, si è spesso determinata una dimensione problematica quando questi vengono vissuti come embrioni già costituiti di una società a venire. Questo infatti conduce a tematizzare la possibilità illusoria di isole felici, una sorta rovescio speculare delle gated community, mentre purtroppo nel nostro presente il miglioramento individuale difficilmente avviene se non a discapito di altri... Aggiornando le analisi dei primi anni Novanta, riprende il filo Caffentzis, molte ipotesi di allora paiono confermate. Da un lato il fatto che per il capitale i luoghi stanno divenendo sempre più indifferenti, dall'altro questo nuovo e continuo ripetersi di dinamiche di accumulazione primitiva. Viene precisato come questa non debba essere letta in maniera superficiale come l'appropriazione delle terre comuni. L'obiettivo di questa forma di accumulazione sono infatti le persone, o per meglio dire la separazione di esse dalla terra (ma stesso discorso vale per gli oceani, le foreste, sino a giungere oggi all'informazione). Questa dinamica infatti produce un'enorme massa di forza-lavoro, che non a caso ha determinato un enorme aumento del mercato del lavoro su scala globale negli ultimi anni. Dunque il fine è la produzione di forza-lavoro, non l'appropriazione privata della terra. Federici interviene sostenendo che la crisi attuale ha mostrato come sia rispetto al Mercato che allo Stato ci sia la crescente determinazione a non concedere più risorse per nessuno, come è manifesto nei continui taglia all'educazione, alla salute ecc... Ciò conduce alla necessità di ricostruire forme di solidarietà, un tessuto sociale, un potere di base che possa effettivamente funzionare come contropotere rispetto a questo violentissimo attacco alle condizioni di vita. Ci si riferisce a forme di organizzazione sociale, di solidarietà diffusa, che dopo gli anni Sessanta (negli USA) sono state totalmente distrutte. Il riferimento è ai quartieri proletari estirpati da sfratti e gentrification, dove le forme comunitarie di sostegno reciproco garantivano una base di potere, una precondizione necessaria e da ripensare oggi. In quest'ottica il tema dei commons deve essere visto come una forma di ricollettivizzazione contro l'individualizzazione radicale della produzione. Ed entro la completa crisi dei servizi sociali si aprono spazi di possibilità per pensare i commons come potere trasformativo, come forma di connessione sociale e creazione di nuove modalità di produzione e riproduzione. Caffentizis sottolinea come la loro teoria dei commons implichi il vederli come molteplicità, ossia pensare assieme la necessità di risorse, le pratiche di resistenza, e la sperimentazione e prefigurazione di nuove forme sociali. Se non si fa ciò il rischio è che il discorso sui commons si trasformi in una retorica governativa che punta a tagliare ulteriormente le prestazioni del pubblico. Cosa che è in qualche modo accaduta in Inghilterra, dove la Big Society proposta da Cameron sostanzialmente fa leva sull'idea della possibilità delle comunità di soddisfare autonomamente i propri bisogni per poter sottrarre ulteriori risorse. Federici rimarca dunque come i commons debbano necessariamente essere una base per la rivendicazione di risorse. Il mutualismo può certamente essere una base, ma senza la pratica della riappropriazione di queste i commons finiscono per essere unicamente una forma di redistribuzione della povertà. Caffentzis, segnala infine come il tema dei commons abbia avuto, ben prima degli scritti di Midnight Notes, un attacco radicale. Questo venne prodotto da Garret James Hardin, un ecologo statunitense famoso per un saggio del 1968 chiamato “La tragedia dei commons”. Basandosi sul famoso “Dilemma del prigioniero”, un paradosso elaborato da Albert Tucker nell'ambito della teoria dei giochi, l'articolo volle dimostrare come i commons fossero inevitabilmente destinati a fallire. Caffentizis elabora una critica sia empirica che teorica allo scritto di Hardin, attraverso una decostruzione che mostra come l'errore di fondo di questa impostazione stia nel sovrapporre l'idea di commons a quella di open access. Quest'ultimo concetto infatti immagina sostanzialmente uno “spazio” vuoto di accesso del quale tutti si possano liberamente servire. Invece i commons sono il prodotto di mondi storici e culturali, implicano sempre anche una pratica del commoning, ossia una trama di relazioni, delle forme di intercomunicazione [mentre il paradosso di Ticker è basato proprio sull'incomunicabilità], delle regole di gestione ecc... che non li definisco appunto che ambiti di libero accesso in quanto vuoti, bensì come terreni densi di relazioni nei quali sono implicite forme di reciprocità. Non sono ossia oggetti di cui appropriarsi. Anche su questo aspetto diviene evidente dunque la scivolosità del tema dei commons, od il loro possibile utilizzo ideologico in direzioni differenti. Non a caso anche Ostrom critica Hardin, tuttavia entro una prospettiva che tende a condurre ad una difesa in forma di chiusura dei commons, inquadrarli come dimensioni che spesso conducono alle gated communites o anche all'idea applicata in Europa della restrizione delle migrazioni. Federici si collega a questa riflessione articolando una ragionamento sullo spazio (pubblico). Se da un lato la sua costante e progressiva sottrazione/erosione (esemplare a New York, ma rinvenibile anche ad esempio nelle spiagge in Italia) è evidente, bisogna fare attenzione a non sovrapporre semplicisticamente il tema dello spazio pubblico (e del pubblico più in generale) ai commons. Questi, in quanto multidimensionali, comprendono anche lo spazio, ma in modo inestricabile rispetto alle relazioni sociali che su di esso si sviluppano, che sono più importanti. Infatti alla domanda che viene posta se il Pianeta Terra possa essere considerato un commons, la risposta è un categorico no. Senza forme di lotta, vera sorgente di creazione dei commons e di connessione fra persone e determinante di nuove relazioni, un'impostazione che inquadri il pianeta come commons finisce inevitabilmente per fare da sponda a retoriche del tipo Nazioni Unite. Caffentzis sottolinea come al limite, laddove si definissero processi di world wide struggle che conducessero ad una comunità dell'umanità, si potrebbe pensare in questi termini. Ma all'attuale tutto questo indubbiamente non c'è. I due relatori chiariscono come sia evidente che nell'agone politico il tema è delicato da trattare. Portano l'esempio di alcuni economisti californiani che di recente hanno fatto una stima del valore complessivo della Terra (47 miliardi di dollari), e di come evidentemente di fronte a questi approcci, o alla generale volontà capitalistica di voler privatizzare il pianeta, verrebbe da rispondere sostenendo che la Terra appartiene a tutti. Epperò in questa controargomentazione è presente un forte rischio. Se infatti il tema dei commons non viene situato in contesti e luoghi specifici, in relazioni determinate, esso finisce per involontariamente legittimare le retoriche attraverso le quali le istituzioni globali espropriano le popolazioni in giro per il mondo. Viene portato l'esempio dell'Amazzonia. Se tutti siamo proprietari del Mondo e le foreste amazzoniche sono un bene comune dell'umanità, una proprietà sulla quale tutti possono decidere, diviene dunque legittimo che le popolazioni che in questo momento abitano quei luoghi vengano da essi cacciati per evitare che ne consumino le risorse. In questo apparente paradosso si mostra come una logica del possesso collettivo della terra da parte di una supposta umanità conduca all'espropriazione diretta delle comunità concrete che abitano il pianeta. L'idea stessa di umanità è infatti oggi uno strumento nelle mani del nemico.