Ìride nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C.

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Ìride nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C.
Ìride nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C. - 18 d.C.)
1. Ìride partecipa al diluvio universale
Ovidio, Metamorfosi 1, 253-292
Iamque erat in totas sparsurus fulmina terras;
sed timuit, ne forte sacer tot ab ignibus aether
conciperet flammas longusque ardesceret axis:
esse quoque in fatis reminiscitur, adfore tempus,
quo mare, quo tellus correptaque regia caeli
ardeat et mundi moles obsessa laboret.
tela reponuntur manibus fabricata cyclopum;
poena placet diversa, genus mortale sub undis
perdere et ex omni nimbos demittere caelo.
Protinus Aeoliis Aquilonem claudit in antris
et quaecumque fugant inductas flamina nubes
emittitque Notum. madidis Notus evolat alis,
terribilem picea tectus caligine vultum;
barba gravis nimbis, canis fluit unda capillis;
fronte sedent nebulae, rorant pennaeque sinusque.
utque manu lata pendentia nubila pressit,
fit fragor: hinc densi funduntur ab aethere nimbi;
nuntia Iunonis varios induta colores
concipit Iris aquas alimentaque nubibus adfert.
sternuntur segetes et deplorata coloni
vota iacent, longique perit labor inritus anni.
Nec caelo contenta suo est Iovis ira, sed illum
caeruleus frater iuvat auxiliaribus undis.
convocat hic amnes: qui postquam tecta tyranni
intravere sui, 'non est hortamine longo
nunc' ait 'utendum; vires effundite vestras:
sic opus est! aperite domos ac mole remota
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Traduzione italiana di Piero Bernardini Marzolla, in Publio Ovidio
Nasone, Metamorfosi, Torino, Einaudi, 1979; pp. 16-19
E già si accingeva a spargere fulmini su tutta la terra; ma gli venne il
timore che l'etere sacro potesse incendiarsi, con tutto quel fuoco, e che
potesse ardere il lungo asse del mondo. Si ricordò che anche nel destino
era scritto che un tempo sarebbe venuto in cui il mare sarebbe arso,
sarebbe arsa la terra, travolgendo la reggia del cielo, e la mole faticosa
del mondo avrebbe vacillato. Le armi fabbricate dalle mani dei Ciclopi
vengono allora riposte; si decide una pena diversa: distruggere il genere
umano con l'acqua, rovesciando pioggia da tutto il cielo.
Subito rinchiude negli antri di Eolo Aquilone, e ogni altro vento che
disperda gli ammassi di nubi. Libera invece Noto. E Noto vola fuori
sulle sue ali madide, col volto terribile avvolto di caligine nera come
pece: la barba è greve di nembi, grondano d'acqua i bianchi capelli, sulla
fronte si stendono nebbie, sgocciolano le penne e le vesti; e a un tratto
preme con vasto gesto le nuvole sospese nell'aria: echeggia un gran
tuono, e fitta pioggia scroscia giù dal cielo. Ammantata di vari colori,
Ìride, messaggera di Giunone, attinge acqua e apporta alimento alle
nuvole. Le messi sono travolte, il contadino piange vedendo stese al
suolo le sue speranze e distrutta tutta la fatica di una lunga annata.
Ma Giove, nella sua ira, non si accontenta dei mezzi del cielo, suo
regno. Nettuno, il suo azzurro fratello, gli presta man forte con altra
acqua. Questi convoca i fiumi, di cui è signore, e non appena essi si
presentano alla sua reggia: «Non è il momento di perdersi in lunghe
esortazioni, - dice. - Spandete fuori le vostre forze! Bisogna così. Aprite
le vostre dimore, e rimosso ogni impedimento lanciate le vostre correnti
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fluminibus vestris totas inmittite habenas!'
iusserat; hi redeunt ac fontibus ora relaxant
et defrenato volvuntur in aequora cursu.
Ipse tridente suo terram percussit, at illa
intremuit motuque vias patefecit aquarum.
exspatiata ruunt per apertos flumina campos
cumque satis arbusta simul pecudesque virosque
tectaque cumque suis rapiunt penetralia sacris.
si qua domus mansit potuitque resistere tanto
indeiecta malo, culmen tamen altior huius
unda tegit, pressaeque latent sub gurgite turres.
iamque mare et tellus nullum discrimen habebant:
omnia pontus erat, derant quoque litora ponto.
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a briglia sciolta! »
Così ordina, e quelli tornano alle loro case e spalancano le bocche delle
sorgenti e si precipitano a corsa sfrenata verso il mare. Lui, il dio,
percuote la terra col suo tridente, e la terra trema, e le scosse spianano la
via alle acque. Traboccando i fiumi si gettano nell'aperta campagna, e
travolgono sementi e piante, e greggi e uomini e abitazioni, e portano
via cappelle e sacri arredi. Anche se qualche casa rimane e riesce a
reggere a tanta furia senza crollare, le acque la superano e sommergono
il tetto, e le torri non si vedono più, premute sotto i gorghi.
E ormai non c'è più differenza tra mare e terraferma. Tutto è ormai
mare, un mare senza sponde.
2. Ìride, rende omaggio a Giunone
Ovidio, Metamorfosi 4, 479-480
Traduzione italiana di Piero Bernardini Marzolla, in Publio Ovidio
Nasone, Metamorfosi, Torino, Einaudi, 1979; pp. 154-155.
Giunone se ne andò contenta, e quando fu sul punto di rientrare nel
cielo, Iride, figlia di Taumante, la purificò con uno scroscio di pioggia.
Laeta redit Iuno, quam caelum intrare parantem
roratis lustravit aquis Thaumantias Iris.
3. Ìride e Alcione
Ovidio, Metamorfosi 11, 573-632.
Aeolis interea, tantorum ignara malorum,
dinumerat noctes et iam, quas induat ille,
festinat vestes, iam quas, ubi venerit ille,
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Traduzione italiana di Piero Bernardini Marzolla, in Publio Ovidio
Nasone, Metamorfosi, Torino, Einaudi, 1979; pp. 454-457.
Intanto la figlia di Eolo, ignara di quella grande sciagura, contava le notti
e già si affrettava a preparare i vestiti che Ceìce avrebbe indossato e
quelli che lei stessa avrebbe portato, quando egli fosse tornato, e
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ipsa gerat, reditusque sibi promittit inanes.
omnibus illa quidem superis pia tura ferebat,
ante tamen cunctos Iunonis templa colebat
proque viro, qui nullus erat, veniebat ad aras
utque foret sospes coniunx suus utque rediret,
optabat, nullamque sibi praeferret; at illi
hoc de tot votis poterat contingere solum.
At dea non ultra pro functo morte rogari
sustinet utque manus funestas arceat aris,
'Iri, meae' dixit 'fidissima nuntia vocis,
vise soporiferam Somni velociter aulam
exstinctique iube Ceycis imagine mittat
somnia ad Alcyonen veros narrantia casus.'
dixerat: induitur velamina mille colorum
Iris et arquato caelum curvamine signans
tecta petit iussi sub nube latentia regis.
Est prope Cimmerios longo spelunca recessu,
mons cavus, ignavi domus et penetralia Somni,
quo numquam radiis oriens mediusve cadensve
Phoebus adire potest: nebulae caligine mixtae
exhalantur humo dubiaeque crepuscula lucis.
non vigil ales ibi cristati cantibus oris
evocat Auroram, nec voce silentia rumpunt
sollicitive canes canibusve sagacior anser;
non fera, non pecudes, non moti flamine rami
humanaeve sonum reddunt convicia linguae.
muta quies habitat; saxo tamen exit ab imo
rivus aquae Lethes, per quem cum murmure labens
invitat somnos crepitantibus unda lapillis.
ante fores antri fecunda papavera florent
innumeraeque herbae, quarum de lacte soporem
Nox legit et spargit per opacas umida terras.
ianua, ne verso stridores cardine reddat,
nulla domo tota est, custos in limine nullus;
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vanamente confidava in quel ritorno. A tutti gli dèi, sì, essa offriva
devotamente incenso, ma più di tutti onorava Giunone, andando nel suo
tempio a pregare davanti all'altare per il marito, che non era più, perché
stesse bene, perché tornasse sano e salvo, perché non s'innamorasse di
nessun'altra. Di tante cose che si augurava, quest'ultima era la sola che
potesse avverarsi.
Ma la dea non sopportò più di essere pregata così per un defunto, e per
scostare dal suo altare mani contaminate da un lutto, «Ìride, — disse, —
fedelissima mia messaggera, rècati velocemente nella reggia soporifera
del Sonno e digli di mandare ad Alcione un sogno che, raffigurando
Ceìce morto, le spieghi la verità ». Così disse, e Ìride, indossato il suo
velo di mille colori, descrivendo un arco per il cielo andò come le era
stato ordinato alla reggia del Sonno, che è nascosta sotto una coltre di
nebbie.
C'è, verso il paese dei Cimmèrii, una spelonca dai profondi recessi, una
montagna cava, dimora occulta del Sonno pigro, dove mai il sole può
penetrare con i suoi raggi, o sorga, o sia alto o tramonti ma sempre
nebbie e foschia salgono su dalla terra, in un chiarore incerto di
crepuscolo. Qui non c'è uccello dal capo crestato che vegli e col canto
chiami l'Aurora; non rompono il silenzio, con le loro voci, cani attenti o
oche ancora più accorte dei cani. Non si ode un suono, né di bestie
selvatiche, né di greggi, né di rami mossi dall'alito del vento, non si ode
cicaleccio di lingua umana. Muta quiete domina. Solo sgorga dal piede
della roccia un rivolo del Lete, la cui acqua scivola via mormorando tra
un fruscio di sassolini e concilia il sonno. Davanti all'antro un manto di
rigogliosi papaveri e innumerevoli erbe da cui la Notte spreme il sopore
per spargerlo, umida, sulle terre immerse nel buio. In tutta la casa non c'è
una porta, per non sentire cigolii di cardini; nessuno sta di guardia sulla
soglia. In mezzo alla grotta c'è un alto letto d'ebano con sopra un materasso di piume, tutto dello stesso colore, coperto da un drappo scuro, e su
di esso è sdraiato il dio in persona, con le membra languidamente
abbandonate. E intorno giacciono sparsi qua e là, con aspetti vari, i
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at medio torus est ebeno sublimis in antro,
plumeus, atricolor, pullo velamine tectus,
quo cubat ipse deus membris languore solutis.
hunc circa passim varias imitantia formas
Somnia vana iacent totidem, quot messis aristas,
silva gerit frondes, eiectas litus harenas.
Quo simul intravit manibusque obstantia virgo
Somnia dimovit, vestis fulgore reluxit
sacra domus, tardaque deus gravitate iacentes
vix oculos tollens iterumque iterumque relabens
summaque percutiens nutanti pectora mento
excussit tandem sibi se cubitoque levatus,
quid veniat, (cognovit enim) scitatur, at illa:
'Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces reparasque labori,
Somnia, quae veras aequent imitamine formas,
Herculea Trachine iube sub imagine regis
Alcyonen adeant simulacraque naufraga fingant.
imperat hoc Iuno.' postquam mandata peregit,
Iris abit: neque enim ulterius tolerare soporis
vim poterat, labique ut somnum sensit in artus,
effugit et remeat per quos modo venerat arcus.
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Sogni vani, tanti quante sono le spighe del raccolto, quante le fronde del
bosco, quanti i grani di rena della spiaggia.
Come la vergine entrò, scostando con le mani i Sogni per poter passare,
tutta s'illuminò la sacra dimora al fulgore della sua veste, e il dio Sonno,
schiudendo a fatica gli occhi pieni di pesantezza, ricadendo
continuamente giù, col mento ciondolante che gli sbatteva in alto contro
il petto, dopo molto penare si scosse di dosso se stesso, e sollevatosi sul
gomito le chiese (l'aveva riconosciuta, infatti) perché fosse venuta. E lei:
«Sonno, quiete di tutte le cose, Sonno, il più placido degli dèi, pace dell'animo, senza affanni, che di dolcezza pervadi i corpi stanchi del duro
lavoro e li ristori per nuove fatiche, ordina a un Sogno, a uno di quelli
che sanno imitare le forme vere, di andare a Trachìne, città di Ercole, e
presentarsi ad Alcione con l'aspetto di un naufrago, con le sembianze di
re Ceìce. Così comanda Giunone». E appena ebbe assolto la missione,
Iride se ne andò, perché non ce la faceva più a resistere al potere
soporifero di quel luogo. Come senti che una sonnolenza le s'insinuava
nelle membra, fuggi via, risalendo per l'arco per cui poco prima era
discesa.
4. Ìride ministra di Giunone
Ovidio, Metamorfosi 14, 85-88
Quasque rates Iris Iunonia paene cremarat,
solvit et Hippotadae regnum terrasque calenti
sulphure fumantis Acheloiadumque relinquit
Traduzione italiana di Piero Bernardini Marzolla, in Publio Ovidio
Nasone, Metamorfosi, Torino, Einaudi, 1979; pp. 560-561.
E quindi salpa con le navi che per poco Iride non gli ha distrutto per
ordine di Giunone, e oltrepassa il regno del figlio di Ippota (Eolo; n.d.r.)
e le terre fumanti di zolfo, e gli scogli delle sirene, figlie dell’Acheloo.
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Sirenum scopulos….
5. Ìride ed Ersilia, la moglie di Romolo.
Ovidio, Metamorfosi 14, 829-851
Flebat ut amissum coniunx, cum regia Iuno
Irin ad Hersilien descendere limite curvo
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imperat et vacuae sua sic mandata referre:
'o et de Latia, o et de gente Sabina
praecipuum, matrona, decus, dignissima tanti
ante fuisse viri coniunx, nunc esse Quirini,
siste tuos fletus, et, si tibi cura videndi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini
qui viret et templum Romani regis obumbrat';
paret et in terram pictos delapsa per arcus,
Hersilien iussis conpellat vocibus Iris;
illa verecundo vix tollens lumina vultu
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'o dea (namque mihi nec, quae sis, dicere promptum est,
et liquet esse deam) duc, o duc' inquit 'et offer
coniugis ora mihi, quae si modo posse videre
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor!'
nec mora, Romuleos cum virgine Thaumantea
ingreditur colles: ibi sidus ab aethere lapsum
decidit in terras; a cuius lumine flagrans
Hersilie crinis cum sidere cessit in auras:
hanc manibus notis Romanae conditor urbis
excipit et priscum pariter cum corpore nomen
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mutat Horamque vocat, quae nunc dea iuncta Quirino est.
Traduzione italiana di Piero Bernardini Marzolla, in Publio Ovidio
Nasone, Metamorfosi, Torino, Einaudi, 1979; pp. 598-601.
La moglie Ersilia piangeva Romolo per morto; e allora Giunone regina
ordinò a Iride di discendere lungo il suo arco, andare dalla vedova e
dirle da parte sua queste parole: «O matrona, vanto sommo del Lazio e
della gente sabina, degnissima consorte finora di un eroe così grande e
degnissima di essere d'ora in poi consorte di Quirino, non piangere più,
e se hai desiderio di rivedere il tuo sposo, seguimi fino al bosco che
verdeggia sul Quirinale e che avvolge d'ombra il tempio del re romano».
Iride obbedisce, scivola sulla terra lungo il suo arco variopinto, e parla
ad Ersilia nel modo che le è stato ordinato.
E lei, levando appena lo sguardo nella sua deferente modestia: «O dea
(non saprei bene dire chi sei, ma è chiaro che sei una dea), conducimi,
oh sì, conducimi, – dice, – e fammi rivedere il volto di mio marito. Se il
destino mi concederà di poterlo rivedere anche una volta sola, dirò di
avere avuto in dono il cielo».
E subito sale insieme alla vergine figlia di Taumante sul colle di
Romolo. Lì una stella cade dal cielo sulla terra, e la chioma di Ersilia,
incendiata dal fulgore, si dissolve, insieme alla stella, nell'aria. Il
fondatore di Roma raccoglie con affetto Ersilia tra le sue braccia, e ne
muta sia il corpo che il nome. La chiama Ora: Ora, che oggi è dea
associata a Quirino.
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