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IN CORSO D’OPERA aprile
a cura di Massimo Vecchi
LETTERATURA ISRAELIANA – 1
Dalla realtà alla fantasia: Amos Oz
racconta come nasce un romanzo
Uscirà tra pochi giorni presso Feltrinelli il nuovo romanzo di Amos Oz La vita fa rima con la
morte, tradotto da Elena Loewenthal. La storia è raccontata nel suo farsi, sicché l’autore chiede al
lettore, o in qualche modo pretende da lui, di seguirlo momento per momento, circostanza per
circostanza, personaggio per personaggio durante la creazione dell’intero romanzo in una notte
d’estate a Tel Aviv. Ecco il soggetto. Ospite d’onore in un incontro letterario, lo scrittore
protagonista ogni tanto si distrae e pensa ad altro. Guarda le persone sedute in sala e ripensa a
quelle viste di sfuggita al bar prima di entrare. Per esempio, una cameriera piuttosto scialba ma
provocante per via della biancheria intima che traspariva dal vestito, due tipacci da cui stare in
guardia, un ragazzo occhialuto dall’aria timida, una signora d’età con le gambe gonfie, un tale con
la faccia scontenta in evidente disaccordo con l’oratore. Ed ecco che queste facce si trasformano
pian piano in personaggi. Al termine della serata letteraria lo scrittore comincia a vagabondare per
le strade semideserte e intanto si rigira nella mente quelle figure pescate dalla realtà, cerca di
immaginarne la natura, i comportamenti, le pulsioni, le plasma a suo modo, inventa delle situazionie
degli eventi, crea, come dice il titolo, una storia di vita e di morte.
Amos Oz, nato a Gerusalemme nel 1939, a quindici anni, in disaccordo con la famiglia schierata
con la destra politica e aver cambiato polemicamente il suo cognome in Oz, che vuol dire forza, è
andato a vivere in un kibbutz. Ha studiato filosofia e letteratura all'Università Ebraica di
Gerusalemme ed è stato visiting fellow all'Università di Oxford, author-in-residence all'Università
Ebraica e writer-in-residence al Colorado College. Autore di narrativa per bambini e per adulti,
saggista, è stato tradotto in molte lingue ed ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti in tutto il mondo.
Vive ad Arad e insegna letteratura all'Università Ben Gourion nel Negev. Nelle sue opere racconta
il popolo di Israele, il suo travaglio politico, il suo paesaggio biblico e indaga la natura umana, così
varia e così fragile.
LETTERATURA ISRAELIANA – 2
Nel nuovo romanzo di Grossman una donna va via di casa
per evitare di ricevere la notizia della morte del figlio in guerra
«Mentre scrivevo questo mio nuovo romanzo, la mia vita si è incrociata con la storia che stavo
raccontando nella maniera più drammatica possibile». A parlare è David Grossman, che,
presentando in un centro culturale di Gerusalemme il libro appena pubblicato in Israele, ha
ricordato la tragedia dell’uccisione del figlio Uri, mandato al fronte durante la guerra del Libano. La
protagonista del nuovo romanzo di Grossman ha paura che il figlio militare inviato in una missione
a rischio venga ucciso e decide di andarsene di casa pensando che se lei non è reperibile non
potranno comunicarle la ferale notizia e quindi la stessa notizia non ci sarà e suo figlio sarà salvo. È
una sorta di allucinazione per assecondare la quale lei va in giro per il Paese, trascinando con sé un
uomo che era stato il suo primo amore ed era poi rimasto l’unico vero amore. Secondo quanto
riferisce Alberto Stabile su Repubblica da Gerusalemme, nella sua conferenza Grossman ha voluto
anche chiarire come si svolge il processo creativo di uno scrittore, come nella costruzione di una
storia cerca la conoscenza di se stesso e degli altri. «Per me più tempo passa più cresce la volontà di
identificarmi con l’altro, di mettermi nelle sue scarpe, di entrare non solo nella sua anima ma anche
nel suo corpo». Poi, com’è solito fare nei suoi romanzi, nei suoi saggi, nei suoi interventi,
Grossman ha affrontato polemicamente i temi politici, la guerra continua che travaglia Israele e le
responsabilità dei governanti. «Come la dedizione dello scrittore è totale nei confronti dei suoi
personaggi, così i politici devono dedicarsi ai loro popoli, ai loro Stati, perché sono responsabili
delle trappole in cui hanno spinto la gente». E aggiunge: «Se crediamo che la guerra sia il destino
che ci è stato prestabilito, è enorme il prezzo richiesto dopo cento anni di questa nostra vita parallela
al conflitto». Con effetti terrificanti che producono «una riduzione della superficie dell’anima e per
molti la scelta di non sapere per non provare troppo, una forma di anestesia autogena perché ci sente
di più soffre di più».
TERZO MILLENNIO
Un misterioso omicidio in una Roma del futuro
sporca, rovente, irrespirabile e invasa dai cinesi
La data d’uscita annunciata è il prossimo settembre, l’editore Einaudi Stile Libero, l’autore
Tommaso Pincio, il titolo Cinacittà, deformazione del nome della cittadella romana del cinema
dato che il nuovo romanzo si svolge nella capitale, ma è una Roma prossima ventura, una metropoli
resa invivibile da una devastante onda di calore che ha messo in fuga la popolazione, rimpiazzata
dai cinesi, gli unici in grado di resistere alla calura. Su questo scenario apocalittico da terzo
millennio, dove la gente ha rovesciato l’ordine naturale delle cose, dormendo di giorno e vivendo di
notte quando l’aria è respirabile, la storia procede su due binari, il mistero di un omicidio efferato e
l’innamoramento del protagonista per una ragazza della lap-dance.
Tommaso Pincio è lo pseudonimo del quarantenne romano Marco Colapietro che ha voluto
rendere omaggio al celebre scrittore americano Thomas Pynchon italianizzandone il nome. Ha
esordito nel 1999 con M e poi ha pubblicato Lo spazio sfinito, Un amore dell’altro mondo e La
ragazza che non era lei.
PROSEGUE LA SERIE
Liberazione, un romanzo di Sándor Márai
sull’orrore vissuto nella Budapest assediata
Un altro Márai ci viene proposto verso la fine di maggio dall’editore Adelphi, che da qualche anno
viene pubblicando tutte le opere dello scrittore ungherese. Szabadulás (Liberazione) è il titolo di
questo romanzo che Sándor Márai (1900-1989) scrisse in meno di tre mesi nell’estate del 1945 e
che è rimasto inedito fino al 2001. Tradotto da Laura Sgarioto, racconta le terribili settimane
dell’assedio di Budapest fino alla liberazione da parte delle truppe sovietiche. «A quanto pare, sono
libera» dice la protagonista Erzsébet appena può riemergere dallo scantinato in cui ha trascorso
diciotto interminabili giorni insieme a decine di altri individui, un groviglio di corpi sconosciuti,
costretti a stare accatastati in quel rifugio nella speranza di sopravvivere. Un’atmosfera torbida,
sempre più insopportabile, tra angoscia e sudiciume, confessioni a ruota libera e tradimenti. Mentre
Erzsébet si dirige di corsa verso la portineria dove suo padre, un illustre astronomo, è stato murato
in un’intercapedine per sfuggire agli squadroni fascisti delle Croci Frecciate, vede fra le macerie e i
mucchi di neve il cadavere ancora caldo del giovane soldato siberiano che poco prima era penetrato
nello scantinato. Lei lo ha accolto con larghi sorrisi e gli ha offerto un bicchierino di acquavite. Lui
l’ha bevuto avidamente e poi l’ha violentata. Prima di scappar via il soldato, quasi volesse farsi
perdonare, le ha lasciato un pacchetto di caramelle cominciato, ma in realtà Erzsébet non si sentiva
ferita, anzi si sentiva quasi in colpa per aver offerto a quel giovane combattente, arrivato fin lì in
mezzo a mille pericoli, una donna stremata, scheletrica, sporca.
Liberazione si chiude con quella frase, «A quanto pare, sono libera» pronunciata da Erzsébet a voce
alta, quasi per convincere se stessa. In realtà non era così. L’orrore vissuto per cinque mesi dalla sua
città, assediata dai sovietici, bombardata dagli Alleati e terrorizzata dai rabbiosi rastrellamenti degli
sconfitti, descritto da Márai attraverso gli occhi della protagonista non era finito. Le parole messe in
bocca a Erzsébet erano dettate da una sinistra ironia, poiché, come fa notare l’editore, dai diari e da
Terra, terra!... (che comincia dove finisce Liberazione) sappiamo che lo scrittore «non si faceva
troppe illusioni né su quello che chiamava l’homo sovieticus, né sul regime che l’Armata Rossa era
venuta a instaurare nel suo Paese».
ANTOLOGIA
La storia di Quindici, la rivista del Gruppo 63,
e di un’operazione culturale ai tempi del ’68
A cura di Nanni Balestrini e con i contributi di Andrea Cortellessa, nella seconda metà di aprile
arriverà nelle librerie per i tipi di Feltrinelli un’antologia della rivista letteraria Quindici, fondata
dal Gruppo 63 a Roma nel 1967 e diretta da Alfredo Giuliani, poi da Nanni Balestrini, fino al
1969. In apertura del volume Andrea Cortellessa ripercorre la storia della rivista e introduce la serie
dei contributi dei suoi più importanti collaboratori. Una lettura che rivela il sempre più diffuso
disagio intellettuale e politico di quel periodo, la maggiore sensibilità dell’analisi critica,
l’intuizione dei cambiamenti che sarebbero di lì a poco esplosi nella società. In definitiva questa
antologia offre una delle prime e più significative testimonianze della rivolta studentesca e poi
operaia del ’68 e ’69. Ecco una citazione: «Le idee e gli scritti dei collaboratori di Quindici hanno
già suscitato l’irritazione, l’ironia o lo sdegno della critica ufficiale e della stampa consolatoria o di
falsa denuncia, dei giudici dei premi letterari finanziati dagli industriali di destra, delle riviste dei
paesi ex rivoluzionari, degli scrittori impegnati, di quelli disimpegnati e dei marxisti-gioannei. Una
simile unanimità di dissensi ci incoraggia a proseguire su questa strada».
Gli autori degli approfondimenti sono Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi,
Antonio Porta, Elio Pagliarani, Furio Colombo, Marco Sassano, Marco de Poli, Andrea
Barbato, Giorgio Manganelli, Elvio Fachinelli, Marina Mizzau, Andrea Finora, Enrico
Filippini, Germano Lombardi, Fidel Castro, Valerio Riva, Alberto Arbasino, Guido Davico
Bonino, Umberto Eco, Aldo Tagliaferri, G.B. Zorzoli, Emiliano Patrizi, Adriano Spatola,
Franco e Franca Basaglia, Giuliano Ferrara, Corrado Costa, Giorgio Celli, Gaetano Testa,
Paolo Valesio, Nanni Balestrini, Fausto Curi, Renato Barilli, Sergio Bologna, Virginia Finzi
Ghisi.
ANNO 1541
Il nuovo noir di Massimo Carlotto ci porterà
nel Mediterraneo dei corsari cristiani rinnegati
È ambientato ad Algeri nel 1541 il nuovo romanzo di Massimo Carlotto, Cristiani di Allah, che
sarà edito da e/o, accompagnato da un CD e disponibile in libreria nel mese di aprile. A quel tempo
il Mediterraneo era terreno di scontri sanguinosi tra potenze militari e religiose, ed era percorso in
lungo e in largo da razziatori e mercanti di schiavi. Tra gli episodi clamorosi, la sconfitta di Carlo
V, campione della Cristianità, da parte dei corsari di Hassan Agha, che annientarono la sua grande
armata difendendo la capitale nordafricana per conto del sultano di Costantinopoli.
Redouane e Othmane, i protagonisti di questo noir, sono dei corsari cristiani rinnegati, come del
resto la maggior parte dei pirati: cristiani delle diverse regioni europee che si sono convertiti
all’Islam, per una scelta di libertà o per problemi personali o più semplicemente per diventare
corsaro e saccheggiare navi e depredare coste nel Mediterraneo sotto la protezione della Sublime
Porta. Redouane, albanese, e Othmane, tedesco, sono ex lanzichenecchi che si sono sistemati ad
Algeri da dove salpano sul loro sciabecco per fare lucrose scorrerie e dove credono di poter vivere
indisturbati la loro storia d’amore proibita. Othmane però si invaghirà di uno dei giannizzeri, le
spietate guardie del sultano, e finirà in un pericoloso tunnel senza uscita, coinvolgendo anche
Redouane in una catena sanguinosa di intrighi e di tranelli.