Prologo - Un caldo infernale. Da queste parti il caldo non è un

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Prologo - Un caldo infernale. Da queste parti il caldo non è un
Prologo - Un caldo infernale.
Da queste parti il caldo non è un optional, né il sintomo di
un’estate torrida che ti secca anche le palle, ma è la condizione
necessaria perché l’Inferno sia l’Inferno.
Che si fotta il bastardo cornuto , pensò Xanadros accendendo
una sigaretta.
Fumare è solo un’abitudine: in ogni caso tutto sa di zolfo.
Un’abitudine rischiosa, all’Inferno non esistono pause
sindacali per i dipendenti.
Passò una mano sulla coda per asciugare il sudore e diede
un’occhiata attorno per essere sicuro che nessuno dei colleghi lo
sorprendesse a cazzeggiare.
Le urla dei dannati per un attimo gli offrirono sollievo dalla
sua condizione.
Xanadros sapeva che la trama del destino gli aveva fatto un
regalo. Nascere immortale è mica una cosa da poco.
Ai tempi della Prima Grande Guerra Civile Celestiale, aveva
comunque fatto la scelta giusta.
Aveva detto “No”.
Non perché il Ribelle, l’Avversario, il Portatore di Luce o come
cazzo avessero battezzato il Principale nel corso dei secoli fosse
un leader carismatico, magari con un sogno e dei bei discorsi.
No.
Xanadros aveva detto “No” perché si era rotto di cantare le
lodi dell’altissimo con una voce da eunuco.
Aveva iniziato ad ascoltare musica solo quando i fratellini, i
pelle rosa, avevano inventato il metal.
Prima c’era solo rumore e nient’altro.
Il suo egoismo era stato scambiato per lealtà e da voce bianca
era passato a segretario personale del Diavolo.
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Almeno non doveva lavorare con la frusta e ingegnarsi a
trovare nuovi modi per rompere i coglioni ai dannati.
Sulla terra, il lavoro di Xanadros poteva essere disciplinato e
regolato dal contratto nazionale dei maggiordomi tutto fare.
Solo in politica e all’Inferno la sua mansione era chiamata
segretario personale.
Doveva solo soddisfare i capricci del suo superiore e iniziare a
sbrigare pratiche prima che il capo iniziasse a frignare.
Il Principale era di malumore quel giorno. Era stufo di
aspettare l’Apocalisse. Aveva voglia di lavorare.
Così ne pensò una bella.
Una di quelle idee che ti cambiano la giornata, capaci di farti
sprofondare nella merda con il sorriso.
Xanandros gettò via la sigaretta e tornò a spingere il carrellino.
Chissà cosa ci vuole fare con questi libri , pensò leggendo il
titolo di quello in cima alla pila.
La Regola del Santo e del Peccatore.
Una scritta oro su una copertina di pelle rossa.
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MIRKO GIACCHETTI
La Regola del Santo e del Peccatore.
Parte I
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I
Dalla noia nascono i pericoli più grandi. Dopo l’ardore e la
passione, quando anche il più grande sforzo ottiene sempre lo
stesso risultato, la tentazione di provare un’altra via e peccare
contro di sé è come la fiera in agguato che attende il viandante.
La Regola del Santo e del Peccatore
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Scena 1.1 – Se questo non è un inferno, parte prima
Da qualche parte in Africa, giorno
In questo continente se è nera, la pelle non è del colore
sbagliato.
Nero: lo stesso colore dell’incubo più tremendo.
Undici anni, forse dodici, e un kalashnikov.
Nel resto del mondo li chiamano soldati bambini.
Questo è l’utero dell’umanità; dove siamo sbucati senza
nemmeno un cesareo.
Deserto, savana, foresta e caldo: il riflesso del cuore di mamma
Africa.
Qui gli infanti armati sono delle fottute bestie senza controllo.
Ammazzano, stuprano e rubano non appena sentono l’odore
del cibo.
Potenza della fame.
Sono una decina. Il capo lo riconosci perché indossa una
camicia mimetica di due taglie più grande, bermuda beige
malconci e un paio di anfibi.
Due pupille grandi quanto uno spillo.
Il pargolo mastica pasticche come fossero caramelle.
Per avere la forza di sparare.
Per avere la forza di uccidere.
Per avere la forza di rubare.
Per avere la forza di portare qualcosa anche per la gloria e lo
stomaco di chi muore, vittima dell’attuale signore della guerra.
L’uomo saggio al potere e il suo secondo sono in bella mostra;
tutti gli altri abitanti del villaggio si sono nascosti.
Il ragazzino sputa una serie di frasi gommose che rimbalzano
addosso al capo villaggio.
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I due non si capiscono. Sono nati in tribù differenti. Le due
sponde in mezzo alle quali a scorrere è solo l’odio.
Il bambino solleva il fucile, lo punta sul capo villaggio,
ignorando il secondo in carica, il primo ministro nella gestione
del potere.
Il ragazzino porta la mano verso la bocca, mimando il gesto
“mangiare”.
Il capo villaggio sembra un vecchio decrepito. Ha solo una
quarantina di anni, ma la vita qui vale il doppio e lascia sempre
il segno. Un uomo convinto che un gonnellino di pelle e una
casa fatta con merda e paglia possano salvarlo dall’orrore della
guerra.
Mentre il mondo pulsa di tecnologia e medicina, lui rantola
tra superstizione e magia.
Benvenuto nel passato.
Scuote la testa, facendo scivolare sulla sinistra la corona,
simbolo del suo potere. Appena muove le mani per sistemare il
diadema piumato, così da conferirgli una dignità regale, il
moccioso spara.
Il bimbo è nervoso. Ha il grilletto facile.
La morte non costa nulla ed è un affare veloce.
Per un attimo osserva il cadavere e si scansa di poco per evitare
la chiazza di sangue. Come se nulla fosse, rivolge l’attenzione
all’altro anziano del villaggio, colui che dovrebbe raccogliere la
corona, mettersela in testa e fare da bersaglio al prossimo giro di
pallottole.
Il bambino appoggia il fucile al fianco e con la mano sinistra
ripete il gesto.
Comunicare non è un problema.
La mancanza di cibo lo è.
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Attirato dal rumore dei proiettili, da una delle villette stile
africano, esce l’uomo bianco.
Lo chiamano il Buana con la Croce, lo Spettro che predica, il
Diavolo Bianco.
All’anagrafe è Andrea Gotti, trentacinque anni, di professione
missionario, noto anche come Padre Andrea.
La sua entrata in scena cambia l’asse dello stallo. La bocca
dell’ak-47 sembra volerlo assaggiare.
Il nuovo capo villaggio ne approfitta. Raccoglierà dopo la
corona, magari la indosserà anche se sporca di sangue, ma al
momento la sua priorità non è sfoggiare il potere, ma mettersi al
riparo.
Meglio se il più lontano possibile.
Dieci bambini armati contro un uomo solo.
Se fosse un western, il cavaliere solitario dovrebbe almeno
avere una Colt Navy d’argento, una mano più veloce del vento e
una mira infallibile.
Ma questo è un prete. La sua arma è la fede.
«Qui non troverai del cibo», dice. «Va via.»
Con la mano sembra scacciare via un nugolo di mosche,
quindi aggiunge: «Hai già ucciso, non sei sazio?»
Il bambino fissa l’adulto. Non ha capito nulla di quello che ha
detto, ma conosce la fama del Diavolo Bianco.
Sa chi è quell’uomo magro, bruciato dal sole. Qualcuno gli ha
già detto che i suoi occhi di ghiaccio non si sciolgono mentre ti
soffia Cristo nella testa.
Fissa un attimo i capelli, simili per colore alla criniera di un
leone, e si volta.
Sarà anche un ragazzino, ma riconosce il pericolo.
«Lasciate che i bambini vengano a me.»
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Ecco cosa dice il Diavolo Bianco per aprirsi un varco
nell’animo del cucciolo.
Con un breve cenno indica la foresta. «Nelle tenebre non
troverete la pace», continua, anche se i bambini se ne vanno.
Sprofondano nel verde smeraldo e scompaiono come ombre
cupe nella notte.
Padre Andrea osserva il defunto capo villaggio.
Ego te absolvo, recita in fretta, tanto per affrancare l’anima
dell’uomo prima dell’ultimo viaggio.
Non è stato un miracolo.
Non c’entra la grazia.
E di sicuro non è fede.
Solo un altro giorno in mezzo a una guerra nell’Africa Nera.
Da ogni capanna si affacciano i pochi abitanti del villaggio.
Il missionario si allontana, lasciando che i prossimi morti
seppelliscano quelli già trapassati.
Torna nella sua capanna. Sente il morso della fame. Riprende
tra le mani quello strano volume.
La Regola del Santo e del Peccatore.
Prima che il caldo torni ad appiccicarglisi addosso, ricomincia
a leggere. Non ha bisogno di pregare.
Nessuno sforzo per il digiuno quando è la regola di vita.
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