L`origine dello Stato nella filosofia politica moderna

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L`origine dello Stato nella filosofia politica moderna
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L’origine dello Stato nella filosofia politica moderna
Il Rinascimento e Machiavelli
Il Rinascimento si caratterizza politicamente per la formazione in Italia dei Principati e
delle Signorie, in Europa delle grandi monarchie1. Il pensiero politico e giuridico del
XV e del XVI secolo rifiorisce proprio in seguito e contemporaneamente alle vicende
che coinvolgono la storia dei singoli Stati, in forte contrapposizione teorica alla tradizione aristotelica e alla trattatistica medievale.
In Italia, la mancata formazione dello Stato nazionale pone ai pensatori politici il
concreto problema della formazione e conservazione dello Stato, oltre a quello della legittimità e del fondamento della sua sovranità; d’altra parte il dilagare delle lotte di religione impone di considerare più approfonditamente i rapporti fra politica e religione,
facendole entrambe risalire a un’esigenza propria della natura umana.
Il periodo iniziale del Rinascimento è stato chiamato Umanesimo a causa della riscoperta e del vero e proprio culto delle humanae litterae, che caratterizza soprattutto la cultura italiana già dalla fine del XIV secolo fino alla prima metà del XV. Firenze è la città
umanista per eccellenza, i cui intellettuali sono dediti alla lettura e allo studio dei classici latini e greci, dei quali si intende cogliere l’originalità e specificità rispetto alla “barbarie medievale”. Il recupero del passato non è però semplice ripetizione e imitazione,
ma fonte di progresso culturale e scientifico. La riconquista della storicità dell’uomo
non caratterizza solo la filologia umanista, ma investe anche l’insieme dei rapporti politici e culturali italiani, sottoponendo a revisione in particolar modo la Chiesa come istituzione e come unica depositaria della verità. A tale riguardo ricordiamo la prova filologica fornita dal Valla sulla falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, la figura di
Erasmo da Rotterdam e, soprattutto, la Riforma protestante.
Certamente la laicizzazione della cultura è il discrimine che segna le differenze fra
le università tradizionali dell’età medievale e i nuovi studi e le accademie che fioriscono
sotto il patrocinio di principi e signori. D’altra parte il Medioevo non è un’età completamente superata, nemmeno dal punto di vista culturale, visto che, per esempio, nei primi decenni del Quattrocento le università europee sono ancora dominate dal contrasto
tra realismo e nominalismo, cioè tra la tradizione platonico-aristotelica e quella ockamistica, così come anche è vivo il contrasto fra tesi conciliariste e tesi a favore della superiorità del Pontefice sul Concilio.
Al letterato umanista (non solo filologo ma anche scrittore di politica e morale, legato sempre più ai favori di principi e mecenati, avverso ai sistemi teorici della scienza
scolastica), si affianca anche una nuova concezione più propriamente filosofica, che vede in sostanziale omogeneità la natura e l’uomo. Questa convinzione teorica costituirà la
base della ricerca scientifica rinascimentale, volta soprattutto a sottomettere, conoscere
e cogliere i segreti più nascosti del mondo naturale. La fisica, la chimica e l’astronomia,
accanto anche a magia, alchimia e astrologia, saranno approfondite e coltivate con una
tradizione di studi che non presenta soluzioni di continuità a partire dalla fisica ockhamistica dei secoli XIV e XV a Leonardo, Copernico e Keplero.
Aristotelismo e platonismo si caratterizzano l’uno come recupero antiscolastico degli scritti di Aristotele sulla politica, la poetica e la retorica, l’altro come riscoperta del
pensiero e dell’opera di Platone, di cui nel Medioevo poco si sapeva. La riscoperta del
mondo antico porta anche a considerare sotto una nuova luce lo stoicismo e
l’epicureismo, in funzione soprattutto antiplatonica e antiaristotelica. I temi filosofici
che vengono trattati sono prevalentemente di carattere etico-morale e politico.
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Possono essere distinte due fasi nella storia umanistico-rinascimentale del pensiero politico italiano: la prima vede scontrarsi due opposti ideali di Stato, quello repubblicano e
civile che presentava Firenze come l’erede della libertà dell’antica Roma repubblicana,
in contrapposizione a quello della tirannide viscontea a Milano, dalla quale sorse poi un
ideale politico ispirato alla Repubblica platonica. L’ideale del perfetto principe, educato
negli studia humanitatis e capace di circondarsi di un’élite di collaboratori altrettanto
valenti.
La seconda fase del pensiero politico italiano corrisponde alla crisi degli Stati regionali e dell’equilibrio mediceo rotto dalle guerre tra Francia e Spagna, che si conclusero
solo nel 1559 con l’asservimento dell’Italia alla Spagna.
Le idealizzazioni del primo periodo vengono evidentemente sostituite da una considerazione realistica della figura del principe e dell’uomo politico, che riusciva a creare
una realtà politica nuova, con spregiudicato uso di tutti i mezzi possibili a sua disposizione e con una sapiente conoscenza della natura umana. La situazione stessa suggeriva
un atteggiamento volto alla realizzazione effettiva degli affari politici e della storia in
quanto tale.
In questo complesso quadro storico e culturale si colloca la figura di Machiavelli
(1469-1527), il massimo pensatore politico della prima metà del Cinquecento. La sua
riflessione si concentra sulla ricerca di una logica interna che regoli le dinamiche politiche, liberandola da richiami e dipendenze di carattere morale e religioso.
Tutte le sue opere (il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, le Istorie fiorentine) ci mostrano una concezione storicistica e insieme naturalistica dei processi politici. Da una parte è necessario rintracciare nella storia passata quei principi che
preservano dalla decadenza una comunità politica, dall’altra proprio questa osservazione
rivolta al passato fa luce sulla natura umana in quanto tale.
Il ritorno alla repubblica romana, come principio e costume politico garante di stabilità, non costituisce per l’autore il vagheggiamento di uno stato ideale, essendo la sua
analisi volta tutta verso la realtà quale essa è e non quale essa dovrebbe essere.
La figura del principe, come costruttore e conservatore dello Stato, si rende realisticamente necessaria nel contesto storico-politico dell’Italia cinquecentesca che si manteneva in condizioni di anarchia e servitù, a fronte sia della formazione delle grandi monarchie europee sia considerazione del fatto che un regime repubblicano può essere utile a
uno Stato già consolidato. Viceversa, per la fondazione di esso è necessario un forte
principato, nel quale il principe costringa la malvagia e riottosa natura umana a rispettare le leggi, scegliendo di volta in volta se comportarsi da “volpe” o da “leone”, usando
spregiudicatamente i mezzi necessari a conseguire i suoi fini. Il giudizio morale e religioso sui mezzi e sulla politica in genere va sospeso, essa piuttosto va giudicata «iuxta
propria principia», cioè secondo l’utile e secondo l’interesse e non secondo il bene o il
male.
Il principe dunque può e deve essere anche non buono e limitarsi nella sua crudeltà
solo quando può ritorcersi contro di lui e il suo Stato. La violenza fonda uno Stato, ma,
per conservarlo, essa non deve essere perpetuata; il principe deve anzi arginare la casualità degli avvenimenti ed esercitare quella virtù che si rifà alla virtus pagana del buon
cittadino piuttosto che a quella salvifica cristiana, la quale anzi avrebbe degenerato e indebolito l’uomo attuale rispetto agli antichi.
Machiavelli corregge in senso pessimistico quel naturalismo tipico del Rinascimento
quando propone una concezione della natura dell’uomo come sostanzialmente immobile
e non migliorabile. Ciò che spinge gli uomini all’azione è l’avidità di guadagno e di potere. In campo morale e politico poi non vi sono dei valori stabili e determinabili in as-
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soluto, già per il fatto che le vicende umane sono segnate da quel ritorno ciclico che trasforma la virtù in quiete, la quiete in ozio, l’ozio in disordine, il disordine in rovina e
questa di nuovo in ordine e poi in virtù, secondo un ciclo che si ripete.
Machiavelli2: Il Principe e la fondazione dei principati
«Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini,
sono stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono, o ereditarii, de’ quali el
sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o
sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo
stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna.
Sono questi così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi a essere liberi;
e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.»
Nel 1513 Machiavelli compone il suo opuscolo de principatibus, mentre a Firenze stanno tornando i Medici, dopo diciotto anni di esilio.
L’allontanamento forzato dal suo ufficio e dalla sua vita abituale, immersa negli affari politici della città, lo porta però a mettere in ordine quella scienza politica che proprio
con lui si appresta a nascere. Il Principe perciò non può semplicemente essere considerato come il frutto di una riflessione personale, su vicende certo politiche, ma che coinvolgono radicalmente la vita privata dell’autore; piuttosto si presenta come un vero e
proprio trattatello politico, denso di teoria, studi e letture intraprese non certo a caso,
sebbene scritto probabilmente di getto.
«La cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique; le quali avendo io
con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume
ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra.»
Il Principe si compone di ventisei capitoli, ciascuno concentrato su di un tema particolare, tutti però tesi a riscattare la decadenza politica fiorentina e italiana, ricercandone le
ragioni e soprattutto i rimedi pratici ed efficaci.
«Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. […]
Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non
buono, e usarlo e non l’usare secondo necessità.»
Il tema centrale proposto dall’autore – se cioè sia possibile razionalizzare il molteplice
delle vicende umane e politiche dominandolo con la virtù –, si intreccia con la funzione
perturbatrice e irriducibile assegnata alla fortuna proprio in campo politico; l’antinomia
che si viene a creare fra fortuna e virtù non viene risolta compiutamente da Machiavelli, tuttavia trova nella figura storica del principe una possibile sintesi.
«Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; […] Io voglio all’uno e all’altro di questi
modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati
ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e
quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra
parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé […] e se gli ordini suoi non li profittorono, non fu
sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna.»
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Tra la fortuna e la virtù si inserisce anche la forza, o meglio il raggiungimento a tutti i
costi di un risultato utile politicamente, portato a termine da una personalità consapevole delle proprie capacità e della condizione oggettiva in cui opera. In questo senso, la vicenda di Cesare Borgia è paradigmatica poiché racchiude in sé tutti e tre i termini
dell’agire politico: virtù (come capacità di intervenire adeguatamente sulle cose politiche), fortuna (come ineliminabile casualità propria della natura umana), forza (come capacità di usare senza incertezze il proprio potere).
Dunque l’origine dello Stato, secondo Machiavelli, si presenta piuttosto come fondazione di un principato per opera di una forte e virtuosa personalità politica, la quale sappia conciliare la realtà effettuale con l’accidentalità delle vicende umane; e quindi sappia scegliere oculatamente i mezzi con i quali formare il principato.
Inoltre, nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio Machiavelli sembra preferire il
regime repubblicano-democratico, in quanto la collegialità e l’alternanza al potere possono meglio garantire quella flessibilità e adattabilità alle circostanze che al singolo è
negata.
«Quinci nasce che una repubblica ha maggiore vita e ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe.» [Discorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 9]
Il primo capitolo del Principe ha un intento dichiarativo ed enunciativo della materia; il
suo stile è in funzione proprio di questo intento. Machiavelli ha in effetti presente tutti i
fondamentali motivi dell’opera che sta scrivendo.
Vi vengono distinti i vari tipi di principato, ereditario o nuovo, e quest’ultimo a sua
volta o tutto nuovo o misto (cioè come membro in aggiunta a uno Stato ereditato dal
principe che lo acquista). Del principato ereditario, la cui fondazione presenta minori
difficoltà teoriche e pratiche, Machiavelli parlerà nel II capitolo, mentre dei principati
nuovi, in cui «consistono le difficoltà», parlerà a partire dal III capitolo dedicato ai principati misti. I principati nuovi pongono dunque i seguenti problemi: c’è il caso di un
privato che diventa padrone di un dominio (è il caso di Cesare Borgia e di Francesco
Sforza), il caso di un principe o re il quale aggiunge un nuovo dominio al suo precedente regno o principato (è il caso di Ferdinando il Cattolico e il Regno di Napoli). La conquista di un dominio da parte di un privato oppure da parte di un principe o re implica
dei problemi se quel dominio non era originariamente «uso a vivere» sotto un principe
ma in libertà. I mezzi per conquistare e mantenere una terra abituata alla libertà sono
differenti da quelli impiegati nei confronti di una terra abituata a essere governata da un
principe.
La conquista pone immediatamente il problema dei mezzi politici, delle armi proprie
o altrui, della virtù e della fortuna. Gli esempi precedentemente citati di Francesco Sforza e di Cesare Borgia distinguono innanzitutto le capacità virtuose del principe – le quali, alla lunga, possono prevalere sulla sorte avversa e sulle oggettive difficoltà incontrate
nel corso della conquista –, dalle capacità meno virtuose ma favorite dalla fortuna, che,
al dunque, si rivelano estremamente fragili e negative. Il tono di Machiavelli è evidentemente di consiglio nei confronti del principe, affinché mantenga nella stabilità il suo
dominio; un consiglio però che si presenta altalenante e non risolutivo, nella misura in
cui non risolve fino in fondo l’antinomia posta fra virtù e fortuna, sebbene proponga una
lettura politico-utilitaristica della fondazione e della conservazione dello Stato basato
sulla forza, ovvero sul rapporto politico fra sudditi e principe personificato e controllato
innanzitutto da quest’ultimo, dalla sua capacità virtuosa di dominio, costi quel che costi.
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Hobbes, Locke, Rousseau: l’origine contrattualistica dello Stato
Scegliamo questi autori per esporre antologicamente la teoria politica del contrattualismo moderno, che ha in realtà origini precedenti a Hobbes, in ambiente calvinista e particolarmente in Germania con il giurista Altusio (1557-1638). La moderna e borghese
concezione dello Stato come di un corpo politico fondato su di un contratto fra popolo e
re, da cui deve dipendere l’autorità del sovrano, garantisce al suddito l’esercizio dei suoi
diritti naturali di uomo, dai quali il diritto positivo, e cioè statuale, non può discostarsi
opprimendoli o cancellandoli.
Il diritto naturale costituisce l’oggetto proprio della teoria giuridica del giusnaturalismo, al quale diedero veste sistematica l’olandese Grozio (1583-1645) e il tedesco Pufendorf (1632-1694). Nello stesso periodo in Francia si distinse la teoria politica di Jean
Bodin (1529-1596) volta a sganciare lo Stato dai conflitti fra le diverse confessioni religiose e a dichiararne la sovranità assoluta sulla società civile.
In questo quadro si inseriscono il pensiero e l’opera di Hobbes (1588-1679). Il suo
intervento in ambito di teoria politica viene seguito da quello propriamente illuminista
di Locke (1632-1704), anch’egli filosofo inglese, le cui opere principali furono pubblicate tutte dopo la Rivoluzione inglese del 1688-1689. La figura di Rousseau (17121778) si inserisce invece nella Francia dei philosophes, ma il suo intervento si distaccherà polemicamente dalla concezione ottimistica di progresso sociale sostenuta dalla
maggior parte degli illuministi francesi a lui contemporanei.
Sebbene i tre autori citati non siano gli unici a parlare di patto o di contratto come origine dello Stato, li abbiamo scelti in quanto espongono in forma sistematica e complessa questa moderna concezione politica.
Hobbes: come e perché nasce lo Stato
La filosofia politica di Hobbes vuole avere carattere scientifico. La sua concezione filosofica della realtà può essere definita come un meccanicismo di stampo materialistico,
che si basa sulla convinzione metodologica secondo la quale la scienza deve avere per
oggetto corpi generati dall’uomo, i quali possono perciò essere indagati e conosciuti. Il
calcolo filosofico è il lavoro proprio della ragione che, fornendo nomi adeguati alle cose
ne conosce la causa e gli effetti reali. Gli oggetti propri della filosofia sono perciò costruzioni umane di cui va riconosciuto e ricostruito il processo genetico. Di Dio, che
non è un nostro prodotto, non possiamo conoscere le cause, dunque non ne possiamo
dare una corretta definizione.
La politica fa pienamente parte della filosofia. Lo Stato, il corpo politico è appieno
una nostra costruzione, dunque possiamo indagarlo e definirlo scientificamente. È perciò possibile, per quanto riguarda l’indagine sociale, antropologica e politica
l’applicazione del metodo costruttivistico proposto da Hobbes.
Lo Stato non è, come voleva Aristotele, un ente naturale, ma decisamente artificiale
(come una macchina), costruito volutamente dagli uomini sulla base di una convenzione
da essi liberamente stipulata, per ragioni che riguardano innanzitutto la necessità di autoconservarsi e mantenersi in vita.
Anche la politica, come le altre scienze, deve seguire un metodo rigidamente deduttivo e procedere secondo il principio di causa-effetto.
Nel 1651 esce a Londra il Leviatano3, l’opera politica maggiore di Hobbes.
L’unità dello Stato e l’obbligo politico di obbedire alle leggi emanate dal sovrano sono i principi fondamentali su cui si costruisce il corpo politico. L’assolutismo dello Stato hobbesiano si presenta come moderna tendenza all’unificazione e all’accentramento
del potere politico di contro a quello feudale, in cui convivevano numerosi organismi
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(corporazioni, ordini, assemblee degli ordini etc.), che pretendevano di controllare e
partecipare a pieno titolo alla sovranità.
Secondo Hobbes invece il potere sovrano e l’obbligo politico di obbedienza devono
direttamente scaturire dalla volontà stessa degli individui, dal consenso che viene da loro espresso idealmente in un patto che istituisce la forma politica di Stato. Non vi può
essere «nessuna obbligazione per un uomo, la quale non derivi da un atto personale
poiché tutti gli uomini sono egualmente liberi per natura». [Leviatano, XXI]
Sebbene Hobbes sia consapevole che l’origine di uno Stato è determinata da violenza
e conquista, l’obbligo politico si instaura solo se tra sovrano conquistatore e popolo sopravviene un patto : «non è dunque la vittoria a conferire il diritto di dominio sul vinto,
ma il patto da costui concluso». [Leviatano, XX]
Bisogna postulare dunque un patto, qualunque sia la reale origine di uno Stato. I rapporti tra potere sovrano e popolo devono essere regolati come se il primo sia nato dal
consenso dei secondi. Lo Stato hobbesiano si presenta come un’istituzione fondata essenzialmente sul consenso dei sudditi e perciò moderna, in quanto lascia cadere ogni
giustificazione divina o naturale della propria origine.
Il potere sovrano affidato consensualmente dai sudditi a un terzo (un individuo o
un’assemblea) deve essere assoluto, cioè accentratore e irresistibile a qualsiasi opposizione o intervento esterno, poiché deve mantenere la pace fra gli uomini, i quali per natura sono tendenzialmente egoisti e incapaci di autoconservarsi in una condizione di pace stabile e duratura.
Il mondo naturale degli uomini è disgregato e in preda a costante competizione fra i singoli, i quali nel perseguimento del loro utile vengono in contrasto con quello degli altri,
creando uno stato di guerra che impedisce una pacifica convivenza necessaria
all’autoconservazione. La filosofia morale, e cioè la capacità umana di distinguere il bene dal male, e la capacità di accordarsi su ciò che è bene, può venire in aiuto di questa
condizione fortemente instabile, ma non può risolvere definitivamente la naturale disposizione dell’uomo alla guerra competitiva e all’egoismo. Solo una costruzione artificiale, quale è lo Stato, può regolare i naturali rapporti umani. Se non ci fosse il corpo politico l’uomo vivrebbe in uno stato di natura in tutto simile a uno stato di continuata guerra civile, nell’impossibilità di mantenersi in vita, sebbene per natura gli uomini abbiano
diritto all’autoconservazione e alla realizzazione del proprio utile, e dunque siano naturalmente liberi e uguali. Queste leggi di natura, definite dalla filosofia morale, possono
spingere l’uomo a uscire da questa condizione naturale di guerra, ma non possono regolare i rapporti umani, poiché mancano di un consenso universalmente espresso e pattuito, solo dal quale può scaturire l’autorità del comando e l’obbligatorietà dell’ubbidienza
alle leggi.
L’origine artificiale dello Stato attraverso il patto ha ragioni antropologiche, che si
fondano essenzialmente sulla modalità di vita dell’uomo in una condizione di naturalità,
la quale però ha già caratteristiche civili e politiche, nella misura in cui produce da sé il
suo stesso superamento. Lo stato di natura si presenta come una contraddizione irrisolta, nella misura in cui costringe l’uomo a una guerra che gli impedisce materialmente di
perseguire lo scopo stesso del suo vivere naturale: il diritto ad autoconservarsi.
La nascita dello Stato viene così descritta da Hobbes nel suo Leviatano:
«La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli
uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in
modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere
soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza a un uomo o a
un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della plurali-
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tà delle voci, a una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di
uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se
stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o
di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e
sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, e ogni loro giudizio al giudizio
di lui. Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una
sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale
che, se ogni uomo dicesse a ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare
me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli
ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO, in latino CIVITAS. Questa
è la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e
la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello
Stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso,
che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e
all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello Stato che (se
si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine,
con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché
essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro
pace e la comune difesa.
Chi regge la parte di questa persona viene chiamato SOVRANO e si dice che ha il
potere sovrano; ogni altro è suo SUDDITO.
Si consegue questo potere sovrano in due modi. Il primo è dato dalla forza naturale,
come quando un uomo fa sì che i suoi figli si sottomettano insieme con i loro figli al suo
governo, in quanto è in grado di distruggerli se si rifiutano o come quando sottomette
con la guerra i suoi nemici alla sua volontà, dando loro la vita a quella condizione. Si
ha l’altro, quando gli uomini si accordano fra di loro per sottomettersi a qualche uomo
o a qualche assemblea di uomini, volontariamente, confidando di essere così protetti
contro tutti gli altri. Quest’ultimo può essere chiamato uno Stato politico o Stato per istituzione e il precedente uno Stato per acquisizione. […]
Si dice che uno Stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ogni altro, che qualunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini cui
sarà dato, dalla maggior parte, il diritto a rappresentare la persona di loro tutti (vale a
dire, a essere il loro rappresentante), ognuno, tanto chi ha votato a favore quanto chi
ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di
quell’assemblea di uomini, alla stessa maniera che se fossero propri, al fine di vivere in
pace tra di loro e di esser protetti contro gli altri uomini.
Da questa istituzione dello Stato sono derivati tutti i diritti e le facoltà di colui o di
coloro ai quali è conferito il potere sovrano dal consenso del popolo riunito in assemblea.»
La persona dello Stato è rappresentata dal sovrano (ossia dall’esercizio del potere sovrano) che può anche non essere un monarca, ma un’assemblea di tutti nella democrazia
e di pochi nell’aristocrazia. La sovranità detiene in modo unitario e indivisibile tutti i diritti e i poteri dello Stato: diritto di fare le leggi e le norme obbligatorie per i singoli individui. Anche il diritto alla proprietà privata per il singolo, che secondo Hobbes nasce
con lo Stato non essendo un diritto di natura, non esclude il potere sovrano, in quanto è
la fonte primaria del suo mantenimento. La giustizia, la guerra, l’amministrazione, la
decisione in campo religioso, sono tutti ambiti in cui deve intervenire l’autorità del sovrano, al fine di evitare un ritorno allo stato di natura, ovvero una ricaduta del corpo po-
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litico nella dannosa e lacerante guerra civile. Sebbene l’individuo sia libero privatamente di coltivare le sue convinzioni, anche la sua coscienza religiosa, lo Stato decide in
materia di fede e in tutto il resto per quel che concerne la vita pubblica.
L’obbligo di obbedire al sovrano è incondizionato e semplice. Semplice perché
l’obbedienza al potere è richiesta al momento stesso del patto, prima che la sovranità si
dispieghi in leggi, norme particolari. Incondizionato perché il sovrano non partecipa al
patto, non è un’istituzione condizionata a sua volta dal patto, non c’è reciprocità di obblighi fra sudditi e sovrano. La sovranità sta solo dalla parte della persona dello Stato,
questo è ciò che il patto stabilisce e che i sudditi esprimono volontariamente.
Dunque il patto di unione fra sudditi si determina piuttosto come patto di dominazione o patto a favore del sovrano. D’altra parte, l’obbligo unilaterale a cui i sudditi sottostanno, è autorizzato dalla loro espressa volontà. Il potere assoluto del sovrano non è
perciò arbitrario, nella misura in cui è il risultato di un atto politico (il patto) universalmente conosciuto e liberamente voluto.
Locke: lo Stato antiassolutista o liberale, ovvero la “comunità politica”
Nel Secondo Trattato sul Governo4 (1690), non diversamente da Hobbes, Locke traccia
la sua teoria contrattualistica del potere politico e dello Stato. Ciò che separa Locke
dall’assolutismo hobbesiano è l’introduzione esplicita e argomentata, nella ricostruzione
della formazione moderna dello Stato, della categoria di individuo libero e uguale sia
nello stato di natura che in quello di diritto. Il rapporto Stato/individuo viene modificato
da Locke in senso liberale: la sovranità non appartiene unilateralmente alla persona dello Stato, ma innanzitutto a quella del suddito poiché «nulla può far diventare suddito un
uomo se non l’associazione fatta in forma di un impegno positivo e di una esplicita
promessa o contratto». [Secondo Trattato, §122]
Al di fuori di questo meccanismo, cioè al di fuori del potere politico pattuito liberamente dai singoli individui, vi è uno stato di natura in cui essi vivono in rapporti di perfetta eguaglianza. Il rapporto politico di sudditanza o di sovranità a cui sottostanno interviene proprio in virtù della naturale libertà con la quale i singoli decidono di unirsi a
Stato. Lo stato di natura fonda così quella stessa libertà che deve permanere nello stato
di diritto.
Lo stato di diritto interviene a riordinare ciò che illegittimamente è stato sovvertito,
la legge di natura violata con la forza e con la guerra necessita di un’ulteriore ricomposizione, quella pienamente politica. La conflittualità naturale in realtà si presenta già regolata da norme giuridiche che distinguono l’aggressore dall’aggredito e spingono il
conflitto a ricomporsi pacificamente a un livello giuridico più elevato.
Il problema presentato consapevolmente da Locke è «quello di non far coincidere col
“vuoto” storico che, di fatto, il concetto di stato di natura produce, un “vuoto” anche di
ordine, bensì proprio un ordine “originario” che esclude, a ogni livello dei meccanismi
costitutivi del potere politico, la presenza di una volontà non sottoposta alla norma»5.
Anche il sovrano perciò, così come il popolo, è sottoposto a precise norme che regolano la sua stessa istituzione e che permettono al popolo di resistergli qualora tentasse
arbitrariamente di violarle. La guerra civile si presenta perciò come conflitto di potere
e non come un disordinato e agiuridico stato naturale. L’uso della forza come reazione
violenta a un sopruso viene pienamente giustificato e preferito a una pace imposta come
dall’alto:
«Una pace fatta di violenza e rapina che si deve mantenere solo a beneficio di briganti e oppressori […] l’antro di Polifemo è un esempio perfetto d’una pace siffatta e
d’un tal governo: Ulisse e i suoi compagni non dovevano far altro che lasciarsi tranquillamente divorare, e Ulisse, uomo avveduto, doveva predicare l’obbedienza passiva
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ed esortare gli altri a una serena sottomissione, illustrando loro quanta importanza la
cosa avesse per la pace dell’umanità e mostrando gli inconvenienti che avrebbero potuto prodursi, se si fossero proposti di resistere a Polifemo, che era il loro signore.» [Secondo Trattato, §228].
Il corpo politico lockiano, nel quale si identifica il popolo, vive in costante mediazione
con quel Governement, al quale viene affidato il potere sovrano attraverso il patto originario e fondante lo Stato. Proprio il potere del governo deve essere continuamente verificato, anche e soprattutto attraverso la “rivoluzione”, la quale deriva da una violazione
del patto da parte dei governanti e si presenta come una necessaria restaurazione di un
nuovo sistema di dominio.
Governo e popolo sono i soggetti reali dello Stato lockiano, i quali interagiscono a
pari titolo e diritto, derivando anzi la possibilità del conflitto e della guerra più
dall’arbitrio del primo che dal secondo. La comunità politica risulta quindi dal loro rapporto, anche conflittuale e problematico.
Ma vediamo come nasce e si configura lo Stato secondo Locke:
«È stato dimostrato che l’uomo nasce con pieno titolo a una perfetta libertà e
all’illimitato godimento di tutti i diritti e privilegi della legge di natura, alla pari di
qualsiasi altro individuo o gruppo di individui nel mondo. Egli ha dunque per natura il
potere non solo di conservare la sua proprietà – cioè la vita, la libertà e i beni – contro
le offese e gli attentati degli altri uomini, ma anche di giudicare e punire le altrui infrazioni a quella legge, con la pena ch’egli è convinto quel reato meriti, perfino con la
morte nel caso di crimini la cui efferatezza, a parer suo, lo richieda. Ma, poiché nessuna società politica può darsi o sussistere se non ha in sé il potere di salvaguardare la
proprietà e, in vista di ciò, punire le infrazioni commesse da tutti coloro che a quella
società appartengono, la società politica si dà lì, e solo lì, dove ogni singolo ha rinunciato a quel naturale potere e lo ha affidato alla comunità in tutti i casi in cui non sia
impedito dal chiedere protezione alle leggi da essa stabilite. Così, essendo escluso ogni
privato giudizio di ciascun uomo particolare, la comunità diventa arbitra, in forza di
norme stabili e determinate, imparziali ed eguali per tutti; e, attraverso uomini cui abbia conferito l’autorità per rendere esecutive quelle norme, la comunità decide di tutte
le controversie che possano nascere tra membri di quella società in materia di diritto, e
punisce le offese commesse da qualsiasi suo membro contro la società con le pene stabilite dalla legge. Da ciò è facile capire quali uomini siano, e quali no, fra loro uniti in
una società politica. Coloro che son congiunti in un sol corpo e hanno una comune legge vigente e una sola magistratura cui appellarsi, dotata dell’autorità di giudicare le
controversie fra loro insorte e di punire i trasgressori, sono reciprocamente uniti in una
società civile; ma coloro che non dispongono di questo comune appello – sulla terra,
intendo – sono ancora nello stato di natura, ciascuno essendo, in mancanza d’altri, di
per se stesso giudice ed esecutore: il che costituisce, come ho mostrato sopra, il perfetto
stato di natura. [Secondo Trattato, §87]
Ogni qualvolta dunque un certo numero di uomini si uniscono in un’associazione,
rinunciando ciascuno al potere esecutivo della legge di natura e devolvendolo alla comunità, ivi e ivi soltanto si dà una società civile o politica. E questo avviene dovunque
un certo numero di uomini, nello stato di natura, si associno a costituire un solo popolo, un solo corpo politico, sotto un solo supremo governo; oppure quando un individuo
si associa e incorpora in un regime già esistente, autorizzando così la società o, che è
lo stesso, il legislativo di essa, a legiferare in suo luogo secondo le esigenze de pubblico
bene sociale; e alla esecuzione di quelle leggi egli deve contribuire come fossero decisioni prese da lui stesso. E ciò fa uscire gli uomini dallo stato di natura e li fa entrare in
una società politica, […].» [Secondo Trattato, §89]
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L’abbandono dello stato di natura da parte degli uomini è certamente motivato dalla necessità di evitare il conflitto e la guerra civile. L’istituzione di un giudice comune che
dirima le controversie fra i singoli individui costituisce la Society, cioè una collettività
in cui l’individuo sia volontariamente annullato a favore di una sola volontà e voce.
Questa prende forma politica nel Governement.
La Political Society si legittima perciò nel passaggio da uno stato di natura (e di diritto) in cui vengano violati i diritti fondamentali dell’individuo, a uno Stato pienamente
politico, in cui i diritti umani di libertà e indipendenza vengano formalmente garantiti
da un istituto particolare e dal suo rapporto con il corpo politico in quanto tale. Il rapporto di sottomissione-dipendenza che si instaura fra individuo e potere politico viene
mediato innanzitutto dal consenso espresso da ciascuno al momento del patto, ma soprattutto dall’istituto politico della rappresentanza; per cui ogni singola volontà è soggetta solo a se stessa quando si riconosce volontariamente nella totalità del corpo politico. La Community scaturisce così esclusivamente e automaticamente dal patto.
«Soprattutto due sono gli elementi da prendere in considerazione: in che consista
l’atto del pattuire per il singolo e come la logica maggioritaria subentri automaticamente.»
La costituzione del corpo politico tramite patto muove dalla volontà di ciascun individuo, considerato come Free and Intelligent Agent, dunque come individuo per natura
razionale e capace di superare la sfera passionale vivendo in uno stato di natura perfetto,
regolato già dal diritto (alla libertà, alla proprietà etc.).
Una volta che il patto fra individui sia concluso e la comunità abbia sostituito il potere e il volere di ciascuno, il corpo politico agisce per lui meccanicamente, cioè al suo
posto, facendo le veci della sua naturale individualità. Siamo con ciò fuori dello stato di
natura e all’interno di quella comunità politica che funziona secondo il meccanismo della rappresentanza e il consenso della maggioranza.
Il corpo politico, artificio razionale a cui approda la volontà naturale dell’uomoindividuo, per superare le difficoltà insite in quello stato di natura in cui pure sussistono
i diritti fondamentali di libertà e uguaglianza, deve presentarsi come un corpo compatto,
un tutt’uno che procede in un’unica e certa direzione.
L’omogeneità della comunità politica le deriva dall’uguaglianza naturale dei singoli,
i quali stringono il patto proprio perché la stessa venga difesa e garantita da un giudice
comune che dirima i conflitti e le disuguaglianze provenienti da un eventuale stato di
guerra. D’altra parte bisogna anche notare che «lo stato di natura contempla […], per
Locke, un importante fattore di diversificazione: la proprietà privata che crea fra gli
individui disuguaglianza e rapporti di dipendenza sul piano della produzione»6.
Per concludere, si potrebbe dire che, sebbene lo Stato di natura lockiano sia, a differenza di quello di Hobbes, già uno stato di diritto o stato di natura perfetto, anch’esso però
è inficiato essenzialmente dalla possibilità della rottura violenta del diritto e della legge
naturale. Il pericolo del conflitto fra individualità deriva proprio dalla parità con la quale
queste si affrontano, in una condizione però divergente in quanto a proprietà.
La possibilità, in altri termini, della guerra e in particolar modo della guerra civile,
sebbene sia inserita in un quadro pre-politico (e in Hobbes pre-giuridico), è la molla reale che innesca il meccanismo contrattualistico e che giustifica, nella teoria lockiana, il
passaggio a una condizione di stabilità socio-politica, a un ordinamento sociale e politico fuori dal quale le moderne e ormai borghesi forze produttive, e i nuovi rapporti di
proprietà sganciati da vincoli feudali, non riuscirebbero autonomamente e durevolmente
a riprodursi.
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Rousseau: lo Stato democratico
Le esperienze cui andò incontro nella vita, la sua personalità, le difficoltà sorte al momento della pubblicazione delle sue due maggiori opere – il Contratto sociale e
l’Emilio, entrambe del 1762 –, la polemica con gli enciclopedisti a proposito del dispotismo legale, alcuni caratteri del suo pensiero, fanno di Rousseau un illuminista sui generis, estraneo al trionfalismo proprio dell’ideologia del progresso del partito filosofico
allora culturalmente imperante in Francia e in Europa.
Già nel suo Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) sottolinea la funzione negativa
che le scienze e le arti ufficiali esercitavano nella società, rovesciandone i valori originari e promuovendo egoistiche passioni private.
Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini (1755)
analizza l’ineguale sviluppo della società civile:
«Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare “questo è mio” e trovò persone
abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile.»
La polemica è tutta rivolta contro l’origine della società da un atto indebito di appropriazione privata della terra. La proprietà privata – a differenza di Locke che la considerava un diritto naturale da trasformare in diritto positivo – secondo Rousseau non è un
diritto di natura ma frutto di un graduale processo di acculturazione, che subisce
un’accelerazione quando vengono inventate le arti metallurgiche e agricole che richiedono la divisione del lavoro. Le leggi nascono dal riconoscimento della proprietà privata, e insieme a esse nasce il potere del governo. Dunque la società civile e politica sorge
da uno snaturamento della condizione umana, poiché con essa si instaura un’innaturale
e convenzionale diseguaglianza che tradisce le esigenze primarie della maggioranza degli uomini:
«è contro la legge di natura […] che un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille guidi un saggio, e che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue mentre la
moltitudine affamata manca del necessario».
Nel Contratto sociale7, logica prosecuzione del secondo Discorso, Rousseau esordisce
dicendo: «L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene».
L’analisi condotta in questo scritto intende valutare attentamente i fondamenti del
potere politico togliendo al dispotismo e all’ineguaglianza ogni ragione di legittimità.
La forza non può dar luogo al diritto né l’obbedienza incondizionata può costituire il
dovere.
«Rinunziare alla libertà vuol dire rinunziare alla propria qualità di uomo, ai diritti
dell’umanità, persino ai propri […]. Una tale rinunzia è incompatibile con la natura
dell’uomo: togliere ogni libertà alla sua volontà significa togliere ogni moralità alle
sue azioni. Infine, una convenzione che stabilisce, da un lato, un’autorità assoluta e,
dall’altro, un’obbedienza illimitata, risulta vana e contraddittoria.» [Il contratto sociale, I/4]
Lo Stato secondo natura, rispettoso cioè dei diritti naturali dell’uomo, non può fondarsi
sull’ineguaglianza tra chi comanda e chi è comandato, non può rendere convenzionalmente valido ciò che è in realtà incompatibile con la natura umana, cioè con il diritto alla libertà. L’ipocrisia della moderna società civile e del moderno Stato politico va smascherata con la critica proveniente proprio dai quei settori sociali che subiscono il rovesciamento di valori, a danno della loro stessa vita.
Il patto sociale dovrà coinvolgere allora il popolo nel suo insieme al fine di trovare
una forma associativa che protegga la persona e i beni di ciascun associato in modo però
da conservarlo nella sua piena libertà e uguaglianza con tutti gli altri. È la formulazione
del patto sociale che risolverà questo moderno problema: con esso ciascuno aliena com-
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pletamente i suoi diritti a tutta la comunità, e non al sovrano o al magistrato piuttosto
che al governo. Dunque l’alienazione che il singolo fa dei suoi diritti è totale, ma la controparte è la comunità intera (non un altro singolo o una parte dell’associazione); solo
così, pur alienandoli, il singolo può contemporaneamente conservarli.
«Ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno
escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna
l’equivalente di ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha
[…]. Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro
come parte indivisibile del tutto. Istantaneamente quest’atto di associazione produce, al
posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, che trae dal medesimo atto la sua
unità, il suoi “io” comune, la sua vita e la sua volontà.» [Il contratto sociale, I/6]
Come si può notare, la forma del patto proposta da Rousseau rinnova il concetto di sovranità popolare rispetto a Hobbes e Locke. Il potere sovrano non è più un terzo rispetto
agli associati, non è la controparte del popolo, esso è il popolo stesso, ovvero la comunità che come ente collettivo esprime ed esercita la sua sovranità - la volontà generale nell’ambito delle assemblee. I governanti sono semplici funzionari (e non rappresentanti) del popolo sovrano, il loro mandato può essere in ogni momento revocato, poiché la
decisione sovrana (indivisibile e inalienabile) spetta al popolo riunito in assemblea, cioè
alla comunità stessa, che opera attraverso il principio maggioritario.
Questa sovranità popolare ricompone quella disuguaglianza civile che Rousseau aveva prospettato nel suo secondo Discorso. La volontà generale realizza la volontà della
comunità e del popolo nel suo insieme, dunque non può che essere una volontà, uguale
e compatta in se stessa ottenuta tramite quel patto fondamentale che
«invece di distruggere l’uguaglianza naturale, sostituisce, al contrario,
un’uguaglianza morale e legittima a quel tanto di disuguaglianza fisica che la natura
ha potuto mettere tra gli uomini i quali, potendo per natura trovarsi a essere disuguali
per forza o per ingegno, diventano tutti uguali per convenzione e di diritto». [Il contratto
sociale, I/9]
Ecco l’incipit del trattato:
«L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene. C’è chi si crede padrone di altri, ma
è più schiavo di loro. Come è avvenuto questo cambiamento? Lo ignoro. Che cosa può
renderlo legittimo? Ritengo di poter risolvere questo problema.
Se non considerassi che la forza e l’effetto che ne deriva, direi: “Finché un popolo è
costretto a obbedire e obbedisce, fa bene; non appena può scuotere il giogo e lo scuote,
fa ancor meglio: perché, ricuperando la sua libertà con lo stesso diritto con cui gli è
stata tolta, o è giusto che egli la riprenda, o non era nemmeno giusto che altri gliela togliesse”. Ma l’ordine sociale è un diritto sacro che serve di base a tutti gli altri. Tuttavia questo diritto non viene dalla natura; è dunque fondato su delle convenzioni. Si tratta di sapere quali siano. Ma prima di arrivare a ciò, devo dimostrare quanto ho ora affermato». [Il contratto sociale, I]
Ecco il testo in cui è descritta la nascita del patto.
«Immagino ora che gli uomini siano arrivati al punto in cui gli ostacoli che nuocciono alla loro conservazione nello stato di natura prevalgono con la loro resistenza sulle
forze di cui ciascun individuo può disporre per mantenersi in quello stato. Tale stato
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primitivo non può più sussistere in questa fase e il genere umano perirebbe, se non
cambiasse le condizioni della sua esistenza.
Ora, siccome gli uomini non possono creare nuove forze, ma soltanto unire e dirigere quelle che esistono, essi non hanno altro mezzo per conservarsi che quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa prevalere sulla resistenza, mettendole in moto per mezzo di un unico impulso e facendole così agire di concerto.
Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di più uomini; ma, essendo
la forza e la libertà di ciascun uomo i primi strumenti per la sua conservazione, come
potrà impegnarli senza danneggiarsi e senza trascurare ciò che deve a se stesso? Questa difficoltà, ricondotta al mio argomento, si può enunciare in questi termini: “Trovare
una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona
e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca
tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima”. Questo è il problema fondamentale
di cui il contratto sociale dà la soluzione.
Le clausole di questo contratto sono determinate in tal modo dalla natura dell’atto
che la minima modifica le renderebbe vane e di nessun effetto; in modo che, sebbene
forse non siano mai state formalmente enunciate, esse sono dovunque le stesse, dovunque tacitamente ammesse e riconosciute, almeno fino a quando non venga violato il
patto sociale, perché ciascuno allora rientra nei suoi originari diritti, e riprende la sua
libertà naturale, perdendo la libertà convenzionale in cambio della quale aveva rinunciato alla prima.
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l’alienazione totale di
ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Infatti, innanzitutto, poiché
ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti, ed, essendo la condizione
uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri.
Inoltre, essendo l’alienazione fatta senza riserve, l’unione è la più perfetta possibile,
e non resta ad alcun associato niente da rivendicare; infatti, se restasse qualche diritto
ai singoli, non essendovi nessun superiore comune che possa far da arbitro tra loro e la
collettività, ciascuno, essendo in qualche caso il proprio giudice, pretenderebbe ben
presto di esserlo sempre; lo stato di natura si perpetuerebbe, e l’associazione diverrebbe necessariamente tirannica o vana.
Infine, chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale
ciascuno non acquisti un diritto pari a quello che gli cede su di sé, tutti guadagnano
l’equivalente di quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che
hanno.
Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai termini seguenti: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni
suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto
corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.
Al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce subito un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti
dell’assemblea; da questo atto tale corpo morale riceve la sua unità, il suo io comune,
la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall’unione di
tutte le altre, prendeva una volta il nome di città, ,e adesso quello di repubblica o di
corpo politico, il quale a sua volta è chiamato dai suoi membri Stato quando è passivo,
corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Gli associati poi prendono collettivamente il nome di popolo, e singolarmente si chiamano cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi
dello Stato. Ma questi termini si confondono spesso e si prendono l’uno per l’altro; basta saperli distinguere quando sono impiegati in tutta la loro precisione.» [Il contratto sociale, VI]
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La Francia si costituì a monarchia nazionale dopo la fine della Guerra dei cent’anni, l’Inghilterra dopo la Guerra
delle due rose conclusasi nel 1485, la Spagna con il matrimonio di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia e la
cacciata nel 1492 dell’ultimo regno musulmano.
2
I brani riportati sono tratti da Machiavelli, Il Principe e altri scritti, introduzione e commento di G. Sasso, La Nuova Italia, Firenze 1963.
3
I brani riportati sono tratti da Hobbes, Leviatano, a cura di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976.
4
I brani riportati sono tratti da Locke, Secondo Trattato sul Governo, a cura di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma
1974.
5
Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, a cura di G. Duso, Il Mulino, Bologna 1987, p. 151.
6
Ib. cit., p. 166.
7
I brani riportati sono tratti da Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino 1966.