L`alba africana, appena scesi dall`aereo, è gelida. Mi stringo nel pile

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L`alba africana, appena scesi dall`aereo, è gelida. Mi stringo nel pile
L’alba africana, appena scesi dall’aereo, è gelida. Mi stringo nel pile simulando una dimestichezza con le
basse temperature che in realtà non ho e guardo verso l’orizzonte. Non volevo partire, quasi come sempre,
ed invece sono qui, in un’Africa che per me non è proprio Africa quanto vorrei. E’ un’Africa ordinata, pulita
e gelida. Niente tamburi dall’interno di un’ipotetica umida foresta pluviale. Niente odori di spezie e puzze
varie che aleggiano nell’aria umida tropicale. Niente signore rotonde che rotolano da una parte all’altra del
terminal con fare fintamente impegnato. Niente vestiti colorati e bimbi frignanti che ti guardano con grossi
occhioni imbambolati.
L’aeroporto di Whindoek è immacolato. Potrebbe essere un qualunque aeroporto europeo. Se non fosse
per le nostre guide che ci attendono sorridenti e paciose. Non hanno problemi di fegato questi, penso. E
beati loro, aggiungo. Invidio questa loro possibilità di vita senza troppi schemi ed impedimenti. Invidio il
loro galleggiare comunque, anche tra le onde più alte della marea della vita. Li invidio perché sono
esattamente come io vorrei essere, e non ho il coraggio di ambire ad essere.
Ecco che inizio, come sempre quando sono in Africa, anche in un’Africa poco Africa come questa, a
filosofeggiare. Non siamo ancora partiti che già tiro fuori il discorso mentale della ruota del criceto su cui
corro in Italia senza cognizione di direzioni e scopi. Come se qui fossero tutte rose & fiori. Come sono
banale e superficiale a farmi questi discorsi. Ma è più forte di me, il viaggio da sempre mi concilia il
cazzeggio mentale. Ovunque la sorte mi conduca tendo a rivedere il mio stile di vita a vantaggio di eventuali
possibili migliorie da applicare copiando modus vivendi di genti varie. Bianchi, neri, gialli, buddisti,
capitalisti, socialisti, mormoni o pellerossa che siano. Non ho filtri. Guardo ed ascolto tutto in previsione di
una qualche illuminazione che sono sempre certa mi folgorerà prima del rientro. Raramente poi è
avvenuta. La folgorazione intendo. Ma è pur vero che qualche miglioria l’ho apportata, a furia di macinare
chilometri e osservare il formicaio del mondo da una prospettiva che non sia il punto più alto o basso della
mia ruota da criceto.
Namibia. Africa australe. L’Africa dei bianchi. E non solo. Non qui almeno, dove le comunità black&white,
pare, vivano in modo socialmente un po’ più accettabile rispetto al vicino sudafricano. Mi aspettano grandi
paesaggi, animali, popolazioni varie, grandi abbuffate di carne. Di storia, la mia grande passione, poca. Ma il
resto dovrebbe compensare, mi ripeto mentre mi sistemo intirizzita nel minivan. Mi appresto a percorrere
nelle prossime due settimane 5000 chilometri di strada bianca.
Prima parte del viaggio il sud. Non tutti i turisti vengono fin qui. Si preferisce la parte più a nord, quella
delle etnie e dei parchi ricchi di fauna. Si tende a evitare queste lande meridionali, che sono rimaste invece
per me fissate indelebili nella memoria. Sono luoghi a cui ritorno nei momenti di maggiore introspezione.
Qui ci si imbatte senza preamboli o scappatoie con i propri pensieri più sfacciati. Terre che si buttano
nell’oceano e le cui arie calde provenienti dall’interno si scontrano con i vapori più freddi dell’oceano e
della corrente del Benguela. Risultato: un mix di nebbia asfittica che lentamente si solleva dalle distese di
sabbia per discoprire un oceano che lambisce incessantemente la costa.
Ma prima delle costa si attraversa un posto magico per me: la foresta di Kokerboom. Amo le piante e gli
animali. Ammetto anche di fronte a uditori estesi che le mie preferenze vanno nettamente al mondo
animale e vegetale a discapito di quello umano. E queste piante sono semplicemente fantastiche. Si
stagliano nette contro il cielo blu. Lineari e definitive. Come un esercito di irriducibili resistono ai freddi
notturni ed al sole cocente diurno, offrendo la corteccia liscia e scorticata alle intemperie.
E poi c’è il Fish River Canyon. Te ne stai lì, con le mani in tasca, sullo strapiombo, e guardi giù. Ammiri quello
che la natura è stata capace di fare con acque, venti ed erosioni varie. E ti sembra di respirare meglio. Ti
sembra di riuscire a trovare un distacco dalle umani sorti. Stai lì appollaiato come un aquilotto e ti senti
padrone del mondo. Non dura chissà quanto questa sensazione. Perché a breve torni a litigare con le buche
delle strade e con la polvere negli occhi. Ma qualcuno di saggio una volta scrisse che la vita non è altro che
l’insieme dei brevi momenti che si ricordano al termine della corsa. Ecco: la Namibia di questi brevi
momenti ne regala parecchi.
Dal Fish River Canyon, per raggiungere la costa, facciamo una sosta a Kolmanskopp. In questa cittadina una
volta si viveva, si studiava e si estraevano diamanti. Gran belle foto lo dimostrano. Poi il filone diamantifero
si è esaurito e la necessità ha spinto gli abitanti a spostarsi, abbandonando tutto. Il deserto si è piano piano,
giorno dopo giorno, riappropriato dei suoi spazi. E’ tornato ad invadere con le sue sabbie case e fabbriche.
Si è rimangiato tettoie e strade. Si è infiltrato negli usci e nelle finestre. Ha corroso pareti e riempito uffici.
Qualche sparuto gruppo di turisti, irretito dal fascino della desolazione, passeggia tra le case in rovina
immaginando la vita di un tempo e stando attento a non farsi mordere dai serpenti che, a detta della guida,
sono oggi gli unici abitanti della zona.
Di deserto in deserto raggiungiamo Sossusvlei. Il nome impronunciabile riflette una realtà invece
semplicissima: dune perfette, tagliate a coltello, si susseguono come onde di mare. I venti della notte
battono questi massicci sabbiosi che al sorgere del sole regalano ai visitatori variegate forme “stellate”.
L’aria arriva da più direzioni, leviga le pareti, affila alcuni angoli, ne scalfisce altri. Il risultato da lontano è
impressionante. Sembra impossibile riuscire a camminare sulla cresta di queste dune affilate come lame di
bisturi. Perfette sculture che si stagliano contro un cielo blu senza una nuvola. Ma ci avviamo e mano a
mano che scaliamo la prima duna ci rendiamo conto che la sabbia, docile, si appiana sotto i nostri
scarponcini e scivola dalla cresta lungo la parete liscia e perfetta. Un passo dopo l’altro raggiungiamo la
vetta e lo spettacolo che si distende ai nostri piedi ha dell’incredibile. Ancora una volta respiro questo
momento. Lo metto al riparo dagli eventi che verranno e che potranno forse illanguidirlo. Cerco di
cristallizzare nel tempo a venire questa sensazione di spazi immensi e forza che mi pervade. Cerco di avere
chiara la sensazione di benessere che ho stando seduta qua in cima. Mi servirà quando scenderò. Mi servirà
nei giorni futuri.
Finalmente arriviamo alla civiltà. Swakopmund. Che ci fa la mia guida nera come il petrolio in un paesino
della Sassonia? Già, perché qui i puritani luterani tedeschi quando hanno pensato bene di colonizzare
queste terre, hanno costruito chiesette, case a graticcio, piccoli villini color pastello. Poi gli inglesi li hanno
cacciati, ma l’architettura è rimasta. Insieme ai costumi delle donne Herero. In pratica la sostanza è questa:
i tedeschi sono arrivati, hanno visto le donne africane ignude con i seni al vento, ed hanno deciso che tutto
questo era sconcio e immorale. Le hanno coperte con i loro vestitoni ottocenteschi pieni di balze e sottane.
Poi loro sono spariti e le donne Herero avranno pensato che tutte queste sottane, nell’inverno australe,
potevano tornare utili. E se le sono tenute, facendo di questo bizzarro e obsoleto vestiario, la caratteristica
più marcata della propria etnia. Sette sottane una sopra all’altra nascondono delle forme non propriamente
da silfidi, il tutto abbellito con una bella caramellona di stoffa sul capo. Quelle popolazioni che invece non
hanno voluto sottostare all’imposizione delle sottane luterane ed hanno voluto tenere le proprie grazie
liberamente esposte ai venti, sono scappate nella zona meno accogliente del paese, al confine con l’Angola.
Questi ribelli sono quelli che oggi sono conosciuti con il nome di Himba. Longilinei, alti e temprati da uno
stile di vita decisamente rigoroso, vivono in piccoli villaggi e si dedicano per lo più alla pastorizia. Andiamo a
trovarli portando come omaggio farina, qualche scatoletta e birra. Inutile dire che l’ultimo ingrediente ha
riscontrato un’ottima accoglienza nel villaggio. Non troviamo uomini, sono fuori a lavorare. Ma le donne ed
i bambini ci accolgono tra il timido ed il rassegnato. Del resto, penso, con che spirito mi proporrei io se
dovessi prestarmi periodicamente alla pantomima di mostrarmi nella mia intimità a turisti curiosi? In ogni
caso, ognuno nel teatrino della vita fa la sua parte. Loro ci fanno vedere le trecce, noi prendiamo in braccio
bambinetti pasciuti come se fossero cuccioli di Labrador. Queste donne si spalmano il corpo con una terra
che mista all’acqua diventa una pasta color rosso acceso. Si impiastricciano della stessa sostanza i capelli
emanando un odore un po’ acido. Pare che gli uomini Himba mai si avvicinerebbero ad una donna non
debitamente impastata di questa sostanza. Paese che vai…..
Da Swakopmund una parte del mio gruppo parte per un’escursione in sorvolo della zona del deserto del
Namib. Dall’alto rivedranno la zona desertica con le dune che abbiamo scalato giorni addietro. Vedranno
zone montagnose, alternate a desertiche e poi ancora saline, coste sabbiose, altipiani. Mi riferiranno la sera
entusiasti di questa gita. Io, pavida, me ne sto con i piedi a terra. E faccio altrettanto bene, perché
l’escursione in jeep all’interno del deserto è fantastica. Ho avuto la fortuna di vedere tante sabbie nel
mondo. Ma questi deserti namibiani sono davvero entusiasmanti, probabilmente i più belli da me mai
visitati. Galleggiare su questo mare di sabbia fine come borotalco, cangiante alla luce del sole, ora compatta
ora polverizzata è stato bellissimo. Non mi vengono in mente altri aggettivi.
Il mio viaggio sta per concludersi. Sembrava lunghissimo, invece questo alternarsi di paesaggi ed emozioni
ha riempito le giornate ed ora che mi trovo agli sgoccioli sono quasi dispiaciuta. Entriamo nell’Etosha Pan
per gli ultimi giorni di safari fotografici. La cosa magnifica di questo parco è il numero incredibile di specie
animali che si assemblano attorno alle pozze di acqua per abbeverarsi. Forse qui non si vedono le grandi
mandrie di altri parchi africani, ma vi assicuro che vedere, fianco a fianco, elefanti, rinoceronti, antilopi,
zebre, facoceri e altre specie che bevono insieme stando sempre ben attenti che all’orizzonte non spunti
qualche felino, beh…sembra un po’ una lezione di democrazia socialista. Ti riappacifica un po’ con la vita. E
parte di nuovo il mio filosofeggiare relativo a quanto è poco intelligente la razza umana capace si di
costruire ma anche in grado di distruggere, avvelenare, rovinare tutta questa natura così perfetta.
Il mio viaggio nell’emisfero australe africano termina. Risento nel petto i silenzi dei grandi spazi, i colori
della terra, gli altipiani che hanno delimitato i miei orizzonti durante i trasferimenti. Rivedo la colonia di
otarie (cercando di non fissare nella memoria l’odore che ha accompagnato la visita), i pellicani, i fenicotteri
rosa, il facocero addomesticato nel giardino di una bella casetta addormentato sul praticello con dei cani
levrieri. Risento il vociare di una scuola, con i bimbi in fila per ricevere delle banane dalla bidella durante la
ricreazione. Fisso nel cuore il sorriso delle nostre guide e le frasi stupide che hanno accompagnato i nostri
scherzi e le nostre giornate. Per un momento sono ancora di fronte al Canyon, respiro profondo e cammino
lungo la cresta delle dune di Sossusvlei e poi scivolo giù, nel sole, nelle risate e nella sabbia.
Carol Gallo